Era buio ormai quando giunsero al luogo dell’esecuzione. Avevano guidato a lungo.
Chris Wannamaker, abbandonato sul sedile posteriore della BMW, solo allora stava iniziando a percepire il movimento dell’auto. Gli occhi si aprirono e si richiusero lentamente. Tutto il suo corpo grosso e muscoloso sembrava cascante, senza forza. Non riusciva a muovere la testa appoggiata contro il finestrino, e neanche a chiudere la mascella che penzolava aperta. Aprì di nuovo lentamente gli occhi e vide che fuori era notte.
Flake era davanti, al volante, mentre Goldmunsen era dietro, al suo fianco, un braccio da gorilla appoggiato sulla pancia. All’estremità del braccio da gorilla c’era una mano da gorilla serrata su una pistola, una Glock, puntata nel vuoto. Quando Chris si mosse, Goldmunsen sorrise, come si fa quando qualcuno si sveglia. Poi spostò la mano con la Glock e la puntò verso Chris.
Questi si mosse ancora e lasciò sfuggire un lamento. La testa gli girava e aveva la sensazione che stesse per accadergli qualcosa di terribile. Voleva che quel tormento finisse, voleva chiudere gli occhi e ritrovarsi nel suo letto quando li avesse riaperti. Ci provò: nessun risultato. Era sempre in macchina e la macchina continuava a viaggiare, a macinare chilometri, avvolta nella notte.
Cercò di mettere a fuoco il paesaggio, ma non si vedeva molto. C’erano degli alberi e la strada tortuosa, qualche squarcio di cielo scuro fra i rami. Erano da qualche parte nella foresta, e lui cominciava ad avere paura, molta paura. In quel bosco gli sarebbe successo qualcosa di terribile. Doveva cercare di impedirlo. Doveva pur esserci qualcosa da fare in quel breve intervallo di tempo.
Ma il tempo a sua disposizione era terminato. Flake stava lasciando la strada e Chris sentì lo sterrato sotto le ruote. Fu sballottato sul sedile e, ancora confuso, cercò di alzare la testa. Vide Flake che guidava. Vide che Goldmunsen, al suo fianco, gli sorrideva. E vide l’arma che teneva in mano.
«No», disse con la voce impastata. «Non…»
Improvvisamente si ricordò tutto: capì che stavano andando alla sua esecuzione, e il terrore gli fiaccò ulteriormente le forze.
«No, no», balbettò. «Dovete…»
«Fermati qui, mi pare che vada bene», stava dicendo Goldmunsen a Flake.
«Fammi allontanare ancora un po’ dalla strada. Qualche poliziotto stronzo ci potrebbe vedere», replicò Flake.
«Va bene», ribatté l’altro, «andiamo avanti ancora un po’.»
Chris cercò di portarsi la mano alla fronte dolorante. Per un momento sembrò che l’interno della macchina fosse immerso nella nebbia. Poi tutto tornò orribilmente a fuoco.
«Mio Dio, no…»
«Fallo tacere, per favore», sbottò Flake.
«No, aspettate. Ascoltate», diceva Chris, tenendosi la testa. «C’è una cosa… dovete ascoltarmi.»
«Su, non prendertela», disse Goldmunsen in tono cordiale. «Sarà finita in un paio di minuti.»
«Ma voi dovete ascoltarmi… dovete.» Chris si teneva la testa, cercando di pensare a che cosa doveva dire, sfruttando l’ultimo momento disponibile. Ma le tempie gli pulsavano e il dolore e la paura non lo lasciavano riflettere. «Ascoltate, vi prego.»
«Non servirà a molto, amico. Abbiamo degli ordini», disse Goldmunsen. «Sai come vanno queste cose. Cerca di stare calmo e noi renderemo tutto più facile.»
Chris fissò sbattendo gli occhi la faccia sorridente del gorilla. «Goldmunsen, ascoltami», disse. «Ti prego.»
«Ehi», si intromise Flake con un tono duro, guardando Chris nello specchietto retrovisore. «Non hai sentito che cosa ti ha appena detto? Chiudi quella bocca.»
Goldmunsen si strinse nelle spalle. «Lo senti? Non vorrai fare arrabbiare Flake… Sai che cosa succede quando si arrabbia. Inizia con il coltello, e viene fuori un casino.»
«Oddio, per favore…»
«Dico davvero, non ti piacerebbe, credimi. Dunque, sii uomo e ci penserò io a te. Non sentirai niente.»
Una nuova ondata di paura e debolezza attraversò il corpo di Chris. Deglutì per cercare di non pensarci. «Voi non capite», disse.
Goldmunsen rise. «Oh, sì che capiamo.»
«No, no, è che… Mio Dio, dovete ascoltarmi, non voglio morire!»
«Mi dispiace, ma non vedo alternative», disse Flake. «Perciò comportati da uomo e taci una volta per tutte.» Poi rivolgendosi a Goldmunsen borbottò: «Dagli un altro pugno e fallo tacere, sbrigati».
«Sì, così poi dobbiamo trascinarlo per tutta la strada. Non ci penso neanche.»
L’auto si fermò e Chris sgranò gli occhi. Guardò disperatamente intorno, nell’oscurità. Poi quello che doveva dire gli tornò tutto in mente, come frammenti di un puzzle che si ricomponeva lentamente dentro di lui. «Aspettate, vi prego», piagnucolò. «È stato Kennedy. Ecco che cosa dovevo dirvi. È tutta colpa di Kennedy.»
«Adesso lo taglio davvero. Fa’ qualcosa!» disse Flake.
«D’accordo, d’accordo», rispose Goldmunsen. «Cerchiamo di stare tutti calmi e di procedere in modo professionale. Sblocca la portiera dietro, forza.»
Flake fece scattare il blocco delle serrature e Goldmunsen fece segno a Chris con la pistola.
«Scendi dalla mia parte», gli disse.
«È stato Kennedy, lo giuro!»
Ma il gorilla lo ignorava. Aprì lo sportello e scese senza smettere di puntare la pistola sul prigioniero. Anche Flake scese.
«Ascoltate», insisteva Chris. «Kennedy, è lui che ha combinato tutto. È lui che…» Si teneva la testa fra le mani, cercando di rimettere insieme i pezzi di quel rompicapo.
Goldmunsen gli indicò l’uscita con la pistola. «Forza, vieni giù.»
«Porta le chiappe fuori di lì. Non costringermi a venire a prenderti», lo incalzò Flake. «Dico sul serio, sbrigati!»
Chris fissava angosciato la canna della pistola. La paura gli impediva qualsiasi movimento; non riusciva neanche più a parlare. Quasi senza accorgersene, iniziò a scivolare sul sedile verso la pistola, come un serpente incantato dal flauto.
All’esterno, l’aria fresca della montagna lo fece tremare ancora di più. Si sentiva debole, perduto.
«Non è giusto», mormorava. «Questa cosa… non è giusta. È un errore…»
Erano in una radura di un fitto bosco eppure c’era qualcosa di strano. Alla luce della luna Chris vide qualcosa che lo disorientò ulteriormente. Case. C’era una fila di quelli che sembravano vecchi edifici di mattoni, come in una cittadina del vecchio Far West. La maggior parte delle case era a due piani, con in cima un timpano arrotondato o addirittura un bordo di merli. In realtà, delle costruzioni rimaneva solo la facciata: le finestre, buie e scure come i fori degli occhi in uno scheletro, si aprivano direttamente sul bosco. Si trattava dei resti di una città abbandonata dopo la corsa all’oro di fine Ottocento, conservati per i turisti, ma per Chris era come trovarsi in un paesaggio da incubo, completamente irreale. La stranezza del posto, unita alla confusione mentale e al terrore, gli impediva di riordinare le idee.
«Andiamo», disse Goldmunsen.
«Aspettate», rispose Chris. «Sentite, Kennedy…»
Goldmunsen, indifferente, lo colpì con il calcio della pistola. Chris barcollò, poi cadde sulle ginocchia. Il cielo, gli alberi, le case roteavano intorno a lui e i suoi pensieri si erano nuovamente dispersi in mille direzioni.
«Questo ragazzo», commentò Goldmunsen, «non sembra prestare attenzione a quello che gli stiamo dicendo.» Scuotendo bonariamente la testa si avvicinò a Chris, lo prese per i capelli e lo tirò in piedi. Poi gli puntò la pistola nelle costole intimandogli di muoversi.
Nella mente del pilota erano rimasti solo confusione e terrore. Cominciò ad avanzare inciampando verso le case, e insieme ricominciò a supplicare. «Vi prego. Ascoltatemi. State facendo un errore. Dovete ascoltarmi…» La voce era debole, quasi impercettibile. Supplicava e mormorava come se recitasse una preghiera. «È stato Kennedy, è stata tutta colpa sua, di lui e di Kathleen.»
«Che cosa ne pensi?» disse Goldmunsen alle sue spalle. «Riusciremo a ritornare prima che Lucky chiuda?»
«Non lo so», rispose Flake. «Non mi riesce di pensare, con questo che blatera continuamente. Mi dà sui nervi. Mi sta venendo voglia di divertirmi un po’ con il coltello, di prendermela comoda.»
«Ci spiava», continuava Chris, con un filo di voce. «Qualcuno deve credermi. Per tutto il tempo, lui e Kathleen. Dobbiamo dirlo al signor Hirschorn.»
«Ma dai, quale coltello? Che cosa dici?» sbottò Goldmunsen. «Lascia perdere quel coltello del cazzo. Io ho fame; vediamo di finire qui e andare da Lucky a farci una bella costata. Lo puoi usare lì, il coltello.»
«Dicevo per dire…» si difese Flake.
«So che cosa volevi dire. Sei un sadico. Dovresti farti curare.»
Intanto, un altro pezzo del puzzle riemerse nella mente di Chris. Rammentava tutto — il computer, il messaggio — e trovò le parole per dirlo. «È un investigatore. Ecco che cos’è», disse, con un filo di voce. «Kennedy è un investigatore privato.»
Cercò di guardarsi intorno, ma Goldmunsen lo spinse ancora con la canna della pistola. «Non ti fermare.»
Chris avanzò inciampando. «Non mi fermo, ma ascoltatemi. Goldmunsen, Flake, sentite che cos’ho da dirvi. Kennedy è un investigatore privato, è questo che stavo cercando di dire.»
«Per Dio, che qualcuno gli chiuda definitivamente la bocca», disse Flake.
«Dai, lascialo stare», gli rispose Goldmunsen. «Cerca di metterti nei suoi panni.»
«Non è proprio possibile. Che cosa sta dicendo adesso?»
«Sta dicendo che Kennedy è un investigatore privato.»
«Perfetto. Per chi ci ha preso, per degli idioti?»
«Deve pur dire qualcosa, lascialo perdere.»
Le facciate delle case fantasma si chiusero intorno a loro. Una civetta emetteva il suo richiamo. I grilli e le cicale frinivano con insistenza, la stessa insistenza con cui Chris aveva ripreso a lamentarsi.
«È la verità, vi dico! Kennedy è un investigatore privato. Per favore. È uno dell’agenzia… Weiss. La Weiss Investigations di San Francisco. L’ho visto sul suo coso, il portatile… il computer. C’era un’e-mail per questa agenzia.»
Avevano raggiunto un’apertura nella fila di edifici finti, una breccia irregolare tra i mattoni: Chris vi si infilò, spinto dalla pressione della pistola sulla spina dorsale, e i due scagnozzi lo seguirono.
«Ma senti che stronzata», mormorò Flake. «Di che parli, cazzone? Quale e-mail?»
«Senti, Flake, lascialo perdere, d’accordo», disse Goldmunsen. «Lo stai solo tormentando.»
«No, no, questa la voglio sentire», continuò Flake. «Vediamo fino a che punto ci crede stupidi. Kennedy ha mandato un’e-mail?»
Chris riuscì a parlare un po’ più forte. «Alla sua agenzia, l’agenzia Weiss. Lo giuro su Dio.»
«Ah sì, lo giuri su Dio?» continuò Flake, ironico. «Te l’ha fatta vedere lui? L’hai vista con i tuoi occhi?»
«Sul suo portatile.»
«Sul portatile. Bene, e dov’è questo portatile? Su, faccelo vedere.»
Il terrore di Chris divenne ancora più profondo, i suoi muscoli si trasformarono in gelatina. Perché non l’aveva preso? Come aveva potuto lasciarlo là? Che cosa credeva di fare? «Non ce l’ho, ma vedete, ho pensato che non…»
«Oh, hai pensato, vero? Hai pensato…» Flake rise. «Che cosa hai pensato? Hai pensato di poterci fare fessi con queste stronzate. Ma senti questo cretino. Non ci posso credere.»
«A che ora chiuderà la cucina da Lucky?» si stava chiedendo Goldmunsen a voce alta.
«Come?» disse Flake, distratto. «Non lo so, alle dieci forse. Come cazzo faccio a saperlo. Lascia perdere Lucky, smettila di pensare con lo stomaco.»
«Adesso penso con lo stomaco», ribatté Goldmunsen. «Dammi da mangiare e riprendo a pensare col cervello.»
Superate le case, percorsero i pochi metri che li separavano dagli alberi. Passo dopo passo, Chris si avvicinava alla sua tomba, un sepolcro vastissimo, che lo aspettava per inghiottirlo. Continuava a blaterare la sua storia, ma non sapeva più che cosa stesse dicendo. Nessuno lo ascoltava. La situazione continuava a precipitare, non riusciva a fermarla. Il suo sguardo saettava qua e là, e ovunque si posasse tutto appariva stranamente limpido e definito: gli alberi, i tronchi, i singoli rami. Il color indaco del cielo stellato. L’erba e i suoi stessi piedi. E poi, sotto una pallida luna argentea, un varco che si apriva nel bosco, in attesa di ingoiare lui. L’attacco di un sentiero. Il sentiero che portava sul luogo dell’esecuzione.
Arrivato lì, Chris avrebbe voluto fermarsi, girarsi a combattere, cercare di scappare. Invece imboccò il sentiero senza fare resistenza, e la foresta parve richiudersi buia e fredda intorno a lui. La situazione continuava a precipitare, non riusciva a fermarla.
«È stata Kathleen», diceva in tono amaro, con voce rotta, con un rivolo di bava all’angolo della bocca e le lacrime agli occhi. «È stata mia moglie, proprio lei. Mi spiava, dovete credermi. Gli ha detto tutto. Ecco come lo ha saputo.»
«Qui va bene», disse Goldmunsen dopo un po’. «D’accordo, puoi fermarti.»
Chris obbedì, come ipnotizzato. Si fermò, in lacrime, con le possenti spalle abbassate, le braccia molli lungo i fianchi. Fra le lacrime vide il bosco, che gli sembrava così bello, così bello e vero… L’aria era fresca e tersa e la notte scura. Tutto ciò che desiderava dalla vita, in quel momento, era un po’ di vita in più. Le lacrime gli colavano sul volto, mentre aspettava il colpo nella nuca. «È andata a letto con lui, ecco cos’è successo. Capite, lui se l’è scopata e lei gli ha detto tutto, ecco come ha saputo, come si è intromesso. Per favore, vi prego…» Cominciò a blaterare senza più articolare le parole.
Udì lo scatto della Glock quando Goldmunsen mise il proiettile in canna. Chris si pisciò addosso, inzuppando i jeans. Tremante, singhiozzava: «Per favore, per favore, ve lo giuro su Dio…»
«Aspetta un attimo, che cosa…?» mormorò Flake.
Goldmunsen puntò la pistola alla nuca di Chris.
«Oh, oh, oh! Aspetta un momento. Hai sentito?»
«Sentito cosa?»
«Quello che ha appena detto. Ho sentito bene?»
«Non lo so, che cosa ha detto?» chiese Goldmunsen spazientito. «Ha detto: ‘Per favore, per favore’. Che cos’altro doveva dire?»
«No, no, no, aspetta un attimo», continuò Flake. «Kennedy si scopava sua moglie? È questo che ha detto?»
«Non lo so. Che cosa me ne frega? Posso andare avanti, adesso?»
«Aspetta un minuto.» Flake alzò una mano per impedire a Goldmunsen di sparare.
Il gorilla sgranò gli occhi. «Merda», imprecò, scrollando la pistola. «Sto morendo di fame.»
«Ehi», disse Flake, alle spalle di Chris. «Tu, pezzo di merda, hai detto che Kennedy si scopava tua moglie? È questo che hai detto?»
Chris fece un gran sospiro e iniziò a piangere più forte, la bocca spalancata. Aspettando il colpo di grazia, fissava tra le lacrime il bosco, incantato dalla sua bellezza. I secondi gli sembravano lunghissimi e sperò che ciascuno di essi diventasse infinito. «Si scopava mia moglie», mormorò con distacco, rispondendo a Flake senza neanche saperlo. «Ecco come ha saputo tutto. Così ha fatto.»
«Allora Kennedy è un investigatore privato e si scopa tua moglie, e lei gli spiffera tutto quello che vi dite tu e il signor Hirschorn! È questo che stai cercando di dirci?» chiese Flake piegandosi in avanti per ascoltare meglio. «Stai cercando di dirci questo?»
«Possiamo ancora salvare l’operazione», Chris continuava a balbettare. «Possiamo… e il signor Hirschorn sarebbe contento…»
«Ehi!» esclamò Flake, colpendo Chris con una botta sulla nuca.
