PARTE SECONDA JULIE ANGEL

17

La prigione di stato di North Wilderness era un carcere di massima sicurezza, quel che si definisce un «Super Max» nel gergo penitenziario. Il complesso si sviluppava su cento ettari di una zona completamente disabitata. Intorno solo chilometri e chilometri di foreste e montagne e, su un lato, una macchia di alberi che si affacciava su un’alta scogliera, a picco su un mare sempre in tempesta.

Nonostante l’isolamento, la prigione era circondata da tre recinzioni: due elettrificate, tutte dotate di sensori del movimento e costantemente sorvegliate da telecamere. In cima, le barriere erano sormontate da razor wire, filo spinato irto di lame affilate come rasoi. In basso le barriere scendevano fino a due metri sottoterra per impedire che i detenuti scavassero delle gallerie. Cavi sospesi coprivano l’intera area per impedire il passaggio di elicotteri.

Le guardie addette alla sorveglianza erano trecentosettanta e provenivano da un corpo scelto, selezionato fra le migliori guardie carcerarie con almeno cinque anni di esperienza, di cui due trascorsi in strutture di massima sicurezza. Una volta individuate, venivano sottoposte ad alcuni mesi di addestramento nell’uso delle armi e dei sistemi di sicurezza, associato allo studio di discipline come tattica e psicologia. Gli elementi migliori venivano destinati alle torri, che si innalzavano ogni settecento metri lungo tutto il perimetro. Le torri contenevano veri e propri arsenali: fucili a pompa, fucili di precisione, gas lacrimogeni, armi da assalto come gli M-16. I quattro arsenali interrati, invece, ospitavano di tutto, dai manganelli ai lanciarazzi, e persino due carri armati M-1 Abrams.

Il carcere era stato costruito pochi anni prima ed era costato duecento milioni di dollari. Vi venivano rinchiusi i peggiori criminali, quelli così violenti da non poter stare neanche con individui del loro stesso stampo. Insomma, se eri così assetato di sangue da non poter condividere lo spazio con i gangster, gli spacciatori, gli assassini e i mafiosi messicani che passavano la vita a Pelican Bay, ti mandavano a North Wilderness.

Per decidere chi fosse destinato a North Wilderness e chi ad altre carceri, lo stato aveva elaborato un sistema a punti. I criminali da uno a diciotto punti, per esempio, erano destinati a strutture con livello di sicurezza 1, in genere una colonia agricola o una «prigione senza muri» come la California Institution for Men. Da diciotto a ventisette punti, ti guadagnavi un posto al livello 2, un normale carcere con celle a più letti. Da ventotto a cinquantuno si passava al livello 3, in una cella con sorveglianza armata. Sopra i cinquantuno si entrava nel livello 4, quello di massima sicurezza. Se anche lì riuscivi a combinare guai… non rimaneva che North Wilderness.

Il numero di punti che un criminale poteva totalizzare dipendeva da molti fattori, fra i quali l’appartenenza al crimine organizzato, le precedenti condanne, i reati a sfondo sessuale, l’allontanamento dall’esercito con disonore e così via. Si ottenevano anche punti in base all’età, allo stato civile, al livello di istruzione e di occupazione. Ma naturalmente i punti iniziali, quelli che avevano maggior peso, erano assegnati in base alla sentenza. Ogni anno di prigione aggiungeva tre punti, fino a un massimo di quarantanove, quota che gli ergastolani raggiungevano automaticamente.

L’uomo chiamato Ben Fry acquisì i suoi quarantanove punti con l’assassinio di Penny Morgan, proprio come aveva previsto. Il patteggiamento e la confessione gli avevano risparmiato la pena capitale, convertita nel carcere a vita senza condizionale. Era stato così spedito a San Quentin, e lì un gruppo di esperti aveva studiato la sua storia personale per arrivare al punteggio finale. I suoi precedenti in varie organizzazioni criminali e le condanne per stupro, atti violenti e tentato omicidio gli avevano assicurato il livello 4, nel carcere di Pelican Bay. Anche questo lo aveva previsto.

All’arrivo in quella prigione, situata sulla costa inospitale appena a sud dell’Oregon, passò un brutto momento: quello della prima perquisizione completa. Sapeva che doveva accadere, naturalmente. Anche per questo la sua preparazione era stata come sempre analitica e meticolosa. Sapeva che, una volta, a North Wilderness tutti i nuovi arrivati venivano passati ai raggi X, ma la pratica aveva dovuto essere abbandonata per motivi di salute. Potevano comunque fare una radiografia, se prescritta da un medico, ed era per questo che aveva messo la capsula nella coscia, perché di solito la droga e le armi venivano cercate nel torace, nell’addome e nella regione pelvica.

Ma una perquisizione personale — specialmente la prima, quella accuratissima riservata ai nuovi arrivati — era più pericolosa. La cicatrice sulla gamba era piccola, ormai chiusa, e quasi del tutto coperta dai peli. Bisognava premere con forza in quel punto per sentire la sacca di pus che si era formata intorno alla capsula. Eppure, per un momento, un terribile momento prima che le guardie lo scortassero alla perquisizione, la sua immaginazione si scatenò e la sua mente fu invasa dalla paura. E se avessero notato la cicatrice, o tastato l’ascesso? E se si fossero insospettiti, se avessero trovato la capsula?

Il punto era che l’uomo chiamato Ben Fry aveva commesso più di cento omicidi nella sua vita, ma non era mai stato in prigione. E, dalla prima impressione, non era certo un posto che gli andasse a genio. Era preparato a questo, ma si sorprese nel vedere quanto la situazione non gli piacesse. La reclusione, il rumore continuo, l’umiliazione di dover ubbidire ad altri uomini, di dover mettere le palle e il culo a disposizione per le perquisizioni, tutto questo lo irritava sensibilmente. Il problema principale era però quello del tempo, dei tempi morti che non passavano mai. Si era subito innervosito per la lunghezza delle ore, persino dei minuti. Non riusciva a crederci: le ore gli sembravano distese piatte di cui non si scorgeva la fine, anche se erano contenute fra quattro anguste mura. Stavi seduto a fissare quella pianura, e anche se chiudevi gli occhi scoprivi che non riuscivi a smettere di fissarla, e se tentavi di leggere, eccola lì oltre la pagina, dove le parole si sbiadivano fino a riportare lo sguardo sempre allo stesso punto. Alla fine facevi solo ed esclusivamente questo, secondo dopo secondo: fissare l’infinita pianura delle ore. Non c’era veramente altro da fare.

Ma la mente dell’uomo chiamato Ben Fry era come uno squalo: doveva muoversi e respirare, congegnare piani e analizzare logisticamente ogni operazione, altrimenti… altrimenti gli venivano in mente certi pensieri. Non proprio pensieri, ma immagini, emozioni, ricordi che rischiavano di salirgli in gola e soffocarlo. La testa gli si riempiva di uno strano rumore silenzioso, come il suono continuo e monotono di una sirena che non udiva ma di cui percepiva la presenza, perché sentiva la pelle tirare, il sangue ribollire. Se smetteva di analizzare, le immagini tornavano. E il rumore. E la faccia, quella faccia. Quella faccia che rideva.

Aveva lavorato sodo per far cessare tutto questo, aveva creato l’immagine della torre in cui salire e rifugiarsi, osservando dall’alto il mondo crudele e beffardo, con freddo distacco. Come un medico legale che guardi con freddezza un corpo in decomposizione.

Ma quanto avrebbe retto la torre? Questa era la domanda che più lo inquietava. Il tempo non aveva limiti in quel posto, ogni ora occupava uno spazio immenso e lui si aspettava che la torre cadesse da un momento all’altro. C’erano già stati dei segnali preoccupanti. Prima, per esempio, aveva sempre dormito profondamente e senza difficoltà, ma qui stava cominciando a fare brutti sogni. Si trovava quella faccia davanti, vedeva i suoi occhi crudeli, le labbra rosse che lo deridevano nell’oscurità. Sognava il fuoco e si svegliava terrorizzato come se stesse bruciando.

Così, sebbene l’espressione spenta dei suoi occhi non tradisse alcuna emozione, quando la perquisizione fu terminata si sentì pervadere dal sollievo. La capsula non era stata scoperta. Tutto sarebbe andato come previsto, come sempre, come gli succedeva sempre.

L’uomo chiamato Ben Fry entrò nella cella del carcere di Pelican Bay certo che tutto sarebbe andato per il meglio. Sapeva che presto sarebbe stato libero.


Le guardie che lo avevano scortato in cella si scambiarono occhiate complici quando la porta si richiuse alle sue spalle e si allontanarono ridacchiando. L’uomo chiamato Ben Fry rimase un poco stupito, poi si voltò a guardare il suo compagno di reclusione e capì. Il compagno di cella gli stava rivolgendo un ampio sorriso. Era sdraiato sulla cuccetta superiore con un albo a fumetti in mano, ma in quel momento stava esaminando il nuovo arrivato. E il sorriso che aveva stampato in faccia era quello di un predatore.

Si chiamava Rip. Era alto più di uno e novanta e pesava centoventi chili, quasi tutti di muscoli. Nella vita la sua occupazione principale era stata ammazzare di botte, di solito con un cric o a mani nude, i motociclisti rivali. In carcere, probabilmente per l’assenza di altri motociclisti o forse semplicemente per la mancanza di cric, si era dedicato ad altri passatempi. Uno di questi era la creazione di armi. Nelle ultime due settimane, per esempio, aveva costruito quello che in galera chiamano una «spada»… un vero e proprio pugnale, letale come un coltello vero. Lo aveva realizzato con un giornale arrotolato che aveva cosparso con i propri escrementi. Quando questi si erano induriti, aveva passato la punta sulla parete per affilarla. Poi aveva ripetuto il processo. In quattordici giorni la lama era diventata dura come l’acciaio e affilata come quella di un vero coltello. Rip l’aveva nascosta dietro al gabinetto, pronto a usarla per soddisfare il suo secondo passatempo: lo stupro. Si trattava di un vero e proprio bruto, che godeva nel terrorizzare i compagni fino a trasformarli in schiavi sessuali. Quando aveva raggiunto il suo scopo ne faceva collezione o li scambiava con altri ceffi del suo calibro per sigarette, cibo o altro.

Rip diede un’occhiata all’uomo dall’aspetto debole e dalla pelle chiara che era appena entrato in cella e sorrise, vedendo in lui carne fresca per la sua collezione.

Ironia della sorte, in verità, perché l’uomo chiamato Ben Fry, dando un’occhiata a Rip, vide in lui il biglietto per andarsene da lì.

Tali propositi incrociati portarono a una notte insonne per tutti e due, impegnati a sorvegliarsi reciprocamente. A un certo punto, mentre era sdraiato sulla branda e fingeva di dormire, l’uomo chiamato Ben Fry si trovò addosso Rip, con un sorriso beffardo in volto e l’arma improvvisata in mano.

«Ci sarà merda sul mio cazzo, stanotte, o sangue sul mio coltello. Scegli», grugnì Rip.

E l’uomo chiamato Ben Fry scelse. Quando le guardie arrivarono al mattino, il gigantesco Rip giaceva sul pavimento coperto di sangue ed escrementi, praticamente in coma.

Dopo tre settimane in isolamento, l’uomo chiamato Ben Fry uscì da Pelican Bay — esattamente come aveva previsto — diretto a North Wilderness.


Era ormai giugno, il mese in cui Jim Bishop era giunto a Driscoll sulla sua moto, quando l’uomo chiamato Ben Fry arrivò alla nuova residenza forzata. La cella misurava tre metri per due e aveva una finestra, che però non si apriva ed era troppo alta perché si vedesse qualcosa. C’erano anche un giaciglio di cemento e un lavabo e un gabinetto in acciaio con controllo automatico dell’acqua. Lo sciacquone, per esempio, di solito veniva attivato tre volte al giorno, questo per impedire ai galeotti di usarlo a loro piacimento e comunicare attraverso le tubature. Anche le porte erano comandate a distanza da una postazione esterna ai bracci di detenzione. Erano costituite da una fitta rete in acciaio che rendeva difficile sfondarla tirando oggetti, vedere all’esterno o parlare con i compagni vicini, a causa del rimbombo. L’uomo chiamato Ben Fry passava circa ventitré ore al giorno in questa cella. Raramente parlava o vedeva altri esseri umani.

Le celle erano allineate in gruppi di otto (quattro per lato) in sei bracci disposti a semicerchio intorno a una cabina dai vetri corazzati. Da quella postazione, le guardie vedevano direttamente i corridoi e sorvegliavano le celle attraverso quattro monitor, su cui apparivano a turno le immagini delle varie telecamere. Su un altro monitor scorrevano le immagini del cortile dove i detenuti trascorrevano l’ora d’aria. L’uomo chiamato Ben Fry era al corrente di tutto questo, perché aveva studiato e memorizzato le piante e i vari sistemi della struttura.

Aveva a disposizione un’ora d’aria al giorno, da trascorrere in cortile. Quando la porta della cella si apriva automaticamente, procedeva da solo lungo il corridoio, sempre sorvegliato dagli occhi indiscreti delle telecamere. Il cortile era poco più grande della cella, tre metri e mezzo per tre; era come una scatola di cemento armato con un coperchio di rete metallica, da cui filtrava abbastanza luce solare per trasformarlo in un forno. L’uomo chiamato Ben Fry camminava lungo il perimetro, eseguiva flessioni sulle braccia, salti e altri esercizi, poi rientrava. Gli era permesso uscire dalla cella altre tre volte alla settimana, per la doccia.

Ma per la maggior parte del tempo — ventitré ore al giorno — il suo orizzonte era la cella. La cella e il tempo, la pianura di tempo vuoto che si stendeva all’infinito davanti a lui. Per ventitré ore al giorno, l’uomo chiamato Ben Fry stava sdraiato sul giaciglio di cemento. Da lì saliva sulla torre e osservava dall’alto la distesa del tempo, senza più preoccupazioni. In alcuni di quei bianchi momenti senza fine, la torre sembrava talmente reale da fargli temere di essere sul punto di impazzire. Ma questa sensazione era meglio di ciò che provava quando era giù, nel mondo, senza pensare, a osservare il vuoto davanti a sé. Ed era meglio del mondo rosso, strisciante e beffardo dei suoi sogni.

Trascorse una settimana così. Poi, un giorno, due guardie entrarono in cella, lo ammanettarono, lo fecero inginocchiare e gli bloccarono le caviglie. Tirandolo poi insieme per le braccia, lo trascinarono lungo il corridoio fino alla cabina di controllo.

Fu un momento importante per lui, perché per circa venticinque secondi, mentre lo trascinavano, poté scorgere due dei monitor attraverso i vetri della postazione. Vide l’immagine di una cella e contò per quanto tempo rimaneva sullo schermo. Dieci secondi. Poi le guardie lo condussero via lungo un altro corridoio.

Lo portarono in una stanza dove c’era una sedia di metallo fissata al pavimento e rivolta verso una parete trasparente antiproiettile. Le guardie lo fecero sedere sulla sedia e gli legarono le caviglie ad anelli infissi al suolo. Poi lo ammanettarono ai braccioli e attesero alle sue spalle.

Dall’altra parte della parete trasparente si aprì una porta e un uomo entrò. Era magro e indossava un abito costoso, grigio scuro. Arricciò il naso guardandosi in giro, tenendo i gomiti stretti ai fianchi e le mani chiuse una nell’altra. Sembrava una persona pignola e sprezzante.

L’uomo magro si sedette davanti all’uomo chiamato Ben Fry e parlò. La voce, alta e nasale, venne trasformata dal microfono in un suono intermittente, simile a quello emesso da un robot.

«Come va oggi, signor Fry?» chiese.

