Lo scotch aveva un buon sapore e la puttana era bella, ma Weiss si sentiva malinconico, turbato, nervoso.
Sedeva vicino alla finestra che dava sul mare, rivolto verso la stanza, con le spalle girate alla notte. Guardava la ragazza e, per qualche motivo, perfino la sua bellezza lo metteva a disagio.
Aveva i capelli rossi, come aveva chiesto, ma non del colore particolare di quelli di Julie Wyant, anche se Casey aveva fatto del suo meglio per trovargliene, in breve tempo, una dalla chioma che si avvicinasse a quella tonalità. Ma aveva il viso dolce come piaceva a lui, un sorriso gentile, zigomi delicati, il mento appuntito. Weiss sorseggiò il drink e la guardò mentre si svestiva. La osservava con la sua solita espressione greve, senza riuscire a scacciare il nervosismo, il turbamento. La paura.
Paura, quella era la parola giusta; era stata la scoperta del corpo dell’avvocato a provocarla. Quel corpo appeso in cantina, e il primo parere del medico legale, secondo il quale era stato torturato. La polizia non era per niente contenta e neanche Weiss. Lo avevano interrogato per ore, trattenuto come se fosse un sospetto, mentre in lui cresceva ancora di più il senso di urgenza. Crouch era morto. Ridder era morto. Julie Wyant…
Si rivide mentre saliva quella scala, abbatteva la porta, la portava in salvo appena in tempo. Non riusciva a non pensarci… e aveva paura.
La ragazza si abbassò una spallina, ammiccando. Si leccò le labbra ma Weiss, invece di piacere, provò un senso di rifiuto. Non gli erano mai piaciuti gli approcci troppo espliciti, da film porno di bassa lega; le ragazze avrebbero dovuto saperlo.
Lei iniziò ad ansimare, accarezzandosi il seno.
Weiss fece un gesto impaziente, per interromperla. «Non devi fare così», disse.
La ragazza smise subito. «Certo, me l’avevano detto, me ne sono dimenticata.»
«Non preoccuparti», la rassicurò Weiss. «Spogliati e basta.»
Lo fece, svelta e senza provocazioni, come se lui non ci fosse, appoggiando i vestiti sul divano. Poi, in mutandine e reggiseno, tese le braccia verso di lui, come per dire: «Sono pronta!»
«Va bene così?» chiese.
«Perfetto», rispose Weiss. «Perfetto.»
La ragazza scosse la testa. «Dovresti sposarti, saresti più felice.»
Il ghiaccio nel bicchiere dell’uomo tintinnò, mentre cambiava posizione in poltrona. Non avrebbe dovuto chiedere una rossa, pensò, era stata un’idea stupida, puerile. Era chiaro che sarebbe stato deluso, non si poteva imitare quel colore, neanche con una tintura.
«Lo ero», spiegò. «Intendo dire, sposato. E non ero più felice.»
«Be’, provaci ancora», replicò la puttana. «Trovati una brava ragazza e basta. Un tipo come te, che problemi può avere?»
«Forse hai ragione, non so.»
«Tutte le ragazze dicono che sei bravo, davvero. Hai un’ottima reputazione.»
Weiss sorrise. «Be’, mi fa piacere sentirlo.»
«Sei romantico, scommetto che è così, uno di quelli che amano di più i loro sogni della vita reale.»
«Accidenti», disse Weiss. «Avevo detto a Casey di non mandarmi più psicologhe.»
La ragazza rise in modo aperto. «Davvero divertente.»
Si slacciò il reggiseno. Aveva dei bei seni, di prima qualità, rotondi, sodi, alti. Quando Weiss li vide il suo respiro si alterò, eppure parte della sua mente restava fissa sulla scala, sulla porta chiusa, sui minuti contati…
La ragazza si avvicinò, a seno nudo, e si piegò su di lui, mettendo un ginocchio fra le sue gambe. Gli scompigliò i capelli e lo baciò con delicatezza. Weiss appoggiò il bicchiere e accarezzò la sua pelle morbida e liscia. Quel contatto lo turbò sin nel profondo, ma subito la sentì sussurrare: «Ehi, dove sei con la testa?» La ragazza gli sollevò il mento con un dito fino a incontrare i suoi occhi. «Ti voglio qui con me.»
Weiss la fece sedere in grembo, posò la faccia sul suo busto e si lasciò accarezzare, affondando il viso in quella morbida oscurità.
«Ecco, adesso ci sei», disse la ragazza, senza smettere di toccarlo.
Si staccò per un attimo e, in piedi di fronte a lui, si sfilò le mutandine. Weiss guardava il ciuffo di peli ricciuti fra le gambe, peli neri, nessuna traccia di rosso.
E pensò: avrebbe dovuto comprarsi una parrucca.
Improvvisamente, il suo cuore indurito iniziò a battere più forte. Quella era esattamente la prima cosa che una donna faceva quando voleva nascondersi: cambiava forma e colore ai capelli. Ma Julie Wyant non avrebbe voluto tagliare i suoi, o tingerli. Se avesse voluto nascondersi, se voleva far credere di essere morta e poi scappare, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato comprare una parrucca.
I suoi occhi stanchi scintillarono mentre guardava i peli scuri della prostituta. Qualcuno doveva pur ricordarsi di una donna dai capelli così belli che comprava una parrucca, anche ora, dopo mesi. Era una traccia.
La ragazza gli tese una mano; lui la prese, si alzò pesantemente dalla poltrona e vide se stesso correre su per le scale, aprire la porta con un calcio…
La prostituta lo condusse in camera da letto.
Finora ho cercato di rimanere ai margini di questa storia, perché so che le mie disavventure giovanili non possono competere con la vicenda che sto narrando. Ma, per ragioni che diventeranno chiare fra poche pagine, devo fare una breve interruzione e raccontarvi l’istruttiva storia del mio primo «caso».
Avevo ottenuto l’incarico di assistente di Sissy Truitt come ricompensa per il mio contributo alla «soluzione» del caso della vergine spagnola. Quello di cui dovevo occuparmi con Sissy era il processo di Theodore Strawberry, un ventiseienne che non ispirava alcuna simpatia, anzi. La foto segnaletica rimandava l’immagine di un individuo dallo sguardo malevolo, la fronte piatta, una massa di capelli unti e diritti. Il nostro cliente ammetteva di essere un drogato e aveva precedenti per furto. Questa volta, però, era stato accusato di aver sparato nella schiena a uno studente di Stanford mentre cercava di derubarlo vicino a un bancomat. Bill Mars, questo il nome dello studente, un apprezzato giocatore di football, era rimasto su una sedia a rotelle. I genitori di Theodore avevano richiesto l’intervento legale della Jaffe Jaffe, lo studio sopra l’Agenzia, e quindi il caso era arrivato a noi. Dovevamo controllare i testimoni e confermarne la deposizione. E in questo io dovevo dare una mano.
Eccitato all’idea della nuova esperienza, quella mattina passeggiavo davanti alla porta di Sissy in sua attesa. Quando arrivò, rise in quel modo materno che solo lei sapeva avere. Le presi di mano i libri e le pratiche che portava per permetterle di aprire la porta e, mentre si chinava a inserire la chiave, indietreggiai per godermi lo spettacolo.
Come ho già detto, Weiss andava matto per Sissy, che di certo era fantastica, ma secondo me c’era anche qualcosa di strano in lei. Quel vestirsi da scolaretta, con le gonne a pieghe e i cardigan. E poi quel calore, quella gentilezza, quell’atteggiamento materno, a volte sdolcinati e quasi soffocanti. Ero pronto a scommettere che poteva rivelarsi una nevrotica, a tu per tu, eppure devo confessare che la trovavo assai attraente. Aveva dieci anni più di me, forse di più, ma aveva i capelli biondi e i lineamenti delicati, gli occhi azzurri e pieni di comprensione, la voce suadente… Ero un bambino a cinquemila chilometri da casa e — che posso dire? — la desideravo disperatamente.
Così, mentre eravamo chini sui dossier aperti sulla scrivania, con le teste vicine, respiravo a fondo il suo profumo. E, tutte le volte che i nostri sguardi si incrociavano, cercavo in ogni modo di farle capire quanto disponibile fossi a diventare il suo giocattolo in cambio di una telefonata e, al limite, del costo del taxi per tornare a casa.