Lui pensò che fosse partito il colpo e urlò con quanto fiato aveva in gola, cadendo in avanti, sulle ginocchia, in lacrime. Si sorprese di non essere ancora morto e pensò che gli avrebbero sparato ancora, finché tutto non fosse finito. Si augurò che facessero in fretta, prima di iniziare a provare dolore.
«Ehi», ripeté Flake. Prese Chris per un orecchio e gli girò la faccia fino a incontrare il suo sguardo con quegli occhi da psicopatico. «Sto parlando con te, pezzo di merda. Ti sto facendo una domanda. Che cosa vuoi dire esattamente?»
Con la bocca aperta e la faccia imbambolata, bagnata dalle lacrime, Chris fissò il volto contorto del killer e, dopo qualche istante, capì. Flake lo stava ascoltando! Lo ascoltava e lui era ancora vivo! Lo guardò con la riconoscenza di un bambino verso la mamma.
«Sì, è vero», urlò fra le lacrime, fino a coprire il canto delle cicale. «Kathleen e Kennedy… Lui è un investigatore privato.»
«E se la fa con tua moglie?»
«Se la faceva, e lei mi spiava quando parlavo con Hirschorn e gli riferiva tutto. Ho visto un’e-mail, sul suo computer. Era indirizzata alla Weiss Investigations di San Francisco. C’era scritto che io ero fuori e che adesso lui era entrato nel gioco, e che avrebbe scoperto tutto sull’operazione.»
Flake ci mise qualche secondo ad assimilare l’informazione. Poi, con uno spintone, mandò Chris lungo disteso per terra, e il pilota si coprì il capo con le braccia. «Vi prego, non fatelo, non fatelo», disse. «Posso darvi una mano, giuro. Posso salvare l’operazione. Per favore.»
Flake lo guardava, irritato ma attento. Poi, in uno scatto d’ira, gli diede un calcio nella coscia.
«Merda!» urlò.
Goldmunsen abbassò l’arma, esasperato, battendo la canna sulla gamba. «Non mi dirai che adesso credi a tutte queste stronzate?» chiese.
Flake aveva lo sguardo fisso a terra e le mani sui fianchi. «Merda, merda, merda.»
«Il signor Hirschorn ha fatto controllare Kennedy», insisteva Goldmunsen. «Si è assicurato che fosse pulito.»
«Hai sentito questo qui? Dice che Kennedy si scopava sua moglie», ribatté Flake.
«E allora? Che cosa significa? Che senso ha tutto questo? Avrebbe detto qualsiasi cosa per salvarsi.»
«Ma non quello, non che qualcuno si scopava sua moglie. Uno non dice queste cose. Tu lo diresti?»
«Ma dai!» Goldmunsen indicò il povero Chris, piangente a terra. «Guardalo!»
Flake gli lanciò un’occhiata di disgusto. «Non lo avrebbe comunque detto, che un altro gli scopava la moglie. Non è nella natura umana. Non te la inventi, una cosa così.»
Goldmunsen alzò le braccia al cielo. «Cristo, e adesso che cosa cazzo facciamo?»
Flake dava calci al terreno con la punta della scarpa. «Be’», disse. «Di sicuro puoi scordarti di andare da Lucky, stasera.»
«Santo cielo», ripeté Bishop.
Avanzò a passi lenti nel capannone e perlustrò ogni centimetro dell’apparecchio che stazionava minaccioso sotto le luci al neon.
«È bellissimo o no?» disse Hirschorn alle sue spalle, sorridendo.
Bishop non rispose, ma «bellissimo» non era la parola più adatta. In quel punto sperduto di una sconfinata distesa di foreste, a Bishop sembrava di trovarsi davanti a un’enorme locusta, un insetto venuto dallo spazio, cattivo almeno quanto era grosso. Il parabrezza, come un occhio incupito dal riflesso della notte, sembrava scrutare con diffidenza l’uomo che si avvicinava. I grandi rotori spioventi e le corte ali, benché immobili, parevano pronti a un attacco feroce e fulmineo.
Era da molto che Bishop non ne vedeva uno da vicino: un Apache Longbow AH-64D, un elicottero da guerra in dotazione all’esercito. Questo era completo di missili, e che missili: i missili terra-aria conosciuti con il nome Hellfire, fiamme dell’inferno. Ce n’erano quattro (su una capacità di otto) sotto ognuna delle ali. Per non parlare delle mitragliatrici da 30 mm che sbucavano da sotto la fusoliera.
Bishop si accostò al muso dell’elicottero. Nella mano sinistra teneva ancora la borsa da viaggio, e quindi alzò la destra per passarla sulla fredda armatura metallica. Scosse lievemente la testa: Hirschorn doveva aver speso milioni di dollari per procurarselo, e di sicuro c’erano volute settimane per farlo arrivare di nascosto fin lì. Guardò, senza celare una certa ammirazione, il vecchio dai capelli argentei rimasto nell’ombra, fuori del raggio delle luci.
«Chi è lei, Hirschorn, una specie di terrorista?» chiese con voce pacata.
L’altro si irrigidì. «Ehi, attento a come parli, sono americano al cento per cento.»
«D’accordo, ma, se mi è permesso chiederlo, che cosa cazzo vuole farci con questo aggeggio?»
Hirschorn si rilassò e rise. «Sii paziente, amico. Ti sarà spiegato tutto. È una missione semplice: si va e si torna. E io sarò con te per tutto il tempo.»
«Semplice…» gli fece eco Bishop. Guardò di nuovo l’elicottero, e sul suo viso tornò la caratteristica espressione maliziosa. «Posso dare un’occhiata alla cabina?»
«Certo», rispose Hirschorn in tono cordiale. «Fai pure. Voglio che ti senta a tuo agio.»
Bishop non lasciò a terra la borsa ma la issò sopra una delle piccole ali del velivolo prima di salire a sua volta. Aprì il portellone, buttò la borsa sul pavimento e si abbassò per prendere posto sul sedile del pilota. Attraverso il parabrezza, le persone nel capannone erano solo delle sagome ritagliate nella luce al neon.
«Dio onnipotente», disse a voce alta.
Un altro uomo, al suo posto, avrebbe forse perso la testa, chiedendosi in che diavolo di storia era andato a cacciarsi, per di più in un posto così sperduto. Ma Bishop era calmo; in quell’istante provava persino una sensazione di sicurezza. Qualunque fosse la missione che intendevano compiere con quella macchina da guerra, lui l’aveva già mandata a monte, almeno per quella notte. Perché era l’unico pilota che avevano a disposizione, e di certo avrebbe preferito farsi sparare piuttosto che far volare quella roba nei cieli di casa sua. Il problema era che, se si fosse rifiutato, quelli gli avrebbero sparato sul serio. Dunque la prima cosa da fare era levare il culo di lì e comunicare a qualcuno il nascondiglio di quel mostro.
Non sarebbe stata un’impresa facile, con i due uomini armati all’interno del capannone e altri, probabilmente, fuori. Così, senza scomporsi, per precauzione Bishop abbassò la mano — che era fuori dalla vista degli scagnozzi — fino alla cerniera della borsa da viaggio e cominciò ad aprirla. Intanto, controllò i vari sistemi operativi del mezzo. Notò che erano incompleti. Dovunque avessero comprato o rubato quel velivolo, non erano riusciti a ottenere la strumentazione da guerra completa, per esempio i sistemi antiradar. Ma il GPS e i sistemi di puntamento computerizzati erano a posto: sembrava proprio che avessero intenzione di usarli, quei missili Hellfire.
«Dio onnipotente», ripeté Bishop.
Estrasse il computer dalla borsa, se lo mise in grembo e lo accese. Mentre lo faceva, continuava a girare la testa in ogni direzione e a mettere le mani sui vari comandi, per far vedere, se stavano osservandolo, che stava davvero esaminando l’apparecchio. Pensò che Hirschorn, essendo così orgoglioso del suo gioiello, gli avrebbe dato il tempo di ispezionarlo per bene.
Non appena il computer si fu avviato, Bishop aprì il programma di posta e si accorse, finalmente, di non aver spedito l’ultimo messaggio che aveva scritto. Questo fatto lo turbò per un istante e gli fece maledire Kathleen, che l’aveva distratto dal suo lavoro. Così, Weiss non sapeva che era partito con Hirschorn.
D’altro canto, avere un messaggio pronto ora gli permetteva di agire più velocemente. Lo aprì.
Weiss, ha funzionato. Wannamaker è fuori, io sono in gioco. Stasera alle sei sarò in volo verso una destinazione ignota. Quando sarò là, mi daranno le istruzioni sul mio incarico e ti farò sapere. Se abbiamo fortuna, possiamo portare a termine la missione senza comprometterci…
Muovendo le dita nel modo più impercettibile che gli riuscì, aggiunse: «c150kmnoah-64d».
Non ci fu il tempo di scrivere altro, perché Hirschorn gli stava facendo segno di scendere.
«Dai, Kennedy! Avrai tutto il tempo per giocarci. Ora dobbiamo metterci al lavoro.»
Bishop premette il comando di invio e attese per alcuni secondi che gli sembrarono secoli, perché Hirschorn lo aspettava lì fuori. Il computer stava ancora aspettando il collegamento e Bishop pensò che avrebbe potuto aspettare all’infinito, in quella zona sperduta. Avrebbe provato a inviare l’e-mail fino all’ultimo impulso di vita delle batterie.
Mise il palmare sul pavimento dell’elicottero e lo spinse sotto il sedile, ben nascosto. Il tentativo di invio era ancora in corso.
Un attimo dopo scese dal velivolo con la sua borsa in mano e si avviò verso Hirschorn.
«Volevo cominciare a fare conoscenza», disse.
«Oh, non mancherà l’occasione», rispose il vecchio, e gli diede una pacca sulla spalla sorridendo con i suoi denti bianchissimi. «Credimi. Chase, mostra a Kennedy i suoi alloggi.»
Chase era uno dei due uomini che li avevano scortati. Fece segno a Bishop di seguirlo con la torcia che teneva nella mano destra, mentre l’altra non abbandonava la mitraglietta.
«Dopo di te», disse con voce rauca.
Bishop andò con lui mentre Hirschorn e l’altro uomo armato rimanevano nel capannone per spegnere le luci e chiudere la porta.
Avanzarono lentamente fra gli alberi, alla luce della torcia che illuminava il cammino di Bishop da dietro. Chase non era uno sprovveduto e si teneva a una giusta distanza, in modo da non farsi cogliere di sorpresa. In effetti, Bishop aveva pensato di stordirlo, prendergli l’arma e scappare tra gli alberi. Se fosse riuscito a tornare al Cessna e a farlo partire, sarebbe potuto tornare in città per raccontare dell’elicottero alla polizia. Ma Chase era prudente, e a Bishop non rimase che aspettare.
Così raggiunsero la baracca a due piani con una scala su un lato. Bishop era ancora abbastanza tranquillo, pronto ad aspettare un’occasione migliore per filarsela, certo di avere ancora un po’ di tempo.
Sempre che Chris fosse morto, e che gli avessero sparato prima che tornasse in sé e raccontasse tutto. In questo caso, Bishop calcolava di avere tutto il tempo necessario.
In quel momento Weiss entrò in ufficio, e si accorse subito che qualcosa non andava. I pensieri che gli affollavano la mente si zittirono, lasciando il posto alla cautela. Si fermò sulla soglia, gli occhi fissi nel buio.
L’Agenzia era chiusa, erano passate le otto. Le luci erano spente e dalle stanze non proveniva alcun rumore. Eppure l’istinto, il suo istinto da poliziotto, gli diceva che non era solo.
Il corpulento detective, che sapeva muoversi con la massima leggerezza, quando voleva, percorse il corridoio nel più assoluto silenzio. Arrivato allo stanzino della posta, distinse grazie alle luci notturne della città le sagome della fotocopiatrice e del fax. Contro la parete c’era la mia scrivania e, abbandonato su di essa, c’ero io.
Nel vedermi Weiss si calmò, cercò l’interruttore e accese la luce. Gli si presentò lo spettacolo della mia persona seduta in posizione scomposta, incosciente, la testa tra le braccia sul piano della scrivania. Negli occhi dell’investigatore passò un lampo di stizza. Avevo interrotto il filo dei suoi pensieri, i suoi tentativi di prevedere le mosse di Shadowman. Con un sospiro afferrò la bottiglia di whisky posata accanto al mio gomito. La prese e si accorse che ce n’era ancora più della metà. Perciò ritenne che non fossi ancora morto e mi scosse senza molti riguardi.
«È pulito!» urlai, raddrizzandomi di botto, con la luce che mi feriva gli occhi.
Weiss mi fece oscillare la bottiglia di J B davanti alla faccia. «Ti ho insegnato a bere qualcosa di meglio di questa robaccia.»
Strabuzzai gli occhi. Weiss? C’era Weiss lì con me? «Weiss!» dissi con la voce impastata, guardando la bottiglia con gli occhi stretti a fessura. «No, no, va tutto bene. Ho finito.»
«Sì, hai finito di sbronzarti, direi.»
«Ho fatto tutto, ho solo pensato di…» Cercai di ricordare che cos’avevo pensato di fare.
«Svenire sulla scrivania?» suggerì Weiss. «Va bene, io sono favorevole a queste cose, danno all’Agenzia un certo fascino.»
Risi come un idiota, con la testa che mi girava come un mulino a vento. Che grand’uomo era Weiss, veramente un grand’uomo. Ma che cazzo stava cercando di dirmi?
«Ho controllato», cercai di spiegargli, sempre stringendo gli occhi irritati dalla luce. «Ho scritto il rapporto. Lui è pulito, a posto.»
Weiss depose nuovamente la bottiglia sulla scrivania. «È del caso Strawberry che stiamo parlando?»
«Certo.» Mi passai le mani sul viso cercando di chiarirmi le idee. «Il prete, il fratello del governatore.»
Weiss alzò il mento; stava iniziando a capire. «È lui che è pulito? La sua testimonianza è corretta, è questo che vuoi dire?»
«Sì, proprio questo», risposi, gesticolando in modo così plateale che quasi caddi dalla sedia. «Sì, tutto a posto, tutto controllato.»
«Benissimo.» Weiss annuì e prese un plico di carte dalla scrivania. «Ed è tutto qui nel tuo rapporto, vero?»
«Assolutamente, tutto lì, nel rapporto, non manca niente…» Le parole mi uscivano sempre più ingarbugliate.
Weiss guardò l’orologio e si accigliò. «D’accordo, ragazzo, ti restano venti minuti prima di iniziare a vomitare l’anima. Che ne dici di risparmiare la donna delle pulizie e cercare di arrivare a casa prima?»
Decisi di provare ad alzarmi, ma non fu così semplice. Neanche allontanarmi dalla scrivania fu facile. Weiss restò in corridoio a osservarmi mentre avanzavo barcollando verso la porta. Andavo piano, ma oscillavo pericolosamente da una parete all’altra e infine dovetti fermarmi un attimo per aspettare che il mondo ritornasse diritto.
Weiss mi tenne d’occhio fino all’uscita. Aveva il rapporto in mano e sorrideva con l’angolo della bocca. Sospirò. Era un po’ deluso di me; gli ero sembrato più acuto, più promettente. Aveva creduto che mi sarei accorto dell’incongnienza sul particolare della calvizie, e avrei scoperto dove si trovava veramente il prete al momento della rapina. Secondo lui era probabile che il reverendo fosse a casa di una ragazza, o anche di un ragazzo, perché no, dopotutto eravamo a San Francisco. Ora, invece, doveva dire a Sissy che nel mio primo caso avevo fatto cilecca. Doveva controllare il testimone lei stessa, scoprire la verità.
Riuscii ad aprire la porta, a superarla e a raggiungere l’ascensore. Scesi con la testa appoggiata a una delle pareti e gli occhi che si chiudevano, per poi spalancarsi quando la testa ricominciava a girare. L’ascensore arrivò al piano terra e io mi proiettai nell’atrio. Mi buttai di testa contro il portone, come uno che lotti contro un forte vento, e dopo un’ultima spinta mi ritrovai nelle nebbiose vie della città.
Con le mani in tasca e la testa bassa, attraversai a passo malfermo Market Street. La luce dei fari delle auto faceva intravedere una fitta pioggerellina. Il fracasso di un tram coprì per un attimo il sussurro ininterrotto del traffico. Lasciai la via affollata alle mie spalle e imboccai una laterale, più buia e tranquilla. L’oscurità sembrava aver avvolto anche le mie budella, il whisky aveva offuscato le mie sensazioni, ma non abbastanza. Non credo di avere veramente percepito la delusione di Weiss, ma non ce n’era bisogno. Ero io stesso a essere deluso di me. Anzi, ero disgustato del mio comportamento, della mia debolezza, della mia falsa moralità. L’aiuto fornito al reverendo O’Mara, il fatto di mentire per lui, avevano siglato il mio fallimento come investigatore. Avevo sperato, iniziando a bere, di scacciare la vergogna che provavo, ma non era stato così. Non mi sarei mai perdonato.
Con questo amaro sentimento di autocommiserazione nel cuore, mi girai per dare quello che pensavo sarebbe stato un ultimo saluto all’Agenzia, al settimo piano della torre di cemento con il tetto rosso. Mi ricordo ancora che cosa vidi, anzi, credo che non lo dimenticherò mai. Era Weiss, la sua massiccia figura inquadrata nel grande arco della finestra, che con le mani in tasca contemplava la città, il traffico, i pedoni sotto di lui, le persone, la fretta con cui si allontanavano sparendo nella sera e nel mistero della loro vita. Il computer doveva essere acceso, perché nell’oscurità della stanza si vedeva una debole luce bianca che delineava la sua sagoma. Nel mio stato confusionale, mi immaginai di poter distinguere i suoi lineamenti, l’espressione compassionevole del suo viso segnato. Credetti di scorgere il bagliore dei suoi occhi e lo sguardo intenso che cercava di scrutare oltre la nebbia.