L’uomo chiamato Ben Fry annuì mantenendo uno sguardo assente, un’espressione ebete.

«Ho saputo che era qui, e volevo essere sicuro, prima di procedere come stabilito. Ma ora lo farò.»

L’uomo chiamato Ben Fry annuì nuovamente.

«Sono contento di vedere che sta bene», aggiunse l’altro. «Allora…» concluse, e si alzò per andarsene.

Le guardie slegarono dalla sedia l’uomo chiamato Ben Fry e gli fecero ripercorrere il corridoio. Poté vedere di nuovo i monitor nella cabina delle guardie e riconobbe la sua cella dalla posizione in cui aveva messo la coperta. Quando la vide apparire, lanciò uno sguardo all’orologio appeso alla parete.

In cella, le guardie gli tolsero le manette e i blocchi delle caviglie e gli ordinarono di togliersi i vestiti. Quando fu nudo, lo ispezionarono, dentro e fuori.

Poi, ci fu di nuovo e soltanto la cella. La cella e il tempo. I secondi, i minuti, le ore. In silenzio, isolato, osservato.

Sapeva che sarebbe durata ancora per un po’. Poche distrazioni, nessun piacere. Niente libertà, niente gentilezza. Giorni in gabbia, notti in gabbia. La cella, il tempo e la torre.

Esattamente come aveva previsto.

18

L’uomo che Weiss chiamava il Topo giaceva morto sull’asfalto, a pancia in giù, con il braccio destro allungato in avanti e quello sinistro piegato in modo innaturale contro il fianco. La testa era girata e si vedevano il profilo, l’orecchio a sventola, il naso affilato, un occhio aperto, fisso e vitreo, con lo sguardo spaventato che aveva avuto in vita. Era stato colpito alla pancia e il sangue aveva formato una pozza all’altezza della vita.

Weiss e l’ispettore Ketchum del dipartimento di polizia di San Francisco, in piedi alle sue spalle, lo osservavano, uno accanto all’altro, le mani in tasca.

«Okay», esordì Ketchum. «Mi stai dicendo che un assassino immaginario ha accoltellato questo disgraziato per vendicarsi di uno stupro creato dalla sua fantasia nei confronti di una donna che non è mai esistita.»

Weiss annuì. «Proprio così.»

«Ma questo poveraccio è dannatamente morto, mi sembra.»

Weiss inclinò il capo con aria incerta.

Ketchum imprecò. «Gesù.»

Era un uomo di colore piccolo e magro, dalla voce profonda, sempre carico di tensione. L’espressione generalmente accigliata cambiava solo quando si tramutava in aperta rabbia. Per quel che ne so, odiava tutto e tutti. Tranne Weiss. Weiss gli era simpatico. Almeno credo.

Fece un segno all’uomo dell’ufficio del coroner che aspettava poco distante, e questi iniziò a infilare il corpo di Wally Spender in un sacco di plastica. Weiss e Ketchum si allontanarono. L’ispettore scosse la testa per sottolineare il suo disgusto.

«Questo piccolo bastardo dalla faccia di topo non è stato neanche derubato», disse.

«In ogni caso è stato assassinato», lo incalzò Weiss. «E questo è un fatto. Non è fantasia, voglio dire: qualcuno deve pur essere stato.»

«Grazie per avermelo fatto notare», replicò ironico Ketchum mentre arrivavano in fondo al vicolo. «Meno male che aveva il tuo biglietto da visita in tasca, altrimenti non ti avrei chiamato, tu non saresti venuto e io non avrei avuto questa brillante spiegazione: ‘Qualcuno deve pur essere stato’. Come ho fatto a non pensarci?»

Uscirono dal vicolo buio in Mission Street, alla luce del sole. Camminavano insieme, un uomo grande e uno piccolo, con i vestiti stropicciati e le mani in tasca. Superarono una serie di vetrine sprangate con le assi. Su queste erano attaccati volantini sbiaditi, strappati e incomprensibili.

«Chi è il tuo testimone?» chiese Weiss.

«Non ci crederai. Uno dei più onesti e affidabili vagabondi che abbiano mai raccattato lattine su queste strade. Giura di aver visto il colpevole uscire di corsa dal vicolo. E giura di avergli visto il coltello in mano.»

«Te l’ha descritto?»

«Certo. Ha detto che era latinoamericano, sulla ventina, con la pelle chiara e la camicia nera.»

«Be’, è proprio lui, sicuro. Si tratta del fratello immaginario della ragazza immaginaria. È un’identificazione sicura.»

«Salvo che è immaginaria.»

«Non si può avere tutto dalla vita.»


Erano seduti in un bar della Settima, a un tavolino vicino alla vetrina. Weiss guardava la strada. Una donnetta anziana era piegata sotto una borsa della spesa che sembrava pesare una tonnellata.

«Ho qualcos’altro per le mani», stava dicendo Weiss.

«Se si tratta di fatti veri, non posso aiutarti», sibilò Ketchum. «Attualmente mi occupo solo di omicidi immaginari.»

«Bishop sta lavorando a un caso, su al Nord.»

«Questa è una buona notizia. Quando quel figlio di puttana è fuori città, San Francisco diventa migliore.»

Weiss lo ignorò. «Il mio cliente possiede il cinquanta per cento di una piccola compagnia di volo, con base fissa, che offre servizi charter, trasporto merci e via dicendo. È convinto che gli aeroplani siano usati dal suo socio per combinare qualcosa di illegale, ma ha paura a rivolgersi alla polizia perché il partner è un poco di buono, che potrebbe anche farlo ammazzare. Ha provato con un’agenzia locale, ma c’era bisogno di un pilota per le indagini e hanno fatto il mio nome.»

«Perfetto», replicò Ketchum. «E qual è il piano di Bishop? Fottersi tutte le donne del posto finché una non gli spiffera qualcosa?»

Weiss riuscì a ignorare anche questa uscita, per quanto decisamente vicina alla verità. «Siamo riusciti ad avere i nomi di tre persone che potrebbero essere implicate nella vicenda, o anche non esserlo… Il problema è che hanno la tendenza a farsi trovare morte. Il primo, un giardiniere di nome Harry Ridder, si è sparato. La seconda è una donna misteriosa, Julie Wyant, che sembra essersi buttata dal Golden Gate.»

«Non deve aver visto i cartelli di pericolo.»

«Il terzo nome è Whip.»

«Whip?» ripeté Ketchum. «Whip e poi?» Weiss gli fece capire di non avere altre indicazioni e Ketchum esclamò: «Fantastico. Uno qualsiasi di quei fessi tatuati che scorrazzano a ovest di Filadelfia a un certo punto della sua vita si è fatto chiamare Whip. E tutto quello che Bishop sa fare? Cristo. L’unica cosa su cui quel bastardo sa investigare è la topa».

«Ti ricordi…» iniziò Weiss.

«Dovresti sbarazzarti di quel figlio di puttana, credimi», replicò Ketchum. «Era in prigione e, merda, lì sarebbe ancora se tu non gli avessi salvato quel culo da pervertito.»

«Ti ricordi…»

«Sei tu che devi ricordarti che non è il figlio che non hai mai avuto, Weiss. Non può andare in giro a vivere la vita che tu vorresti fare, non può essere l’incarnazione del lato selvaggio del tuo carattere.»

Weiss sorseggiò il caffè e, prima di parlare ancora, depose la tazza. «Ti ricordi di Cameron Moncrieff?»

«E come non potrei? Contrabbandiere e frocio. Quello con la mania per i maglioni dolcevita.»

«Sai che è morto?»

«Certo che lo so. È la cosa migliore che abbia mai fatto.»

«D’accordo, lo sai. Gli altri due nomi erano in un qualche modo legati a lui, perciò mi chiedo se anche questo Whip non lo sia.»

«Sai qual è il problema con Bishop?» proseguì Ketchum, come se non avesse ascoltato neanche una parola di Weiss. «È una specie di rottweiler in versione zombi. Fa tutto quello che gli dici perché l’hai tirato fuori da Pelican Bay, ma tu sei la sola coscienza che possiede. Gli dici di portarti il giornale, e lui te lo porta, a qualunque costo. Se si trova fra i piedi un poveraccio, gli taglia la gola; se una puttanella qualsiasi lo intralcia, se la scopa. ‘Devo portargli il giornale’, ecco tutto ciò che ha in mente, ‘Weiss mi ha detto di portargli il giornale’. È un criminale pezzo di merda, amico mio, credimi, che per caso tu tieni al guinzaglio. Non puoi insegnargli a distinguere il bene dal male. Non puoi procurargli l’anima che non ha.»

Weiss stava aspettando che Ketchum terminasse la sua tirata, tamburellando con le dita sul tavolo di formica. Ma l’altro era irriducibile.

«E di che merda si sta occupando ora?» sbottò infine. Weiss allargò di nuovo le braccia. «Lo sai bene, cazzone di un ebreo, che non posso proteggerti se ti immischi nelle faccende dei federali.»

«Dai Ketch, che cosa sai di questo Whip?»

Passò qualche istante prima che l’ispettore rispondesse. Prima di tutto, pronunciò sottovoce una serie di ingiurie e scosse la testa disgustato. Poi si guardò in giro in cerca di qualcuno che potesse testimoniare sulle stronzate che gli toccava sopportare. Infine sospirò con una rassegnazione che solo i santi possono avere in questo nostro mondo infelice. Solo allora si sentì pronto e disse: «E va bene».

Weiss appoggiò la guancia sul pugno e attese.

«C’è un tipo di nome Lenny Pomeroy su cui pendono tre capi d’accusa per aver ucciso una coppia alcuni mesi fa. È anche conosciuto come Whip, Whip Pomeroy.»

«Legami con Moncrieff?»

«Ovviamente sì, perché credi che te ne stia parlando? Pomeroy è un falsario eccezionale, una specie di artista. Se lui ti fa cambiare identità, diventi un altro. Nome nuovo, faccia nuova, impronte digitali nuove, codice fiscale, un lavoro… insomma, tutto quello che serve quando qualcuno ti cerca e non vuoi che ti trovi. È da qui che viene il soprannome Whip: da witness protection. Lui è l’equivalente del programma federale di protezione testimoni, ma per i cattivi soggetti. Se ci pensa lui, stanne certo, tu scompari.»

Weiss annuì. «E Moncrieff che cosa c’entra?»

«Pomeroy era il ragazzino di Moncrieff. Amante, assistente, tuttofare.»

«Viveva con lui?»

«Non sempre, ma molto spesso. Moncrieff era l’unico di cui poteva fidarsi, l’unico amico, la sola famiglia che avesse.»

«Era presente quando Moncrieff è morto?»

«Non lo so. Come cazzo faccio a saperlo? So solo che, oltre a peccare contro Dio e contro natura, Pomeroy è un eccentrico di prima categoria. Gli piace agire nell’ombra e non tratta mai direttamente con i suoi clienti. Se qualcuno aveva bisogno di una nuova identità, doveva passare dalla zietta Moncrieff. Lo abbiamo potuto incastrare solo dopo la morte del suo amichetto, quando ha dovuto uscire allo scoperto. E questo è tutto. Ma è un caso da manicomio.»

«Potrebbe essere quello che cerco. Dove si trova adesso?»

Ketchum esitò, scuotendo la testa. Imprecò e sospirò ancora. «Non dovrei proprio dirtelo. Io non te l’ho mai detto. Nessuno te l’ha mai detto.»

«Va bene.»

«Sembra che lo abbiano portato da qualche parte in custodia.»

«È in custodia protettiva?» chiese Weiss. «Ma perché? Chi lo ha preso in consegna?»

«Non lo so, forse i federali, forse lo stato. È una di quelle faccende in cui tutti cercano di pararsi il culo e nessuno sembra sapere niente.»

Weiss sedeva in silenzio, cercando di far funzionare il cervello. «Significa che ha qualcosa. Whip sta offrendo qualcosa ai federali in cambio… Ci sono, la lista di quelli che hanno beneficiato del suo programma di protezione.»

«Centro. O comunque è quello che ho sentito dire in giro. I federali si sono abbassati a trattare perché il ragazzo sembra avere un dossier su ogni criminale apparentemente scomparso nel nulla. Ti ricordi gli omicidi di Salmon River di quindici anni fa?»

«Certo. Hanno arrestato il responsabile di recente… Oh.»

«Esatto. Pomeroy gli aveva fornito una nuova identità. E un mese dopo, vengo a sapere che sono sulle tracce di Johnny Guardo.»

«Johnny Guardo!» Weiss emise un debole fischio.

«Proprio lui.»

«Ma che cosa intende fare? Vuole consegnarli uno alla volta?»

«Uno alla volta, e molto lentamente», disse Ketchum. «Secondo i federali potrebbe andare avanti per anni.»

«Ma in cambio di che cosa? Che cosa vuole?» chiese Weiss. «Una riduzione della pena?»

«Esattamente il contrario. Vuole anche le aggravanti, le adora, non può fare a meno di quel cazzo di aggravanti. Tutto quello che gli preme è di restare rinchiuso almeno fino al secondo avvento del messia. Insomma, vuole essere protetto restando rinchiuso. Se si potesse scavare un pozzo fino al centro della terra, vi si infilerebbe volentieri.»

Weiss era sempre più perplesso. «Tutto ciò non ha senso. Potrebbe ottenere una nuova identità con il programma di protezione, quello vero, intendo.»

«Non gli basta. Vuole essere chiuso nella più dimenticata delle prigioni, con tanto di sorveglianza e guardie.»

«Andiamo. È da pazzi.»

«Ed è quello che ti ho detto: è matto. A furia di succhiare cazzi ti bruci il cervello.»

«No, no, no. Per stare rinchiuso quando potrebbe rifarsi una vita, deve essere terrorizzato. Ci dev’essere qualcosa che lo spaventa a morte. O qualcuno. Ma chi, Godzilla?»

Weiss aveva parlato in modo pacato, ma Ketchum disse: «Merda. Sapevo che ti saresti subito agitato».

«Non sono agitato.»

«Sì che lo sei, Weiss.»

«Dannazione, non sono agitato.»

«Lo sei, solo che non lo sai ancora.»

Weiss sbuffò. «Perché, c’è dell’altro? Di che cosa ha paura Whip? Di chi diavolo ha paura?»

Ketchum strinse gli occhi a fessura prima di rispondere. «Ha paura di Shadowman», disse.

19

Era dolce possederla nel buio dell’estate. Gli piaceva toccare quei seni pesanti. Gli piaceva come la bocca di lei lo cercava avidamente e le dita forti gli si aggrappavano alle spalle, alla schiena. Si sollevò sulle braccia e abbassò lo sguardo sul suo ventre, sulle massicce cosce aperte per accoglierlo. Era bello stare dentro di lei e sentire i suoi gemiti brevi, soffocati.

Alla fine si strinsero forte, un respiro trattenuto all’unisono. Poi lui rimase disteso sopra di lei, ad ascoltare il suo respiro. Sentiva quel corpo alzarsi e abbassarsi sotto il suo. Minuto dopo minuto, era una bella sensazione.

Quando Bishop scivolò al suo fianco, Kathleen si accoccolò sotto il suo braccio, giocando con i peli del petto senza dir nulla. Riposarono insieme nel buio, il ronzio del condizionatore che escludeva i suoni del mondo esterno. La stanza sembrava un’isola di silenzio in mezzo al mormorio del mare. Bishop cominciò a sentirsi come quando volava o andava in moto: lucido e rilassato, non più contratto, teso e pieno di preoccupazioni. Baciò piano i capelli di Kathleen. Gli piaceva una donna che riusciva a star zitta per un po’.

Passarono dieci minuti. Poi Kathleen si mosse al suo fianco. «Ehi», disse, «posso parlarti di una cosa?»