«A parte la vittima, il testimone oculare è uno solo», stava dicendo Sissy in un sussurro provocante. «Ma è molto attendibile. Si tratta di un sacerdote cattolico, il reverendo Reginald O’Mara.»
Risi, veramente divertito. «Quel Reginald O’Mara? Il fratello del governatore?»
«Proprio lui. Dirige un centro per adolescenti da quelle parti e stava tornando a piedi in parrocchia, quella sera, e dice di aver visto tutto. È lui che ha chiamato la polizia con il cellulare.»
La guardai negli occhi, incredibilmente belli e comprensivi.
«Un prete», ripetei, «il fratello del governatore, uno che ha ricevuto una serie di riconoscimenti per il suo impegno con i ragazzi in difficoltà, è testimone contro il nostro cliente, ladruncolo drogato, che avrebbe sparato a un universitario inchiodandolo a una sedia a rotelle… scusa, ma cosa ci rimane da fare?»
«Cercare elementi per screditare il testimone, caro il mio sciocchino», fu la risposta di Sissy.
Risi ancora, poi mi fermai di colpo. «Me lo stai chiedendo seriamente?»
«Anche un prete può mentire, mio caro, di chiunque sia fratello. E può anche commettere errori. Il nostro lavoro consiste nell’assicurarci che la giustizia faccia il suo corso in modo corretto, svelando eventuali imbrogli e false testimonianze.»
Non seguii molto di quello che disse dopo «mio caro», che, pronunciato dalla voce calda di Sissy, stava penetrando nel mio essere più profondo e insinuandosi sempre più in basso. Tornai quasi volando al mio computer, per iniziare le ricerche che noi investigatori definiamo «preliminari».
Esse portarono esattamente a ciò che si poteva presumere: niente. Nessuna accusa, nessun arresto o bancarotta, nessun contatto sospetto. Nessun problema con le banche, la polizia o altre istituzioni. Il fratello del governatore si era laureato a pieni voti a Yale e poi era entrato in seminario. Il suo lavoro con i diseredati aveva ottenuto riconoscimenti in città, in tutto lo stato e oltre: era stato persino a stringere la mano al presidente. Era fonte di orgoglio e popolarità riflessa per il fratello governatore, a cui dava consigli per quanto riguardava i poveri e i rapporti con la Chiesa. Quel prete sembrava il braccio destro di Dio, soprattutto se paragonato al nostro cliente, conclamato esponente di quella che in gergo legale chiamiamo feccia umana.
Ritornai da Sissy verso l’ora di pranzo, con lo sguardo del cane che aspetta paziente un osso dal padrone.
«Puoi dire al nostro cliente di farsi portare il pigiama di ricambio», le dissi. «Non credo che tornerà a casa molto presto.»
Piegò la testa e rise in modo amabile; poi mi sfiorò la guancia con la mano fresca. «Da bravo, controlla la sua testimonianza sui fatti», disse, «poi scrivi un rapporto per gli avvocati.»
Tornai, con tutta la disinvoltura che riuscii a trovare, alla mia scrivania.
La testimonianza del reverendo O’Mara era — come previsto — un modello di semplicità e chiarezza. Aveva guidato gli allenamenti di pallacanestro al suo centro fino alle 21.30 e si era poi avviato per tornare in parrocchia a piedi, una lunga passeggiata che rientrava nelle sue abitudini. Intorno alle 22.30 si trovava in Pine Street, vicino a Nob Hill. Lì aveva assistito alla rapina. Si trovava sull’altro lato della strada, ma aveva visto perfettamente il nostro Strawberry alla luce di sicurezza del bancomat. Lo descriveva come un tipo alto e di carnagione chiara, in giacca mimetica, con il naso rotto, una chiazza pelata e un’andatura claudicante. Mars, che dava la schiena al suo assalitore, gli aveva passato il portafoglio da sopra la spalla. Strawberry l’aveva esaminato, aveva imprecato e sparato due colpi nella schiena del ragazzo, per poi scappare via e svanire nel buio. Il reverendo O’Mara l’aveva riconosciuto senza esitazione tra i sospetti che gli erano stati mostrati alla centrale. Era venuto fuori che il nostro cliente era già stato arrestato due volte per rapina a mano armata ma aveva patteggiato, riuscendo a farsi ridurre l’imputazione a un reato minore. Questa era la terza volta, però, e aveva sparato: era destinato a invecchiare in galera, se gli avvocati non trovavano una scappatoia. E, in cuor mio, speravo proprio che non la trovassero.
Eppure Sissy mi aveva chiamato «mio caro» e aveva detto qualcosa sul sistema giudiziario e… ho già detto che mi aveva chiamato «mio caro»? Insomma, presumevo che fosse mio dovere aiutare gli avvocati nel tentativo di salvare il ragazzo.
Perciò nel primo pomeriggio mi recai a Pine Street, sulla scena del crimine. Mi divertivo un mondo nei panni del vero detective, sfoggiando addirittura un sorrisetto sardonico e uno sguardo sospettoso a cui nulla doveva sfuggire. Mi misi sul marciapiede opposto al bancomat a osservare i passanti. Li vedevo senza difficoltà e non c’era dubbio che fosse possibile riconoscere qualcuno anche in un secondo momento, avendolo visto a quella distanza. Dunque non c’era dubbio — almeno per me — che il reverendo O’Mara avesse detto la verità.
Stavo per riprendere la via dell’ufficio quando, però, mi colse un sospetto. Mi fermai ancora un momento a osservare più attentamente i passanti al di là della strada, e mi tornarono in mente le foto segnaletiche di Strawberry. La sua faccia, ripresa dal davanti e di profilo, era incorniciata da una massa di capelli; la chiazza pelata, se mai ci fosse stata, non si sarebbe potuta vedere se non da dietro. Ora, padre O’Mara aveva detto che non lo aveva mai visto di spalle… e l’aggressore, per fuggire, era scappato diritto in avanti, svanendo nel buio dopo aver sparato. Quindi come aveva fatto il testimone a vedere la chiazza pelata?
Alzai lo sguardo verso le finestre delle case dietro di me e pensai che avrebbe potuto notarla solo se l’avesse visto dall’alto.
Le caselle della posta indicavano dieci nomi, fra cui un Murphy, al primo piano: forse un irlandese cattolico, come il reverendo O’Mara. Suonai il campanello e mi rispose una voce maschile; dissi che dovevo consegnare dei fiori. La porta si aprì e mi sentii un grande investigatore.
Brad Murphy mi aspettava sulla porta. Era un giovane carino che stava in piedi con la mano appoggiata sul fianco un po’ sporgente, in un atteggiamento effeminato.
«Signor Murphy», dissi, «sono della Weiss Investigations, un’agenzia privata. Conosce un sacerdote di nome Reginald O’Mara?»
Il volto aggraziato del ragazzo mi fissò., con uno sguardo assente, ancora per un secondo. Poi Murphy scoppiò in un pianto dirotto.
«Glielo avevo detto», esclamò con la voce acuta rotta dai singhiozzi. «Glielo avevo detto che non saremmo mai riusciti a mantenere il segreto!»
Bishop era in camera sua, seduto alla scrivania, che batteva sulla piccola tastiera del portatile.
Weiss, ha funzionato. Wannamaker è fuori, io sono in gioco. Stasera alle sei sarò in volo verso una destinazione ignota. Quando sarò là, mi daranno le istruzioni sul mio incarico e ti farò sapere. Se abbiamo fortuna, possiamo portare a termine la missione senza comprometterci…
«Voltati.»
Al suono di quella voce alle sue spalle, le mani di Bishop si fermarono a metà della frase, ma lui non si voltò. Guardava fuori dalla finestra, dove il caldo sole pomeridiano incendiava l’aria fra i rami.
«Voltati», ripete la voce.
Con un gesto fulmineo, salvò l’e-mail e spense il computer. Solo allora spostò appena la sedia per vederla in viso.
Kathleen era già nella stanza, a pochi passi da lui. Da lì era improbabile che avesse letto il messaggio, ma Bishop non ne era del tutto sicuro.
«Come va, Kathleen?» disse con un tono di voce pacato, anche se era stupefatto di trovarsela alle spalle, e stupefatto di vederla lì. Dopo la storia al Clover Leaf, Chris l’aveva controllata come un cane da guardia e lei non era potuta più venire ai loro abituali incontri. L’ultima volta che l’aveva vista, quella mattina, stava uscendo con Chris per andare al lavoro.