Mi fermai a guardarlo, a fissare la sua immobilità. Sebbene così deluso di me stesso, provai un moto di vera ammirazione per lui e sentii riaccendersi in me il barlume di una nuova ispirazione, un ricordo vago di quell’idea di uomo che avevo pensato di poter incarnare.
Rimasi a fissarlo per un lungo istante, poi mi girai e andai via, nel buio.
Con questo, finisce la mia apparizione in quella storia. Ma mentre caracollavo fino a casa per poi vomitare l’anima e abbattermi sul pavimento del bagno, quel forte senso di ammirazione rimase in me e mi scaldò il cuore. Non potevo saperlo, allora, ma nel voltarmi indietro avevo intuitivamente capito che Weiss, proprio in quel luogo e in quel momento, mentre stava perfettamente immobile alla finestra, era in uno dei suoi momenti di massima azione e di massimo, inarrestabile impegno. Stava dando il meglio di sé proprio in quel luogo e in quel momento, perfettamente immobile eppure, come venni a sapere in seguito, scatenato sulle tracce di Shadowman.
Arrivarono da Kathleen non molto più tardi, verso le nove di sera. Era nella stanza sul retro della casa, sdraiata sul divano, a guardare la televisione. In verità la fissava e basta, ed erano due ore che non si muoveva di lì, sgranocchiando patatine e bevendo birra dalla bottiglia. Accendeva una sigaretta dopo l’altra per poi spegnerle dopo averle fumate a metà, e non avrebbe saputo dire qual era il programma in onda in quel momento.
La verità era che, nella sua testa, c’era troppa spazzatura e nel suo cuore un’opprimente oscurità. Kennedy e il suo inganno, Chris e i tizi che lo cercavano, Hirschorn. Era disgustata da tutti. Come era possibile che la sua vita fosse una schifezza del genere? Era disgustata da tutta quella dannata storia.
Il disgusto, però, non aveva ancora lasciato il posto alla paura. Kennedy l’aveva avvisata, ma lei non gli credeva più. I due scagnozzi di Hirschorn se n’erano andati, cercavano Chris, non lei. Pensò che se lo sarebbero lavorato per un po’, perché beveva troppo e aveva la lingua lunga. Ben gli stava. Era Kennedy quello che doveva avere paura. Quando Hirschorn avrebbe scoperto chi era in realtà… be’, peggio per lui. Che andasse all’inferno, con tutti gli altri. A lei non importava.
Continuò a fissare il televisore, a bere birra e ad accendere sigarette per poi spegnerle quasi subito. Adesso c’era una specie di gioco, uno di quelli in cui la gente, per denaro, fa cose strane. C’era una donna che veniva ricoperta di serpenti e, se resisteva per un certo periodo, avrebbe vinto. Be’, che c’era di difficile? pensò Kathleen. Quella troia avrebbe messo la testa in un secchio di merda, se le avessero dato denaro sufficiente. Una puttana idiota che avrebbe fatto qualsiasi cosa per denaro.
Pensò di cambiare canale, ma la pigrizia prevalse e continuò a guardare il gioco a premi. Dal punto in cui era, sul retro, non vide l’auto nera accostare al marciapiede davanti a casa. Non sentì aprire la porta d’ingresso e fino all’ultimo istante non udì neanche i passi. Solo allora si voltò, e vide suo marito sulla porta.
Impressionata, si raddrizzò sul divano. Gesù, com’era conciato. Era proprio messo male. La faccia plumbea, gli occhi spiritati e sui pantaloni una macchia scura che stava cominciando ad asciugare… e puzzava di urina.
Spense la sigaretta che si era appena accesa, prese il telecomando e premette il pulsante per togliere l’audio.
«Ehi, Chris», disse, con tono esitante.
Le finestre erano aperte per lasciar uscire il fumo e far entrare l’aria della sera. Con il televisore senza audio — adesso sullo schermo c’era un grassone flaccido con un gran sorriso — si sentivano i rumori del giardino e del vicinato. I grilli, il chihuahua simile a un topo degli O’Connor che abbaiava, il rumore del coperchio di un cassonetto di plastica presso la casa dei Paynter.
Chris non si mosse per qualche istante; sembrava malfermo sulle gambe e il sorriso vacuo sul suo volto era simile a quello di chi ha perso la ragione.
«Tutto bene?» chiese Kathleen.
«Sì», rispose l’uomo, ma anche il tono della voce era vacuo. «Sto bene, ma dobbiamo andare, Kathleen.»
«Andare, dove diavolo dobbiamo andare?» Guardò l’orologio. «Sono le nove di sera…»
«Lo so», disse lui, senza cambiare tono. «Ma dobbiamo andare comunque. È signor Hirschorn dice che qui non siamo al sicuro. Ha mandato i suoi scagnozzi. Ci porteranno loro in un posto sicuro.»
«Chris… di che cosa stai parlando? Non riesco a…»
Fu allora che comprese che l’avrebbero uccisa.
I personaggi nel televisore continuavano il loro spettacolo e i grilli non smettevano di cantare, e quel cazzo di chihuahua continuava ad abbaiare. Forse udì uno scalpiccio sull’erba, o magari fu semplicemente il tono di Chris a farglielo intuire, ma Kathleen si rese improvvisamente conto che i due uomini della BMW nera erano tornati. Capì che erano venuti per lei, per portarla nel bosco, da qualche parte. Quando l’avessero trovata, i suoi capelli sarebbero stati intrisi di sangue intorno al foro del proiettile, e il volto premuto a terra, con foglie e rametti che aderivano alla pelle.
E lì c’era Chris, era questa la cosa più schifosa. Era venuto per consegnarla a loro, il suo caro maritino, era venuto a blandirla per farla uscire senza resistenza, per non far sapere ai vicini che cosa stava succedendo, per non far casino. Aveva pensato che niente potesse più ferirla, ma quel comportamento di Chris la feriva eccome. La faceva star male da morire. Era sua moglie, ma a lui non importava un accidente. L’avrebbe consegnata a loro per soldi, come nel gioco alla televisione. Si fa qualsiasi cosa per denaro, anche alla propria moglie.
Si alzò, lentamente, anche se tutto dentro di lei sembrava sprofondare.
«Mio Dio, Chris», disse.
«Dobbiamo andare», continuò Chris in tono assente. «Il signor Hirschorn ha mandato i suoi uomini a prenderci.»
Le vennero le lacrime agli occhi. «Chris, che cosa stai facendo?»
«Forza, Kathleen», disse. «Va tutto bene, nessuno ti farà del male. Dobbiamo andare.»
Si gettò contro di lui, pianse e urlò di rabbia e disperazione, cercò di colpirlo con entrambi i pugni. Quando lui le prese i polsi, cercò di graffiarlo, di lacerargli le guance. Singhiozzava e le lacrime le bruciavano gli occhi, come acido. La disperazione e la rabbia le rendevano infuocate.
Chris la prese tra le braccia robuste e la tenne stretta, in modo che non potesse muoversi. Lei cercò di divincolarsi, mentre sentiva il puzzo del suo sudore rancido, dell’urina, di qualcos’altro che non sapeva definire, ma era orribile. Lottò e, alla fine, si arrese. Appoggiò il volto sul suo petto e pianse, mentre lui cercava di consolarla, le baciava i capelli.
«Va tutto bene», disse, sempre in quello strano tono di voce. «Dobbiamo solo andare via per un po’, non ci sono problemi. Nessuno ti farà del male. È solo finché tutto non sarà finito.»
Kathleen stava ancora piangendo. «Chris», disse. «Perché?»
«Su, andiamo», rispose lui. «È tutto a posto. Davvero.» Si avviarono verso la porta.
Dietro di loro erano iniziate le pubblicità. Un papà era a tavola e una mamma gli serviva una minestra calda, sorridendo a lui e ai due frugoletti, un maschio e una femmina. Non c’era audio, solo il canto dei grilli, il cane che abbaiava, e i singhiozzi di Kathleen stretta al petto del marito.
Chris la portò nell’ingresso dove c’erano i due uomini. Flake era entrato dal retro, Goldmunsen dal davanti. In quel modo avrebbero bloccato qualsiasi tentativo di fuga.
Ma Kathleen non tentò di fuggire. Non gliene importava più nulla. Perché doveva affannarsi a tentare? Si lasciò portare fuori, nella sera calda, verso la macchina nera. Esitò un attimo quando la vide, quando venne il momento di lasciare il vialetto di casa sua. Era tutto orribile, l’auto e Chris che la spingeva verso la morte. Tentò di fermarsi, ma lui la teneva stretta.
«Va tutto bene, Kathleen», ripeté l’uomo, assente.
I tre la fecero salire e partirono. A lei non importava più niente di che cosa sarebbe successo.
Bishop stava aspettando il momento propizio per attaccare l’uomo che lo scortava. Erano nella baracca, nella stanza al primo piano, una lunga stanza quasi completamente vuota. C’erano un paio di materassi, un tavolino quadrato, alcune sedie. Dal soffitto pendeva una lampadina nuda.
Chase si sedette al tavolino e inclinò la sedia all’indietro. La lampadina, direttamente sopra di lui, lo racchiudeva in un cerchio di bruschi contrasti luce-ombra. Era un uomo possente, con il torso come una piramide rovesciata e la testa come un masso appoggiato sulla base. Non toglieva mai le mani dall’arma che aveva a tracolla, e non toglieva mai gli occhi di dosso a Bishop.
Bishop era di fronte a lui, appoggiato alla parete opposta, con una gamba piegata all’indietro e la pianta del piede sul muro. Aveva un braccio posato all’altezza della vita, e dalla sigaretta che teneva in quella mano saliva lentamente un filo di fumo. Stava riflettendo su un certo numero di interrogativi: si chiedeva che cosa uno come Hirschorn stesse meditando di fare con un elicottero da guerra. Si chiedeva se sarebbe riuscito ad andarsene in tempo per fermarlo, e se al momento dell’azione avrebbe dovuto uccidere questo Chase.
Dopo un po’, si mosse e andò verso una delle finestre. Scostò leggermente la veneziana per sbirciare fuori. Il secondo uomo della scorta, un nero altissimo, era di guardia all’ingresso del piano terra. Si stava svolgendo una specie di riunione, di sotto, se ne sentiva il rumore. Bishop udiva le voci, quella di Hirschorn e almeno altre due. Ciò voleva dire che gli uomini armati erano probabilmente quattro. Qualsiasi cosa avesse deciso di fare, doveva essere veloce e silenzioso per non metterli tutti in allarme.
Lasciò ricadere la tenda e fece vagare lo sguardo per lo stanzone. C’era solo una porta, che dava sulla scala esterna. In fondo alla scala c’era il nero di guardia. Non c’era modo di evitarlo: un bel rompicapo.
Si rivolse a Chase.
«Che ne dici se esco sulle scale a prendere una boccata d’aria?» chiese.
«Che ne dici di restare qua?» disse Chase con una voce inespressiva. «Di aria qui dentro ce n’è abbastanza.» Oscillava avanti e indietro sulle gambe posteriori della sedia, senza perdere di vista Bishop.
Bishop gli si avvicinò con passo rilassato e Chase lo guardò con un sorriso di pietra sulla faccia di pietra. Lo divertiva l’idea che l’altro potesse tentare qualcosa.
«Che cosa significa?» insistette Bishop. «Sono prigioniero?»
«Solo nel senso che se cerchi di uscire io ti uccido.»
«Capisco», disse Bishop. «Per un attimo, ho creduto di dovermi preoccupare.»
Girò prima di essere troppo vicino a Chase; non c’era modo di sorprenderlo, era troppo vigile. Si mosse verso l’altro lato del tavolino, sempre seguito dagli occhi di Chase e dalla canna della sua mitragliatrice.
«Non penso che uccidermi sarebbe una buona idea», proseguì Bishop.
«Ehi, amico, non criticare le mie idee», replicò Chase. «Abbatte la mia autostima.»
Bishop mise le mani sullo schienale della sedia che stava di fronte all’energumeno. Si domandò se era abbastanza veloce per alzarla e arrivare a rompergliela sulla testa. Probabilmente sì, ma comunque Chase avrebbe sparato ammazzandolo. E questo era un bell’inconveniente per il piano.
«Voglio dire che sarebbe un po’ difficile per il nostro Hirschorn trovare un altro pilota così in fretta.»
«Certo», replicò Chase. «Ma sarebbe un po’ difficile anche per te ritornare in vita.»
«Capisco il tuo punto di vista.» Invece di alzare la sedia per colpire, Bishop vi si sedette. Prese il pacchetto di sigarette dalla tasca della camicia e lo buttò sul tavolo. «Serviti pure», disse. Pensò che se l’altro si fosse sporto in avanti, forse sarebbe riuscito a spezzargli prima il braccio e poi il collo.
Ma Chase non si avvicinò. Il sorriso di pietra si fece più ampio. «Ehi, sai cosa penso?» disse.
Bishop rifletté un momento. «No», rispose. «Che cosa pensi?»
«Penso che stai cercando di fregarmi.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«È incredibile. E perché dovrei?»
«Ah, non chiederlo a me», continuò Chase. «Se sei furbo, stai seduto lì e fumati le tue sigarette. Ti verrà il cancro, ma vivrai più a lungo.»
Bishop sorrise appena, si portò alle labbra la sigaretta — ormai consumata fino al filtro — e tirò un’ultima lunga boccata. Poi gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò sotto il tacco. Tutto sommato, pensò, era davvero meglio ucciderlo, quello lì. Era troppo abile per correre rischi.
Gli occhi dei due uomini si incrociarono. Chase sapeva che cosa Bishop stava pensando. Lo sapeva, eppure non smetteva di sorridere. Il che probabilmente non era un buon segno.
Non importava. Qualsiasi cosa Bishop stesse progettando, non l’avrebbe messa in atto in quel momento, perché proprio allora si udì un suono dall’esterno, un ritmico battito nell’aria. Un elicottero, un piccolo Jet Ranger o qualcosa di simile, che si avvicinava a bassa quota. Era molto vicino e molto basso: probabilmente doveva atterrare sulla vicina pista.
«Aspettate qualcuno?» chiese Bishop.
Chase non rispose: non ce n’era bisogno. Bishop gli leggeva in faccia la sorpresa.
La mente di Bishop iniziò a correre. Chi può arrivare qui senza essere atteso? Non sembrava il rumore di un elicottero della polizia. Ma nessun altro avrebbe potuto trovare quel posto senza conoscerlo e ciò significava che doveva essere qualcuno della banda di Hirschorn, qualcuno che con tutta probabilità portava delle notizie, notizie inattese e molto urgenti.
Ciò a sua volta significava che Chris doveva essersi svegliato in tempo per rivelare chi era Frank Kennedy, chi era e che cosa stava combinando.
E ciò significava, infine, che il tempo a disposizione di Bishop era appena finito.
Weiss era sempre immobile davanti alla finestra, con gli occhi fissi sulla città e la nebbia, le mani in tasca, il mento abbassato sul petto. Seguiva l’avanzare lento di una motocicletta che si faceva strada in un incrocio fitto di macchine.
Una luce pallida e bianca proveniva dalla scrivania, dal computer acceso dietro di lui. Non erano arrivati messaggi di Bishop, e questo lungo silenzio non faceva che alimentare il fuoco del senso d’urgenza che lo invadeva. Conoscendo Bishop, voleva dire che si trovava in un posto dal quale non poteva comunicare. Il che significava che, contravvenendo alle precise istruzioni di Weiss, era riuscito a conquistarsi la fiducia di Hirschorn e si stava avvicinando al cuore della sua attività criminale. Qualsiasi cosa stiano organizzando, accadrà presto. C’è poco tempo, farò del mio meglio. JB.
Poco tempo. Ma quanto poco? Cos’era che stavano organizzando? È che cosa c’entrava con Whip Pomeroy, Julie Wyant, Shadowman?
Weiss stava alla finestra, immobile a guardare giù. Vide un uomo in impermeabile nero che camminava velocemente sul marciapiede. Quando passò sotto la luce di un lampione, la sua figura si delineò per un istante, curva per difendersi dalla pioggia, poi scomparve nell’oscurità e nella nebbia. Weiss non si mosse, continuò a fissare il punto in cui l’uomo era apparso.
La sua mente tornò a quando, poche ore prima, in auto, aveva capito qualcosa di Shadowman, del suo veleno, della logica del suo mostruoso furore. Ricordò che Bishop aveva parlato di una lunga scia di morti dietro la scalata al potere di Hirschorn. Che fosse stato proprio Shadowman l’artefice materiale di tutti quegli omicidi? Forse allora Hirschorn era in debito con Shadowman, o addirittura gli doveva tutto. E aveva paura di lui, come chiunque. E se Shadowman avesse di colpo preteso il saldo del suo credito? Poteva diventare l’incubo della vita di Hirschorn, che di certo avrebbe fatto qualsiasi cosa per liberarsi di lui.
Ma che cosa poteva avergli chiesto Shadowman?