Bishop inspirò profondamente attraverso le narici, poi lasciò sfuggire lentamente l’aria dalle labbra. Si tornava al lavoro. «Certo.»

«Be’, ecco… forse sto diventando paranoica, ma…» Alzò il viso verso di lui, che le baciò la fronte. «Comincio ad avere paura.»

«Perché? C’entra Chris?»

Aveva ancora le labbra sulla fronte di lei, e sentì che annuiva. Avvertì, il suo respiro tiepido mentre sospirava e diceva: «Penso che qualcuno lo stia seguendo».

Bishop si sforzò di non variare il ritmo del respiro per non farle percepire il suo interesse. Finalmente qualcosa di concreto, forse di importante. «Davvero?» mormorò.

«Sono due o tre giorni che di notte c’è una macchina posteggiata fuori da casa nostra. Una macchina nera, elegante, credo sia una BMW. L’ho notata solo perché non è il genere di auto che potrebbe avere la gente di qui. Tutte le volte che Chris è a casa, guardo fuori e… quel bastardo è là. Quando lui non c’è, anche l’auto scompare. Forse sto impazzendo. Pensi che mi stia preoccupando per niente?»

Le labbra di Bishop si mossero sulla pelle calda di Kathleen. «Non saprei», le disse, mentendo. «Ne hai parlato con Chris?»

«No, maledizione. Non voglio creargli altre preoccupazioni. Ultimamente è già nervoso, perde facilmente il controllo. Non esce quasi più e si aggira per casa come un animale in gabbia. Questa è anche la ragione per cui faccio tanta fatica a venire da te. A meno che non abbia un volo notturno, è sempre qui attorno.»

Bishop la abbracciò, massaggiandole la schiena e guardando il buio al di là della sua testa, mentre rifletteva. «Non va più a bere al Clover Leaf?» chiese.

«Negli ultimi tempi no, ma vorrei proprio che ricominciasse. Sta sul divano a monopolizzare la TV con il baseball, e mi chiede continuamente di portargli una birra.» Si staccò da lui e, sdraiata sulla schiena, osservò le ombre del soffitto. «Brontola come una pentola in ebollizione; questa costrizione rischia di farlo esplodere.» Sorrise. «Be’, meglio così: sono sicura che non resisterà a lungo senza andare al Clover Leaf.»

Anche Bishop ne era sicuro e si appoggiò su un gomito, accarezzandole i capelli con l’altro braccio. Poteva essere la sua occasione.

«Come vorrei non pensare più a queste stronzate», disse Kathleen in un soffio. «Il punto è che con Chris non è più vita. Ci divertivamo molto i primi tempi, prima che fosse espulso dall’esercito… Ridevamo moltissimo, praticamente facevamo solo quello.»

Era Hirschorn, Bishop ne era sicuro. Stava facendo seguire Chris per essere sicuro che non mandasse tutto all’aria, che non si mettesse a parlare in giro come già era capitato, rivelando i loro piani. Hirschorn aveva minacciato Chris quel giorno al posteggio, ordinandogli di rimanere a casa, di non bere, di non fare il fesso fino alla fine dell’operazione. Chris sapeva di doversi controllare, ma Kathleen aveva ragione: non ci sarebbe riuscito ancora a lungo.

«Vorrei che questo non finisse mai», stava dicendo Kathleen. «Sai cosa voglio dire. Noi due qui sdraiati a parlare, senza complicazioni, senza grane. Sai cosa intendo.»

Bishop giocò con una ciocca dei capelli castani di Kathleen. Stava pensando che Chris avrebbe ceduto presto. Era questione di un paio di giorni e sarebbe tornato al bar a vantarsi, a parlare troppo, a creare casino, e i mastini di Hirschorn lo avrebbero visto. Se lui fosse stato presente, avrebbe potuto gettare benzina sul fuoco, dare una spintarella a Chris, far arrivare a Hirschorn il messaggio che aveva scelto il pilota sbagliato, che lui era l’uomo adatto all’operazione.

A quel pensiero, Bishop avvertì una sensazione nuova nel petto, qualcosa di freddo e fastidioso.

«Sai che cosa voglio dire, Frank?» riprese Kathleen, dandogli una carezza. «Ci hai mai pensato? Hai mai pensato che questo potesse durare?»

La mano di Kathleen sul volto scosse Bishop, che si ricordò di essere lì con lei. Che cosa stava dicendo? Non aveva proprio ascoltato. Sviò l’attenzione prendendole le mani e baciandogliele, cercando di ricordarsi di che cosa stessero parlando. Poi capì.

«Certo», rispose. «Certo, lo vorrei anch’io. Ma lo sai anche tu, Chris rimane tuo marito.»

Kathleen gli mise una mano sulla nuca e lo attirò a sé. «Ma forse non m’importa», disse in un sussurro. «Potrebbe non importarmi più niente di lui.»

La baciò sulla guancia. «Hai detto che ci avrebbe ucciso.»

«Non me ne importa più niente. Non ho paura di lui e di quello che può fare.» Gli fece scorrere le dita lungo la schiena. «Tu non hai paura di lui, vero Frank?»

Bishop stava accarezzandole il seno. Le baciò il collo e disse: «Certo che ho paura. È due volte più grosso di me». Scivolò sul lenzuolo per stringersi a lei.

Kathleen lo abbracciò. «Frank», mormorò. «So che è una stronzata, ma mi sto innamorando di te. Non m’importa se è una sciocchezza, è così e basta.»

Bishop cercò le labbra di lei e ciò le impedì di proseguire. In più si era di nuovo eccitato e, al diavolo tutto, in un attimo fu sopra di lei, dentro di lei. Ma stavolta la sua mente vagava altrove. Stava ancora pensando a Chris, a Hirschorn che lo faceva sorvegliare, a come avrebbe potuto far cadere Chris nella trappola e convincere Hirschorn a coinvolgerlo nell’operazione.

Kathleen mormorò il suo nome fasullo. «Frank.» Bishop si mosse dentro di lei.

Rimasero così, stretti nel buio dell’estate, lui con i suoi pensieri, lei con i suoi sogni.

20

Quando Kathleen se ne andò, Bishop si sedette sul bordo della scrivania, sempre al buio. La finestra era leggermente socchiusa. Sulla pelle nuda avvertiva il calore che penetrava dall’esterno mischiarsi con l’aria fresca del condizionatore. Accese una sigaretta e restò a osservare il fumo che si disperdeva nel buio della sera. Lo guardò sfuggire verso la casa accanto.

Tirò un’altra boccata lasciando vagare la mente. Era buffo pensare che lei si fosse innamorata di lui, buffo capire che le persone non vedono le altre come realmente sono. Uomini e donne. Creano nella loro testa delle immagini dell’altro, e poi vedono solo quello. Non si vedono davvero. Adesso lei era convinta di amarlo e non sapeva neanche il suo vero nome, non sapeva niente di lui.

Comunque la vicenda si sarebbe presto conclusa. Tra poco avrebbe saputo quali erano i piani di Hirschorn, avrebbe avuto ciò che voleva, quello per cui Weiss l’aveva mandato lì. Sarebbe tornato a casa e tutto sarebbe finito.

Però. Era comunque una situazione bizzarra. Scosse la cenere fuori dalla finestra e osservò le luci gialle della casa di Kathleen attraverso gli alberi. Sperava che la donna tenesse la bocca chiusa sulla loro storia. Che non cominciasse a raccontare in giro di essere innamorata. Era possibile. Le donne fanno così. Forse l’avrebbe detto addirittura a Chris, per spingerlo a battersi per lei. Forse voleva davvero che Bishop fosse il suo cavaliere senza macchia e senza paura.

Pensò a questo, e pensò a come Chris l’aveva afferrata quella sera sotto il portico, a come l’aveva schiaffeggiata con indifferenza, come se lei non fosse niente. Ci pensò, e avvertì un calore aspro nel petto.

La sigaretta era finita. La spense nel posacenere e si alzò dalla scrivania per andare all’armadio. Teneva lì la borsa da viaggio, nascosta dietro alcuni scatoloni: non conteneva nulla tranne il palmare. Lo mise sulla scrivania e lo accese.

Controllò la posta. C’era un’e-mail di Weiss.


JB, dalle ultime cose che ho scoperto potresti essere in pericolo. I nomi che mi hai fornito sono legati in qualche modo a Cameron Moncrieff, un pappone e un trafficante di droga, armi e altro, che adesso è morto. Harry Ridder era il suo giardiniere, ed è morto anche lui, suicida. La domestica di Moncrieff, Julie Wyant, è scomparsa, e si pensa si sia suicidata anche lei. Whip era amante e braccio destro di Moncrieff, oltre che uno specialista nel falsificare documenti d’identità; è accusato di favoreggiamento in omicidio e si trova in custodia in una qualche prigione. La mia preoccupazione nasce dal fatto che sembra esserci un legame fra queste persone e un sicario professionista che la polizia chiama Shadowman. Se anche Hirschorn ha a che fare con lui, devi fare molta attenzione. E non sto scherzando. Non farti coinvolgere ulteriormente nell’operazione finché non scopro qualcos’altro. Non farlo assolutamente, d’accordo? Se si insospettisce, la tua vita potrebbe essere seriamente in pericolo, e anche quella di Chris e Kathleen Wannamaker, soprattutto quella della donna, perché ha parlato con te. Ti ripeto, non è uno scherzo. Se c’entra Shadowman, è una faccenda pericolosa. Sii molto prudente e aspetta altre informazioni. W.


Bishop lesse e sbuffò, poi fece un sorrisetto, si stirò le braccia e sbadigliò.

Cancellò l’e-mail, spense il computer e lo rimise a posto, nella borsa dentro l’armadio.

Andò a letto e rimase supino con le braccia dietro la testa, guardando il soffitto. Pensò a Chris e Kathleen, a quella sera sotto il portico quando lui l’aveva picchiata. Pensò a come avrebbe chiamato Chris, a come lo avrebbe provocato facendogli perdere il controllo, e l’uomo di Hirschorn avrebbe visto tutto…

Sorrise nell’oscurità a quel pensiero. Aveva bisogno di azione e, dentro di lui, una cosa dura e luminosa sfavillava ardente.

21

Il giorno successivo Weiss trovò l’amore della sua vita.

«Andiamo, Weiss, non innamorarti di lei», gli stava dicendo Casey. «Sii più originale.» Ma era troppo tardi. Nel momento stesso in cui aveva visto la foto, non c’era stato più niente da fare.

Casey, come sappiamo, era la mezzana che procurava le ragazze a Weiss. Aveva circa quarant’anni, i capelli biondo platino, un viso allegro, segnato dal sole e dalle sigarette. Bassa, ben fatta, amava indossare pantaloni e golfini attillati che sottolineassero il seno procace e il fondoschiena pronunciato. A Weiss riservava sempre un sorriso caloroso che, in tutto e per tutto, pareva esprimere un affetto sincero.

Erano seduti nel soggiorno del suo attico sulle Heights. Il sole della tarda mattinata entrava da una parete a vetri, mentre da quella opposta si poteva scorgere tutta la baia, fino all’isola di Alcatraz. Casey era in posa sul divano, le gambe accavallate e le braccia distese sullo schienale, in modo da mettere in evidenza le sue forme.

Weiss sedeva in una poltrona al di là del tavolino da tè in cristallo e guardava la fotografia. Non riusciva a distogliere lo sguardo.

«Dio mio, Weiss, sei un tale romantico.» Casey aveva una voce profonda, sensuale, forse anche a causa delle sigarette. Se ne portò una alla bocca, perché non restava mai senza. Scosse la testa nel vedere Weiss così perso nella fotografia.

Quando infine lui la posò sul tavolino, non riuscì comunque a smettere di guardarla. «Immaginavo che la conoscessi», mormorò. «Una ragazza misteriosa e senza passato, nell’ambiente di Moncrieff… Me l’immaginavo che per un periodo avesse fatto la vita.»

«Non è mai stata una delle mie ragazze», disse Casey, mentre un refolo di fumo le sfuggiva dalle labbra. «Ma un’amica l’ha avuta sotto la sua protezione per un certo periodo, in uno dei giri di Moncrieff. È lei che mi ha passato la foto e…» La pausa fu calcolata, teatrale. Prese un CD dal tavolino dietro di lei con un’espressione ironica. «… un video!» Lo mise a fianco della fotografia. «Non stai più nella pelle, vero?»

Weiss fissò il disco. Si inumidì le labbra appena schiuse con la lingua. Deglutì. Casey lo osservava e si lasciò sfuggire una risatina frizzante, quasi musicale.

Weiss distolse finalmente gli occhi, imbarazzato, e fissò l’amica che giocava divertita con la sigaretta.

«Non ti devi vergognare», disse lei. «Credimi, è successo a molti. Pare che di lei si innamorassero tutti, soprattutto i più anziani. Forse per quello sguardo, sai, sembrava essere appena arrivata dal paradiso. Secondo la mia amica c’erano schiere di uomini di mezza età accampati fuori dalle sue finestre, segugi in attesa della preda. Le mandavano fiori, le promettevano la luna, qualsiasi cosa. Il che è veramente una scocciatura quando devi mandare avanti gli affari.» Si protese in avanti e reclinò la testa, come per guardare meglio la foto. «È la faccia di un angelo, non ci sono dubbi. Belli anche i capelli.»

Certo, erano belli, di un colore naturale fra il biondo e il rosso che non sarebbe stato possibile riprodurre con una tintura. Lunghi, serici, luminosi, una splendida cornice a un volto che, come Casey aveva notato, era quello di un angelo. Dolce, pieno di fascino, un po’ distante. Nel guardarlo Weiss sentì sobbalzare il cuore: poteva essere una delle creature dei suoi sogni a occhi aperti.

«Si chiamava Julie Wyant?» riuscì a chiedere.

«Sì», rispose Casey, «proprio così, per quel che ne so. Ma la mia amica ha detto che non esistevano documenti su di lei. È apparsa un giorno in cerca di lavoro, senza passato, senza referenze, e aveva un modo di fare…»

«Quale modo di fare?»

«Come se fosse nata in quell’istante, ecco cosa diceva la mia amica. L’aria sognante e distaccata di una che ha improvvisamente aperto gli occhi e si è ritrovata sulla terra.»

«E non ha mai raccontato niente di sé a qualcuno? Alle ragazze…»

«No. Moncrieff ha svolto qualche ricerca, ma non ha trovato niente. Sembra che ne fosse innamorato.»

«Moncrieff?»

Casey rise. «Lo so.» Alzò il sopracciglio in segno di complicità. «A modo suo, naturalmente. La adorava, la contemplava come se fosse una delle sue opere d’arte.»

«Era una specie di domestica, no?»

«Sì, nel momento in cui la vide, Moncrieff la fece uscire dal giro, la portò a casa sua, a vivere con lui.»

«Sai per quanto tempo?»

Casey alzò le spalle e si mise a pensare, fermando a mezz’aria la mano che stava portando l’ennesima sigaretta alla bocca. «Per un paio di mesi, penso. Finché lui non è morto.»

«Che cosa mi dici di lei, pensi che ricambiasse Moncrieff?»

«Come faccio a saperlo?»

«Volevo dire se pensi che si sia buttata dal ponte perché lui è morto.»

«Non ne ho idea», disse Casey. «Ma sei sicuro che si sia buttata davvero?»

In effetti Weiss si era posto quella domanda. Non c’era in realtà motivo di dubitarne, tranne per il fatto che il corpo non era stato trovato. Adesso poi che l’aveva vista, gli risultava ancor più difficile pensare che una ragazza del genere fosse scomparsa per sempre.

Quasi senza volerlo, gli occhi ritornarono sulla fotografia e Weiss si sentì invadere ancora dall’emozione.