Invece adesso era lì, in carne e ossa, con le braccia conserte e incazzata a morte, a giudicare dall’aspetto.
«Come cazzo pensi che vada, Frank?» disse. «Che ti prende? Non hai sentito quanto urla Chris? Sei l’unico in tutto il quartiere a non essertene accorto?»
«Chris…?»
«Che cosa cazzo avevi nella testa quando sei andato al bar ad azzuffarti in quel modo?»
Bishop si sentì sollevato. Non aveva letto il messaggio. «È successo e basta», le rispose.
«Stronzate, Frank, mi ha detto come è andata. Lo hai provocato. Che cosa credevi di fare?»
«Non… non so.»
«Te l’ho già detto, tu non sei il mio salvatore, nessuno ti ha chiesto di esserlo.»
«Non l’ho fatto per questo, è successo e basta», ribadì Bishop.
«Adesso non mi molla un secondo, dice che devi andartene, che devo buttarti fuori, altrimenti… Mi fa sorvegliare da tutti, e a ogni cosa che dico da fuori da matto. Se viene a sapere che sono stata qui mentre lui era in volo, finisce che mi ammazza. Ma cosa cazzo ti è venuto in mente?»
Bishop rimase seduto, guardandola con i suoi occhi chiari. Gli era venuto in mente che era ora di sbarazzarsi di lei, ecco tutto. Aveva ottenuto quel che voleva ed era entrato nel giro di Hirschorn. Lei non gli serviva più. Era giunto il momento di premere il pulsante EJECT.
Invece esitò, non ancora sicuro di volerle dire tutto. Tra un paio d’ore sarebbe stato in volo e poi… qualsiasi cosa fosse successa, non sarebbe tornato. Lei se ne sarebbe resa conto senza che lui dovesse sopportare lacrime o rimostranze.
Ci pensò ancora per qualche istante; poi, forse per un moto della coscienza o in nome di un suo particolare codice d’onore, sentì che le doveva qualcosa. Kathleen era in pericolo e lui doveva avvertirla. Se Hirschorn avesse scoperto che lei gli aveva passato delle informazioni, l’avrebbe sicuramente uccisa. Doveva darle la possibilità di salvarsi, forse perché la sua presenza in quelle notti d’estate gli aveva fatto molto piacere. Qualunque cosa fosse, non poteva abbandonarla in quel frangente pericoloso.
«Senti, Kathleen…» accennò lentamente.
Ma lei lo interruppe subito. «No, merda… Oh, no!»
«Ascoltami.»
«Te ne vai? Merda. Lo sapevo…» Batté un piede sul pavimento. «Che idiota che sono. Oddio, avrei dovuto saperlo che saresti andato via. È così, vero?»
Bishop guardò in basso e annuì. Desiderava non doverle dire di Hirschorn e tutto il resto. Avrebbe voluto semplicemente andarsene, senza complicazioni. «Sì», disse. «Devo andare.»
Kathleen cercò di ricacciare indietro le lacrime arricciando il naso, il mento tremante. Tenne le braccia ostinatamente incrociate sotto il seno, mentre aggiungeva: «Bene, è naturale, ovvio. Che idiota sono stata, una perfetta idiota».
«Devi ascoltarmi…» tentò nuovamente Bishop.
«Che cos’è stato tutto questo per te, Frank?» chiese. «Un lavoro estivo con annessa casa estiva e scopata estiva. Io ero giusto a portata di mano e…»
Bishop imprecò tra sé. Che cosa voleva da lui? Che cosa doveva dirle? Che era il suo lavoro? «Ascoltami, adesso!»
«Be’, si dà il caso che per me sia stato qualcosa di più», continuò lei. «Più di…» Non riuscì a proseguire perché stava per piangere. Strinse gli occhi e premette la base del naso fra il pollice e l’indice. Un’unica lacrima riuscì a passare e le cadde sulla mano. «Merda.»
Bishop si alzò in piedi, riluttante. «Kathleen…»
La donna si era coperta gli occhi con una mano e le labbra le tremavano.
«Sono così incasinata», disse. «Tutta la mia vita è un casino. Non posso tornare indietro», sospirò con amarezza, «non posso tornare da lui. Non posso e basta.»
Tolse la mano dagli occhi e mostrò il volto arrossato dal pianto. Poi lo pregò senza pudore. «Perché devi andare via? Perché non puoi restare? Perché?»
Bishop imprecò di nuovo tra sé. Si avvicinò alla donna e le posò le mani sulle spalle guardandola negli occhi, da cui colava a rivoli il mascara.
«Kathleen, anche tu te ne devi andare», disse.
«Potrei farti felice», incalzò la donna. «Siamo stati bene insieme.»
«Ascoltami!» ripeté Bishop, in modo più deciso. «Ti ucciderà. Hirschorn ti ucciderà. Sta già pensando di far fuori Chris. Ucciderà lui e poi verrà da te.»
Lei lo fissò con uno sguardo interrogativo.
«Hai capito che cosa ti ho detto?» chiese Bishop. «Devi lasciare la città finché tutta questa faccenda non sarà finita, finché Hirschorn non sarà stato beccato, fino allora.»
Kathleen lo guardò ancora per qualche istante, poi rielaborò nella mente le parole di Bishop, capì che era finita. La collera si impossessò di lei e la fece indietreggiare.
«Non voglio ascoltarti», disse. «Non voglio i tuoi bei consigli mentre stai per lasciarmi. Vaffanculo, Frank! Chi cazzo sei tu per preoccuparti di quello che mi succederà?»
Chinò la testa e si mise a piangere, respingendo Bishop che si stava avvicinando. «Non toccarmi, stai lontano.»
Bishop si fermò a guardarla. Aveva fatto il possibile per lei, almeno così pensava. La sua coscienza, il suo codice d’onore, i suoi sentimenti erano soddisfatti. L’aveva avvertita, per quanto aveva potuto. Che cos’altro poteva dire? si chiese. Era la sua vita. Che cosa diavolo doveva ancora fare?
Kathleen alzò lo sguardo e lo vide immobile, mentre la fissava. Emise una malinconica risata, prima di tornare a piangere, scuotendo la testa. «Non potevi innamorarti di me e basta?» chiese con un filo di voce.
Bishop non rispose. Era in piedi e la guardava. Per un momento avrebbe anche potuto… ma no, non l’amava. Lui non amava nessuno.
Era ancora in quella posizione, lo sguardo su di lei, quando Kathleen uscì dalla stanza.
Quanto a Kathleen, tornò lentamente verso casa e salì, altrettanto lentamente, le scale fino alla camera. Restò sdraiata sul letto, a guardare il soffitto, per un tempo indefinito. A tratti piangeva, e la luce del soffitto le appariva sfumata e luccicante attraverso le lacrime.
Era furiosa, furiosa con se stessa, e, cosa ancora peggiore, si sentiva una stupida, spogliata di ogni dignità, esposta al ridicolo e alla vergogna. Provava anche un feroce rancore per l’uomo che conosceva come Frank Kennedy. Desiderava che morisse, che fosse investito da un camion e dimenticato da tutti. Ma al tempo stesso lo amava. Voleva che fosse morto, ma anche che bussasse alla porta per dirle che si era sbagliato, che la portava con sé. Era così bello stare con lui, nel suo letto, tra le sue braccia… si era sentita bella, perché lui la desiderava. Sdraiata al suo fianco, aveva pensato che la sua vita potesse cambiare. Proprio lui le aveva fatto capire quanto fosse brutto stare con Chris; le era già successo, ma non in modo così forte e chiaro. Proprio perché Frank — colui che conosceva come Frank — era così gentile e sicuro, lei comprendeva meglio quanto fosse terribile che Chris si ubriacasse, la picchiasse e se la intendesse con un criminale come Hirschorn. Fra le braccia di Frank capiva tutto questo e sentiva che tutto poteva essere diverso. Ora però… aveva capito, invece, che tutto sarebbe stato come prima. O forse poteva cambiare le cose senza l’aiuto di Frank, poteva lasciare Chris e iniziare una nuova vita da sola? Ma no, sapeva che era impossibile. Più ci pensava e più si vedeva intrappolata nuovamente nella sua vita di sempre, con Chris, giorno dopo giorno.