Weiss lasciò correre i pensieri. Pomeroy. Whip Pomeroy era la chiave. Pomeroy e il suo segreto, l’identità nuova di Julie, il nome che aveva attualmente. Pomeroy che aveva assistito all’umiliazione di Shadowman. Weiss sapeva che l’assassino doveva uccidere Whip per quel motivo. Torturarlo per estorcergli il nome di Julie e poi ucciderlo, perché aveva sentito. Pomeroy lo sapeva ed era così terrorizzato da arrivare a barattare i segreti del suo lavoro in cambio della segregazione nel carcere più sicuro del paese… eppure, aveva ancora una paura folle. «Non potete proteggerci, né me né lei. Non potete proteggere nessuno. Niente può fermarlo, niente», aveva detto.
Weiss mosse leggermente la testa e alzò lo sguardo dalla strada alla cortina di pioggia e nebbiolina davanti a lui. Nessuno può fermarlo. Ridicolo, pensò. Il carcere di North Wilderness era impenetrabile. Se Shadowman, o chiunque altro, poteva arrivare abbastanza vicino a Pomeroy da fargli confessare il suo segreto, allora Weiss era il re di Romania.
Eppure… eppure continuava a sentire quel furore, quel veleno, quell’irrefrenabile odio. Il furore personificato, trascinato dall’amore. Che cosa non avrebbe potuto fare? Weiss guardò giù nella nebbia e pensò: il Furore. Il Furore innamorato.
Proseguì in quella direzione. Se era possibile, come sarebbe avvenuto? Se il furore e l’amore ti obbligavano ad agire, se Julie doveva essere trovata per forza, se Pomeroy doveva morire a tutti i costi. Era una cosa complessa. Non si poteva certo corrompere una guardia o un altro prigioniero per far parlare Pomeroy. No. Bisognava entrare, stargli vicino, avere il tempo di estorcergli il segreto. Bisognava guardare quell’uomo negli occhi per capire se diceva la verità.
Weiss si accigliò, con lo sguardo sempre fisso nella notte, ma senza vedere più nulla. Il modo più facile sarebbe stato minacciare la famiglia di Pomeroy, i suoi amici, fargli sapere che avresti fatto loro del male se non cedeva. Ma era inutile, perché Weiss si ricordava delle parole di Ketchum: Pomeroy non aveva amici, e Moncrieff era stato la sua unica famiglia.
Il possente torace di Weiss fu scosso da un sospiro. Quindi la soluzione era una sola. Shadowman doveva introdursi nella prigione. Doveva ottenere un lavoro come guardia o qualcosa del genere. Ma nell’esaminare questa possibilità, Weiss scosse la testa. Si ricordò di aver letto che le guardie di North Wilderness erano accuratamente selezionate; dovevano avere anni di esperienza, mesi di addestramento. Non si potevano falsificare le credenziali a tal punto.
«No», disse a voce alta; la cosa era impossibile, quella di Pomeroy era paranoia.
Eppure c’era quel furore. Il veleno che era arrivato a percepire prima, in macchina. La logica di quel furore. Weiss rimase immobile, le mani in tasca. Riportò lo sguardo a fuoco, sulla nebbia e i suoi movimenti sinuosi, vorticosi. Vide le sagome che passavano veloci in basso, e le luci che trapassavano la foschia, circondate di aloni e arcobaleni.
Gli tornò in mente Julie, i suoi occhi sognanti e lontani, quel gesto con cui lo chiamava dallo schermo del computer. Per un attimo fu accanto a lei al Golden Gate, gli parve di vederla mentre abbandonava l’auto, si metteva la parrucca e prendeva possesso della nuova macchina e dei nuovi documenti che Pomeroy doveva averle fornito.
Poi si sentì vicino a Pomeroy, in cella, in attesa, terrorizzato.
Poi fu con Shadowman. E quel furore…
C’era solo un altro modo per entrare in prigione, pensò. Il modo più facile, il modo in cui ci vanno tutti.
Allora Weiss alzò gli occhi, li alzò finché non vide più quel che c’era fuori, ma solo il proprio riflesso.
«Oh, cazzo», sussurrò.
Poi lasciò rapidamente la finestra e si avvicinò alla luce bianca dello schermo.
Dall’esterno cominciavano a giungere dei rumori: voci che chiamavano, una risposta soffocata. Bishop si alzò in piedi.
Chase, sempre inclinato all’indietro sulla sedia, impugnò più saldamente l’arma. «Non muoverti», gracchiò.
Bishop lo ignorò, tornò alla finestra e guardò tra le stecche delle veneziane.
Eccoli: avanzavano fra gli alberi in direzione della baracca. Chris e Kathleen, l’assistente di Hirschorn, Alex Wellman, e i due scagnozzi, Goldmunsen e Flake, a chiudere la fila.
L’uomo di colore era in attesa vicino alla porta e in quel momento uscì anche Hirschorn. Altri due uomini armati, in tuta mimetica, lo seguirono. A un comando di Hirschorn, si mossero in direzioni opposte e scomparvero alla vista di Bishop.
Chris stava già gesticolando, parlando a Hirschorn mentre si avvicinava. La sua voce arrivava chiara nella stanza superiore e Bishop sentì quasi subito il suo falso nome, Kennedy. Ecco, era fatta. Quella certezza parve scendergli nella pancia come un sasso: era finita. L’avevano scoperto.
Bishop pensò che Chris ci avrebbe messo due minuti a convincere Hirschorn, poco più. Poi sarebbero arrivati per spaccargli la faccia e farlo parlare. Oppure l’avrebbero semplicemente ucciso, chi poteva dirlo? In ogni caso, era giunto il momento di andarsene.
In quell’istante il suo sangue freddo gli fu prezioso. Riuscì a girarsi senza scatti e a recitare la sua parte con disinvoltura.
«Pare che arrivino i rinforzi», disse con tono tranquillo. «Che diavolo avete in programma stanotte, un’invasione?»
«Siediti e basta», rispose Chase a voce bassa, con il mitra sempre puntato sul petto di Bishop, che si strinse nelle spalle.
Là fuori, Chris stava raccontando tutto. Che Bishop aveva sedotto Kathleen, che lei aveva cominciato a spiarli, e chissà che altro. Proprio in quegli istanti, Hirschorn stava cominciando a intravedere la verità, a capire cos’era successo. Bishop lo sapeva, eppure tornò verso la sedia senza fretta, seguito passo dopo passo dal mitra di Chase.
Raggiunse la sedia. Aveva forse ancora un minuto, quarantacinque secondi. Magari anche meno. Si sedette con un sospiro pigro. Da un momento all’altro avrebbe sentito i passi sulla scala, la porta si sarebbe spalancata… Rivolse a Chase un mezzo sorriso. «Mi sembri teso, amico», disse calmo. «Dovresti…»
E mentre Chase aspettava di sentire quale stronzata Bishop volesse dirgli, quest’ultimo gli rovesciò il tavolino addosso. Chase volò all’indietro, con le gambe in aria, insieme alla sedia e al tavolo. Bishop doveva spostarli per raggiungerlo: in quel momento Chase riuscì a rimettere le mani sul mitra e aprì la bocca in un ruggito.
Bishop gli calò pesantemente addosso, gli spinse l’arma contro il petto con il ginocchio e gli afferrò la gola con la mano. Chase emise un unico, debole suono strangolato e poi tutto fu finito. La stretta di Bishop si chiuse come una morsa, il suo braccio scattò all’indietro con brutale rapidità, strappando via una porzione sanguinante della gola e dell’esofago dell’uomo.
Il corpo di Chase si inarcò e poi ricadde con uno spasmo. Bishop lo tenne giù con le ginocchia durante le convulsioni. Ci volle solo un momento prima che il gorilla si afflosciasse a terra, cadavere. Con una smorfia di disgusto, Bishop gli gettò accanto quel che gli era rimasto in mano.
Bishop lo scavalcò per sfilargli l’arma dalla spalla. C’era solo un caricatore da quindici colpi. Passò le mani sul corpo immobile per cercarne uno di ricambio, ma non lo trovò.
Si alzò con la mitraglietta in mano. Rimase in ascolto: nessun suono, niente passi sulle scale. Non ancora. L’operazione Chase gli aveva preso circa dieci secondi; a parte quel poco trambusto provocato dal tavolino e dalla sedia che cadevano, non vi erano stati rumori.
Ritornò rapidamente alla finestra, appiattito contro il muro. Muovendosi da una parte all’altra, sbirciando fra la tenda e la parete, si fece un’idea della scena in atto di sotto. Chris era finito in ginocchio, a testa bassa. Kathleen era trattenuta dalle braccia di Goldmunsen, e Hirschorn… Nonostante la distanza e il buio della foresta, Bishop gli vide in faccia un pallore mortale. Ormai sapeva.
«Avete mandato tutto a puttane, a puttane!» sentì Hirschorn imprecare, mentre si passava una mano fra i capelli. I suoi bei lineamenti fini sembravano disfatti, privi di vita. Era pieno di rabbia per quello che Chris gli aveva detto. Pieno di rabbia… e di paura.
Improvvisamente guardò su, verso la finestra. Bishop si ritrasse subito, si appiattì contro la parete, con l’arma in mano. Girò la testa per vedere la porta. Di lì non c’era scampo, sarebbe entrato direttamente nella linea di fuoco. Tenendo la testa contro il muro, cercò di sbirciare ancora dalla fessura della tenda.
Hirschorn stava guardando Chris, sempre inginocchiato. Il suo volto pallido stava diventando rosso di collera. Con una smorfia schiaffeggiò brutalmente Chris, che si piegò alzando timidamente le mani per proteggersi.
«Pare che alla fine avrai la tua occasione di volare, testa di cazzo», sibilò.
Bishop udì Chris rispondere fra le lacrime: «Lo farò, lo giuro…»
Hirschorn lo colpì ancora. «Taci.» Il petto era scosso da un respiro affannato. Si rivolse al suo assistente, Wellman. «Portalo dentro.»
La figura magra del factotum si chinò e prese Chris per un braccio. Non sarebbe riuscito a sollevarlo con la forza, ma fu sufficiente che lo toccasse e Chris si alzò, instabile, con la testa bassa. I due uomini si avviarono verso l’edificio.
Hirschorn sputò, disgustato, passandosi ancora la mano tra i capelli. Bishop, che lo guardava dall’alto, ne percepiva la paura. «Il mio socio è un tipo esigente», aveva detto. Qualsiasi fosse la missione che quel socio gli aveva affidato, non contemplava la possibilità di fallimenti o ritardi.
Hirschorn guardò Goldmunsen, poi Flake. Prese un respiro, cercando di ricomporsi, e disse: «Bene, portate questa puttanella alla palude. Fatela fuori e basta, senza perdere tempo, capito? Tornate più in fretta che potete. Tu, dagli la torcia».
L’ultimo ordine era diretto all’uomo di colore, che passò la torcia a Flake. Goldmunsen, intanto, diede una spinta a Kathleen per farla camminare. La donna si muoveva lentamente e il gorilla dovette spingerla più volte per farla proseguire. Flake li seguiva, illuminando il cammino.
Bishop non poté far altro che restare immobile, schiacciato contro il muro, a guardare Kathleen che veniva portata nella foresta, finché non scomparve nel buio.
Hirschorn intanto si era rivolto all’altro uomo. «Vai a occuparti di quel figlio di puttana di sopra. E fa’ in fretta. Dobbiamo cominciare a muoverci.»
Il nero si avvicinò alla scala. Bishop si appiattì ancora di più sulla parete.
«Cristo», sentì Hirschorn imprecare. «Che dannato casino.»
Poi dei passi pesanti risuonarono sui gradini, e il nero spalancò la porta.
Il nero spalancò la porta e Bishop gli sparò. Tirò il grilletto due volte, e l’uomo si accasciò contro lo stipite, morto.
Non era ancora caduto, che già Bishop lo stava scavalcando per scendere le scale.
Fuori la situazione era difficile. Gli spari si erano sentiti e gli altri due uomini armati stavano correndo verso di lui. Uno arrivava dal lato del capannone, a sinistra, l’altro dal folto della foresta a destra. Erano veloci e decisi, pronti a colpire.
Bishop si aggrappò alla ringhiera della scala e, quando aprirono il fuoco, con un volteggio si buttò fuori. Gli spari dei mitra tagliarono l’aria mentre lui cadeva nel buio. Toccò terra e rotolò via alla cieca. I proiettili colpirono rumorosamente la lamiera della baracca, alle sue spalle. Bishop saltò in piedi, sparò verso i suoi assalitori e si mise a correre.
In un attimo girò l’angolo dell’edificio e si ritrovò fra gli alberi. Correva a zig-zag, cercando di trovare riparo dietro i tronchi degli alberi. La luna non si vedeva più, il buio era quasi totale, a parte le luci delle torce che balenavano qua e là. Si udirono le grida degli uomini, poi una raffica di mitra. Dei pezzi di corteccia lo colpirono in volto, staccati da un proiettile, e sentì che altri avevano colpito il terreno accanto ai suoi piedi. Si gettò di nuovo a terra, rotolò su se stesso e rimase appiattito al suolo. Ventre a terra, sparò ancora, poi scorse la sagoma di uno degli uomini chinarsi tra le ombre della foresta. Improvvisamente una luce lo colpì negli occhi. Fece fuoco in quella direzione e il raggio di luce si mosse scompostamente, diretto verso l’alto.
Cercò di approfittare del momento di confusione. Si alzò e corse via nel buio. Tentò di sparare un colpo per coprirsi le spalle, ma i proiettili erano finiti. Imprecando, si sbarazzò dell’arma e continuò a correre, alzando bene i piedi per non correre il rischio di inciampare e cadere.
Udì ancora delle grida dietro di lui, ma sempre più lontane. Non sapevano che non aveva più proiettili e nessuno quindi aveva molta fretta di seguirlo nella foresta. Con un po’ di fortuna, sarebbe potuto arrivare prima di loro all’aereo, andare via e far sapere dell’elicottero.
Mentre correva, però, non riusciva a liberarsi da un pensiero. Kathleen. Lì intorno, da qualche parte, Goldmunsen e Flake la stavano portando a una palude, per piantarle un proiettile nella nuca. Bishop non era dotato di una grande fantasia, ma non aveva difficoltà a immaginarla distesa a faccia in giù, con il sangue che si perdeva nell’acqua fangosa.
Ma lui che cosa poteva fare? L’aveva avvertita. Le aveva detto che le cose potevano precipitare, le aveva detto di mettersi in salvo. La sua coscienza era a posto. Aveva seguito le regole. Non poteva certo fare dietrofront e andare a salvarla. Non era suo dovere, comunque. Doveva arrivare al Cessna. Questa era la sua missione. Kathleen non faceva parte della missione.
E poi, pensò, era probabile che fosse già morta, che il suo corpo fosse già a faccia in giù nella palude.
Se lo vide davanti agli occhi, quel corpo che aveva abbracciato, e continuò a correre, schivando come poteva gli ostacoli nel bosco buio.
Weiss a quel punto aveva quasi trovato ciò che stava cercando, seduto al computer del suo ufficio, al buio. Aveva davanti a sé tutte le informazioni che gli servivano.
Il motore di ricerca Endgame, riservato agli investigatori professionisti, conteneva circa cinquecento database, compresi i documenti di tutti i dipartimenti di polizia e delle carceri, le fedine penali di tutti i criminali, le sentenze dei tribunali. Elaborò in breve tempo una lista di uomini che erano stati trasferiti a North Wilderness negli ultimi tre mesi, da quando Pomeroy vi era entrato in custodia. Erano circa centocinquanta nomi. Molti di questi, però, erano in prigione da mesi, alcuni da anni, e solo dodici erano fuori quando Julie Wyant era scomparsa.
Tutti e dodici erano assassini, naturalmente. Per arrivare a North Wilderness, l’assassinio era il primo passo da fare. Weiss cercò i particolari dei loro crimini. Vendette tra bande, sparatorie in luoghi pubblici, uno di Los Angeles che aveva fatto a pezzi la fidanzata… Analizzò tutti i casi, non solo attraverso le pratiche di polizia, ma anche leggendo gli articoli di giornale. In verità sarebbe potuto arrivare alla risposta molto più in fretta, ma non si fidava completamente del proprio istinto, delle illuminazioni. Era molto scrupoloso in quel senso. Procedeva adagio, come una persona che si fa strada in una stanza sconosciuta di notte, a tentoni. Voleva che ogni elemento avesse un senso logico.
Le grosse dita battevano sulla tastiera e gli occhi scrutavano lo schermo, che spandeva la sua luce bianca sui lineamenti pesanti di Weiss. Eliminava i nomi e i fatti con misurata lentezza. Per esempio, prima di ritornare in cella Pomeroy aveva vagamente descritto Shadowman, così Weiss sapeva che l’individuo che cercava era bianco; però era riluttante a escludere latinoamericani, perché temeva che l’assassino usasse qualche travestimento. Cancellò invece i neri. Sapeva anche che Shadowman aveva fretta di entrare in prigione, perciò eliminò quelli che avevano permesso al loro caso di arrivare al processo, quelli che erano stati arrestati dopo lunghe indagini e quelli arrestati dopo più di due o tre giorni dal crimine.