«Mio Dio!» esclamò Casey. «Che cosa ho fatto. Dimenticati quello che ho detto, ti stavo prendendo in giro. Certo che si è buttata, è ovvio, ne sono sicura. Non imbarcarti in una ricerca inutile, finirai per farti del male, credimi.»

Weiss prese la foto e la infilò — quasi con tenerezza — in tasca. «Posso prendere il video?» chiese.

«Sì, se mi prometti di non farti del male.»

Weiss lo prese e mise anche quello in tasca. Casey lo osservava, ridendo con gli occhi, forse con un pizzico di gelosia.

«Grazie, Casey.»

«Vivo per servirti, tesoro, lo sai bene.»

Weiss sorrise e si diresse alla porta.

«Weiss.» Lui si fermò con la mano sulla maniglia, voltandosi a guardarla. «Sai», disse Casey con voce più comprensiva che mai, «ci sono tante ragazze che cadono dai ponti. Così va il mondo. Con ogni probabilità, è morta.»

22

Avevo lavorato fino a tardi quella sera e pensavo di essere rimasto solo in ufficio. Ma mentre mi mettevo lo zaino in spalla preparandomi ad andarmene, mi accorsi che la porta dell’ufficio di Weiss era socchiusa. Dallo spiraglio filtrava una fioca luce. Mi avvicinai per accertarmi che non se ne fosse andato dimenticandola accesa, e invece lo trovai là, seduto nella penombra, che si dondolava sulla sua grande poltrona, con un bicchiere del suo amato whisky in mano. Il computer era acceso, ma io riuscivo a vedere solo la luce che proveniva dallo schermo proiettata sul suo viso, sul tappeto, nell’aria. Era proprio quella luce che avevo intravisto dal corridoio.

L’osservai con circospezione ma, per una qualche ragione, non me la sentii di dir nulla. Qualcosa sul suo volto lasciava intendere che era meglio svignarsela, lasciarlo solo con ciò che stava guardando. C’era qualcosa di indefinitamente triste e vago nei suoi occhi. Ma mentre indietreggiavo dalla soglia lui percepì il movimento, credo. Alzò lo sguardo e mi vide. Con un cenno della mano mi invitò a entrare.

«Accendi la luce», disse, e io obbedii. Weiss si stropicciò gli occhi. «Siediti.»

Lasciai cadere lo zaino e mi sprofondai in una delle poltrone riservate ai clienti, vicino all’angolo della scrivania. Non vedevo ancora lo schermo.

«Qualcosa da bere?»

Si piegò per aprire un cassetto e ne estrasse una bottiglia di quelle buone, di Macallan, insieme a un secondo bicchiere. Versò da bere a tutti e due.

«Whisky nel cassetto», osservai. «Come un detective da romanzo.»

Facemmo tintinnare i bicchieri in un brindisi. «Potrai metterlo nel tuo libro, quando scriverai di me», disse e poi bevemmo. Con un gesto apparentemente distratto, Weiss girò lo schermo verso di me. «Che cosa ne pensi di questo?»

Era il video che Casey gli aveva passato quel giorno. Una pubblicità su Internet per un servizio di accompagnatrici. Si trattava di uno spot di dieci secondi ripetuto all’infinito.

«Che cosa devo guardare esattamente?» chiesi.

«La donna», disse Weiss come se fosse ovvio. «Che cosa ne pensi di lei?»

Sullo schermo, protesa leggermente in avanti, la ragazza compiva un gesto invitante con il dito, il solito cliché. Era ripresa dalla vita in su e indossava una specie di camicetta di pizzo dal colletto alto, al tempo stesso pudibonda e sensuale. Secondo Weiss avrei dovuto notare qualcosa in lei, perciò mi concentrai. Certo era una bella ragazza, con quei capelli dal colore particolare, la carnagione bianca e rosa, gli occhi incredibilmente azzurri, senza malizia. Aveva anche un’espressione interessante, non come quella delle solite ragazze: niente ovvietà, nessuna sensualità forzata o pose esagerate. Eterea era l’aggettivo giusto, una creatura non terrena. Non sembrava che ti stesse proponendo un incontro a sfondo sessuale, ma piuttosto una fuga sulle nuvole, un viaggio in un mondo fatato.

Non era il mio tipo, a dirla tutta, forse un po’ troppo romantica, all’antica. Stavo per fare uno stupido commento sarcastico, quando, girandomi, vidi come Weiss la guardava, riconobbi l’abbandono, il languore e il desiderio. Ricacciai in gola le mie osservazioni.

«Che cosa si sa di lei?» dissi.

Weiss sussultò al suono della mia voce. Si riprese e spense il video. «Si chiama Julie Wyant… ed è scomparsa.»

Avevo sentito parlare della ragazza nei corridoi dell’Agenzia, ma per quel che ne sapevo si era suicidata. Come mai ora Weiss mi parlava di una scomparsa?

«La polizia pensa che si sia buttata dal Golden Gate», proseguì.

«Ma lei no, vero?»

Alzò le spalle. «Non so che cosa pensare. Probabilmente hanno ragione, ma è difficile stabilirlo con assoluta certezza, perché il corpo non è stato ritrovato. Nessuno sa chi fosse realmente e da dove venisse.»

«Ha fatto anche lei delle ricerche?»

«Sì, ma non si trova niente. Nessun documento, nessun passato, probabilmente il suo era un nome di copertura. Non ci sono piste. Ho parlato con delle ragazze che lavoravano con lei e con un paio di altre persone: tutti la descrivono come un tipo particolare, sempre distratta, preoccupata, come se la sua mente fosse altrove. Non ha comunque mai parlato di se stessa.»

«La ragazza del mistero!» dissi.

Come risposta ottenni solo un lungo silenzio. Weiss — altrettanto distratto, preoccupato e con la mente altrove — teneva il bicchiere davanti a sé e ne osservava il contenuto in modo assente, mentre con l’altra mano tamburellava sulla scrivania.

«Aveva un motivo per uccidersi?» chiesi.

Passarono ancora dei secondi, poi Weiss mi guardò e disse: «La paura, penso che avesse paura di qualcuno».

«Paura…?»

Scosse la testa per esprimere tutti i suoi dubbi, poi però aggiunse: «Be’, c’è quel tizio che chiamano Shadowman…» e trangugiò il suo scotch.

A questo punto devo dire che, nella mia posizione di aspirante scrittore, non mi sentivo solo un tuttofare dell’Agenzia. Mi piaceva pensare a me stesso come a uno che si informava, che, senza farsi notare, ascoltava e osservava. Avevo quindi già sentito parlare di questo uomo ombra, di questo Shadowman. Il suo nome veniva sempre scandito lentamente, in modo melodrammatico e misterioso. Mi era parso di capire che fosse legato a un qualche vecchio caso di cui Weiss si era occupato quando era ancora nella polizia. Più precisamente, sembrava che la ragione per cui Weiss aveva deciso di licenziarsi fosse connessa con quegli avvenimenti. Non avevo mai avuto il fegato di chiederlo a lui direttamente. Ero giovane e, per dirla tutta, l’esperienza e la serietà di Weiss mi mettevano in soggezione. Quella sera però era stato lui a parlarne e, apparentemente, mi aveva fatto entrare per chiarire a se stesso, chiacchierando con me, alcuni dubbi che lo tormentavano.

Così mi feci coraggio e con un tono per quanto possibile disinvolto gli chiesi: «E chi mai sarebbe questo Shadowman?»

Weiss si appoggiò allo schienale e si spinse indietro. «Be’», disse, «dipende dalla persona a cui lo chiedi.» Fece un gesto nell’aria per esprimere la vasta gamma di risposte. «Secondo i poliziotti — quanto meno la maggior parte di loro — è una montatura. Non una persona reale, ma l’insieme di tanti pezzi montati ad arte da un giornalista. Insomma, un’invenzione della fantasia.»

Annuii sorseggiando lo scotch e pensando. «Come il tipo che avrebbe ucciso Wally Spender?»

Weiss alzò e abbassò il mento, il che in genere significava che stava per scoppiare a ridere. Pensai che, almeno, ero riuscito a divertirlo. «Proprio così, come quel tipo che ha ucciso Spender, solo che questo… ti ricordi quel caso, il massacro di South Bay?»

Non me ne ricordavo, in parte perché quando era accaduto ero ancora sulla costa orientale e in parte perché a quel tempo ero un bambino. Ma in Agenzia ne avevo sentito parlare, più che altro sotto forma di pettegolezzo da corridoio. «Più o meno», dissi. «Si trattava di immigrati clandestini morti affogati.»

«Morirono in otto, otto bambini.» Weiss non rialzò il mento, lo sguardo fisso sulla scrivania. «Non annegarono, furono uccisi con due colpi alla testa per ciascuno. I corpi furono gettati in acqua e portati via dalla corrente. Poi un giorno, una donna che portava il cane a passeggio lungo China Beach li vide galleggiare a qualche metro dalla riva.»

Mi lasciai sfuggire un fischio leggero. «Santo cielo, ma chi erano?»

«Solo bambini tailandesi. Si è pensato che li stessero portando qui per venderli… sai, come schiavi, sfruttamento sessuale, chi lo sa. Comunque, sembra che qualcosa sia andato storto e che il venditore abbia avuto la necessità di sbarazzarsi delle prove. La più grande poteva avere undici anni. Probabilmente hanno ucciso lei per prima, mentre i più piccoli guardavano e aspettavano il loro turno.»

Non dissi niente, ma provai un brivido lungo la schiena. Mi sembrò di vederli, spauriti, indifesi, che aspettavano la morte, la linea dell’orizzonte appena illuminata dal sole e i loro piccoli corpi sbattuti avanti e indietro dalle onde. Il solo pensiero metteva i brividi, soprattutto in quel momento, mentre mi trovavo da solo con Weiss, nel suo ufficio. L’Agenzia intorno a noi era vuota e silenziosa, avvolta nell’oscurità. I grattacieli al di là dei vetri formavano scacchiere di luci e ombre, le grandi nubi illuminate dalla luna passavano nel vento e il rumore del traffico ci arrivava attutito, con i clacson, i motori, i tram… Mi sembrava che il mondo là fuori fosse caotico e pericoloso, che l’Agenzia fosse un’isola felice di calore e sicurezza, che i corpi di quei bambini appartenessero a un racconto dell’orrore narrato intorno al fuoco in una serata di tempesta.

«Non avevamo alcuna traccia», proseguì a un tratto Weiss. «I giornalisti ci bersagliavano, ma noi non potevamo farci niente. Non un indizio, un segnale per poter identificare quei corpi. Solo un testimone. Un pescatore cinese che disse di aver visto una barca ancorata al largo di South Bay la notte precedente. Aveva anche notato un uomo che si muoveva sul ponte, ma alla luce della luna si era trattato per lo più di un’ombra. E su questo la stampa ha ricamato: l’ombra di un uomo, l’uomo ombra… Shadowman.» Weiss sembrò scacciare i pensieri con la mano. «Sai come sono i giornalisti. Un caso come questo, un massacro del genere, con dei bambini di mezzo… una di quelle storie che fanno gola, che danno materiale per mesi. Iniziarono a fare congetture su Shadowman: era un sicario, uno specialista? Poi ci fu l’articolo di quel Jeff Bloom, per l’edizione domenicale del Chronicle. Disse di avere una fonte che non poteva rivelare e fece lo scoop. Secondo lui Shadowman era responsabile di almeno metà degli omicidi rimasti irrisolti negli stati della costa ovest. ‘Una imprendibile Macchina della Morte’, così lo definì. Le vittime non avevano scampo: anche se nascoste, anche se inserite nel programma di protezione, anche se, per assurdo, fossero state rinchiuse a Fort Knox, lui le avrebbe trovate. Anche i delinquenti più incalliti lo temevano. Almeno fu questo che Bloom scrisse.»

Mi voltai per l’improvviso rumore dei vetri, colpiti da una folata di vento. «Incredibile», dissi con un filo di voce.

«La polizia ancora oggi sostiene che si tratta di una montatura, di fantasie, ma in ogni caso…» Si interruppe stringendosi nelle spalle.

«In ogni caso, qualcuno ha ucciso quei bambini», conclusi io.

«È proprio questo il punto», disse infine. «Quello che rende tutto così difficile: alla fine, uno Shadowman c’è stato, anche se in realtà non esisteva.»

Esitai un attimo a replicare. Ero sempre molto cauto nel parlare quando ero nell’Agenzia, perché non volevo sembrare troppo colto, snob o supponente. Non ero più al college e volevo inserirmi in quell’ambiente. Ma in quel momento, forse per l’atmosfera o la situazione, mi sorpresi a fare della filosofia.

«In effetti, la condizione dell’essere umano non è necessariamente legata alla razionalità», azzardai. «Alcune cose esistono pur non essendo reali.»

Weiss si lasciò sfuggire una sonora risata. «Che cosa diavolo significa questo?» Mi accorsi subito di aver commesso un errore. «Che vuol dire, che se anche mi giro, il tavolo non scompare? È questo che vi insegnano a Berkeley?»

Sentii le guance avvampare. «Cercavo solo di dire…»

«Che cosa dobbiamo fumarci per capire?»

«Intendevo solo che… le cose esistono in parte anche attraverso la nostra percezione… È una sorta di interfaccia.»

«Un’interfaccia? Tu sei un’interfaccia? ‘Pur non essendo reali.’ Ma fammi il piacere.» Rise ancora più sonoramente. «E io sono il re di Romania.»


Quella sera passai una buona mezz’ora a sbattere la testa contro il muro del mio appartamento, per punirmi di essermi comportato come un saccente buffone con Weiss. Ero certo che la storiella del mio intervento pseudofilosofico avrebbe fatto il giro dell’Agenzia fin dal mattino successivo, e che sarebbe stata fonte di grandi risate. Ciò mi feriva, perché volevo a tutti i costi cercare di far parte di quel gruppo.

Allora, ai miei occhi loro erano figure di riferimento, soprattutto Weiss e Bishop. Nella mia giovane mente, erano dei grandi: uomini che quotidianamente toccavano con mano il male, sfioravano la morte e rimanevano retti, e sapevano come funzionava il mondo. Certi giorni arrivavo a parlare come l’uno o l’altro di loro, a camminare o a vestirmi come lui, per mettermi alla prova. In ogni caso, pensavo spesso a loro, a come fossero veramente.

Riuscivo a volte a essere severo nel giudicare Bishop. Era un uomo duro, che metteva veramente soggezione. Mi piaceva sentirmi moralmente superiore alla sua natura violenta e a quel suo genere di coscienza, del tutto personale. Ma sapevo fin troppo bene che in cuor mio lo ammiravo, dannazione, non fosse altro che per il suo successo con le donne… avrei dato un braccio anche solo per un quarto di quel successo. Per non parlare poi del suo coraggio, delle moto, dell’abilità come pilota, della paura che riusciva a incutere negli altri. Intorno a lui aleggiava un’aura di pericolo, di letale virilità, caratteristiche molto attraenti per un giovanotto timido che stava cercando di costruire la sua personalità.

Per quanto riguarda Weiss, essendo lui più vecchio, lo accomunavo più a una figura paterna, a un tutore. Avevo un’istruzione superiore alla sua e forse ero anche più intelligente in senso accademico, teorico, ma non potevo che ammirare la sua incredibile esperienza sul campo. Quello sguardo di compassione, quell’atteggiamento grave e pensoso. Si poteva dire che comprendesse la natura umana fino al midollo. Sapeva che le persone, anche le migliori, tradivano e mentivano. Sapeva che si guardavano fra loro con gelosia e nutrivano sogni inconfessabili. Sapeva che avevano un’acuta consapevolezza del grado di corruzione del vicino, e una totale cecità riguardo al proprio. Ma la cosa più importante è che sapeva accettare tutto questo in ognuno di loro, in tutti come in se stesso. Nulla che fosse umano gli era estraneo, e nulla lo stupiva. Non era cinico e credeva nei valori positivi — l’amore, la giustizia — ma sapeva come vanno le cose al mondo. Così come un fiume scende al mare e non può andare in senso contrario, così l’uomo è destinato a soffrire, ecco tutto. In quel periodo, avrei dato qualsiasi cosa per vedere ciò che Weiss aveva visto, per sapere ciò che Weiss sapeva.