Piangeva sempre più forte e le lacrime le colavano ai lati del volto, bagnando il cuscino. Prese un fazzoletto dal comodino e si asciugò il naso, pensando all’uomo che aveva conosciuto come Frank, alle volte che erano stati insieme. I singhiozzi le scossero il petto. Dannazione, dannazione, pensò, e lo malediceva per come lui l’aveva trattata poco prima, senza emozione, senza sentimento, così diverso da com’era quando avevano fatto l’amore e avevano parlato nel buio della stanza.
Il pianto si calmò, ma Kathleen continuò a prendere dalla scatola un fazzoletto dopo l’altro per asciugarsi il naso. Alla fine, c’era una collezione di fazzoletti stropicciati intorno a lei. Sempre fissando il soffitto, ripensò ancora a come fosse stato bello con lui, alle cose che si erano detti, alla dolcezza, all’abbandono. Erano tutte bugie? Le aveva fatto tante domande su di lei e la sua vita, come se gliene importasse qualcosa. Era tutta una messinscena? La preoccupazione per quanto le accadeva, l’interesse per ciò che faceva Chris… glielo chiedeva sempre, chiedeva sempre di Chris e dei suoi incontri segreti con Bernie Hirschorn. In effetti, tutte le volte che erano stati insieme erano capitati sull’argomento. Tutte le volte.
Kathleen si soffiò il naso. I suoi pensieri avevano preso, senza volerlo, un’altra direzione. C’era qualcosa di… stonato in quel momento. Era come se una sorta di veleno fosse penetrato nel suo corpo, un insinuante veleno che si diffondeva in lei rendendo tutto confuso e sbagliato. Tutte le volte che era stata con Bishop avevano finito per parlare di Chris e Hirschorn, senza eccezioni. Frank l’aveva spinta ad ascoltare le loro conversazioni per «sapere cosa sta succedendo e proteggerti», diceva lui. Se lo ricordava perfettamente. E lei aveva fatto esattamente ciò che lui le aveva detto. Ascoltava di nascosto il marito e, non appena vedeva Frank, gli riferiva ciò che aveva udito; se non lo faceva, era lui a chiederglielo. Sempre. Kathleen pensava che Frank la stesse aiutando, si preoccupasse per lei e delle conseguenze delle azioni di Chris, la volesse proteggere. Almeno così diceva.
Gli occhi della donna si spostavano da sinistra a destra come se stesse leggendo i suoi stessi pensieri. Iniziava a vedere le cose diversamente, ed era furiosa. Frank la lasciava, lei era arrabbiata con lui e ciò che le aveva detto sembrava ora avere tutto un altro senso. Il torbido veleno del sospetto si impossessò di lei, penetrando sempre più in profondità, finché non pensò: «Un momento, e se…?»
Il suo cuore sembrò cambiare: almeno questa fu la sensazione. Diventò scuro, amaro, come se le si fosse incenerito nel petto.
Si alzò a sedere sul letto, con le ginocchia piegate e le labbra leggermente aperte. Gli occhi gonfi, che non smettevano di muoversi, rivelavano un’espressione di stupore e confusione riflessa su tutto il volto. Troppi pensieri, troppe immagini e ricordi che si sommavano. La tempestività con cui Frank era arrivato a Driscoll, il modo in cui Ray gli aveva trovato la sistemazione nella casa di fianco alla sua, la rapidità con cui Frank le aveva fatto la corte… le era sembrato così bello, si era sentita lusingata e desiderata. Ma ora, improvvisamente, la rabbia e il sospetto le facevano pensare… e iniziò a ricordare alcune cose che lui aveva detto. «Sono preoccupato per te, Kathleen. Per quello che succede in casa tua.» Sembrava così dolce e romantico. «Devi cercare di scoprire che cosa si dicono, per proteggerti.» Sembrava davvero che gliene importasse, che volesse metterla al riparo dai pericoli, come accade fra un uomo e una donna… in tutti i film, almeno. Ma adesso…
Adesso, tutto ciò che aveva detto suonava sbagliato, sembrava una massa di balle. Ora che ci pensava più attentamente, con la mente resa più vigile dalla rabbia, le parole di Frank non erano altro che quel genere di stronzate che gli uomini dicono per abbindolare le donne, quelle stronzate in cui lei era rimasta invischiata per tutta la vita.
Ancora seduta in mezzo ai fazzolettini di carta bagnati, Kathleen si portò una mano allo stomaco perché era stata assalita da una terribile nausea. La mente era ancora troppo confusa per riuscire a trovare un senso in tutti quei pensieri.
Poi, improvvisamente, eccolo.
«E se fosse un poliziotto?» Questo pensò. Un poliziotto sulle tracce di Hirschorn e, quindi, di Chris…
Emise una sorta di grido strozzato, come se le avessero dato un pugno nello stomaco. Sentiva esattamente quella sensazione di dolore e nausea di chi ha ricevuto un pugno.
Posò velocemente i piedi a terra, incurante dei fazzoletti sparsi sul pavimento, guardando fisso davanti a sé.
«Mio Dio, mio Dio!» Le parole le uscirono come un urlo soffocato. «Che cosa ho fatto?»
Poi udì dei passi e si voltò.
Chris era sulla porta.
Chris le lanciò una lunga occhiata torva, stupito nel trovare la moglie seduta sul letto a piangere. «Che cosa c’è?» chiese.
«Mio Dio, Chris», sbottò lei. «Non uccidermi, ma credo di aver fatto una cosa veramente stupida.» Si coprì la bocca con entrambe le mani. Sapeva di non dover parlare così in fretta, che doveva prima ragionare su che cosa fosse meglio, considerare la soluzione migliore. Ma non riusciva a pensare. Provava troppa nausea, vergogna e rabbia, vera rabbia, ora che capiva quanto fosse stata usata e tradita. E adesso era arrivato suo marito, che poteva essere veramente nei guai — anche per causa sua — e lei doveva aiutarlo. Abbassò le braccia. «Ti giuro che non l’ho fatto apposta», disse. «Mi ha ingannata. Quel bastardo. Che bastardo!»
Anche la mente di Chris, intanto, si era messa in moto, con tutte le cose preoccupanti che stavano succedendo. Aveva ricevuto una telefonata dall’ufficio di Hirschorn, quella mattina. Non da lui personalmente, ma dal segretario, il viscido Wellman o come diavolo si chiamava.
«C’è un ritardo», gli aveva detto. «Il signor Hirschorn vuole che aspetti la sua chiamata.»
Quale ritardo? Quale chiamata? Che cosa succedeva? Wellman non gli aveva detto di più e quando Chris aveva cercato di ritelefonare, gli aveva risposto la voce metallica di una segreteria: «Lasciate un messaggio. Sarete richiamati».
Ecco perché Chris era preoccupato e la sua testa non smetteva di rimuginare. Quando poi era entrato in camera e aveva trovato la moglie in quelle condizioni, quando aveva visto i fazzoletti sporchi, si era allarmato ancora di più. La prima cosa che gli venne in mente fu che il pianto di sua moglie fosse in qualche modo legato a ciò che stava accadendo.
«Che cosa?» chiese. «Che cosa hai fatto?»
«Mio Dio, Chris», piagnucolò Kathleen. «Ti prego, non uccidermi. Pensavo fosse una cosa normale, sai, che mi facesse delle domande. Pensavo che volesse essere gentile.» Doveva presentargli le cose in modo diverso, naturalmente; non poteva mica spiattellargli che lei e Frank erano stati a letto insieme. «È proprio come avevi detto, Chris. Avevi ragione. Mi ronzava intorno, ma non perché gli piacevo, non voleva ciò che tu pensavi. Dio mio, Chris, come mi dispiace. Ero preoccupata per te, non mi dicevi mai niente del tuo lavoro e io ero preoccupata…»
Chris si mise le mani sui fianchi, stringendo i pugni. Il livido sulla guancia era diventato giallognolo, ma in quel momento il rosso violaceo di qualche tempo prima sembrava riaffiorare. Era più che preoccupato, ora, era spaventato, molto spaventato. Ma di che cosa? Che cosa stava dicendo sua moglie? «Dannazione, Kathleen, dimmi che cosa è successo: che cosa hai fatto?»