Di certo era un procedimento scientifico, ma era anche una perdita di tempo. Se solo avesse ascoltato il suo istinto, invece della logica, avrebbe saputo chi era il suo uomo. Perché Weiss aveva quel talento particolare per seguire il pensiero del killer e addirittura prevederne le mosse. Sapeva esattamente qual era il tipo di delitto più adatto a lui. L’assassino, secondo lui, doveva aver scelto la vittima a caso. Perché no? Avrebbe ottenuto lo stesso risultato uccidendo chiunque. Ma doveva esserci qualcosa in più: doveva aver lasciato involontariamente una firma, il marchio della sua personalità omicida, come un’impronta lasciata per distrazione. Doveva averci messo un po’ di sadismo, un’efficienza esasperata, una maniacale ricerca di perfezione, ma anche, senza volere, una perversa ironia. La vittima doveva essere giovane, una donna probabilmente, bella, intelligente, sicura di sé. Una giovane mamma o, meglio ancora, una giovane fidanzata. Una persona che fosse amata, con un futuro davanti, che sarebbe stata rimpianta. Doveva essere una donna con un lavoro di prestigio, entro certi limiti, perché il killer non voleva certo una persona troppo intelligente o furba. Doveva aver scelto una creatura dolce e felice, all’alba della vita, così nell’ucciderla avrebbe provato un’insana soddisfazione per il suo grottesco incontro con la morte.
Weiss sapeva queste cose, ma non ne era neppure del tutto cosciente, perché non avevano la solidità della logica. Erano impressioni troppo simili alla superstizione. Impiegava dunque preziosi minuti ad analizzare i delitti commessi dagli assassini della lista. Questo lavoro, però, fin dall’inizio, continuava a riportarlo a un unico caso.
Richiamò sullo schermo un articolo sulla morte di Penny Morgan. La ragazza, una ventitreenne di San Francisco, era stata uccisa durante una rapina nel suo appartamento. Si era appena fidanzata, asseriva l’articolo. Era descritta come simpatica, allegra, disponibile. Le avevano sparato in faccia, a distanza ravvicinata. Subito dopo aver udito i colpi di pistola i vicini avevano chiamato la polizia, che era arrivata giusto in tempo per vedere l’assassino che cercava di scappare con un magro bottino di denaro e gioielli. Aveva confessato un’ora dopo l’arresto.
Weiss si appoggiò allo schienale, allontanandosi dalla luce dello schermo. Il suo viso svanì nel buio della stanza mentre leggeva ancora l’articolo da cima a fondo. Sarebbe andato avanti a controllare gli altri casi fino a essere del tutto sicuro, ma già ora la sua voce si levò nel buio, in un sussurro.
«Ben Fry», fu tutto quel che disse.
Nel bosco Kathleen inciampò in un ramo. Goldmunsen, il più grosso dei gorilla, camminava subito dietro di lei, con la pistola. Flake si spostò al fianco della donna per illuminare meglio con la torcia il loro cammino.
Kathleen non guardava i suoi assassini. Riprese semplicemente il cammino con lo sguardo basso, rassegnata. Non le importava più di niente e piangeva solo perché si era resa conto di quanto squallida fosse stata la sua vita, e sempre per colpa di uomini. Gli uomini erano dei vigliacchi, degli esseri meschini. Rivedeva Chris che strisciava verso Hirschorn, Frank Kennedy con lo sguardo sprezzante. E lei non aveva mai desiderato altro che l’amore di uno di quei bastardi. Che cos’era, un delitto?
Si passò il polso sotto il naso colante e continuò ad avanzare, a fatica, cercando di districare i piedi dal sottobosco. Il terreno, irregolare, era in discesa. Stavano camminando da un po’ e la palude non doveva essere lontana. Kathleen ne percepiva l’odore, ne sentiva i rumori: un vero e proprio frastuono di rane e insetti. Procedeva passo dopo passo, rallentando ogni tanto per asciugarsi il viso con le mani. Goldmunsen la spinse in avanti con la pistola e la fece inciampare, forse su una radice. Dovette fermarsi un attimo per ritrovare l’equilibrio, appoggiandosi col braccio a un tronco.
«Non ti fermare», blaterò Goldmunsen.
«Vaffanculo», rispose lei.
A quelle parole, Flake ridacchiò sadicamente.
«Vaffanculo anche tu, bastardo di uno psicopatico», continuò Kathleen.
«Ehi, puttana, stai attenta a quello che dici.» Flake cercò di colpirla in faccia con un manrovescio, ma lei lo bloccò con entrambe le braccia, spostandosi di lato. «Ehi», ripeté l’uomo, mentre quasi perdeva l’equilibrio.
«Tieni le tue sporche mani lontano da me», urlò Kathleen, e che andassero tutti all’inferno. Potevano ucciderla anche subito, ma non gliene importava. Nessuno, neanche uno di questi figli di puttana, le avrebbe più messo le mani addosso. «Stammi lontano!»
Precedendoli entrambi si affrettò giù per la discesa, piangendo.
Flake rimase fermo per qualche istante, stupito, imbambolato.
«Forza, ci siamo quasi», disse Goldmunsen. «E questa volta speriamo di poter fare quello per cui siamo venuti, senza complicazioni. Maledette zanzare, mi stanno uccidendo.»
«Hai visto?» stava dicendo Flake. «Hai visto che cosa ha fatto quella puttana?»
La inseguì, e quando la raggiunse le si parò davanti, puntandole la torcia negli occhi, per avere la sua attenzione. Kathleen la spostò come se fosse un fastidioso insetto, senza guardare l’uomo.
«Pensi che non userò il coltello su di te?» disse.
«Vai a farti fottere», rispose Kathleen.
Flake non riusciva a credere alle sue orecchie. Rimase a bocca aperta.
«Forza, andiamo», disse Goldmunsen superandolo.
«Ma…»
«Forza!»
Che cosa poteva fare Flake? Si rassegnò a seguirli, illuminando la strada.
Kathleen sentì che il terreno sotto i piedi diventava più umido, spugnoso. Le zanzare erano sempre di più e le rane gracidavano vicine. Poi ci fu una scintilla nel buio, un barbaglio lucido: il raggio della torcia aveva sfiorato l’acqua.
Kathleen ebbe un moto di paura. Erano arrivati, ecco la palude. Deglutì, sperando che tutto finisse presto.
Un altro passo e il piede fu a mollo. L’acqua fredda entrò nelle sue scarpe da tennis e le bagnò le calze. Si fermò, non c’era nessun altro posto in cui andare. Era la fine.
Venne percorsa da un brivido e incrociò le braccia sotto il seno, rassegnata. Mosche e zanzare le ronzavano intorno ma lei non ci faceva caso. Perché prendersela? Tra poco sarebbe morta.
Guardò la distesa d’acqua. Sopra di loro si vedeva il cielo, e anche la luna, ancora bassa sull’orizzonte. Distingueva alcuni gruppi di canne e giunchi e il riflesso delle stelle. Tutto questo, attraverso il velo delle sue lacrime.
Scosse la testa davanti a quella scena notturna, con una smorfia amara. A che serviva tutto questo, se nessuno ti amava? Forse avrebbe dovuto chiedere agli uomini di abbandonarla come aveva fatto suo padre, a suo marito di picchiarla, al suo amante di mentire. Forse, allora, sarebbero stati affidabili, gentili e sinceri solo per farle dispetto, per spiazzarla. Chi cazzo poteva saperlo? Ma chi ci capiva niente, poi, della vita?
Rabbrividì ancora, di freddo. Gesù, perché non si sbrigavano?
Si voltò per affrontare quei bastardi, ma si accorse che era arrivata lì così velocemente da lasciarli indietro. Goldmunsen stava ancora scendendo il pendio, appesantito dalla sua mole, agitando un braccio per non perdere l’equilibrio mentre con l’altro teneva la pistola. Per lui, l’omicidio doveva essere un’abitudine. Flake la stava raggiungendo da sinistra, tenendosi fuori dall’acqua per non bagnarsi le scarpe. Continuava a saltellare, come se l’energia da psicopatico che aveva dentro minacciasse di farlo esplodere. Aveva il volto eccitato, di chi pregusta qualcosa, la bocca contorta in un ghigno di piacere all’idea di quello che stava per succederle.
Anche quei due, Kathleen pensò, erano due vigliacchi figli di puttana, nulla di più. Le facevano schifo.
«Maledetti bastardi», urlò. Detestava che la vedessero piangere, ma non riusciva a smettere. Era troppo terrorizzata e infelice. «Ma guardatevi!»
I due, stranamente, obbedirono e si fissarono come idioti. Lei avrebbe riso, se ci fosse riuscita.
«Se fossi in voi mi vergognerei di respirare, di sprecare l’aria degli altri», disse, e i due uomini la guardarono visibilmente stupiti. Kathleen aveva il volto alterato dalla rabbia. «Forza, bastardi, sparate. Che cosa state aspettando? Non ne posso più di avervi davanti.»
Flake non credeva alle sue orecchie. Guardava la donna e guardava Goldmunsen, con la bocca aperta, sconvolto.
«Bene, l’hai voluto tu», disse infine. Spostò la torcia dalla mano destra in quella sinistra, per poter estrarre il coltello a serramanico. Lo aprì e cominciò a balbettare: «Io… io la faccio a pezzi». Non riusciva quasi a parlare.
Kathleen lo guardò sprezzante. «Forza, grand’uomo», disse.
Flake si mosse verso di lei, ma Goldmunsen era stufo di lui. Era stata una giornata lunga, e aveva già assistito alla stessa scena con il marito di quella puttana. Due passeggiate come quelle nello stesso giorno, e ancora non era morto nessuno. Non ne poteva più, di Flake e di tutta quella storia.
«Piantala, Flake, dacci un taglio!» disse.
Il tono della voce costrinse l’altro a fermarsi. Era vicino all’acqua e guardava la donna con un odio profondo.
«Stai fermo, cazzo», continuò Goldmunsen. «E tieni ferma la torcia finché non ho finito.»
Flake esitò, tremando di rabbia.
«Fai come ti ho detto», urlò Goldmunsen. «Ricordati che il signor Hirschorn ci ha detto di sbrigarci.»
Il nome del capo fece desistere Flake, che emise un sospiro. «Va bene, va bene», mormorò. «Merda.» Alzò la torcia fino a illuminare Kathleen in piena faccia. Lei alzò la mano per proteggersi gli occhi, ma poi riprese a guardarli dritto in faccia, con una smorfia di disprezzo nonostante le lacrime. Flake non capiva, come faceva Goldmunsen a non prendersela? Come poteva ucciderla con un semplice colpo di pistola, senza spazzarle via quel ghigno dalla faccia e farle chiedere pietà?
Ma a Goldmunsen non importava proprio niente della donna, della faccia che aveva o di sentirla chiedere pietà. Voleva eliminarla e chiudere la storia. Anzi, arrivò addirittura a fare un mezzo sorriso di ammirazione.
«Hai più palle tu di tuo marito, bisogna ammetterlo», le disse.
Poi, con un gesto fluido, sollevò la pistola e mirò al petto.
E Jim Bishop gli saltò addosso, sbucando dalle tenebre come una pantera.
Era arrivato tardi. Anche correndo più forte che poteva in quel buio, aveva trovato la palude solo in quel momento, all’ultimo istante. Non c’era modo di preparare un agguato, doveva attaccare subito. Spiccò un salto, sperando di arrivare addosso al gorilla prima che premesse il grilletto.
Lo raggiunse proprio all’ultimo secondo, deviando il colpo della pistola che si perse nell’oscurità. I due uomini crollarono avvinghiati nel fango.
Per un istante Flake rimase di sasso, completamente sorpreso, con il coltello in una mano e la torcia nell’altra. Vide i due che combattevano, rotolandosi uno sull’altro, ma non riusciva a capire che cosa fosse successo.
Poi se ne rese conto e corse verso di loro, cercando di chiudere il coltello. Non ci riuscì e lo buttò per terra, per affrettarsi a estrarre la pistola dalla fondina.
Era quasi su di loro quando Bishop si sollevò al di sopra della sagoma del gorilla, un perfetto bersaglio per Flake che, da un metro di distanza, gli puntò la pistola alla fronte.
Ma fu Bishop che gli sparò. Lo colpì con la pistola di Goldmunsen, di cui si era impadronito proprio per cercare l’altro scagnozzo. E alzando lo sguardo se l’era trovato davanti: Flake stava ancora prendendo la mira quando Bishop aprì il fuoco. Si udirono tre esplosioni, e tre proiettili raggiunsero il petto dello psicopatico, che barcollò e allentò la presa sull’arma prima di poter rispondere. Ma in un attimo si riprese, e fu pronto a premere il grilletto.
Bishop alzò la mira e sparò di nuovo, questa volta in faccia. I lineamenti di Flake esplosero e il corpo crollò a terra. Era morto, sdraiato nel fango. La torcia che teneva nella sinistra gli era caduta sul petto e lì rimase, a illuminare lo squarcio rimasto al posto del volto.
Ma ora Goldmunsen, sempre a terra sotto Bishop, riuscì a muoversi e a scrollarselo di dosso.
Bishop rotolò sul terreno morbido e si rialzò di scatto. Cercò di prendere la mira nonostante il buio, ma Goldmunsen fu più rapido. Gli assestò un calcio al polso, e la pistola fu sbalzata via.
E Goldmunsen tornava all’attacco. Colpì Bishop di destro alla mascella, senza che questi potesse neppure tentare di parare o evitare il colpo. Lo prese in pieno e fu scaraventato indietro, istupidito dal pugno. Prima che potesse capire, prima ancora che potesse anche solo pensare di reagire, Goldmunsen lo colpì ancora con tutta la forza del suo braccio scimmiesco, un sinistro violentissimo al plesso solare.
Bishop grugnì, sentendosi soffocare. Piegato in due, non riusciva più a pensare, in quel momento di rabbia impotente e frustrazione. Poi Goldmunsen alzò il pugno destro in aria e colpì Bishop sulla nuca.
Il cervello del detective si oscurò. Sentì che cadeva in ginocchio e poi su un fianco, ma niente altro.
Rimase lì, tra le foglie e il fango. Vide Goldmunsen andare verso Flake, cercare la sua pistola. Si rese vagamente conto che era finita, che se non si fosse alzato sarebbe morto.
Ma ad alzarsi non riusciva. La mente non riusciva a pensare con chiarezza, si sentiva svuotato e senza forze. Eppure, facendo ricorso a tutta la sua forza di volontà, ci provò. Appoggiò una mano al terreno e spinse, piegando un ginocchio per tirarsi su.
Non riuscì ad andare oltre. Fu sorpreso così, appoggiato a una mano e a un ginocchio, dalla pistola che Goldmunsen aveva finalmente trovato e puntato fra gli occhi di Bishop.
Non c’era più speranza, era morto. Così diceva la canna nera di quella pistola.
Merda, pensò.
Poi sentì il colpo. Anzi, due colpi sordi che squarciarono la notte.
Guardò Goldmunsen e il gigante ricambiò lo sguardo, con il petto che ansimava. Nei suoi occhi c’era un misto di confusione e stupore, l’espressione di chi non ha capito che cosa sia successo.
Poi fece un passo avanti e cadde pesantemente, sollevando un nugolo di foglie.
Bishop guardò oltre il corpo senza vita del gorilla e vide Kathleen. Aveva trovato la pistola che lui aveva perso e la teneva davanti a sé, stringendola con ambedue le mani tremanti. Gli occhi erano pieni di rabbia, il volto segnato dalle lacrime e contratto in una smorfia d’ira.
Bishop guardò ancora l’uomo a terra, poi Kathleen, e pian piano capì che lei lo aveva ucciso. Annuì. Era andata bene. Meglio di quanto si fosse aspettato, comunque.
Cominciò di nuovo a tentare di alzarsi.
«Non provare a muoverti, figlio di puttana», disse Kathleen, puntandogli la pistola contro. «Tu sei il prossimo.»
«Aspetti un attimo», stava dicendo l’uomo all’altro capo del telefono. «Mi faccia capire.»
Weiss si stava stropicciando gli occhi. Era tardi, sicuramente erano da un pezzo passate le dieci. L’ufficio era ancora buio e il computer sempre acceso. Sullo schermo adesso c’era la figura di Julie Wyant, che ammiccava allo spettatore nello spot montato ad anello. Weiss lo faceva girare nel computer e non riusciva a smettere di guardarlo, con una stretta al cuore ogni volta. Lei era chissà dove, e Shadowman la stava cercando. Ogni minuto era prezioso.
«Lei mi chiama a casa di sera per dirmi che c’è un assassino rinchiuso nel mio carcere di massima sicurezza», disse la voce al telefono. Era Roger Nelson, il direttore del carcere di North Wilderness. Aveva una voce asciutta, diretta, di uno che ne ha viste tante. E non sembrava molto felice di sentire Weiss. «Forse la cosa la sorprenderà, ma ce ne sono molti là dentro. In genere l’assassinio è una delle caratteristiche richieste per essere rinchiusi nella mia prigione.»
«La differenza è che questo assassino, Ben Fry, si è fatto rinchiudere apposta», replicò Weiss. «Ha progettato il suo arresto per arrivare a un altro detenuto, Lenny Pomeroy. Ha intenzione di torturarlo per estorcergli un’informazione, per poi ucciderlo ed evadere.»
La ragazza sullo schermo si protese in avanti, una mano dietro la schiena. L’indice dell’altra mano si piegò in un gesto che pareva rivolto proprio a Weiss. L’investigatore si sciolse in quello sguardo angelico. Pensò che aveva gli occhi più profondi che avesse mai visto.
Nelson, nel frattempo, rideva. «Questo sarebbe il piano più diabolico di cui abbia mai sentito parlare, Weiss. Ha solo un difetto, è completamente impossibile. Ha idea di quali sistemi di sicurezza ci siano in quella prigione? Anche se questa storia fosse vera, cosa di cui dubito, quell’uomo non ci riuscirebbe mai.»
«Le dico che può farcela», disse Weiss con voce frustrata. «E ce la farà.»