Per questo l’idea di essermi reso ridicolo ai suoi occhi, di avergli dato il pretesto per ridere di me, sparlare di me, mettere in giro la voce che ero un universitario saputello che credeva che gli alberi cadessero senza far rumore… be’, questa idea mi abbatteva realmente il morale.

Il giorno dopo mi resi conto che avevo sottovalutato la generosità di Weiss. Sì, raccontò la storia, ma non subito. Fui preso un po’ in giro dall’ufficio, ma nella versione di Weiss la stupidità delle mie nozioni universitarie trovava riscatto grazie alla sua sorprendente utilità. Questo perché, anche se con i miei sproloqui filosofici non lo avevo aiutato a capirne nulla di più su Shadowman, secondo lui avevo risolto il caso della vergine spagnola.

23

Quella stessa sera, Bishop si stava recando al Clover Leaf.

Era ancora sulla soglia e già l’aveva classificato come uno squallido buco. Lo squallido buco di una squallida città. Uno stretto corridoio cieco che terminava con la porta del gabinetto, una stanza che poteva contenere solo la fila di sgabelli addossati al bancone e un paio di tavolini da quattro persone, linoleum grigio sporco sul pavimento, vecchia pannellatura in legno alle pareti. Il tutto condito da musica country proveniente da un jukebox. Anche con la porta d’ingresso aperta per far entrare l’aria della notte, il tanfo di birra e fumo era insopportabile.

C’erano un paio di montanari al bancone, uno con una giacca dell’aviazione militare, l’altro in tenuta da caccia. Quando Bishop apparve, sollevarono i menti barbuti dai boccali, lo squadrarono e, dopo aver deciso che non li importunava, ritornarono a bere. C’erano poi un altro veterano dell’esercito, chiaramente fuori di testa, e, nel punto più scuro del locale, il gorilla di Hirschorn, quello tutto muscoli che aveva parlato con Bishop all’aeroporto. Quando vide il pilota, non fece alcun gesto, ma si limitò a sorridere dietro il bourbon. Gli brillavano gli occhi.

Quanto a Chris Wannamaker, era seduto a un tavolino in fondo, con un braccio appoggiato allo schienale della sedia e le gambe distese. Indossava i jeans, un cappello da cow-boy bianco e una maglietta tagliata che lasciava vedere il tatuaggio e i muscoli. Con lui c’erano un paio di ragazzoni che ridevano sonoramente. Uno di questi, Matt, era un altro pilota della North Country e quando vide Bishop si accalorò. «Ehi, Kennedy», urlò gesticolando nella sua direzione.

Chris invece si raggelò al solo sentirne il nome. Perse il sorriso e la baldanza e non gli staccò più gli occhi di dosso. Bishop si fermò al banco, ordinò una birra, si accese una sigaretta e poi raggiunse gli altri, sempre con gli occhi di Chris addosso.

Bishop prese una sedia e si unì al tavolino. Era appena stato con Kathleen, poco prima. Il sorriso che rivolse a Chris voleva dire: «Il mio cazzo è ancora bagnato di tua moglie». Bishop voleva farglielo capire in tutti i modi, per alimentare la sua rabbia. E in effetti Chris si arrabbiò, senza sapere neanche perché, e guardando il sorrisetto del rivale bevve una lunga sorsata di birra. Bene, fu il pensiero di Bishop.

«Ehi, Kennedy», ripeté Matt ancora più forte, nelle orecchie dell’altro. Si sbracciava e urlava, chiaramente ubriaco. «Forse tu puoi aiutarci. L’articolo centoventuno del regolamento dice: ‘Cloche e bottiglia fanno famiglia’ o ‘Cloche e bottiglia perdi famiglia’?»

Matt e l’altro ragazzo ridevano come pazzi. Bishop accennò un sorriso.

«Nessun vero pilota dovrebbe maneggiare bottiglia e cloche nello stesso momento», disse il terzo ragazzo.

«Per lo meno non con la stessa mano», replicò Matt.

E risero sempre più forte, spingendosi indietro sulle sedie, battendo le mani sul tavolo. Ma non Chris, che rimase a fissare Bishop, a studiarne il sorriso, l’espressione amichevole, senza capire esattamente che cosa gli si volesse comunicare, senza capire che si trattava di sua moglie, o forse facendo finta di non capire.

«Mi sembra che sia a Chris che dovete rivolgervi», disse Bishop calmo. «È sicuramente un esperto in fatto di bottiglie e cloche.»

Ancora risate. «È vero», insistette Matt. «Ho sentito che il vecchio Hirschorn ti ha preso a calci in culo per questo.»

«E non penso, caro Chris, che abbia sprecato il suo tempo con te per niente», incalzò il terzo ragazzo.

«Sapete quali sono le tre cose più inutili nella vita?» chiese Matt. «L’altitudine sopra, la pista dietro e…»

«… e le tette di una suora!» conclusero all’unisono i due.

«Ma la quarta è: chiedere a Chris di abbandonare la bottiglia», aggiunse Matt. «Sì, è questa la quarta cosa più inutile!»

Bishop guardò Chris. Pur con il rumore delle risate e la musica country che rimbombava nell’angusto ambiente, gli parve si udirne il respiro. Guardò oltre, verso il gorilla seduto nell’ombra: stesso gesto con il bicchiere, stessa espressione negli occhi. Tornando su Chris, si chiese quanto fosse ubriaco, e quanto fosse stupido.

«Si dice anche che l’altitudine fa diventare sobri», disse Bishop. «A diecimila piedi, anche un ubriaco si rende conto che non può andare in picchiata.»

«Questo è certo», replicò Matt.

«In genere è però sua moglie a essere picchiata.»

Matt e il suo amico continuarono a ridere, troppo ubriachi per rendersi conto dell’uscita di Bishop. Stavano ancora ridendo quando Chris si alzò di scatto.

«Che cosa cazzo vorresti dire?» domandò.

«Siediti, Chris, mi fai girare la testa», replicò Matt.

«Rilassati», proseguì Bishop. «Stiamo scherzando.»

«Sì, sì, è tutto uno scherzo», aggiunse il terzo ragazzo. «Siediti.»

«Non ti azzardare a riparlare di mia moglie», continuò Chris, mentre si risedeva. Bishop capì che non era poi così ubriaco. «E smettila di ronzarle intorno», sibilò. «Vedi di smetterla.»

Bishop lasciò cadere a terra il mozzicone e lo spense sotto il tacco. «Be’, qualcuno dovrà pur farlo.»

Era troppo. Era veramente troppo. Chris si levò di nuovo e disse: «Alzati!»

«Dai Chris, dacci un taglio», disse Matt, cercando di minimizzare. «Sta solo scherzando.»

«Tu stanne fuori», incalzò Chris. «E tu, alza il culo.»

«Perché dovrei?» rispose Bishop con una cordialità irritante. «Sto ancora bevendo…»

Chris afferrò Bishop per la maglietta e lo fece alzare bruscamente. Ancor prima di essere in piedi, Bishop colpì Chris alla gola. Il pilota strabuzzò gli occhi, mentre il cappello volava via. Cadde al suolo, senza fiato.

Bishop tornò a sedersi. «… una fottuta birra», concluse.

Bevve un sorso mentre Chris, a terra, si alzava appoggiandosi su un ginocchio e una mano, mentre con l’altra si teneva la gola cercando di respirare, con la lingua fuori.

Matt accennò un’altra risata ma, vedendolo in quelle condizioni, tacque e si rivolse a Bishop.

«Cristo, Kennedy, l’hai colpito alla gola.»

«Davvero?» rispose Bishop, e bevve un altro sorso.

Al bancone, i due montanari avevano girato gli sgabelli per godersi la scena, che sembrava divertirli molto. Si scambiavano occhiate significative ed emettevano brevi suoni di approvazione. L’altro avventore si era defilato senza farsi notare e il gorilla di Hirschorn nascondeva ancora il sorriso dietro il bicchiere.

Il barista era un gigante con la testa pelata e una massa di muscoli coperti di tatuaggi. Anche lui osservava lo spettacolo, asciugando i bicchieri.

«Non fatemi venire di là, signorine», disse, sovrastando la musica con una profonda voce rauca e baritonale.

Chris era quasi riuscito a rialzarsi, appoggiandosi allo schienale della sedia. Bishop sorseggiava la birra con aria soddisfatta.

«Sai, Chris, ho una teoria», disse a voce alta. «La vuoi sapere? La mia teoria è che la mano dura con le donne ce l’hanno quelli con il cazzo moscio.» Guardò Chris con aria di complicità, mentre finalmente riusciva ad alzarsi. «Questa è la mia idea. Tu che ne pensi?»

Chris si massaggiò la gola, nel tentativo di normalizzare il respiro. «Maledetto figlio di puttana. Potevi ammazzarmi.»

«Certo, avrei potuto farlo due volte», rispose Bishop. «Una volta quando mi hai messo le mani addosso e la seconda quando eri a terra a fare quei versi patetici.»

A quelle parole, il barista rise di gusto, accompagnato dall’approvazione dei due montanari.

La faccia di Chris, già rossa per il colpo ricevuto, stava diventando viola di rabbia, ma l’uomo era ancora troppo debole per reagire. Puntò l’indice contro Bishop.

«Hai la lingua troppo lunga, bastardo», disse. «Faresti meglio a ricordare che ho degli amici in città. Se li chiamo, sono guai.»

Bishop scoprì i denti, senza voltarsi verso il gorilla nell’angolo. Sapeva che li stava guardando, che i suoi occhi brillavano. E sapeva che aveva sentito la stupida minaccia di Chris.

«Davvero?»

«Puoi scommetterci il culo», continuò Chris.

Bishop estrasse un quarto di dollaro dalla tasca dei jeans e lo lanciò a Chris. La monetina colpì l’uomo sul petto e cadde a terra.

«Chiamali, allora.»

«Okay, Kennedy», disse Matt. «Penso che possa bastare. Beviamoci sopra da buoni amici.»

Ma Bishop non aveva certo intenzione di smetterla. Non ancora, almeno. «Ma sì, che siamo amici», disse. «Io sono amico di tutti. Persino di un leccaculo, codardo, manesco pezzo di merda come lui.»

«Ehi, non male», rise il barista.

Chris si dimenticò della gola e delle sue condizioni: era troppo infuriato. «Fatti sotto», urlò rauco. «Vieni avanti adesso che non puoi prendermi di sorpresa, bastardo fottuto.»

«Bene», replicò Bishop calmo. «Vedo che sei pronto.»

«Fatti sotto e alzati. Combatti da uomo.»

Bishop sorseggiò ancora una volta la birra, mentre il corpo di Chris era scosso da tremiti di tensione e rabbia.

Appoggiò il bicchiere con studiata lentezza. «Combatto da uomo se ho un uomo davanti», disse.

Chris afferrò una sedia e la portò in alto, pronto a romperla in testa all’avversario. Ma si ritrovò ancora una volta a terra, mugolante e con la faccia insanguinata. Bishop si era alzato girando su se stesso e aveva parato il colpo con un braccio. Poi con il gomito aveva colpito pesantemente la bocca di Chris mentre lo spingeva all’indietro, per farlo cadere. Quando lo vide a terra, gli assestò un calcio nello stomaco.

«Quello deve avergli fatto male», aveva osservato uno dei montanari, scuotendo la testa.

«Cristo, amico», disse il terzo ragazzo. «Smettila ora.»

Bishop prese la birra e bevve senza sedersi.

Il barista si sporse sul bancone e disse: «Ehi, mister, penso che tu possa ritenerti soddisfatto».

Bishop annuì. «Lo sono.» Rimase in piedi di fianco a Chris, con la birra in mano. «Se devi dirmi qualcos’altro, sai dove trovarmi», aggiunse guardandolo.

Chris non rispose. Era piegato in due e si lamentava, tenendosi lo stomaco e sputando sangue. Bishop pensò che quel pezzo di merda avrebbe picchiato la moglie per rivalersi dell’essere stato umiliato. Se la sarebbe presa con lei, ma lui non poteva farci niente. Purtroppo questa era la situazione. Bishop doveva screditare Chris davanti al gorilla, doveva far sapere a Hirschorn che lui era meglio dell’altro. E così aveva fatto. Se poi Chris andava a casa a prendersela con Kathleen, erano problemi suoi, tanto peggio, o almeno così Bishop pensava.

Però… rimase ancora un momento a pensare a Kathleen e alle botte che probabilmente avrebbe preso. E sentì ancora quel calore aspro dentro. L’idea che quel bestione la picchiasse lo turbava più di quanto avrebbe voluto ammettere.

Girò il bicchiere e rovesciò la birra rimasta in faccia a Chris. «Buona serata», disse.

Mentre usciva dal Clover Leaf, lanciò un’ultima occhiata furtiva all’energumeno di Hirschorn. Era sempre nella medesima posizione, con il sorriso nascosto dietro il bourbon e gli occhi che sfavillavano.

24

«Non ci posso credere», borbottò l’ispettore Ketchum di malumore.

Weiss trasse un profondo respiro. «Aspetta e vedrai», replicò.

E così aspettarono, il piccolo nero tutto nervi che s’agitava accanto al massiccio Weiss. Si trovavano nel negozio di monete rare di Seymour Hinckel, a North Beach. Era un esercizio piccolo, piacevolmente in penombra, pieno di vetrinette da esposizione. Ogni tanto vi entrava qualche collezionista che si chinava a osservare le monete rare esposte sul velluto nero. Ma in quel momento era deserto, fatta eccezione per Ketchum e Weiss. E il proprietario, Seymour Hinckel, tondo di corpo quanto di testa. Calvo, occhialuto, mite nei modi e leggermente ansimante. Era eccitato di essere coinvolto in un’azione di polizia. Tutti e tre stavano guardando la strada attraverso la vetrina.

«Be’?» disse Ketchum. «Sono qui, no? Sto aspettando.»

Weiss annuì.

«E tu vuoi farmi credere che il tipo che ha ucciso Wally Spender sta per entrare da quella porta.»

«Esattamente.»

«Anche se si tratta di un parto della fantasia di Spender?»

Weiss si strinse nelle spalle. «È un’interfaccia.»

«Un’interfaccia?» incalzò Ketchum, scuotendo la testa. «Tutte stronzate.»

«Eccolo, sta arrivando», esclamò Seymour Hinckel in un soffio. Si agitò inutilmente dietro al banco, sistemando il calendario da una parte e il blocco delle ricevute dall’altra, per poi spostarli di nuovo. Weiss alzò il mento, in attesa, e Ketchum sbuffò; del resto sbuffava sempre per ogni cosa. Tutti e tre stavano osservando l’uomo che aveva assassinato Wally Spender.

Il killer era alto, vita stretta, spalle larghe, pelle color caffellatte. Era il classico bell’uomo arrogante, consapevole del suo aspetto. Lo si capiva dal modo in cui bighellonava per la via, lanciando occhiate indiscrete a ogni donna che procedeva in direzione contraria. Risaliva la strada sul marciapiede opposto al loro e, raggiunto l’angolo di una fila di case in stile vittoriano, scese dal marciapiede per attraversare senza badare alle auto, come se il traffico si dovesse arrestare per lasciar passare uno bello come lui.