E così lei parlò, tralasciando solo la parte della storia in cui era andata a letto con Frank. Gli disse di come avesse ascoltato le sue conversazioni con Hirschorn e le avesse riferite a Frank, dei nomi che aveva sentito, degli indizi che gli aveva fornito, tutto.
«E adesso penso che lui sia un poliziotto, Chris», disse, alla fine. «Mi dispiace tanto.»
Chris era rimasto a bocca aperta, incredulo. «Cosa?» sussurrò appena.
Kathleen pestò il pugno sul ginocchio. «Che sia maledetto! Penso proprio che possa essere un fottuto poliziotto.»
Il marito iniziò a tremare, avvolto da un alone di paura che gli penetrava fin nelle ossa. Gli sembrava di soffocare. «Uno sbirro?» riuscì a malapena a dire. Un poliziotto. Se era vero, se Hirschorn lo veniva a sapere…
Andò rapido alla finestra e guardò fra gli alberi, verso la casa vicina. Dietro di lui, Kathleen piangeva, rumorosamente, soffiandosi il naso.
«È in casa adesso?» le chiese. «Kennedy è in casa?»
Lei annuì. «Sì… almeno penso di sì, vedi la moto?»
«Sì.»
«Quindi probabilmente c’è.»
Chris continuò a fissare fuori dalla finestra. Poi gli venne in mente una cosa e spostò lo sguardo sulla strada. Riusciva a vederne solo un piccolo tratto, fra le due abitazioni, ma lo osservava nervosamente. Si chiese se Hirschorn sapesse, se fosse già al corrente, se i suoi sgherri stessero già venendo lì, a prenderlo.
Si passò la mano sopra la bocca secca. No, era improbabile che già lo sapesse. Come avrebbe potuto? Guardò ancora verso la casa di Bishop e la finestra della camera da letto. Aveva la nausea e respirava male per la paura, ma la sua voce rimase ferma e quasi impassibile, come se fosse un altro a parlare.
«Devo andare a vedere», disse. «Bisogna stanare quel figlio di puttana, così posso entrare e scoprire che cosa diavolo sta succedendo.»
Proprio in quel momento, Weiss aveva trovato il negozio che stava cercando e bussava alla porta a vetri, tentando di sbirciare all’interno. PROPRIO PER TE, l’insegna recitava, PARRUCCHE E TUPÈ. L’orario indicava la chiusura per il pranzo fino alle due, ma Weiss, dal suo appostamento nel bar di fronte, aveva visto un uomo entrare.
Il negozio era ai margini di Haight Ashbury, incastrato fra una botteguccia di articoli da fumo che serviva gli ultimi hippy della zona e un grande magazzino che aveva per clientela la nuova borghesia. Un altro investigatore sarebbe stato ben più riluttante ad andarci; avrebbe pensato a un ennesimo buco nell’acqua nella faticosa perlustrazione dei negozi della città. Ma Weiss sapeva che il suo bizzarro istinto, specializzato nel capire la mente altrui, raramente sbagliava. E ora lo faceva sentire vicino alla meta.
Quando bussò di nuovo sul vetro, un volto rotondo e pallido apparve nella penombra del negozio. L’uomo inscenò una specie di pantomima battendo sull’orologio da polso, per far capire che non era aperto. Ma Weiss insistette finché l’altro non venne ad aprire, alzando gli occhi al cielo.
Si trattava del proprietario, Patrick Fandler, che per Weiss incarnava tutte le caratteristiche del tipico omosessuale di città: belloccio, capelli cortissimi, il corpo senza fianchi inguainato in pantaloni e maglioncino aderenti.
«Che cosa ci dice il cartellino sulla porta?» chiese, infastidito, socchiudendo appena la porta. «Pausa pranzo. È solo un negozio di parrucche, penso che qualunque cosa lei voglia possa attendere.» Poi, guardando meglio i capelli brizzolati di Weiss, aggiunse: «O forse no? In effetti non vorrei chiudere la porta in faccia a un caso di vera emergenza».
Weiss introdusse il suo biglietto da visita nell’apertura. «Mi chiamo Weiss e sono un investigatore privato.»
«Davvero? Come nei film?»
«Più o meno. Posso entrare a farle un paio di domande?»
Fandler osservò il biglietto ancora per un momento, poi disse: «Mi casa es tu casa» e si fece da parte per far entrare Weiss.
Il detective lo seguì fino al bancone, in fondo al negozio, dove i resti di un tramezzino all’insalata di tonno giacevano sopra una distesa di parrucche e capelli artificiali. Le ciocche bionde e castane sottovetro sembravano code di animali, trofei di caccia. Weiss vi posò sopra la fotografia di JulieWyant.
Patrick Fandler la guardò solo una volta. «Sì», disse. «Non potrò mai dimenticare quei capelli.»
Weiss annuì: ci aveva sperato davvero. Nessuno, secondo lui, avrebbe potuto scordarseli. L’espressione del volto non mutò, ma internamente tutto in lui si mosse: era agitato.
«E quel viso!» stava continuando Fandler. «Era così bella da farmi quasi desiderare di essere una lesbica.»
Weiss abbassò il mento per far capire di aver inteso la battuta. «È stata qui circa tre mesi fa?» Voleva esserne certo.
«Direi di sì.»
«E ha comprato qualcosa?»
«Be’, certo, ecco perché me ne ricordo: ha comprato una parrucca.»
Weiss riuscì a rimanere ancora impassibile, ma dovette respirare a fondo. «Una parrucca?»
«Sì, una parrucca, e io mi sono chiesto perché una ragazza con simili capelli sentisse la necessità di coprirli.»
«Bene», disse Weiss, e pensò: è viva. Ne era certo ormai, se lo sentiva. Julie Wyant era viva. Aveva finto di suicidarsi, si era travestita ed era scappata.
«Ora che ci penso, ne ha comprate tre», aggiunse Fandler. «Una bionda e due brune, una con qualche colpo di sole color mogano. Le ha provate proprio qui», e così dicendo scostò una tenda lasciando vedere un piccolo spogliatoio con uno sgabello, un tavolino, uno specchio illuminato. Weiss osservò tutti gli oggetti e il cuore gli balzò in petto: lei si era seduta lì, si era guardata in quello specchio… ed era ancora viva.
«Ha detto una cosa veramente divertente», aggiunse Fandler.
Weiss lo guardò. «Cioè?»
«Stava provando la parrucca bionda e io gliela pettinavo, per vedere come andava. Lei studiava l’insieme, girando la testa da una parte e dall’altra. A un certo punto le ho chiesto: ‘Va tutto bene?’ perché sembrava così triste, terribilmente triste, come se stesse per piangere. E lei mi ha risposto — lo ricordo chiaramente — guardandomi nello specchio: ‘Sono sempre io, comunque’.»
Weiss diede un’ultima occhiata al camerino ripensando a Julie, con il cuore in gola.
«’Sono sempre io’», stava ripetendo Fandler, a bassa voce.
Il cellulare di Weiss cominciò a suonare, riportandolo alla realtà. Lo prese e disse: «Weiss».
«Sono Ketchum.» La voce dell’ispettore all’altro capo era chiara e decisa. «Vieni più presto che puoi al comando. Ti porto dal nostro uomo.»
Weiss si limitò ad annuire, poi ripose il telefono. Si fermò a guardare un’ultima volta il tavolino e lo specchio.
Sono sempre io, pensò.
Julie Wyant era viva.
Solo due ore più tardi, Weiss guardava fuori dal finestrino di un bimotore de Havilland che stava attraversando un sottile strato di nebbia prima di atterrare. Sotto di lui c’erano solo foreste a perdita d’occhio, una sconfinata macchia di un verde azzurrognolo che si perdeva nel mare.
«Spero che apprezzerai quello che sto facendo per te, Weiss», mormorò fra i denti Ketchum. «Ho dovuto promettere favori che neanche ti immagini. Mi sono quasi messo in ginocchio davanti a quei fottuti federali… e tu sai quanto li odio.»
Le lamentele dell’ispettore erano poco più di un brontolio sommesso. Nessun problema. Weiss comunque non lo ascoltava. Continuava a guardare fuori dal finestrino, con il mento appoggiato sul pugno. La nebbia era scomparsa e il campo d’atterraggio si stendeva davanti a loro, due piste incrociate in riva all’oceano.