«Ah sì? E lei come fa a saperlo?»
Weiss alzò gli occhi al cielo in cerca di aiuto, ma l’aiuto non arrivò. Questa era la domanda che temeva, quella per cui non aveva risposta. Come lo sapeva? Intuito, esperienza? Non lo sapeva neppure lui.
«Ho una fonte sicura», mentì infine.
«Chi?»
«Non posso rivelarlo.»
«Buonanotte, Weiss», disse Nelson.
«Direttore…»
«Senta, Weiss», replicò Nelson con tono stanco. «Glielo ripeto solo una volta prima di riattaccare: sia lei, sia ogni altro contribuente dello stato della California potete dormire sonni tranquilli perché l’amministrazione penitenziaria sta facendo tutto ciò che è in suo potere per proteggervi contro i malfattori già sotto custodia. D’accordo?»
Weiss tentò di replicare, ma non ne ebbe la possibilità. Il ricevitore fu appeso e la linea interrotta.
Anche Weiss ripose la cornetta e si passò le dita sulle labbra secche, riflettendo.
La ragazza ammiccava dallo schermo, con i capelli rossi lucenti.
Weiss allungò di nuovo la mano verso il telefono.
Kathleen urlò di nuovo: «Tu sei il prossimo, te lo giuro!»
Bishop, ancora inebetito dai colpi, si alzò in piedi, oscillando come l’albero di una barca col mare mosso.
«Non muoverti! Non muoverti!» La voce di Kathleen era rauca e stentorea. A quel suono gli uccelli notturni si alzarono in volo dall’acqua. Anche gli insetti parvero zittirsi.
La donna fece un passo verso Bishop, puntandogli la pistola contro. Aveva i denti scoperti in una smorfia furiosa e allo stesso tempo era scossa da singhiozzi che sembravano soffocarla.
Bishop la osservò con distacco. Osservò la pistola. Vide la donna fare un altro passo verso di lui e guardò il suo volto, considerandolo con attenzione. Poi si guardò intorno, come in trance.
Bizzarra… era davvero una scena bizzarra. Flake morto, sdraiato sulla schiena, con la torcia che illuminava la maschera insanguinata del suo volto. La sagoma di Goldmunsen, morto, appena visibile nell’oscurità. Poi c’era la notte, improvvisamente silenziosa, gli alberi stagliati sul cielo e Kathleen, che alla luce delle stelle avanzava verso di lui con una pistola in mano. Ancora per qualche istante Bishop rimase troppo stordito per rendersi conto che quella donna avrebbe potuto sparargli davvero. Poi, pian piano, si sforzò di chiarirsi le idee. Gli tornò in mente come l’aveva trattata, quanto l’aveva offesa. E cominciò a capire che, in effetti, avrebbe potuto sparargli davvero.
Anche Kathleen pensava la stessa cosa, pensava che avrebbe potuto sparare sul serio anche a lui. Di certo ne aveva una gran voglia. Aveva già sparato all’altro, a Goldmunsen, e si era sentita proprio bene. Se avesse sparato a Bishop, sarebbe stata ancora meglio. Sparare alla gente sembrava farle bene. Anzi, era stufa marcia di non sparare mai a nessuno.
Strinse forte la pistola, tanto che le tremarono violentemente le mani. Vedeva Bishop attraverso le lacrime.
«Sei uno stronzo!» disse. «Lo sai?» La voce fu quasi soffocata dai singhiozzi. «Io ti avrei amato. Io ero disposta a darti il mio amore e tu… mi dicevi solo bugie. Erano tutte bugie, bastardo!»
Bishop guardò la pistola, poi guardò Kathleen, e annuì. Gli sembrava la cosa più giusta da fare.
E invece no. «Stai zitto!» urlò la donna. «Non dirmi di sì! Sei capace solo di dire bugie, stronzo!»
«Senti», tentò di intervenire Bishop. «Hai ragione, ho mentito…»
«Non dirmi che ho ragione, figlio di puttana! Io ti avrei amato.» Continuava ad avanzare, con la pistola puntata su di lui, stringendola così forte che le nocche erano bianche. Il dito sul grilletto era bianco. «Tu invece eri tutto bugie! Come puoi essere così, come puoi far questo alle persone? Che cosa diresti se qualcuno lo facesse a te? Se ti uccidessi, ti dispiacerebbe, vero? Dovrei ammazzarti subito, brutto figlio di puttana.»
Bishop fece una smorfia di dolore. Questa faccenda cominciava a fargli venire il mal di testa. O forse era colpa della faccia, dove l’aveva colpito Goldmunsen: la guancia si era gonfiata e pulsava, irradiando delle fitte insopportabili in tutto il cranio. In più c’erano le urla di Kathleen, una cosa che proprio non sopportava. Odiava quel momento in cui le donne scoprivano la verità e diventavano matte, iniziavano a urlare. Qui poi c’era anche una pistola, che sarebbe bastata da sola a far venire il mal di testa a chiunque.
E adesso… Santo cielo, si sentiva un rumore diverso provenire dalla foresta, in direzione del campo. Una specie di sordo e ritmico colpo di tosse che spostava l’aria. Bishop si girò a guardare.
Dio mio, pensò.
«Guardami! Non voltarti, bastardo, devi guardarmi!» urlò ancora Kathleen.
Era l’elicottero, Bishop lo capì subito. Quel rumore, quello spostamento d’aria: era l’Apache. Avevano acceso i motori.
Kathleen fece un altro passo avanti arrivandogli davvero vicino, tanto che Bishop vide chiaramente il suo volto nell’oscurità, percepì la rabbia e l’offesa nei suoi occhi. Era tanto vicina che avrebbe potuto prenderle la pistola, se fosse stato veloce, se non fosse stato troppo intontito e fosse riuscito a battere in velocità il dito di lei, già stretto così nervosamente attorno al grilletto.
In quel momento, Bishop era alquanto sicuro di non essere all’altezza.
Kathleen scosse la testa, tristemente. «Scommetto che non ti chiami neanche Frank», disse. «Merda, mi stavo innamorando di uno di cui non conosco neanche il nome.»
Un’altra fitta di dolore gli trapassò il cranio. Si massaggiò la tempia sospirando. Odiava veramente quella parte della storia. «Bishop», disse. «Jim Bishop.»
Il rumore dell’elicottero cambiò, divenne più intenso e più forte. L’Apache si alzava in volo.
«E non mi hai amato per niente, vero?» chiese Kathleen.
Bishop scosse la testa, sobbalzando per il dolore causato da quel gesto. «No», rispose.
L’elicottero tuonava sempre più forte.
«Che tu sia maledetto», disse Kathleen.
Emise un rauco gemito di rabbia. Lo afferrò per i capelli e attirò il volto di lui vicino al suo, premendo la pistola contro la pancia di Bishop e le labbra sulle sue. Lo baciò. La testa di Bishop pulsò di dolore, con delle fitte acute dove lei gli tirava i capelli. Sentì la sua Lingua in bocca, e la canna della Glock affondargli nella carne. Si chiese se Kathleen l’avrebbe ucciso, se sarebbe morto così, baciandola. Poi alzò una mano a toccarle i capelli durante il bacio. Intorno a loro, intorno alla palude illuminata dalle stelle, sopra i cadaveri dei due uomini che giacevano a terra nel riverbero della torcia, l’aria tremò al fragore dell’Apache che si alzava in volo.
Poi, con un brusco movimento della mano, Kathleen allontanò Bishop, lasciando andare i capelli come se li stesse buttando via. La pistola però era ancora puntata su di lui. Lo guardò negli occhi.
«Perché sei tornato indietro?» chiese. Dovette alzare la voce, perché il rumore dell’elicottero era sempre più forte. «Perché sei venuto a salvarmi?»
Bishop posò lo sguardo su di lei. L’elicottero percuoteva l’aria e il dolore batteva forte in testa. Cercò di sorriderle con un angolo della bocca. «Mi venga un colpo se lo so.»
Persino Kathleen rimase sorpresa della risata che le uscì dalla gola. Che cosa si doveva fare con uomini come quello? Che cos’era a renderli così maledettamente attraenti? Scosse la testa. «Sei un autentico bastardo, lo sai.» Abbassò la pistola e rise di nuovo. «Te lo dico in tutta sincerità, Bishop. Ce ne sono tanti che ci provano, ma tu lo sei veramente!»
Un istante dopo alzarono lo sguardo: l’elicottero stava passando sopra di loro. Stazionò per un momento nell’aria color indaco sopra la palude, una sagoma scura alla luce delle stelle e della luna bassa sull’orizzonte. Con le pale rotanti e i missili Hellfire appesi sotto le tozze ali, sembrava davvero un malefico insetto emerso dalle canne e dalle acque torbide.
Era a circa sessanta metri di altezza, non di più, e il suo ritmico battito copriva ogni altro rumore. I due sentirono lo spostamento d’aria sul viso.
«Pensi che sia Chris?» domandò Kathleen gridando per farsi udire, lo sguardo rivolto all’apparecchio.
«Penso di sì», gridò Bishop di rimando. «Non può che essere lui.»
«Pensi che lo rivedrò?»
«Non credo proprio. Comunque vada, è un uomo morto.»
«Credo che di questa non avrò più bisogno, allora», disse Kathleen, gettando la pistola al suolo.
Restarono così, fianco a fianco, osservando il mostro nel cielo. Al suo interno, sotto il sedile di guida, il computer di Bishop stava sempre cercando il segnale per spedire il messaggio.
E salire un po’ di altitudine, pensò Bishop, era proprio quello che gli serviva.
Proprio in quel momento, l’Apache si alzò verso il cielo e sparì nella notte.
L’uomo chiamato Ben Fry aprì improvvisamente gli occhi.
Era sulla branda della cella, sotto la coperta, completamente vestito. Si era addormentato per un minuto, forse cinque, non lo sapeva. Aveva avuto un incubo: era in casa di sua madre, aveva aperto un armadio e l’aveva trovato pieno di corpi macellati. Si era svegliato con il cuore in gola, con il fiato corto. Si era ripreso subito, aveva capito dov’era e si era tranquillizzato. Era giunto infine il momento.
Gli sembrava di ritornare se stesso, infine. La meticolosa, fredda precisione dei suoi pensieri sembrò riprendere il suo corso senza problemi. Immagini come quella dell’incubo — e molte altre molto più spaventose di tutta la sua vita — sembravano essere state ricacciate nel profondo. Poteva risalire nella torre, al sicuro, per seguire il suo piano.
La prima cosa era recuperare la capsula.
L’uomo chiamato Ben Fry guardò l’orologio di plastica che teneva agganciato alla branda. L’aveva usato per cronometrare le immagini sui monitor della cabina di controllo. Quarantotto celle, ognuna mostrata per dieci secondi. Un ciclo di otto minuti. In uno dei suoi passaggi verso il parlatorio, aveva visto la sua cella e aveva iniziato a contare. Aspettò il momento in cui era il turno della sua cella di apparire sul monitor, poi contò i dieci secondi e qualcuno in più, per sicurezza, e si girò verso la parete.
La coperta copriva le sue mani infilate dentro la cintura dei pantaloni. Le dita trovarono il punto delicato della cicatrice. Trattenne il fiato, concentrandosi sul muro bianco davanti a lui. Poi si pizzicò la carne fra pollice e indice e iniziò a premere.
Schiacciò con forza e vide accendersi nei suoi occhi dei lampi bianchi, un’esplosione di dolore bianco, e scintille che ricadevano come in un fuoco d’artificio. L’uomo chiamato Ben Fry continuò a guardare la parete, con le mascelle serrate, gli occhi strabuzzati. La sacca di pus che si era formata intorno alla capsula salì verso l’esterno, e la sua gamba avvertì con dolore il bordo tagliente dell’oggetto che si spostava. Le dita premettero più forte e la capsula salì in superficie assieme al pus. L’agonia nei suoi occhi divenne rossa, rossa con lampi bianchi. Persino l’uomo chiamato Ben Fry era stupefatto di quanto facesse male.
Improvvisamente, con un suono quasi ridicolo, la pelle si squarciò, così, come quando si schiaccia un foruncolo. Spostò la coperta per vedere e scorse il pus, giallo, che gli colava lungo la gamba, bagnando i pantaloni. Con un sordo grugnito affondò ancora di più le dita. Finalmente riuscì a toccare la capsula, man mano che il pus usciva. Non riusciva a credere che ce ne fosse tanto. Poi venne il sangue, acquoso, pallido. E in quel misto di umori rossi e gialli apparve la punta scura della capsula.
La prese con l’altra mano, fra il pollice e l’indice. Le lacrime gli scendevano dagli occhi mentre la recuperava.
La capsula era scivolosa e sporca. La pulì nel lenzuolo per riuscire ad afferrarla, poi la spezzò a metà. Era stata progettata per aprirsi senza difficoltà e ognuna delle due parti, una rossa e una azzurra, aveva un’estremità piatta e una a punta. Con la parte appuntita di una bucò quella piatta dell’altra e ripeté l’operazione sulla seconda.
Aveva circa sei minuti prima che la telecamera riprendesse nuovamente la sua cella. C’era tutto il tempo.
Ignorando il dolore, andò alla porta della cella e usò la capsula azzurra per prima. Ne depose il liquido in quattro punti, dove la porta scorreva e dove era collegata al meccanismo di apertura computerizzata. Lasciò in ogni punto un po’ del liquido viscoso e poi fece lo stesso con la capsula rossa. I fluidi si mischiarono.
L’uomo chiamato Ben Fry tornò dall’altra parte della cella e si accovacciò con la testa bassa e le mani dietro il collo. In quella posizione vedeva la macchia scura allargarsi lentamente sulla gamba dei pantaloni. Sentì una leggera agitazione pervaderlo in quel momento di attesa, ma non aveva paura. Aveva calcolato tutto, ogni passo. Il suo piano era perfetto, come sempre. Bisognava solo attuarlo.
Passò un secondo, poi un altro. Il liquido azzurro si mescolò con quello rosso e infine, con un sibilo leggero, un’esplosione silenziosa liberò la porta dalla chiusura automatizzata.
Non appena udì il rumore, l’uomo chiamato Ben Fry balzò verso la porta, afferrò la grata e spinse. La porta non si mosse. Per un istante l’uomo rimase come inebetito. Non doveva succedere, non era nel piano. Poi diede un’altra spinta e questa volta la porta si scostò come doveva, solo un poco, il necessario.
L’uomo chiamato Ben Fry scivolò nell’apertura e si incamminò nel corridoio.
Era fuori.
Weiss era al telefono con Ketchum, in quel momento. Il basso mormorio dell’ispettore si era trasformato in una sorta di furioso ruggito.
«Che cosa diavolo vuoi che faccia, Weiss? Che cosa pensi che io possa fare?»
«Cerca almeno di far scattare un allarme generale nella prigione.»
«Ci ho già parlato. Non lo fanno perché il carcere è sempre in stato di allarme. Hai visto il posto. Quale altra precauzione devono prendere?»
«Non hanno una specie di allarme in caso di fuga?»
«Sì, certo. Porte d’acciaio che si chiudono automaticamente, allarmi sonori, tutte quelle stronzate. Ma devono mettere tutto in moto perché il mio amico investigatore dice che sospetta qualcosa?»
Weiss sospirò; aveva gli occhi ancora fissi sulla ragazza del video, che ammiccava dallo schermo del computer. «Almeno potrebbero sorvegliare a vista Ben Fry», tentò infine.
«Ben Fry è già sorvegliato a vista», rispose Ketchum. «Come ogni detenuto. È una prigione di massima sicurezza, cazzo.»
La testa di Weiss premeva pesantemente sulla cornetta del telefono. Non sentendolo rispondere, Ketchum continuò in tono più gentile, per quanto potesse.
«Senti, hanno problemi di personale come tutti. Che cosa dovrei dir loro? Forse con un po’ più di tempo potrei convincerli a tenerlo d’occhio ventiquattr’ore su ventiquattro. Non so. Ma adesso… Non sai neanche che cosa dovrebbe accadere.»
Weiss annuì, senza staccare gli occhi da Julie, senza rispondere con la voce. Era vero, non lo sapeva. Sapeva solo che aveva perso il contatto con Bishop e che tutto sarebbe accaduto presto.
Sentì Ketchum sbuffare all’altro capo. «Il problema è che il direttore ti crede pazzo. Ecco che cosa pensa…»
Ma Weiss lo ascoltava appena. Guardava Julie sullo schermo, con il suo sguardo mogio. Aveva appoggiato il gomito al bracciolo, la testa alla cornetta. La stretta al cuore che la vista di lei gli dava era diventata una dolìa permanente, che esprimeva impotenza e frustrazione. Era bloccato lì, in quella città, al telefono, mentre a circa cinquecento chilometri di distanza l’uomo che dava la caccia alla ragazza stava per scoprire dove si trovava, e Weiss non riusciva a farlo credere a nessuno…
Ketchum stava continuando a blaterare, come un sussurro in lontananza. Weiss non smetteva di guardare il video e la sua mente vagava nel sogno di incontrarla, di perdersi in quegli occhi misteriosi. Improvvisamente sentì il motivo sonoro che annunciava l’arrivo di un’e-mail.
Raddrizzò la schiena e sgranò gli occhi, sorpreso.
«… perché tutto il sistema è pensato per non far succedere cose simili…» continuava Ketchum dall’altra parte.
«Fermati», disse Weiss, con rinnovata energia. Cliccò sull’icona dei messaggi e l’immagine di Julie Wyant scomparve. Lesse.