«Aspetta che gli sia alle spalle, poi muoviti», disse Weiss.

«Sarà meglio che tu abbia pronta una buona spiegazione, dopo», sibilò Ketchum.

«Tu pensa a fermarlo quando io sono sulla porta.»

Ketchum stava per aggiungere qualcosa ma desistette, con un sospiro visibilmente irritato.

Il killer era arrivato al negozio. Weiss si staccò da Ketchum e finse di osservare una teca di dollari d’argento.

Quando la porta si apri, un campanello tintinnò allegramente. Il killer, procedendo con disinvoltura anche in quello spazio angusto, superò le teche e raggiunse il bancone. Il proprietario tratteneva il respiro, gonfio come un pallone. Mentre s’avvicinava l’uomo esibì un sorriso ampio, tutto denti candidi, accattivante.

Ma Weiss era già in posizione sulla porta e Ketchum gli si parò davanti, sventolandogli il distintivo sotto il naso.

«Carlos Rodriguez…» disse.

Non ebbe occasione di aggiungere altro. Il killer girò sui tacchi, deciso a battersela, ma Weiss era là ad aspettarlo. In un istante il killer impugnò un coltello. Un altro istante dopo, Weiss lo aveva disarmato e Rodriguez si teneva il polso dolorante. Poi Weiss ebbe uno scatto di nervi. Lo schiaffo echeggiò fragoroso nel negozietto e l’uomo finì contro un espositore di monete. Ketchum gli era già addosso. Il poliziotto tutto nervi spinse il killer contro la vetrinetta, gli torse le braccia dietro la schiena e lo ammanettò.

«Congratulazioni», disse il poliziotto. «Sei fottuto a vita.»

Le manette si chiusero con uno scatto. Il killer era ancora bloccato contro la teca. Weiss lo osservava, dominando a fatica la sua rabbia. Poi trasse un profondo respiro. Richiuse il coltello a serramanico e lo tenne in una mano, mentre con l’altra si toccava distrattamente il lobo dell’orecchio. Seymour Hinckel osservava la scena da dietro le spalle di Ketchum. Era così eccitato da sembrare un palloncino sul punto di rimbalzare da una parte all’altra del negozio.

«Che cosa volete da me?» urlò Rodriguez. Erano le prime parole che riusciva a pronunciare.

«Chiudi quel cazzo di bocca», replicò Ketchum. «Tutto quello che voglio sentire da te è ‘ahi’ quando ti do un pugno in testa.»

«Ma che cosa cazzo significa tutto questo…?»

Ketchum lo colpì.

«Ahi!»

«E vedi di moderare il tuo schifoso linguaggio quando parli con un fottuto ufficiale di polizia.»

«Ma non ho fatto niente.»

«Quindi questa sarebbe tutta una stronzata. Usa la testa, caballero, sarei qui a preoccuparmi di arrestare un cazzone come te se tu non avessi fatto niente? Hai ucciso quel poveraccio con la faccia da topo nel vicolo, ecco che cosa hai fatto. Sei uno sporco assassino di merda.»

«No, ve lo giuro, no», insistette Rodriguez.

«’No, ve lo giuro, no’ non è la risposta giusta», lo incalzò Ketchum. «Piuttosto: ‘Sì, ve lo giuro, sì’. E tu sei… ripeti con me adesso… uno sporco… assassino… di merda.»

A questo punto era giunto a destinazione il messaggio di terrore inviato dal cervello di Rodriguez ai suoi occhi, i quali si spalancarono al punto di occupare quasi metà del suo bel viso. Guardò disperatamente i tre uomini in cerca di comprensione, ma Weiss sembrava impassibile, Seymour Hinckel era quasi più spaventato di lui e Ketchum era passato dall’espressione sarcastica che aveva di solito a quella minacciosa che assumeva di tanto in tanto. Il killer non aveva speranze.

Disperato, Rodriguez sputò tutta la verità.

«Mi ha pagato per farlo! Lui, quello con la faccia da topo, non ci stava con la testa. Voleva morire e mi ha pagato per ucciderlo!»

25

Rodriguez stava ancora urlando quando lo spinsero a forza sul sedile posteriore della carretta di Ketchum.

«Ve lo giuro su Dio! Dovete credermi, mi ha pagato e mi ha spiegato come esattamente doveva avvenire il tutto. Mi disse che dovevo fingere che lui avesse violentato mia sorella. Era pazzo, vi dico!»

Ketchum salì al posto di guida. Avviò il motore mentre Weiss si accomodava al suo fianco. Le portiere arrugginite cigolarono, chiuse di scatto dai due uomini.

«D’accordo, Weiss», disse Ketchum. «Sentiamo. Come ci sei arrivato?»

La macchina si scostò dal marciapiede e imboccò direttamente la ripida discesa della collina. Weiss doveva alzare la testa per vedere il mare che brillava poco distante.

«Nessun altro aveva il movente», rispose con tono pacato.

«Ehi, gente, che cosa vi sto dicendo!» intervenne la voce di Rodriguez dal sedile posteriore. «Quello psicopatico mi ha pagato. Non sono andato a cercarlo; è venuto lui da me. Io me ne stavo buono buono al bar…»

«Per Dio», urlò Ketchum, e Rodriguez sobbalzò. «Stiamo cercando di parlare, qui davanti.»

«Volevo solo dire…»

«Non costringermi a fermare la macchina, intesi?» Ketchum si voltò e puntò il dito contro il killer. «Se mi costringi a scendere, giuro che ti spezzo le gambe.»

Rodriguez si zittì, in preda alla disperazione. Weiss, nel frattempo, stringeva gli occhi preoccupato fissando il parabrezza. Ma Ketchum si voltò in tempo. Una vecchia cinese stava attraversando con un carretto carico di ortaggi. Ketchum si girò appena in tempo per evitarla.

«Pazza d’una puttana cinese», imprecò, sforzandosi di mantenere il controllo dell’auto. «Dicevamo…?»

«Dicevamo che nessuno aveva un motivo per uccidere Spender», proseguì Weiss. «Sua madre aveva solo lui, quindi non è stata lei. E a nessun altro importava di lui. Non è stato neanche rapinato, quindi il movente non era questo. L’unico che avrebbe tratto vantaggio dalla sua morte era Spender stesso.»

«Lui stesso…» fece eco Ketchum. «E che cosa ne avrebbe ricavato?»

«Be’, l’avverarsi di un sogno.»

«Era completamente fuori», mormorò Rodriguez.

«Ehi», disse Ketchum, alzando un dito minaccioso davanti al retrovisore.

Weiss continuò: «Voleva che la storia che aveva tante volte vissuto nella sua immaginazione diventasse realtà, anche se questo significava morire davvero. Doveva solo procurarsi qualcuno che interpretasse il fratello assetato di vendetta».

«Non era meglio se pagava qualcuno per interpretare la ragazza? Sarebbe stato molto più divertente.»

«Ci ha provato, ma non ha funzionato.»

«Cilecca…?» chiese Ketchum. «Il suo coso…»

«Lo ha lasciato per strada. Non gli restava che questa seconda opzione. Si trattava di capire come avesse potuto attuarla. Gli Spender non avevano certo i quattrini per pagare un killer. Poi mi sono ricordato che, mentre ero nella stanza di Wally, avevo notato una collezione di monete da cui mancavano i pezzi di valore. Lì per lì ho creduto che non potesse permetterseli, ma dopo l’omicidio mi è venuto in mente che probabilmente li aveva venduti per assoldare il suo assassino.»

«Giuro che non finisco mai di stupirmi delle stronzate che la gente riesce a concepire», replicò Ketchum.

«Ho scoperto di quali monete si trattava e ho fatto un po’ di telefonate ai negozi specializzati. Così ho trovato Hinckel e, con mia sorpresa, ho saputo che Spender non aveva venduto personalmente le monete, l’aveva lasciato fare al suo assassino, non è vero, Carlos?» Lanciò un’occhiata dietro di sé. «Come sono andate le cose? Spender ti ha detto che le monete avrebbero acquistato valore se le tenevi per un po’.»

«Già», rispose Rodriguez con tono rassegnato.

«Ci sono, ci sono», disse Ketchum. Guardò il ragazzo attraverso il retrovisore. «Ti dice di tenerle e tu invece, da bravo imbecille, per quanto tempo resisti? Quarantotto ore?»

«Volevo essere sicuro che fossero buone. Come potevo saperlo?» e la parole si persero in una sequela di oscenità.

«Così», proseguì Weiss, «Hinckel si fa dare i dati per la vendita da Carlos, che lascia un indirizzo falso, ma il vero numero di cellulare.»

«Perché è stupido», incalzò Ketchum.

«Esatto. Così, una volta individuato Hinckel, gli ho chiesto di richiamare Carlos e dirgli che si era sbagliato nel valutare una moneta, e gli doveva ancora circa duemila dollari.»

«Ed eccolo qui», disse Ketchum con un sorriso soddisfatto. «Che cosa te ne pare, Carlos? L’unico motivo per cui sei stato preso è che sei un pezzo di merda imbecille. Questo dovrebbe farti stare meglio quando marcirai in prigione.»

A quel punto tacquero, ognuno immerso nei suoi pensieri. Al termine della discesa, l’auto fece una specie di salto prima di imboccare la successiva salita, che era quasi verticale. Sul parabrezza apparve un cielo azzurro e una candida nuvola illuminata dal sole.

Poi Ketchum ridacchiò fra sé e sé prima di dire: «Sai, mi piace questa storia. Il Topo sogna di violentare una ragazza inventata e assolda questo cazzone qui dietro per realizzare il suo sogno. Che ne pensi, Carlos? In fin dei conti, come assassino esistevi solo in quanto prodotto della fantasia della tua vittima. Ora che lui è morto, tu scompari». Ridacchiò ancora, con un suono cupo. «Sei un’interfaccia, amico, ecco che cosa sei.»

Weiss si voltò verso Ketchum, con la solita espressione grave in faccia. Lasciò passare un momento, poi disse: «Ketchum, devo parlare con mister Falsa Identità».

La risatina di Ketchum si soffocò in gola. «Che cosa cavolo stai dicendo?»

«Whip Pomeroy, e in fretta anche. Devo parlargli prima possibile.»

L’ispettore lanciò un’occhiata di sbieco al suo vecchio amico, al suo unico amico. «Mi prendi in giro?» Ma l’espressione di Weiss non cambiò. «È in custodia chissà dove. Come diavolo faccio a portarti da lui?»

La macchina si fermò in precario equilibrio in cima alla salita. Davanti a loro passò un tram che si stagliò contro il cielo, scampanellando. Ketchum ne approfittò per guardare Weiss negli occhi. L’espressione di quest’ultimo era immutata: sempre quello sguardo grave, stanco del mondo.

Ketchum ritornò a fissare la strada, scuotendo la testa disgustato.

«Non ci posso credere», sospirò.

26

Il mattino dopo, quando Weiss entrò, avevo i piedi appoggiati sulla scrivania e il Chronicle aperto davanti a me.

«Ti pago per questo?» lo sentii dire.

«Non proprio.» Chiusi rumorosamente il giornale e abbassai i piedi. «Comunque stavo leggendo le sue eroiche imprese.»

«Vorrai dire le tue imprese, non le mie.»

«Mie? In che senso?»

«Nel caso della vergine spagnola, il killer… era proprio come hai detto tu: un’interfaccia. Esisteva pur non essendo reale.»

Risi e arrossii contemporaneamente. «D’accordo, d’accordo, mettiamoci una pietra sopra.»

«No, sono serio, penso che cambierò l’insegna sulla porta: INDAGINI ACCURATE MEDIANTE NONSENSE FILOSOFICI.»

«Lavoro, condivido la vita del gruppo, cerco di dare un contributo, e che cosa ricevo in cambio?»

«INVESTIGATORI SEMPRE AL VOSTRO SERVIZIO, CHE CI SIANO O CHE NON CI SIANO.»

«Niente altro che derisione e mancanza di rispetto.»

Weiss era in piedi accanto a me con le mani in tasca, visibilmente divertito. Dopo pochi secondi indicò il giornale con il mento e disse: «Allora, che ne pensi?»

«Di che cosa?» replicai. «Del caso Spender? Proprio non lo so.»

«Dai, sei tu il pensatore qui dentro. Si tratta di una di quelle stronzate psicologiche? Si sentiva in colpa per via delle fantasie? Voleva punirsi?»

Feci una smorfia. «Forse. Ma a me sembra semplicemente che preferisse la morte alla realtà. Sono in molti a pensarla così, ma in pochi riescono a rendersene conto.»

Fui gratificato dall’espressione pensosa di Weiss. Stava allontanandosi, ma all’ultimo istante si girò e disse: «A proposito, ti affianco a Sissy nel processo Strawberry».

Non capii subito, o almeno non credetti a quello che avevo sentito. Poi l’eccitazione crebbe. «Vuol dire che…?»

«Ha bisogno di un assistente per seguire un paio di testimoni.»

L’aveva detto sul serio, mi aveva assegnato un caso vero. Era la prima volta ed era un bel passo in avanti per me. «Grazie, grazie mille», dissi. «È fantastico, davvero, grazie ancora.»

«È la ricompensa per aver risolto il caso della vergine.»

«Bene, perfetto! È fantastico!»

«Ora mi giro, d’accordo? Non scomparire.»

«Oh, basta!»

Raggiunse il suo ufficio e lasciò la porta aperta. Sentii che faceva un sospiro profondo e si calava pesantemente sulla sedia. Iniziai a organizzare il lavoro sulla scrivania, sorridendo. Intanto sentii che aveva acceso il computer e stava controllando la posta. Il caratteristico suono annunciò l’arrivo di un messaggio. Bishop, pensai.

Ci fu una pausa di silenzio, in cui probabilmente Weiss lesse la posta. Io presi il ricevitore per chiamare Sissy Truitt e annunciarle che aveva un nuovo assistente.

In quel momento fui raggiunto da un grugnito di Weiss.

«Ma che cazzo mi combina?» lo sentii esclamare, e udii il rumore della sua mano che picchiava sulla scrivania.


Qui la situazione è molto instabile. Chris Wannamaker sta per essere messo da parte. Abbiamo avuto un confronto e Hirschorn sicuramente l’ha saputo. Molte incognite: quando Kathleen cederà e dirà tutto al marito, come lui reagirà, quale decisione prenderà Hirschorn. Non vedo però altro modo per procedere. Parlando con Kathleen ho avuto la sensazione che neanche Chris sappia che cosa sta accadendo. Solo Hirschorn ne è al corrente e devo cercare di stargli addosso. Qualsiasi cosa stiano organizzando, accadrà presto. C’è poco tempo, farò del mio meglio. JB.

27

Quel mattino Driscoll era avvolta in una luce pallida e tersa. Era presto e la calura non era ancora salita. Il quartiere era tranquillo, gli uomini stavano andando al lavoro e anche qualche donna, i bambini erano ai campeggi estivi. Un cane abbaiava e, qua e là, si sentiva il ronzio degli irrigatori. Una tortora appollaiata sui fili del telefono cantava la sua lamentosa canzone.

Bishop era seduto davanti alla finestra della camera da letto e guardava Chris che picchiava Kathleen. Erano di sotto, in soggiorno, e stavano litigando da dieci minuti quando Chris l’aveva colpita con uno schiaffo sulla guancia.

«Ah, maledetto!» urlò la donna, cercando di colpirlo in faccia con un pugno. Ma Chris schivò il colpo e, più furente che mai, la picchiò ancora, così forte che Kathleen cadde al suolo, sul fianco. La fronte sbatté sullo spigolo imbottito del divano.