Shadowman. Anche la nebbia nella mente di Weiss — un misto di impressioni, fatti, deduzioni — stava iniziando a dissiparsi e la vicenda acquistava contorni sempre più nitidi. Il senso di urgenza rasentava ormai la frenesia, tutta la frenesia che la sua natura solida gli permetteva di provare. Come il video in cui la ripresa di Julie Wyant che ammiccava allo spettatore si ripeteva ad anello, così il sogno a occhi aperti si ripeteva ossessivamente. Lui che saliva le scale e abbatteva la porta, la ragazza sul letto. I minuti contati.
Shadowman.
«Merda, come odio tutto questo», riprese Ketchum un momento dopo, una volta scesi a terra, mentre Weiss guidava l’auto noleggiata lungo la strada costiera. «Guarda», disse, indicando il panorama. La distesa azzurra del mare si confondeva con quella del cielo e appariva e scompariva secondo l’andamento delle curve. «Sto peggio su queste strade secondarie che su quel dannato aeroplano.»
Shadowman. Weiss era stato uno dei primi poliziotti ad arrivare sulla scena del cosiddetto massacro di South Bay. Era presente quando i sommozzatori avevano riportato a riva i corpi dei bambini. Se ne ricordava in particolare una, con il volto in parte sfigurato dagli spari, il corpo divorato dai pesci, ma un profilo ancora intatto, dolce, come se stesse dormendo.
Mi aveva detto che i giornali avevano creato la figura dello spietato assassino, che Jeff Bloom del Chronicle aveva parlato di un misterioso informatore. Quel personaggio, quel mostro dal nome melodrammatico, sarebbe stato un killer senza scrupoli, temuto dai suoi stessi mandanti, un uomo al quale non si poteva sfuggire, perché avrebbe inseguito la sua preda in capo al mondo, pur di concludere il lavoro. Questa era la versione di Weiss.
Ciò che non mi aveva detto — ma di cui avevo avuto notizia nei corridoi dell’Agenzia — era chi fosse l’informatore segreto di Bloom, il vero creatore del diabolico personaggio: un detective di polizia in contrasto con il suo dipartimento, che fingeva di non voler vedere. Un uomo che, alla fine, non sapeva più bene lui stesso se avesse inventato la figura di Shadowman o se ne avesse tracciato l’immagine traendola dai fatti.
E adesso Harry Eidder era morto, suicida. Peter Crouch era morto, ucciso nella sua cantina. E Julie Wyant era scomparsa.
L’uomo ombra, Shadowman, esisteva, che fosse reale oppure no.
«Ecco, iniziano i boschi», disse Ketchum, con evidente disapprovazione.
La strada piegava verso l’interno, allontanandosi dalla costa. Da lì in poi il paesaggio sarebbe stato sconfinato e selvaggio, completamente disabitato.
«Che posto di merda!» continuò Ketchum.
Weiss osservava la strada. Dopo qualche chilometro, gli alberi che la costeggiavano iniziarono a diradarsi e apparve una barriera di filo spinato. Poco dopo si stagliarono sul cielo le torri del carcere, al cui interno si distingueva l’ombra di uomini armati. Sul terreno al di sotto delle torri si vedevano le gabbie di cemento incastrate una nell’altra. Non c’era segno di vita, nessun movimento. Non un essere vivente.
«È il buco del culo del mondo», grugnì Ketchum, sconsolato. «Mi hai trascinato dritto in culo al mondo.»
Superarono una serie di controlli sia al cancello sia all’entrata dell’edificio. Guardie dall’aspetto truce li passarono al setaccio con metal detector così sensibili da rilevare quasi il ferro presente nel sangue. Poi un agente dal volto squadrato, grande come una montagna, li scortò fino alla prima barriera.
L’uomo restò fermo mentre un apparecchio analizzava l’iride del suo occhio destro. Si udì un forte ronzio e la pesante porta scorrevole si aprì. L’agente li fece passare e si ritrasse. Weiss e Ketchum si ritrovarono soli nel corridoio di uno dei blocchi, mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, intrappolandoli.
Percorsero lo squallido passaggio in silenzio. Anche se abituato alla desolazione di quei posti, Weiss si sentiva sempre più oppresso a ogni passo, come se stesse abbandonando la luce e l’aria per scendere in una soffocante oscurità.
Anche Ketchum provava una simile sensazione e scuoteva la testa lamentandosi: «Mio Dio, credo che non ci sia niente di più sconfortante di questo posto».
Le telecamere li seguivano passo dopo passo, ma i due non incontrarono altre guardie finché non raggiunsero la porta di ferro del parlatorio. Qui, in una cabina dai vetri corazzati, c’era una guardia che li salutò con un cenno, senza sorridere. Poi si udì un altro assordante ronzio, e Weiss poté aprire la porta.
La stanza era piccola, con i muri di cemento e una parete, quella di fronte a loro, trasparente e, ovviamente, corazzata. Sui lati vi erano alcune sedie di plastica. Weiss e Ketchum ne presero due e si sedettero.
Rimasero a guardare, in silenzio e immobili, la sedia di metallo inchiodata al pavimento al di là del vetro. Entrarono due guàrdie che trascinavano un uomo ammanettato. Lo fecero sedere e lo incatenarono ai ganci fissati sul pavimento; poi si ritirarono. La porta si chiuse. Weiss e Ketchum si sedettero di fronte all’uomo incatenato, Lenny «Whip» Pomeroy.
Non aveva l’aspetto di un galeotto comune. Era magro, con i lineamenti delicati e dita lunghe, delicate e nervose. Gli occhi avevano un’espressione di scusa e le labbra sottili continuavano a muoversi. Sembrava impegnato in un monologo con se stesso che si manifestava come un impercettibile sussurro.
Erano due mesi che mercanteggiava con i federali, rivelando identità nascoste in cambio di quella protezione. Praticamente era da allora che non vedeva il sole e il suo pallore era cadaverico.
«Dunque, Pomeroy», iniziò Ketchum. «Sono l’ispettore Ketchum del dipartimento di polizia di San Francisco. Questo è il detective Weiss, della Weiss Investigations, un’agenzia privata. Deve farti un paio di domande.»
Gli occhi del poveretto si mossero da uno all’altro fino a scegliere Weiss, senza però fissarlo, piuttosto ronzandogli intorno come un insetto irrequieto. Scosse appena la testa. «No, no. Avevamo detto tre mesi.» La voce era come un nervoso singulto che il microfono rendeva metallico e spezzato. Le catene cigolarono, mentre muoveva le mani. «Non vi dirò niente per almeno tre mesi.»
«Non sono qui per questo», disse Weiss, in tono pacato.
«Tre mesi, questo era l’accordo.» Non riusciva a tener ferme le mani.
«Non voglio nessuna informazione sui tuoi clienti.»
«Avevamo un accordo, mi avevate detto…»
Weiss tagliò corto: «Stiamo cercando Julie Wyant».
L’effetto fu immediato e drammatico. Weiss non avrebbe creduto che il giovanotto potesse ulteriormente impallidire, ma anche l’ultimo, impercettibile colore vitale scomparve dalle sue guance. Sulla sedia in quel momento c’era un essere trasparente, tranne gli occhi, enormi e terrorizzati.
Weiss non riusciva a capire se stava scuotendo la testa o se era in preda a una crisi isterica. Parlò comunque, sempre con voce calma. «Non lavoro per Shadowman», disse. «Sto cercando di fermarlo.»
Gli occhi non smettevano di roteare. «Sì… be’… Per forza dite così, no? Io… Come faccio a saperlo? Capite quel che dico? Come faccio…?» La voce venne meno. Le labbra continuarono a muoversi ma non uscì più un suono.
Weiss ignorò la domanda. «Io la vedo così», continuò, ancora più calmo. «È accaduto qualcosa mentre Cameron Moncrieff stava morendo nel suo letto. Forse ha detto o fatto qualcosa che riguardava Shadowman e per cui il killer si è sentito minacciato. Julie Wyant era presente, così come il legale di Moncrieff, Peter Crouch; anche Harry Eidder, il giardiniere, ha sentito, forse dalla finestra, forse perché passava di lì o stava origliando.»
«Si occupava delle rose.» La frase si distinse nel mormorio senza senso dell’uomo, come un improvviso bagliore nella notte buia. «Le prime rose Heart of Gold della stagione, fiorite proprio sotto la finestra della camera da letto. Ha sentito per caso, solo per caso.»