«Allora», sentì Ketchum chiedere. «Novità?»
«C’è qualcosa da Bishop.»
«Bishop? Che cosa vuole?»
Weiss, ha funzionato. Wannamaker è fuori, io sono in gioco. Stasera alle sei sarò in volo verso una destinazione ignota. Quando sarò là, mi daranno le istruzioni sul mio incarico e ti farò sapere. Se abbiamo fortuna, possiamo portare a termine la missione senza comprometterci… c150kmnoah-64d
«Ebbene?», chiese Ketchum dopo qualche secondo.
Weiss non rispose. Stava leggendo, pensando. Alle sei. Bishop doveva essere già partito. c150kmnoah-64d. Doveva essere sorvegliato, non poteva scrivere altro. Che cosa voleva dire? c150kmno, circa 150 chilometri a nord-ovest…
«Che cosa diavolo può essere AH-64D?», chiese a voce alta.
«Che cosa?» disse Ketchum. «AH-64D? Di che cosa stai parlando?»
Weiss scosse la testa. E Ketchum continuò: «Weiss? Di che cosa parli? AH-64D?»
Weiss avviò un motore di ricerca. Apparve un sito su cui lesse: «Tecnologia militare. AH-64D… è un elicottero da guerra».
«Mi prendi in giro», sussurrò Weiss, deglutendo. Qualcosa dentro di lui si stava lacerando.
Allora capì. Tutto gli fu chiaro infine, tutto il quadro; troppo tardi, però.
«Weiss, che succede, sei ancora lì?»
«Ketchum», disse. «Penso che gli manderanno un elicottero.»
«Che cosa?»
«Penso…»
Ketchum ruggì. «Ma va’… Un elicottero? Impossibile. Il carcere è coperto di cavi antielicottero. Non c’è modo di atterrare…»
«Non devono atterrare», continuò Weiss. «È un elicottero da guerra, dev’essere armato. Quel figlio di puttana, ecco come scapperà. Farà saltare tutto.»
Ketchum tacque per qualche istante. «Weiss», disse infine. «Adesso anch’io ti credo pazzo.»»
Weiss guardava lo schermo e premeva la cornetta contro l’orecchio così forte da farsi male. Sentì un sudore freddo sulla nuca. Era troppo tardi.
«Weiss. Weiss!» riprese Ketchum.
Weiss grugnì. «Sì.»
«Non posso dir loro che sta arrivando un elicottero a bombardarli. Non posso andare a raccontare che quel tizio uscirà dalla cella, cosa impossibile, e andrà da un certo Pomeroy a torturarlo, altra cosa impossibile, per poi dare l’assalto al carcere con un elicottero da guerra. Questo non lo posso fare.»
Weiss si inumidì le labbra secche e cercò di deglutire. «No», mormorò rauco.
Dopo una pausa, Ketchum chiese: «Quand’è che dovrebbe attaccare, questo elicottero?»
Weiss fece una risata silenziosa e amarissima. Se Bishop era disperso nella foresta, non era possibile che il palmare avesse inviato il messaggio da terra. E se Bishop fosse stato sul velivolo, avrebbe chiamato la polizia via radio. Weiss capì anche quello. Aveva lasciato il computer sull’elicottero e, non appena quello era decollato…
«È già in volo», disse.
«Che cosa?» urlò Ketchum.
Ma Weiss, come in sogno, aveva lentamente riattaccato il telefono. Troppo tardi, era arrivato troppo tardi. Tutto quello che aveva scoperto era stato inutile.
Restò seduto fissando il vuoto, sconfitto.
Quanto a Chris, questo era il suo momento. Il passato era scivolato via e lui si sentiva di nuovo in sella. La luna lo accompagnava in quel volo e il suo potere della cloche che stava manovrando si estendeva su tutto l’orizzonte. I rotori, il battito delle pale, l’immagine familiare del mondo verde sotto di loro nel monocolo di inquadramento bersaglio del casco… Tutto era come aveva sempre voluto. Lui avrebbe dovuto essere un pilotai dell’esercito e lì, in quel cielo, si sentiva tale.
Seduto al posto di controllo delle mitragliatrici, davanti a lui, un po’ più in basso, c’era Hirschorn. Chris vedeva i suoi lineamenti delicati riflessi nel parabrezza. In cuffia sentiva la sua voce, che ogni tanto gli dava un’indicazione nuova, e tutte le volte che lo guardava sentiva un’ondata di devozione salirgli in petto.
Gli era veramente grato di averlo reintegrato nell’operazione. Solo poche ore prima stavano per sparargli. Solo quarantacinque minuti prima era in ginocchio mentre Hirschorn lo schiaffeggiava, mentre ordinava di portare via sua moglie.
Da quando era stato cacciato dall’esercito, le cose erano andate male. Ma ora, grazie a quell’uomo, aveva un’altra possibilità. Era lui il pilota. Sarebbe morto per il suo capo. Lo amava.
L’Apache sorvolò le cime degli alberi a una velocità opportuna per l’oscurità, circa settantacinque nodi. Chris osservava il paesaggio monotono sul GPS.
«Dovremmo essere a circa trentacinque miglia a nord-est», disse Hirschorn.
Chris annuì. «Roger.»
Erano a mezz’ora dal bersaglio.
Nel carcere, nessuno sospettava niente. Nessun allarme era scattato quando l’uomo chiamato Ben Fry aveva fatto saltare la porta. Non esisteva un allarme per questo evento, perché non era ritenuto possibile. Ci fu solo una luce rossa che si illuminò in una delle cabine di controllo per segnalare che una porta era aperta. Sfortunatamente, in quel momento nessuno stava guardando.
L’agente di turno, Mike O’Brien, aveva un volto amichevole, capelli rossi, penetranti occhi irlandesi. Era basso e muscoloso, con un po’ di pancetta. Aveva trentaquattro anni.
Era entrato nelle guardie carcerarie dopo essersi congedato dall’esercito. In un primo tempo non aveva avuto problemi a passare da un’occupazione all’altra, ma poi si era sposato e aveva cercato un posto fisso. Il lavoro di secondino si era rivelato adatto allo scopo. Certo non era il più bello al mondo, ma era sicuro e regolare. I turni rendevano possibile programmare la propria vita e passare del tempo con la moglie e la figlia, cosa che per lui era la più importante. Sua moglie Maura era un’esile donna che guidava la vita del marito con polso fermo. Caitlin, la bambina, aveva due anni ed era adorata dai genitori.
Quando la luce di segnalazione si era accesa, Mike stava tenendo d’occhio i monitor e pensando a un locale di nome McGill. Era il locale frequentato dalle guardie carcerarie sposate, al contrario di Blinky Mae, dove i suoi colleghi scapoli andavano in cerca di avventura. Da McGill c’era una bella sala con tavolini per cenare, il biliardo e dei videogiochi per distrarsi. C’era anche il karaoke, che piaceva tanto a Mike. A volte anche lui, quando l’atmosfera si scaldava un po’, si lasciava convincere a cantare. Aveva una bella voce tenorile e, nonostante la sua predilezione per le vecchie ballate irlandesi che gli aveva insegnato il padre, al bisogno diventava bravissimo nel rock-blues. Con due birre in corpo e un paio di voci femminili ai cori, era pronto per dare il meglio di sé. Alcuni suoi colleghi di colore lo prendevano in giro. «A vederti sei un pallido bastardo irlandese», dicevano, «ma dentro sei un vero fratello.» Mike adorava tutto ciò.
Dunque stava pensando a McGill, stava controllando i monitor e sorrideva tra sé, intonando le prime battute di Danny Boy. Quando la luce rossa si accese, lui non la vide. Poi, con un’esplosione quasi silenziosa, la porta a sbarre del corridoio B saltò.
L’uomo chiamato Ben Fry, tenendo d’occhio Mike, aveva atteso, addossato al muro, il momento opportuno per sgattaiolare lungo il corridoio. Aveva poi applicato i suoi composti chimici sulla porta a sbarre e aspettato in un punto buio che facessero il loro effetto.
Mike non udì il sibilo delle sostanze che si combinavano, né la porta che si apriva. Ma quando essa si richiuse, ne percepì il movimento con la coda dell’occhio. Buttò uno sguardo oltre la finestra della cabina di controllo. La porta era chiusa e nel corridoio, oltre le sbarre, non c’era nessuno. (L’uomo chiamato Ben Fry a questo punto era già contro la parete della cabina, al di sotto del vetro e quindi invisibile a Mike.) Mike non notò niente di anomalo.
Si voltò di nuovo e fu allora che, finalmente, si accorse della lucina rossa. La porta di una cella risultava aperta e… ora anche quella del corridoio B.
Che cosa stava succedendo? Mike socchiuse gli occhi azzurri nel guardare le due luci rosse, e pensò a un contatto. Non poteva essere altro. Sentì il cuore saltare un battito, all’idea di essere stato lui a toccare qualcosa e aprire le porte. Ma, ripensandoci, capì che non era possibile. Doveva essere un contatto.
Guardò di nuovo la porta del corridoio B. Aveva l’aspetto di sempre. E come poteva essere diversamente?
Poi un dubbio si fece spaventosamente strada dentro di lui e Mike guardò meglio. Non era possibile che la porta fosse solo socchiusa, vero? Eppure a Mike sembrava quasi che fosse così.
Mike guardò di nuovo le spie rosse e poi la porta del corridoio, al di là dello spesso vetro antiproiettile.
Poi fu la porta della stessa cabina di controllo ad aprirsi violentemente verso l’esterno. Sorpreso, o piuttosto sbalordito, Mike si girò in fretta sulla sedia. Persino in quel momento non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. In piedi davanti a lui c’era il detenuto noto come Ben Fry.
Mike non pensò, ma si slanciò verso il pulsante delle emergenze, allungando il braccio per schiacciare il disco rosso che avrebbe fatto suonare l’allarme. Ma era troppo tardi. L’uomo chiamato Ben Fry gli fu addosso in un attimo, troppo velocemente perché Mike potesse reagire. Come da lontano, lo vide afferrargli la mano, scostarla dal pulsante e spezzargli il polso. Non ebbe neanche il tempo di sentire il dolore. Non riuscì neppure a urlare, vide solo il volto senza espressione di quell’uomo, gli occhi opachi di chi sta solo svolgendo un lavoro. Poi Mike morì.
L’uomo chiamato Ben Fry depositò il cadavere della guardia sul pavimento e si acquattò, per non essere visto. Spogliò velocemente il corpo e si tolse di dosso la casacca e i pantaloni da detenuto. Gli indumenti di Mike erano un po’ larghi, ma non tanto da costituire un problema. Bastò stringere bene la cintura per tenere a posto i pantaloni.
Poi, l’uomo chiamato Ben Fry si chinò sulla testa di Mike. I Lineamenti cordiali della guardia irlandese erano sfigurati e c’era un buco rosso al centro, nel punto in cui l’assassino gli aveva spinto la cartilagine del naso nel cervello. Ma gli occhi erano ancora intatti, aperti e fissi. L’uomo chiamato Ben Fry inserì il pollice nell’angolo del destro. Ne aveva bisogno per il controllo automatico della retina.
Quando ebbe fatto anche questo si pulì le mani nei vestiti da detenuto, si alzò in piedi e osservò il pannello centrale della cabina di controllo. Si concesse qualche istante per orientarsi, sebbene avesse studiato le piantine e sapesse già che cosa fare. Era tutto perfettamente pianificato, come al solito. L’uomo chiamato Ben Fry sapeva esattamente che cosa fare, e ora niente poteva fermarlo.
Weiss, nella solita poltrona, si sporse improvvisamente in avanti, di scatto. Mentre era immerso nella sua frustrazione, in attesa di avere le notizie sul disastro, gli era caduto lo sguardo su una cosa appoggiata ai margini della luce proiettata dal computer. Ora la prese in mano. Era il mio rapporto, le pagine del mio rapporto sul reverendo O’Mara. Non gli aveva prestato molta attenzione fino a quel momento, perché troppo impegnato con Shadowman. Ma ora una catena di collegamenti si formò all’improvviso nel suo cervello. Il fatto che avessi deluso le sue aspettative, che non avessi notato le incongruenze che secondo lui avrei dovuto vedere… Il fatto che mi ero ubriacato, e continuavo a insistere che il prete era pulito… In un attimo ebbe una visione chiara di tutta la faccenda, come spesso succede. Si rese conto che avevo risposto pienamente alle sue aspettative, e non mi ero ubriacato perché non avevo scoperto nulla, ma perché avevo scoperto tutto e nascosto la verità.
Nel momento stesso in cui capì queste cose, gli venne anche un’idea. Non era ancora ben delineata, ma lui non poteva aspettare. Non c’era tempo. Afferrò il telefono e compose in fretta il numero che appariva in alto sulla pratica.
L’uomo che rispose sembrava stanco, come se non fosse abituato a ricevere telefonate di sera e si aspettasse brutte notizie.
«Pronto?»
«Reverendo Reginald O’Mara?»
«Sono io, chi parla?»
Weiss si sporse ancora più avanti, e i suoi lineamenti pesanti furono illuminati dalla luce del computer. Il resto della sua figura curva e tesa era in ombra.
«Mi chiamo Weiss, dirigo un’agenzia di investigazioni.»
Ci fu un lungo silenzio. «Sì», disse il prete infine. «Ho parlato con uno dei suoi, nel pomeriggio.»
«Davvero?»
«Sì.»
Weiss trattenne un attimo il respiro. Stava bluffando, ma doveva tentare. «Volevo dirle che abbiamo deciso di tenere per noi il suo piccolo segreto», disse, e attese una risposta che non venne. Lo stomaco di Weiss si contrasse. Si stava sbagliando? «Il mio cliente andrà in prigione, dove merita di andare, e le persone che lei vuole proteggere, compreso suo fratello, saranno al sicuro. Mi sente?»
«Sì.» Il reverendo O’Mara era ancora diffidente; non era sicuro che si trattasse solo di buone notizie. «E che cosa volete in cambio?»
«Un favore», disse Weiss, svelto. «E non mi fraintenda, non si tratta di un ricatto.»
«No?»
«No. So che lei non ci cascherebbe. Qualsiasi cosa lei decida di fare, il suo segreto è al sicuro. La consideri un’opera buona.»
«Bene», disse il reverendo. «Che cosa vuole, allora?»
«Voglio che lei mi ascolti», disse Weiss con lo stesso tono tranquillo. «Voglio che ascolti quello che le devo dire, e poi mi faccia arrivare al governatore.»
Qualche tempo dopo, l’amministrazione penitenziaria della California convocò una commissione d’inchiesta per tentare di ricostruire che cosa fosse successo in seguito, ma neppure dopo quasi tre mesi di indagini si arrivò a saperlo per certo. L’uomo chiamato Ben Fry aveva dovuto superare altri due punti di controllo per arrivare alla cella di Whip Pomeroy. Secondo quanto risultò da un successivo controllo interno, ci aveva messo poco più di mezz’ora, eppure l’agente del controllo quattro dichiarò di non averlo visto. Per di più, al punto di guardia principale non ci si poteva neppure avvicinare senza un complesso sistema di controllo della retina e di doppie chiavi. Non c’erano segni di effrazione, ma entrambi gli agenti di guardia furono trovati morti. Era chiaro che l’uomo chiamato Ben Fry aveva utilizzato la retina di Mike O’Brien. Ma come si fosse impossessato delle chiavi rimase un mistero, come la sua abilità di percorrere i corridoi senza essere visto. Quali che fossero le conclusioni della commissione, non furono rivelate per motivi di sicurezza. Né si seppe con precisione quale fosse l’esplosivo usato dall’assassino per aprire le porte. Anche quello rimase top secret. Pareva si trattasse di una miscela di sostanze piuttosto comuni e le autorità non vollero che l’informazione trapelasse.
Ma su un punto tutti furono d’accordo: una volta che l’uomo chiamato Ben Fry aveva superato il punto di guardia principale, niente lo separava più dall’uomo che cercava. Whip Pomeroy forse non lo avrebbe neanche visto entrare, se non fosse stato svegliato dal rumore della porta che si apriva. Quando ciò accadde, Whip si alzò a sedere sulla branda. Le sue dita delicate cominciarono subito a tremare, le labbra a balbettare. Gli occhi umidi di Pomeroy saettarono qua e là, mentre il suo cuore batteva all’impazzata e la sua mente cercava una spiegazione. Terrorizzato, si alzò a fatica sulle gambe malferme.
E all’improvviso eccolo, l’uomo chiamato Ben Fry, come se fosse una cosa naturale, come se non ci fosse niente di strano. Aveva un’espressione calma, impassibile, un’espressione che terrorizzò Pomeroy più di tutto. L’uomo di nome Ben Fry era lì per fare quello che aveva promesso, e non c’erano possibilità di scampo.
Preso dal panico, Whip emise un singhiozzo e si precipitò in un angolo della cella lasciandosi cadere lungo il muro, fino a crollare sul pavimento. Le sue labbra si mossero sempre più velocemente nel solito sussurro inudibile, finché Whip non singhiozzò di nuovo ed esclamò: «Non te lo dico, non te lo dico!»
«Sì invece», ribatté l’altro, senza affanno. «Sì che me lo dirai.»
Compì un passo in avanti verso la sua vittima.
E in quel momento, grazie a un ordine improrogabile del governatore dello stato, il responsabile notturno della prigione fece scattare l’allarme di emergenza antievasione e l’urlo assordante delle sirene invase l’edificio.
Weiss ce l’aveva fatta.