Bishop contrasse l’angolo della bocca quando la vide cadere: per uno come lui era la massima espressione di disagio. Tuttavia non si mosse, rimase a guardare, seduto alla scrivania, fumando nell’ombra. Le luci della stanza non erano accese e la finestra era appena aperta; poteva però vedere bene i Wannamaker e udirne anche le voci, quando gridavano.

«Voglio quella testa di cazzo fuori da quella casa, subito!» gridò Chris alla moglie, a terra.

Lei gli rispose urlando, fra le lacrime: «È casa mia e l’affitto a chi cazzo mi pare!»

Gli occhi di Chris esprimevano tutto il suo furore. Camminava avanti e indietro incombendo su di lei e, anche da una certa distanza, Bishop poteva vedere i segni che gli aveva lasciato due sere prima, al Clover Leaf. Un ematoma rosso-violaceo copriva un’intera guancia; era lì che gli aveva assestato la gomitata. Con quel livido in faccia, Chris sembrava un mostro, soprattutto mentre camminava in quel modo, come un animale in gabbia, agitando il dito davanti alla moglie, urlando e digrignando i denti.

Aveva abbassato la voce, ma alcune parole arrivavano ancora a Bishop: «… ti ronza intorno…»

Kathleen rispose. Bishop non sentì le sue parole, ma intuì che fossero altri insulti, perché Chris la colpì con un calcio dietro la coscia. La donna urlò, strisciando via sul pavimento, e rimase piegata su un fianco, ansimante, tenendosi la gamba. Chris continuava a camminare avanti e indietro, sovrastandola. «Puttana!» urlò a un certo punto. Bishop vide il corpo della donna scosso dal pianto.

Aspirò un’altra boccata di Marlboro. Gli occhi chiari, freddi e privi di espressione, si strinsero a fessura mentre il fumo saliva.

All’improvviso il telefono squillò rumorosamente. Bishop afferrò il ricevitore, spense la sigaretta e rispose. «Sì?»

«Parlo con Frank Kennedy?»

Bishop si distese sulla sedia. Non riconobbe la voce sottile e affettata che proveniva dall’altro capo del filo, tuttavia intuì di chi potesse trattarsi. Si girò per non farsi distrarre dalla scena nella casa vicina. «Sì, sono Kennedy.»

«Bene, signor Kennedy, mi chiamo Alex Wellman e sono l’assistente personale di Bernard Hirschorn.»

«Ho capito. Che cosa posso fare per lei?»

«Il signor Hirschorn mi ha detto di combinare un incontro fra voi, se possibile.»

Bishop sorrise a denti stretti e rispose con distacco: «Certamente. Quando vuole che ci incontriamo?»

«Oggi a mezzogiorno, il suo ufficio è alla fondazione Driscoll.»

«Ci sarò.»

«Perfetto, grazie.» La comunicazione fu interrotta.

Bishop ripose la cornetta e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. A pensarci bene, la situazione era positiva. Hirschorn voleva vederlo e ciò significava che, probabilmente, il suo piano aveva avuto successo. Forse, quando gli era giunta notizia del diverbio al Clover Leaf, Hirschorn aveva già dei dubbi sull’opportunità di impiegare Chris come pilota. Forse stava addirittura considerando di assumere Bishop per sostituirlo. Bene, pensò, potrebbe essere un’ottima cosa.

Bishop si alzò e tornò alla finestra, a osservare quanto accadeva nella casa a fianco.

Non si udivano più le grida e Chris era in ginocchio. Kathleen era ancora a terra, sdraiata sul dorso, con le gambe piegate come per difendersi. Chris le parlava gentilmente, con l’espressione contrita, e Bishop pensò che stesse piangendo. Muoveva le mani avanti e indietro come se volesse spiegarle qualcosa, o farsi perdonare. Poi le mise una mano sul polpaccio, ma Kathleen si ritrasse. Lui continuò, facendo salire la mano verso la coscia e poi più su, cercando di costringerla con il corpo ad aprire le ginocchia. Si chinò su di lei.

Kathleen gli mise la mano sul petto per allontanarlo e voltò la faccia. Ma lui insistette con dolcezza, parlando con calma, cercando di spiegare. Le braccia di lei si rilassarono, gli appoggiò le mani sulle spalle. Teneva il viso sempre girato, ma lui le accarezzò i capelli finché lei non si voltò e non si lasciò baciare sulle labbra, alzando una mano a sfiorargli la guancia ferita in un gesto quasi tenero. Non fece resistenza quando lui le sfilò i pantaloni.

Bishop continuò a guardarli, e pensò a che cosa ne sarebbe stato di Chris se Hirschorn avesse deciso di sostituirlo. Forse l’avrebbero ammazzato per chiudergli la bocca. In effetti, era plausibile. Probabilmente Hirschorn avrebbe ucciso Chris, perché l’operazione doveva essere di tale portata da non poter rischiare che lui parlasse.

Kathleen era ancora immobile sul pavimento e Chris era dentro di lei. Erano abbracciati, stretti uno all’altro, ma Kathleen era girata verso la finestra e sembrava guardar fuori distrattamente, sembrava pensare ad altro. Era come se il suo sguardo fosse rivolto verso la finestra di Bishop, mentre Chris si muoveva dentro di lei. Con le luci spente e il sole che batteva in quella direzione, sicuramente lei non lo vedeva, ma Bishop capì che probabilmente pensava a lui.

Continuò a guardare. Pensava alla telefonata appena ricevuta, a come Hirschorn avrebbe ucciso Chris se lui l’avesse sostituito. Guardava Kathleen che, a sua volta, lo guardava. Chris emise un ultimo gemito e si adagiò sopra di lei.

Bishop chinò il capo e si chiese se Hirschorn avesse intenzione di uccidere anche lei.

28

La motocicletta sobbalzava sotto di lui mentre percorreva la lunga strada sterrata. In quel tratto, le querce creavano una piacevole e fresca penombra. Quando gli alberi finirono, il caldo divenne soffocante, ma la proprietà si manifestò in tutta la sua ampiezza. C’erano prati ondulati in ogni direzione e irrigatori in ogni angolo. I giardinieri — otto o dieci che fossero — si muovevano fra aiuole di fiori viola o erano inginocchiati a curare il prato. Qua e là c’erano piccoli stagni dalle acque immobili dove si riflettevano il sole, il cielo e le montagne circostanti. Il luogo era incorniciato da una catena di monti scuri che sembravano raggiungere le nuvole candide. Il ranch di Hirschorn — ovvero della fondazione — era stato costruito ai piedi delle alture, al riparo degli alberi. Quella non era, pensò Bishop, semplicemente il rifugio di un boss locale. Piuttosto la residenza rispettabile di un pezzo grosso della malavita organizzata.

La strada piegò a destra e la Harley di Bishop seguì la curva, dirigendosi verso la casa, che apparve imponente e grandiosa. Era gialla con le rifiniture bianche e il tetto spiovente, su cui si aprivano tre lucernari. Una serie di porte finestre davano sul portico che girava tutto intorno all’edificio, sostenuto da pilastri e collegato alla strada da una scala di mattoni.

Bishop andò a fermarsi davanti alla scala; mentre spegneva il motore, la porta d’ingresso si aprì. Apparve un uomo piccolo e magro, dal portamento rigido e altezzoso come quello della casa, anche se le dimensioni non erano in proporzione. Le labbra erano strette, il naso arricciato come se sentisse un cattivo odore. L’assistente personale, pensò Bishop, Alex Wellman.

Scese dalla moto, si tolse il casco e lo appese al manubrio. Poi salì le scale andando incontro a Wellman, che introdusse Bishop nella stanza principale della casa. Le numerose porte finestre rendevano l’ambiente molto luminoso. C’erano tappeti in stile spagnolo e pesanti mobili in quercia, piccole statuine in bronzo di cavalli e bisonti sui tavolini e sugli scaffali. Una domestica messicana era indaffarata a pulire l’enorme camino di pietra. I pesanti stivali da motociclista di Bishop pestarono rumorosamente sul pavimento nel passare accanto alla donna.

I due uomini raggiunsero la porta della biblioteca.

«Signor Hirschorn, il signor Kennedy è qui per l’appuntamento», disse Wellman, molto formale.

Hirschorn stava girando intorno alla sua immane scrivania, con la mano protesa e il sorriso sul volto abbronzato. Era in maniche di camicia. Doveva avere circa sessant’anni, ma l’aspetto era quello di un uomo forte e solido.

«Signor Kennedy», disse, stringendo energicamente la mano del pilota. Lo squadrò e annuì, come se trovasse in lui qualcosa che gli piaceva. «Venga, venga, si accomodi.»

Bishop entrò e vide i due gorilla, appoggiati uno accanto all’altro a una parete. Uno era il primate dalla faccia ebete del Clover Leaf; l’altro era un tipo piccolo e vagamente isterico, tutto nervi e occhi.

Hirschorn indicò il più grosso. «Ha già conosciuto il mio autista, il signor Goldmunsen.» Spostò poi il braccio verso il più piccolo, che si sollevava sulle punte incapace di stare fermo, come se dovesse partire a razzo verso il soffitto, e aggiunse: «Questo è il suo collega, il signor Flake».

Wellman, intanto, indietreggiava quasi invisibile, nascosto nell’ombra, lui stesso un’ombra che si dissolse nell’aria accompagnata dal rumore della porta che si chiudeva.

Hirschorn raggiunse il lato della scrivania dove si trovava una poltrona di pelle, e vi si sedette come se fosse il suo trono. Non chiese a Bishop di accomodarsi e il pilota rimase in piedi, nel centro della stanza, osservato dai due gorilla.

«La farò sedere tra poco», disse il vecchio. «Ma prima, il signor Goldmunsen le darà un pugno nello stomaco. Lei probabilmente cadrà piegato dal dolore e resterà senza fiato per qualche minuto.»

Bishop sorrise appena, in modo forzato. Guardò Goldmunsen, poi Hirschorn, e disse, senza scomporsi: «Ne è certo?»

«Oh, sì.» L’uomo dai capelli d’argento emise una breve risata. «Lo sono perché, se non glielo permetterà, chiederò al signor Flake di estrarre la pistola e di spararle nei testicoli. Sono certo che preferisce il pugno.»

Bishop smise di sorridere. Goldmunsen si fece avanti, mentre il pilota scrutava Flake. Non aveva estratto la pistola, ma Bishop credette sulla parola che ne aveva una e che l’avrebbe usata se Hirschorn glielo avesse chiesto. Goldmunsen era davanti a lui, sogghignante.

Bishop dovette fare un grande sforzo per controllarsi e non opporre resistenza. Indurì i muscoli addominali, ma non servì a molto. Il pugno del gorilla si rivelò molto potente e il pilota crollò sul pavimento piegato in due, come Hirschorn aveva predetto.

«Grazie signori, è tutto», disse il boss ai gorilla.

Passò qualche istante e Bishop si rese conto che i due se ne erano andati.

Pochi minuti dopo, Hirschorn disse: «Ora può sedersi, signor Kennedy».

Bishop si trascinò fino al divano e si tirò su. Era di pelle come la poltrona di Hirschorn, ma morbido, e ci si sprofondava dentro. Appoggiato a un bracciolo, le mani strette allo stomaco, dovette allungare il collo per vedere in faccia il vecchio che lo scrutava dal suo trono.

«A proposito di quell’incidente al Clover Leaf, l’altra sera», disse Hirschorn, «lei deve capire che Wannamaker è un mio impiegato e, oltretutto, il figlio di un mio compagno di scuola, che ha lavorato con me finché è morto, l’anno scorso.» Teneva la mano alzata come per prevenire qualsiasi intervento del suo interlocutore. Ma Bishop non era ancora in grado di parlare. «Mi rendo conto che di tanto in tanto insorgano questioni personali e che sia necessario affrontarle. Siamo uomini e conosciamo le regole.» Sorrise e gli occhi azzurri furono attraversati da un lampo. Ma il messaggio non era che la vita è un’allegra cavalcata in cui ci si può prendere delle libertà; il messaggio era che, se lo avesse voluto, quell’uomo poteva far spazzare via Bishop dalla faccia della terra come una macchia di merda dalla biancheria. Per il pilota, ancora senza fiato e privo di forze, quell’occhiata fu come un essere strisciante e appiccicoso che gli fosse salito su per la spina dorsale.

«Comunque», proseguì Hirschorn, «in questa città — la mia città — le cose vengono affrontate in un certo modo… il mio modo. E se lei ha una questione aperta con un mio impiegato, personale o non, deve chiarirla prima con me. Perché, come spero la lezione le abbia insegnato, ci sono cose peggiori di un pugno nello stomaco. E se lei mi disturba, signor Kennedy, quelle cose potrebbero accaderle senza che lei quasi se ne accorga. Ci siamo capiti?»

Bishop si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano, riuscì a raddrizzarsi un poco e annuì. «Sì», sussurrò.

«Bene.» Hirschorn si alzò per continuare in un tono più colloquiale. Era passato al lavoro, adesso. «Vediamo ora che cosa possiamo fare uno per l’altro.»

Andò alla finestra dietro la scrivania e si piantò davanti ai vetri, con le gambe leggermente divaricate e le mani dietro la schiena. Osservava le sue montagne, le sue valli, il suo potere. Dava le spalle a Bishop per fargli una volta di più capire il messaggio: il pilota era in suo potere, ma non valeva la pena di avere paura. Bishop tuttavia non aveva bisogno di altre precisazioni; sapeva di non dover temere un pericolo… almeno per il momento. Aspettò appoggiato allo schienale, con gli occhi inespressivi, il fiato ancora corto, lo stomaco dolorante.

Hirschorn infine si girò. L’espressione del volto, in ombra per la forte luce del sole che lo colpiva alle spalle, era indecifrabile. Fu una sagoma circondata da un alone luminoso che disse: «Qualche settimana fa, ho ricevuto un incarico da… un mio socio. Si tratta di un incarico molto importante, così come è molto importante il mio socio; è richiesta la presenza di un pilota esperto».

«Chris», gracchiò Bishop, cercando di scandire ogni lettera con il maggior disgusto possibile.

Hirschorn abbassò il mento, forse per sorridere. «Già, Chris. Il pilota doveva essere lui. Avevo poco tempo e, come ho detto, lui è il figlio di un mio vecchio amico che, per giunta, aveva bisogno di una mano. Perciò l’ho coinvolto.» Compì un gesto di rassegnazione. «Si cerca di essere generosi, di essere leali con gli amici e… non sempre funziona. Come lei ha sicuramente notato, Chris non è molto attento nei suoi rapporti con il prossimo, soprattutto quando è ubriaco. Cosa che, sembra, accada alquanto spesso. Quindi la situazione è questa: ho bisogno di un pilota, adesso.» Avanzò, uscendo dal raggio di luce. Guardò Bishop dall’alto in basso e aggiunse: «Lei diceva di volere un lavoro…»

«Esatto», rispose Bishop, tirando il fiato.

«Molto bene, anche perché il suo curriculum sembra perfetto per l’occasione.» Hirschorn tornò a sedersi alla scrivania e aprì una cartellina appoggiata sul piano. «Frank Kennedy, nato a Santa Maria, California, da Steve e Marcy. Una sorella minore, Susan. Arruolato nell’esercito… molte le assegnazioni… Texas, Louisiana eccetera eccetera… Perfetto, ha volato con la Compagnia Bravo in Medio Oriente ed è anche stato insignito della stella d’argento oltre che della medaglia al valore… Da allora si è dato da fare, a quanto vedo. Qualche guaio con la legge, arrestato per violenza aggravata a… Seattle… no, a Phoenix. Le accuse sono cadute. A Seattle si è trattato di aggressione con uso di un’arma letale, ridotta poi a un’accusa per semplice atto di violenza. Tre mesi di condanna. È fuori in libertà vigilata. Il suo garante sarà alquanto spazientito di non averla vista in giro, recentemente.» Bishop lo guardò, per coglierne il sorriso soddisfatto. «Spero che sia impressionato dalla nostra abilità nell’ottenere tutte le informazioni che vogliamo.»