Weiss annuì, incoraggiandolo con uno sguardo profondo e comprensivo. Era piegato in avanti, con le mani sulle ginocchia. «Che cosa vi ha detto, Pomeroy? Che cosa è accaduto quel giorno? Devo saperlo, per Julie.»
Weiss e Pomeroy si guardarono attraverso la parete trasparente. Più tardi, Ketchum avrebbe detto che gli era sembrato di assistere a un esorcismo, come se il nome della ragazza, trasformato in una formula rituale, avesse obbligato il giovanotto a liberarsi dell’ossessione.
Le labbra su quel volto cadaverico sussurravano sempre più forte. «Non potete capire… Non potete, non la conoscete.»
«Spiegami, allora. Che cosa è successo?» continuò Weiss. «Moncrieff le ha detto qualcosa? Qualcosa che Shadowman non voleva che sapesse? O le ha dato qualcosa che non doveva avere…»
«No!» sibilò Pomeroy. «No, no, no. Non capite. Pensate che si tratti… si tratti di cose… di cose. Ma voi non la conoscete, non conoscete Julie.» Scandì le sillabe del nome con dolcezza, con una specie di esaltazione.
A Weiss non piacque quel tono, lo faceva sentire insicuro, come se improvvisamente la sua ricostruzione avesse meno valore, o lui stesso non volesse più sapere la verità.
«È lei che ha cambiato le cose», continuava Whip, senza mutare il modo di esprimersi: melenso, esagitato. «Ha cambiato… tutto. Tutti. Era… una creatura irreale, come la figura di un quadro, un sogno diventato realtà. Era come le persone non sono mai. Non potete capire.»
Weiss, sempre più oppresso e a disagio, fissò l’uomo che stava dall’altra parte del vetro, incatenato. Dall’espressione sembrava che stesse per entrare in una sorta di trance, provocata dal desiderio della donna scomparsa.
Il detective scosse sconsolato la testa, come se non comprendesse; in realtà, temeva proprio di cominciare a capire.
«Ti faceva sentire come se tu fossi l’unica persona al mondo», stava sussurrando Pomeroy, estasiato. «E quando ti toccava… ecco… le cose cambiavano. Tutti cambiavano.»
«Moncrieff, è di Moncrieff che stiamo parlando.» Weiss cercò di farlo ritornare in sé. «Intendi dire che ha cambiato Moncrieff.»
«Cam l’adorava, come me, come tutti… E dopo che Cam l’ebbe assunta, il modo in cui lei ebbe cura di lui durante la malattia, il modo in cui si comportava con lui… È cambiato, ecco tutto. Voleva… fare qualcosa, non so se mi spiego.»
Weiss cercava di liberarsi del malessere che lo aveva colto e di mettere a fuoco la logica emotiva dello scenario che Pomeroy stava descrivendo. Moncrieff, un consumato trafficante di droga e pappone, sul letto di morte. Il peso dei suoi peccati lo schiaccia e sente già le fiamme dell’inferno sul deretano. «Vuoi dire che voleva fare qualcosa di buono prima di morire?»
La testa di Pomeroy andava su e giù, le mani si torturavano a vicenda, facendo muovere le catene. «Qualcosa per lei», disse. «Qualcosa per… salvarla.»
«Per salvarla.» Dalla prostituzione, pensò Weiss. «Voleva salvarla. Perciò le diede… che cosa? Del denaro?»
«Sì, del denaro. Cam però non aveva poi così tanti soldi. Le diede ciò che aveva di più utile a sua disposizione… cioè io… insomma, una nuova identità.»
«Moncrieff ti ha chiesto di fornirle una nuova identità?»
Gli occhi di Pomeroy vagarono per la stanza, come se inseguissero una mosca. Stava sussurrando ora, e non si capiva più che cosa stesse dicendo. Poi: «Era quello che potevo fare per lei. Cam lo sapeva. Nessuno ha mai rintracciato uno dei miei clienti. Nessuno, se io non ho parlato».
«D’accordo», lo incalzò Weiss. «Questo l’ho capito. Moncrieff voleva dare a Julie del denaro e una nuova identità per rifarsi una vita. Ma adesso ti chiedo: che cosa c’entra Shadowman? Che cosa vuole da voi? Perché la deve trovare? Che cosa sa Julie? Che cosa le ha detto Moncrieff prima di morire…?»
«Aaaah…» Il suono uscì improvviso dalle labbra di Pomeroy. Sembrò che fosse ritornato di colpo sulla terra e lo sguardo, il nuovo sguardo, era quello di un uomo che ha appena ricevuto una scossa elettrica sui testicoli. La bocca era semiaperta, gli occhi strabuzzati, i lineamenti contratti. Era come se le congetture di Weiss gli provocassero un dolore fisico. «Dite così perché… ve l’ho già detto: non la conoscete. Perciò pensate sempre che si tratti di cose. Denaro o informazioni… Non riuscite a immaginare che ci possa essere…»
Le labbra continuarono a muoversi, ma la voce era scomparsa. Weiss non riusciva ancora a capire, era ancora seduto con quel sospetto sospeso nell’aria, a cui non riusciva a dare forma.
«Calmati, ora, vediamo di ricapitolare», riprese, lentamente. «Moncrieff è sul letto e sta morendo e si pente della sua vita, dei suoi errori. Vuole fare qualcosa di buono per una persona e decide di dare a Julie del denaro e una nuova identità.»
«Esatto, proprio così.»
«Anche l’avvocato, Peter Crouch, è presente.»
«Sì.»
«E il giardiniere, Harry Ridder, è fuori dalla finestra a curare le rose, e per caso sente la conversazione.»
«Sì.»
«E tu… c’eri anche tu, vero?»
«Sì, c’ero anch’io, ma me ne sono andato non appena Cam è morto, così nessun altro lo avrebbe saputo.»
Weiss annuì molto lentamente. «Bene, perfetto. Perché tu eri l’unico a sapere quale sarebbe stata la nuova identità, giusto?»
«Sì.»
«E questo è tutto. È tutta la storia.»
Ketchum premette la base del naso con il pollice e l’indice, scuotendo la testa. «Incredibile», mormorò.
Ma Weiss insistette, cercando di immaginarsi la scena. «Bene, vorrei essere sicuro di aver capito. Moncrieff si rende conto che il giardiniere, Ridder, ha sentito.»
Gli occhi nervosi di Pomeroy si mossero rapidamente. «È Crouch che se ne è accorto.»
«Okay, e poi? Dopo che Moncrieff è morto, il vecchio Crouch dice al ragazzo: ‘Sei nei guai; se qualcuno scopre che hai sentito, sei un uomo morto. E meglio che te la svigni, prima che Shadowman ti trovi’, dico bene? Qualcosa del genere?»
«Sì.»
«E aggiunge qualche dettaglio sul nostro inquietante personaggio che spaventa a morte Ridder, tanto che finisce per spararsi un colpo in testa.»
Pomeroy annuì, senza smettere di muovere le labbra e gli occhi.
«Ma Shadowman appare davvero, e comincia a dare la caccia a Crouch. Lo tortura a morte per farsi raccontare tutta la storia e… viene il tuo turno di avere paura. Potevi nasconderti in qualche periferia, sotto nuova identità, ma preferisci farti arrestare e chiudere in questa gabbia, in questo buco dimenticato da Dio.»
Pomeroy sembrava non ascoltare più; studiava il soffitto, sussurrava frasi sconnesse, ma annuiva.
Weiss sospirò. «E tutto questo perché…» Non sapeva come avrebbe terminato la frase, che cosa avrebbe detto, ma mentre le parole gli uscivano, cedette anche la sua resistenza interiore. Improvvisamente seppe che cosa aveva capito, seppe il perché del malessere. Deglutì e disse: «È per lei, vero? Ecco cosa cerca Shadowman? Sta cercando lei».
Sembrò che il cervello di Whip ci mettesse uno o due secondi a registrare il messaggio ricevuto. Poi, come folgorato, guardò Weiss, Ketchum, e ancora Weiss. «Ma sì. Naturalmente…»
«Ci siamo. Solo lei. Non soldi, non informazioni… Solo…»
Ketchum scoppiò a ridere, una sorta di latrato che sconvolse Pomeroy come un colpo di fucile. Weiss stava pensando che tutto ciò non aveva senso, era pura follia.