Fu in quel momento che l’Apache arrivò sopra il carcere. Chris controllò il radar e vide la sagoma cruciforme della prigione arrivare al centro dello schermo. Gettò un’occhiata al GPS. Erano a pochi chilometri dal bersaglio. Poco dopo, ecco il contatto visivo. Meno di un chilometro. Le luci del carcere proiettavano un alone bianco dai boschi neri verso il cielo nero.
Manovrando per tenere l’elicottero in assetto, Chris rallentò fino alla posizione di stallo. Il grande insetto rimase sospeso nell’aria, alto quanto la luna al di sopra della foresta.
Hirschorn controllò l’orologio. «Abbiamo ancora due minuti.»
«Ne approfitto per acquisire il bersaglio», rispose Chris.
Hirschorn annuì. Era al posto del mitragliere ma non era quello il suo compito. Non doveva fare niente, solo assistere all’operazione secondo gli ordini dell’uomo chiamato Ben Fry, per essere sicuro che rimanesse segreta fino all’ultimo e che venisse eseguita come programmato.
Ma quando venne il momento di impostare l’attacco con i missili, Chris dovette fare da solo. Fu un po’ faticoso protendersi nel pozzetto dell’artigliere per attivare gli Hellfire, e programmarli per la ricerca bersaglio prima del lancio. Ma, fatto questo, non gli restava che guardare attraverso il monocolo incorporato nel casco. Il casco — dotato di un sistema di puntamento automatico — era la parte dell’elicottero che Chris prediligeva. Si era allenato molto, più di diciotto ore, per imparare a usarlo, ma, una volta capito come funzionava, l’aveva trovato esaltante. Il casco era direttamente collegato ai sistemi di puntamento dell’elicottero, quindi era sufficiente inquadrare nel mirino del casco ciò che si voleva distruggere per programmare la traiettoria degli Hellfire. Bombardare diventava quasi una funzione corporale. E Chris si sentiva come la testa di una qualche creatura mitologica, un drago volante pronto a seminare distruzione con i suoi artigli di fuoco.
C’era una espressione per definire quello che sentiva, ma non gli veniva in mente. Era una specie di bagliore interno. Non si sentiva così da quando non era più nell’esercito. No, per la verità, non si era mai sentito così. Mai. Non fino a quel momento.
Chris alzò la testa e vide la prigione nel mirino. Mise a fuoco la torre di guardia di nord-est.
«Bersaglio acquisito», disse un attimo dopo.
«Un minuto», rispose Hirschorn.
Aspettarono, alla distanza convenuta. Il rumore dei motori impediva loro di sentire le sirene di allarme, ma qualcosa videro. La luce intorno alla prigione divenne più forte, sempre più forte e l’occhio di un riflettore iniziò a scrutare il cielo.
Hirschorn parlò nel microfono. «Luci di intercettazione.»
Ecco che cos’erano. Si stavano accendendo tutto intorno al perimetro della prigione, con fasci potentissimi che spazzavano il cielo coprendo tutta l’area intorno agli edifici.
«Che cosa significa?» chiese Chris.
Hirschorn non rispose. Non lo sapeva. Le luci coprivano quello che accadeva al suolo e così non videro le guardie allertate che raggiungevano i posti di combattimento. Non le videro arrivare alle armerie e preparare i missili antiaereo, che intendevano usare adesso che erano al corrente della presenza dell’elicottero. Chris e Hirschorn non sapevano nulla di tutto ciò.
Nervosamente, il vecchio guardò l’orologio. «Trenta secondi», disse.
«Cristo, sembra che stiano cercando…»
«Fuoco! Fuoco!» urlò Hirschorn. «Spara!»
Chris esitò un istante, perché era troppo presto. Poi l’ordine penetrò nel suo cervello. Rapidamente sollevò il copri-pulsante e premette il pollice sul grilletto. L’Apache sussultò alla partenza del missile. Un attimo dopo Chris lanciò anche il secondo Hellfire.
Le esplosioni si susseguirono vicinissime. Le fiamme salirono simili a piume arancione dalla torre di guardia, poi un’altra palla di fuoco si accese appena oltre la prima, sfondando il recinto più interno. Chris si dimenticò di tutto il resto, a quella vista. Alla luce della seconda esplosione vide la sagoma della torre di guardia afflosciarsi e crollare. Lanciò un terzo missile e un quarto. Ne aveva ancora altrettanti. Sentiva il cuore pieno di elettricità e rise, urlando di piacere. Era il più bel momento della sua vita.
«Che cosa diavolo…» sentì esclamare Hirschorn.
La bocca di Chris era ancora aperta quando una palla di luce di staccò dall’incendio sotto di loro e si diresse verso l’elicottero, superando gli alberi.
«Signor Weiss?»
«Sì», mormorò rauco il detective al telefono.
«Sono Norman Kamen, dell’ufficio del governatore.»
«Sì», rispose Weiss, trattenendo il respiro.
«Il governatore voleva farle sapere che gli allarmi di emergenza della prigione sono stati attivati. Sembra essere stata confermata la presenza di un velivolo da guerra non identificato. Le guardie della prigione si stanno armando di conseguenza.»
Gli occhi di Weiss brillarono alla luce del computer. La mano strinse più forte il ricevitore. «La prigione è stata chiusa?»
«Completamente. Non ci sarà nessuna evasione stanotte, mi creda.»
Weiss annuì, fissando il nulla. Fissando, invisibile a tutti, la ragazza sullo schermo.
«Signor Weiss», ripeté la voce di Norman Kamen. «Il governatore desidera esprimerle il suo ringraziamento per l’informazione.»
Weiss continuava ad annuire, senza ascoltare. Dopo aver riattaccato, rimase seduto sul bordo della poltrona. La mano sudata si chiuse a pugno. Un lieve sorriso gli apparve sulla bocca triste.
«Ti ho beccato, figlio di puttana», mormorò.
Passò ancora un lungo momento prima che l’uomo chiamato Ben Fry si rendesse conto della catastrofe. Era inconcepibile per lui pensare che il suo piano fosse fallito, che l’unica cosa al mondo che aveva veramente voluto gli sfuggisse dalle mani all’ultimo istante.
Guardava con occhi di fuoco il prigioniero davanti a lui, nell’angolo, Whip Pomeroy, l’unico che poteva condurlo da Julie Wyant. Lo guardò come se una cortina di nebbia fosse salita fra loro; non c’era più la sua faccia, ma quella della ragazza, della ragazza che rideva.
Non sapeva come definire i suoi sentimenti, quello che lei gli aveva fatto, come si era sentito diverso nel momento in cui l’aveva vista. Lo ricordava, quel momento. Era stato come se un sogno che non aveva mai osato sognare si fosse manifestato a lui vivo e reale. Si era reso conto, con un’unica occhiata, che l’immagine di lei era cresciuta in lui per tutti quegli anni, come una sua creazione, e che adesso era lì, una donna vera, ma al tempo stesso una parte di lui. Ed era la parte di se stesso che amava di più e anche quella che più desiderava devastare brutalmente. In un certo senso erano un’unica cosa, l’amore e la brutalità.
Non avrebbe saputo trovare le parole per tutto questo. Non c’erano parole, solo le cose che la sua carne era spinta a farle. Le urla che lui aveva necessità di estorcerle, le lacrime che voleva vedere. Quando le aveva fatto male, quando l’aveva costretta a urlare, avrebbe voluto chiudere le lacrime in una bottiglia per poi iniettarsele nelle vene, avrebbe voluto vagare sulle montagne e vivere del dolore e delle lacrime di lei fino alla fine del tempo.
Aveva cercato, quella volta, quell’unica volta in cui non era riuscito a controllarsi, di spiegarle tutto questo. Ma non c’erano parole adatte… e lei aveva riso. Con quel viso d’angelo che lui aveva così spesso sognato e le labbra rosse. Anche se piangeva, anche se sanguinava, anche se era nuda e pesta ai suoi piedi, rideva. E questo era male, perché lo aveva indotto a farle ancora più male, ad amarla di più. Si era messo davanti a lei, si era spogliato, umiliato e, nonostante questo, lei aveva riso.
Pomeroy l’aveva sentita. Pomeroy era nella stanza accanto.
Ed eccolo qui, Pomeroy. Rintanato come un coniglio in fondo alla cella. L’uomo chiamato Ben Fry sapeva che gli bastavano trenta secondi. Non più di trenta secondi per avere l’informazione. Per sapere quello che voleva e distruggere dalla memoria di quell’uomo il ricordo della risata di Julie. Poi l’uomo chiamato Ben Fry se ne sarebbe andato, l’avrebbe cercata e trovata, l’avrebbe avuta ancora. Questa volta l’avrebbe portata via, in qualche posto, da qualche parte. Questa volta l’avrebbe tenuta con sé finché avesse voluto, finché si fosse saziato del suo dolore. Poi tutto sarebbe finito. Lei sarebbe ritornata a essere una parte di lui e quel ricordo dell’umiliazione sarebbe scomparso. Trenta secondi. Trenta secondi e avrebbe avuto ciò per cui era venuto.
Ma mentre le sirene suonavano in tutta la prigione, tutt’intorno a lui, l’uomo chiamato Ben Fry si rese conto che trenta secondi erano più del tempo che aveva a disposizione per portare a termine ciò per cui era venuto.
Le porte di sicurezza stavano iniziando a chiudersi, precludendogli la fuga. Le guardie si stavano armando e il perimetro veniva bloccato. Sapeva che probabilmente l’avevano scoperto, che gli sarebbero stati addosso da un momento all’altro. Se non si muoveva subito, esattamente in quel momento, avrebbe perso l’appuntamento con l’elicottero, avrebbe mancato le corde che dovevano lanciargli, avrebbe abbandonato l’occasione di fuga e sarebbe rimasto in quel posto, quel posto nel mezzo del nulla, per sempre. Per sempre e da solo, con l’immagine di un volto che rideva di lui negli occhi.
Spostò l’attenzione da Pomeroy e cominciò a correre.
Le sirene erano incredibilmente forti. Il rumore dilagava nella sua testa, scuoteva i suoi pensieri e li frantumava. Superò in un lampo il punto di controllo principale, scavalcando il corpo delle guardie uccise. Girò l’angolo.
Ed eccole, a pochi metri da lui, in fondo al corridoio. Porte d’acciaio che si chiudevano automaticamente una verso l’altra.
Quanto spazio c’era, fra loro? Un metro e mezzo? Uno solo? Sempre meno ogni secondo che passava. Le sirene gli martellavano il cervello e la mente correva. Ma sentiva anche il rumore delle esplosioni, i missili Hellfire che colpivano. Sapeva che erano loro, che erano la sua speranza. Se riusciva a infilarsi in quella fessura aveva una possibilità. Se quelle porte si chiudevano… Si immaginava come sarebbe stato restare bloccato lì, con la mente ferma, vulnerabile, a cercare disperatamente di visualizzare la torre della calma mentre, giorno dopo giorno, gli orrori che se n’erano andati da lui come topi tornavano a divorarlo.
Le porte d’acciaio erano sempre più vicine. L’uomo chiamato Ben Fry scattò come un atleta. Le sirene… il suo respiro affannoso… il suo cuore che pulsava. E poi il passaggio, schiacciato fra i due battenti, prima un braccio, poi una gamba e tutto il corpo, a terra, ma in salvo, mentre le porte si chiudevano definitivamente.
L’esplosione successiva fece tremare il corridoio. Persino con il suono assordante delle sirene, l’uomo chiamato Ben Fry fu in grado di udire il crollo delle macerie. Era di nuovo in piedi, correva, girava un altro angolo.
Ed ecco, davanti a lui, come previsto, la parete in pezzi. Un foro aperto sulla notte, sul cortile, sul mondo libero al di fuori.
L’uomo chiamato Ben Fry inciampò sulle macerie, sentì l’aria colpirgli il viso, vide il fuoco, e la pazzia, intorno a lui. Luci accecanti, sirene assordanti. Una torre in frantumi. Fiamme rosse al cielo. Uomini armati che prendevano posizione, tagliandogli la fuga. Mitragliatrici ancora in funzione su quelle torri, che spazzavano il cortile, in cerca di un fuggitivo, sulle sue tracce.
Come era potuto succedere? Come avevano fatto a sapere? Nessun essere vivente aveva il coraggio di tradirlo. Qualcuno doveva avere immaginato tutto, doveva essergli entrato nel cervello. Era impossibile. Non gli era mai successo prima di allora.
L’uomo chiamato Ben Fry era in piedi sulle macerie, a guardare il cielo notturno, in cerca della sua unica speranza.
La vide. Vide l’elicottero, l’Apache. Ne vide le luci, sospese sulla foresta, a neanche un chilometro.
«Forza! Forza!» gracchiò.
Era ancora presto per l’appuntamento, tutto era stato precisamente pianificato. Lui però non poteva stare lì, esposto in quel modo. Iniziò a correre nel cortile, verso i riflettori, rischiando di farsi colpire dalla mitragliatrice.
Le luci lo rendevano inquieto, le sirene gli foravano il cervello, le fiamme dei missili erano da ogni parte, intorno a lui. Ma l’uomo chiamato Ben Fry correva, con gli occhi rivolti in alto, verso l’Apache. Voleva che l’apparecchio si avvicinasse, che lo portassero via.
Il primo missile partì dal suolo mentre stava correndo. Lo osservò sconvolto, mentre procedeva diritto verso la sagoma nera sopra gli alberi, illuminando la foresta. Non colpì l’elicottero e si perse nel cielo. Il secondo seguì le tracce del primo e fallì.
L’uomo chiamato Ben Fry si affrettò. Vedeva l’elicottero che si girava, pronto ad allontanarsi. Lo lasciavano lì? Terrorizzato, vide un terzo missile partire e colpire i rotori del velivolo. Nella luce dell’esplosione, vide le pale che si accartocciavano, come le ali piegate di un insetto. Poi l’intero apparecchio esplose.
«Noooo!» urlò, con la voce coperta dalle sirene.
Era pietrificato, senza più risorse. L’Apache s’inclinò come un animale ferito e crollò al suolo con il muso in avanti, ma non si sentì il fragore dell’impatto. Le lingue di fuoco che salirono dagli alberi mutarono il colore del cielo da nero a rosso.
L’uomo chiamato Ben Fry rimase a bocca aperta, mentre l’elicottero moriva. Le luci dei riflettori s’incrociavano sopra di lui, le sirene gli perforavano la mente. Da tutte le direzioni arrivavano uomini armati. Eppure tutto per lui era ormai immobile, come se si trovasse sull’orlo di una valle sconfinata in cui niente viveva, si muoveva o cambiava, ma tutto continuava a esistere per sempre.
A circa cinquecento chilometri di distanza, al settimo piano di un edificio con il tetto rosso, nell’ufficio con la grande finestra ad arco sopra il traffico di mezzanotte in Market Street, Weiss si mosse appena nella penombra. Quando il telefono suonò, lo afferrò al volo.
«È finita», brontolò Ketchum.
«L’hanno preso? L’hanno preso?» A Weiss sembrò che la risposta non arrivasse mai, che il silenzio dall’altra parte lo uccidesse.
«C’è ancora confusione», disse infine Ketchum. «Non sono certi di che cosa sia successo. È molto difficile avere informazioni.»
«Vuoi dirmi che è fuggito? Come cazzo è potuto fuggire?»
«Sto dicendo che non lo so, Weiss. D’accordo, nessuno lo sa.»
«Merda.»
«Indossava un’uniforme delle guardie», continuò Ketchum. «Ha ucciso un sorvegliante per prendergliela. C’è una remota possibilità che si sia mischiato a loro, nella confusione. Potrebbe essere scivolato fuori.» Weiss non diceva niente e Ketchum aggiunse, con voce irritata: «Anche se così fosse, non andrebbe in nessun posto. Ci sono delle guardie morte e non vogliono lasciarselo sfuggire. Hanno cani ed elicotteri che setacciano la zona. Hai visto il posto. Ci sono solo alberi, rocce e merda. Dove cazzo potrebbe andare?»
«Che cosa mi dici di Pomeroy?» chiese Weiss.
«L’hai salvato, Weiss. È più morto che vivo dalla paura, ma Fry non ha fatto in tempo a toccarlo.»
«Non ha parlato?»
«No, Whip giura di non aver parlato. L’allarme è scattato appena in tempo.»
Il corpo di Weiss fu scosso da un sospiro di sollievo. Almeno quello era andato bene. Forse la cosa più importante. Ovunque l’uomo di nome Ben Fry fosse, non sapeva più di quanto sapesse prima. Non più di quello che sapeva Weiss.
«La cercherà ancora», disse piano, come a se stesso. «Non smetterà di cercarla finché non la trova.»
Per un momento non si sentirono altri rumori se non quelli provenienti dalla strada.
Poi Ketchum rispose: «Sai che cosa ti dico, Weiss? Scommetto che la trovi prima tu».
Weiss sbuffò e depose il ricevitore. Si appoggiò allo schienale. Guardava lo schermo del computer, che era ancora l’unica luce nella stanza. Il volto della ragazza dai capelli rosso oro lo guardava, ammiccando, ripetendo i gesti all’infinito, con la camicetta di pizzo, casta e sexy al tempo stesso. Weiss la guardò, scrutò nei suoi occhi senza fondo, nell’espressione distante. Lentamente si avvicinò sempre più a lei e la luce dello schermo scolpì linee profonde nel suo volto brutto e pesante. Restò a guardarla a lungo.
La troverai prima tu, pensò.
Protese una mano e toccò l’immagine, con tenerezza.