«Certo», rispose Bishop in tono anonimo. In realtà, ciò che veramente lo impressionava era l’abilità di Weiss. Era in quei momenti che si sentiva veramente ammirato e fiero del suo datore di lavoro. Weiss era un genio nel creare false identità, nell’adattarle perfettamente alle situazioni, nel concepirle esattamente come dovevano essere. Il modo in cui poi riusciva a far credere ai vari investigatori di essere stati loro a scoprirle era geniale. Così, in quel momento, il ricco e potente Hirschorn, che aveva a sua disposizione infinite risorse per rintracciare il passato di una persona, si vantava in realtà, a sua insaputa, di essere stato fregato da Weiss. Bishop lo fissò, pensando a che razza di topo di fogna arrogante fosse e a come lui l’avrebbe incastrato, per poi portare la sua testa a Weiss come trofeo. «Certo», ripeté. «Sono molto impressionato.»

«Bene», disse Hirschorn chiudendo la cartelletta. «Molto bene.» Si scostò dalla scrivania e si alzò per aggiungere: «Spero si sia ormai reso conto che l’operazione che sto organizzando è alquanto rischiosa». Girò intorno alla poltrona di pelle e si sedette ancora in modo da poter dominare Bishop dall’alto. «Perché le sto chiedendo di unirsi a noi in un’impresa che potrebbe costarle la vita.»

Lo disse in modo melodrammatico, ma Bishop sollevò appena il sopracciglio e rispose: «La mia vita ha un grande valore per me».

«Diciamo, centomila dollari?»

«Diciamo che potrebbe andare.»

«Per un giorno di lavoro.»

Bishop annuì. «Perfetto.»

«Fortunatamente, la fase preliminare è ormai conclusa. Tutto il materiale da trasportare è già stato trasferito. Quindi ho bisogno di lei per un unico volo, l’ultimo volo, che dovrà avvenire fra due giorni. Ci sta?»

«Può darmi qualche dettaglio in più?» chiese Bishop.

«No, mi spiace.»

«Va bene lo stesso, per centomila dollari posso accontentarmi.»

Hirschorn annuì. Non aveva più il sorriso benigno sotto i baffi argentei. I suoi occhi non erano più amichevoli. Guardava Bishop con calcolata attenzione, come per studiarne le reazioni mentre proseguiva. «Ecco che cosa deve fare. Ci vediamo all’aeroporto domani alle sei. Voleremo fino a una certa destinazione e, una volta là, le diremo ciò che è necessario che sappia, niente di più. Da quel momento, non potrà lasciare il luogo o comunicare con qualcuno all’esterno per nessuna ragione, finché l’operazione non sarà conclusa. Mi dispiace dover prendere tutte queste precauzioni ma, lei capisce… sono certo della sua buona fede, ma non si sa mai. Questo mio socio… be’, è un tipo… alquanto esigente… estremamente esigente», ripeté in un filo di voce. E qualcosa nel tono, nel modo in cui pronunciò queste ultime parole, fece capire a Bishop che Hirschorn aveva paura; ne era quasi certo, l’uomo aveva paura del suo socio. Gli ritornò in mente l’e-mail di Weiss: «Sembra esserci un legame fra queste persone e un sicario professionista che la polizia chiama Shadowman…»

«Diciamo che non sono lieto di aver dovuto modificare i piani all’ultimo minuto, soprattutto per un’operazione così complessa», continuò Hirschorn. «Per adesso quello che deve sapere è che si tratta di un buon affare, ma dal momento in cui lei ne entra a far parte, devo essere sicuro che terrà la bocca chiusa. Questo è tutto.»

Bishop annuì, riflettendo sulla trappola in cui si stava cacciando. Perché di una trappola si trattava, non vi erano dubbi. Doveva farsi portare in un luogo segreto, non essere reperibile fino alla fine del lavoro e poi… che cosa diavolo pensavano di farne di lui, una volta che il lavoro fosse finito? Pagarlo e semplicemente salutarlo con una stretta di mano? Uno che non sapevano quasi chi fosse, di cui non sapevano se fidarsi o meno? Stronzate. Centomila dollari per un giorno di lavoro erano veramente troppi; una bella pallottola in testa era sicuramente più economica, e soprattutto più sicura.

Weiss andrà sicuramente su tutte le furie, quando lo saprà, si ritrovò a pensare: lo avrebbe tolto dal caso non appena fosse stato informato.

E dunque doveva solo accertarsi che Weiss non lo venisse a sapere finché non fosse stato troppo tardi.

«C’è un’ultima cosa», aggiunse Hirschorn, immobile sulla poltrona con le mani in grembo, le dita intrecciate. Anche se il vecchio sembrava rilassato, Bishop ne intuiva la tensione, sentiva — quasi fisicamente — i nervi vibrare. «Se non se la sente di farlo, la capirò. Non ci saranno problemi, nessuna minaccia. Ma deve decidere adesso. Una volta che è dentro, non ci sarà più possibilità di uscirne, nessuna possibilità.»

Bishop era ancora sprofondato nel divano, la mano sullo stomaco, gli occhi cupi nel viso pallido. Una trappola, continuava a pensare. Una trappola, in piena regola.

«Se salirà con me su quell’aeroplano domani», gli ripeté Hirschorn, «tornerà a casa con centomila dollari in tasca… oppure non tornerà. Non so se mi spiego.»

Bishop annuì ancora. Pensò: Cristo; ma disse: «Certo, capisco».

«Allora, ci sta?»

«D’accordo.»

29

Quel pomeriggio Weiss guidò fino a Half Moon Bay, lungo la costa. Dall’oceano spirava una brezza piacevole e l’aria era tersa. Le colline circostanti erano coperte di alti pini verde scuro e nuvole perlacee s’inseguivano sul mare, che s’intravedeva fra le piante. Nella sua vecchia Taurus grigia, Weiss ignorava il panorama e rimuginava tra sé ripensando all’ultima e-mail di Bishop, cosa che, come sempre, gli rovinava la digestione.

«Qui la situazione è molto instabile. Chris Wannamaker sta per essere messo da parte. Abbiamo avuto un confronto e Hirschorn ha ormai scelto…»

Tutte stronzate. Ogni singola parola era una stronzata. Weiss gli aveva espressamente chiesto, senza possibilità di essere frainteso, di «non farsi ulteriormente coinvolgere nell’operazione finché non scopriva qualcos’altro». Ma fra le righe di quest’ultimo messaggio Weiss poteva leggere che questo era esattamente ciò che quel cane sciolto di Bishop stava per fare. Perché si sarebbe scontrato con Chris Wannamaker, se non per svilirlo agli occhi di Hirschorn e mettersi in luce come un possibile sostituto? E per ottenere cosa? «Molte incognite: quando Kathleen cederà e dirà tutto al marito, come lui reagirà, quale decisione prenderà Hirschorn…» In parole povere, la situazione poteva esplodere da un momento all’altro. Se Kathleen si fosse fatta prendere dai sensi di colpa, o se avesse deciso di usare la sua storia con Bishop per chiudere con il marito. E se Chris avesse scoperto che lei dava informazioni a Bishop, oppure l’avesse scoperto Hirschorn…

In quel momento, Weiss non sapeva se ciò che lo faceva stare peggio era la collera o il senso di colpa. La collera nei confronti di Bishop, che metteva in pericolo la sua vita e quella delle altre persone coinvolte; o il senso di colpa per il fatto che lui, Weiss, non aveva intenzione di fermarlo.

«C’è poco tempo.» Così aveva scritto Bishop. Ed era la verità. Il tempo era veramente poco. Qualsiasi cosa stesse per accadere, Weiss sentiva che sarebbe accaduta presto. Non aveva idea di che cosa fosse, ma c’erano altri pezzi del puzzle che stavano iniziando a trovare il loro posto. E più ne scorgeva i contorni, meno gli piaceva.

Weiss aveva uno strano modo di procedere, basato sull’intuito. Ho spesso pensato a lui come a un artista in questo campo. Aveva l’abilità di riuscire a pensare con la testa degli altri, anche se erano degli sconosciuti, se non li aveva mai incontrati. Riusciva a immaginarsi che cosa avrebbero fatto e, senza che lui sapesse come, gli si presentava alla mente lo scenario di ciò che era accaduto o che doveva accadere.

Anche in quel momento stava per succedere. La morte di un ricco criminale, Cameron Moncrieff, il suicidio del suo giardiniere, Harry Ridder, il possibile suicidio della sua assistente, Julie Wyant, l’incarcerazione del suo amante, Whip Pomeroy, che patteggiava con i federali in cambio di protezione contro il fantomatico Shadowman. Tutto ciò iniziava ad avere un senso nella testa di Weiss; i comportamenti delle singole persone iniziavano a formare un unico quadro.

E insieme alla comprensione arrivava anche la sensazione di urgenza, di paura, di cui era solo vagamente consapevole. In un modo che non sapeva definire, questa sensazione era legata al nome di Julie Wyant. Anche se, presumibilmente, la ragazza era morta, anche se la polizia era sicura della sua dipartita e anche se lui stesso pensava che fosse deceduta, non riusciva a togliersela dalla mente. L’immagine di lei non lo abbandonava, accompagnata da una fantasia in cui lui saliva delle scale di corsa, con i minuti contati, fino a una porta chiusa a chiave dall’interno. L’abbatteva con un calcio e la trovava, giusto in tempo per salvarla, sdraiata sul letto con i bei capelli rosso oro intorno al volto angelico. Lei lo guardava con gratitudine, con quegli occhi eterei, protendeva le braccia…

Insomma, era così che si sentiva, proprio come in quel sogno a occhi aperti: sentiva che doveva fare in fretta, che ogni secondo era importante. Ecco perché non si azzardava a fermare Bishop, perché avrebbe convissuto con la collera e il senso di colpa, per non parlare del mal di stomaco. E anche perché stava dirigendosi a Half Moon Bay.

Era stata dura, ma infine aveva rintracciato l’avvocato di Cameron Moncrieff, Peter Crouch. Si diceva che fosse andato in pensione dopo la morte del suo assistito, ma nessuno sapeva dove e, cosa ancor più sorprendente, nessuno sembrava darsene pena. Il vecchio Crouch non aveva amici, non era mai piaciuto a nessuno. Un individuo grassoccio, dall’aspetto anonimo e dalla voce monotona, con l’espressione viscida e servile, sopportato solo da quegli spacciatori, magnaccia, strozzini e delinquenti di vario calibro che aveva difeso nella sua carriera e che lo frequentavano solo quando ne avevano bisogno. Nessuno era andato a salutarlo quando aveva fatto fagotto e lasciato la città, nessuno aveva versato una lacrima o tirato un sospiro di sollievo. Intorno a lui c’era solo indifferenza.

Ma per Weiss Crouch aveva importanza: era presente quando Moncrieff era morto, insieme a Harry Kidder e a Julie Wyant. Crouch era l’unico dei tre ancora vivo, per quel che si sapeva. Perciò Weiss doveva trovarlo e, essendo Weiss, lo trovò.

La casa era una modesta fattoria ristrutturata, situata ai margini della città, non lontano dalla strada principale. Isolata in fondo a una strada tortuosa, sorgeva su un fazzoletto d’erba confinante con un campo dove un tempo si coltivavano zucche. Era un tradizionale edificio a due piani, con un portico e un dondolo dove sedersi in estate. Il dondolo scricchiolava dolcemente, mosso dalla brezza, mentre Weiss saliva i gradini del portico fino alla porta d’ingresso.

Bussò e rimase in attesa. Aveva cercato di telefonare, ma nessuno aveva risposto. Un poliziotto del posto gli aveva detto che la fattoria era disabitata ma che una persona si occupava del giardino e delle piccole riparazioni all’esterno. Quell’uomo gli aveva detto che era Crouch a pagarlo, tramite bonifico, regolarmente, e che finché riceveva i soldi, lui avrebbe svolto il lavoro.

Non venne nessuno ad aprire e Weiss cercò di girare la maniglia. Come immaginava, la porta era chiusa a chiave. Estrasse un astuccio di pelle dalla tasca interna della giacca, scelse l’utensile adatto e forzò la serratura.

Una volta dentro, si ritrovò in un soggiorno fresco, in penombra. I mobili erano ordinati e semplici: poltrone ricoperte di stoffa a fiori, divanetti, un tappeto di stoffa, un’ottomana accanto al caminetto vuoto.

Le finestre erano socchiuse e lasciavano filtrare una leggera brezza, che sollevò un po’ di polvere dal pavimento facendo pizzicare il naso di Weiss. Si udivano scricchiolii e altri piccoli suoni: forse topi nei muri.

Il vecchio istinto del poliziotto si risvegliò in Weiss, che avanzò nella casa con la massima circospezione.

Al pianterreno trovò una stanza per gli ospiti, una sala da pranzo, un salottino, una cucina con la finestra rivolta a sud, da cui entrava una luce dorata che colpiva il linoleum verde del pavimento. Agli angoli si vedevano i danni provocati dai topi, che avevano anche rosicchiato le gambe del tavolo. Aprì i mobiletti, ma non trovò cibo o altro. Udì un ronzio: si trattava del frigorifero in funzione, segno che le bollette dell’elettricità erano state pagate. Anche il frigo, però, era completamente vuoto.

Non c’era anima viva di sotto e neppure di sopra. In camera da letto le lenzuola erano pulite e in ordine, nello studio i libri erano coperti di polvere, come il computer e la scrivania. Weiss proseguì la sua ispezione con i passi felpati di un fantasma che si aggirava furtivo.

Weiss avrebbe dovuto andarsene, per la verità, se non fosse stato per quello stato d’animo risvegliato dentro di lui. Il vecchio istinto dello sbirro. Gli suggeriva di cercare ancora e così ripassò di nuovo tutte le stanze. Fu così che si accorse della botola. Si trovava nel salottino a piano terra, sotto un tappeto, e scricchiolò quando Weiss ci passò sopra. Il detective scostò il tappeto e tirò l’anello di metallo. I cardini cigolarono.

Una scala scura conduceva a una porta, che si aprì a fatica, lasciando sfuggire un refolo d’aria.

Il corpulento detective fu costretto a piegare la testa per passare. La stanza dove si ritrovò era fresca e asciutta, soprattutto molto asciutta. Scovò un interruttore e, quando le luci si accesero, capì. Le rastrelliere, le bottiglie, il termostato indicavano che si trattava di una cantina.

Ciò che spiegava lo stato di conservazione del corpo.

Dopo tutti quei mesi, l’aria asciutta di quella stanza sigillata lo aveva mummificato. Peter Crouch era uno scheletro con la pelle incartapecorita. Era incatenato, nudo e con gli arti divaricali, a una delle rastrelliere. Le costole avevano trapassato il sottile strato di pelle simile a cuoio ed era possibile distinguere anche le ossa delle mani. Ma il volto era ancora stranamente intatto, riconoscibile: gli occhi senza vita, neri e duri come sempre, la testa a pera, i pochi capelli pettinati in un brutto riporto. Solo le guance, un tempo flaccide e bianchicce, erano ora tirate e scure. Weiss pensò che fosse quella rigidità delle guance ad aver aperto le labbra di Crouch, mettendo in mostra i denti bianchi in una sorta di smorfia amara.

Ma no. Più osservava le condizioni del cadavere, più si rendeva conto che Crouch si era conservato esattamente com’era nel momento in cui era morto: con la bocca aperta per urlare.

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