«Shadowman è innamorato di lei», disse lentamente.
Pomeroy era immobile, con un’espressione vuota, quasi sognante. Le mani si erano fermate, le labbra non sussurravano più, la faccia pallida era come senza volto. I grandi occhi fissavano un punto nel vuoto. Weiss aspettò finché, dopo quello che gli parve un secolo, il prigioniero ricominciò a tremare. Passò qualche istante ancora, poi disse: «È l’uomo peggiore del mondo, forse anche di tutti i tempi. L’avevo detto a Cam, gliel’ho ripetuto mille volte. Ma Cam diceva che a volte gli era utile, per i suoi affari. Doveva servirsi di lui.» Ricominciò a muovere la testa e le mani. «E un giorno, lui la vide. Lui… non ho mai saputo il suo nome. Il suo vero nome, intendo. Tutte le volte ne aveva uno diverso. Shadowman, così lo chiamano i giornali. Ed è così che abbiamo iniziato a chiamarlo anche io e Cam. E un giorno… lui l’ha vista. Le ha messo gli occhi addosso ed è stata la fine. Continuava a venire per vederla. E lei gli diceva che… che non… lo voleva intorno, ma lui non l’ascoltava. Niente lo poteva tenere lontano. E un giorno…»
Pomeroy tacque. Anche Weiss non parlò. Rivedeva la ragazza del video, i magnifici capelli, la faccia d’angelo, sono sempre io.
«Le ha fatto male», sussurrò Pomeroy. «Le ha fatto del male e io ho sentito tutto. Ero nella stanza accanto e ho sentito tutto. Voleva che lei andasse a letto con lui, lei non voleva e lui le ha fatto male. E poi… quando tutto è finito, ha iniziato a dirle delle cose… cose che nessuna persona direbbe, nessun essere umano. Le ha detto che cosa le avrebbe fatto se lei non fosse stata con lui. Voleva che fosse solo sua. Io lo sentivo, dalla stanza accanto. Diceva che aveva bisogno di lei. Ha detto che era l’unica cosa di cui aveva bisogno, di cui mai aveva avuto bisogno in tutta la sua vita. E che avrebbe fatto qualsiasi cosa… qualsiasi… pur di averla. L’avrebbe avuta, in un modo o nell’altro. E dopo averla minacciata in quel modo, si è messo a piangere. Piangeva e la supplicava.»
Mio Dio, pensò Weiss. «E tu hai sentito…»
«Ero nella mia stanza, lì accanto.»
E perché non l’hai fermato, brutto pezzo di merda, pensò, e quasi lo disse a voce alta. Ma ricacciò le parole in gola, insieme alla rabbia. «E ora tu sei l’unico a sapere dove si trova», disse invece. «L’unico.»
«Sono l’unico», sussurrò Pomeroy.
Ketchum era stato ad ascoltare fino a quel momento, ma ora ne aveva abbastanza. Era sempre più nervoso e disse: «Stai cercando di dirci che ti sei fatto rinchiudere in questa succursale dell’inferno, che hai addirittura contrattato per ottenere questa magnifica sistemazione, perché sei l’unico a conoscere la nuova identità della ragazza e temi che questo fantomatico Shadowman possa rintracciarti ed estorcerti l’informazione?»
«Lui verrà», rispose Pomeroy. «Non lo conoscete, lui verrà. Ha torturato Crouch e verrà anche qua. Quando si è reso conto che Julie se ne era andata, e che Crouch sapeva qualcosa, l’ha torturato finché non ha spifferato tutto. Crouch gli ha detto di me, della falsa identità, perciò lui sa. Sa che sono l’unico che può aiutarlo.»
«D’accordo, verrà», incalzò Ketchum. «Ma allora perché tu non dovresti parlare? Dannazione, non ti sei mai fatto molti scrupoli. Perché semplicemente non gli dici quello che vuole sapere? Che cosa te ne frega di quello che succederà alla ragazza?»
Pomeroy alzò il mento, come in un moto di orgoglio. Ma fu Weiss a rispondere: «Perché Shadowman lo ucciderà comunque». E Pomeroy lasciò cadere nuovamente la testa. «Lo deve uccidere, in un modo o nell’altro, perché sa che Whip l’ha sentito… supplicare, l’ha sentito piangere e dire alla ragazza che aveva bisogno di lei. È così, Pomeroy?»
«No, non perché ho sentito lui.»
Weiss chiuse gli occhi per un istante. Poi capì, tutto gli apparve chiaro. «Ti vuole uccidere perché hai sentito lei. Perché hai sentito la risposta che Julie gli ha dato.»
Pomeroy annuì rassegnato. «Mi deve uccidere a tutti i costi», sussurrò, quasi cantilenando, «perché l’ho sentita ridere.»
Nella stanza blindata era sceso nuovamente il silenzio. Si sentiva solo il rumore delle catene leggermente scosse dal tremore del prigioniero. I tre uomini erano ancora lì, immobili e zitti, con quella strana storia che aleggiava nell’aria fra loro. L’uomo peggiore del mondo si era innamorato. L’uomo peggiore del mondo si era innamorato di Julie Wyant.
«Hai una possibilità, Pomeroy», riprese Weiss dopo un po’. «Una sola. Devi dirci subito dove si trova Julie. Dirci qual è la sua nuova identità, così possiamo trovarla. Vi proteggeremo entrambi, io e la polizia, vi proteggeremo tutti e due, te lo prometto.»
«Proteggerci?» La testa di Whip era improvvisamente balzata in avanti e persino Weiss si ritrasse davanti a quegli occhi sempre più grandi che lo fissavano dal volto trasparente, mentre le labbra esangui si piegavano in grottesco, doloroso sorriso. «Non potete proteggerci, né me né lei. Non potete proteggere nessuno. Non da lui. Niente può fermarlo, niente. Arriva ovunque, raggiunge chiunque. E anche questa volta lo farà, per lei.» Pomeroy tornò ad appoggiarsi allo schienale e parve scomparire. «Non si può fermarlo. Niente può fermarlo. Mai.»
Dopo che le guardie ebbero recuperato Pomeroy per riportarlo in cella, Weiss rimase seduto dov’era ancora per un po’. Teneva le mani sulle gambe e fissava la barriera trasparente dietro la quale, ormai, non c’era più nessuno. Ketchum gli era accanto e, stranamente, non parlava.
«Dannazione», sospirò finalmente Weiss.
«Be’, almeno una cosa positiva c’è», disse Ketchum. «Non ci ha detto il nome, ma finché si trova qui, il nostro amico, Shadowman, non può certo raggiungerlo.»
Weiss annuì, poco convinto. Ketchum poteva anche aver ragione, ma c’era qualcosa… quel senso di urgenza che non lo abbandonava, quella visione di lui che saliva le scale, con i minuti contati.
Comunque, in quel momento, non c’era altro da fare. Si alzò pesantemente e avanzò verso la porta, seguito da Ketchum. Suonò e aprì il battente.
Prima di imboccare il corridoio, si voltò un’ultima volta a guardare la sedia vuota al di là del vetro. «Forse hai ragione», disse. «Penso che qui sia al sicuro.»
Uscirono e, per un po’, la stanza, il parlatorio numero tre del carcere di massima sicurezza di North Wilderness, rimase vuoto. Vuoto e deserto per mezz’ora, quaranta minuti, non di più. Poi la porta ronzò e si aprì di nuovo per lasciar passare un uomo magro con il vestito grigio scuro. Teneva le mani unite davanti a sé, i gomiti stretti ai fianchi. Sembrava una persona pignola e sprezzante.
L’assistente di Bernard Hirschorn, Alex Wellman, si sedette su una delle sedie di plastica e aspettò. Dopo qualche minuto, la porta al di là del vetro si aprì ed entrarono due guardie, con un prigioniero incatenato. Era l’uomo chiamato Ben Fry.
Sono ora costretto a ritornare, brevemente, sulle mie meno avvincenti avventure.
Avevamo lasciato l’eroe — cioè io — in preda a un dilemma morale. La mia brillante investigazione mi aveva fatto scoprire lo scomodo segreto del reverendo Reginald O’Mara. Per dirla tutta, nel momento m cui aveva presumibilmente visto il nostro cliente derubare e menomare per la vita un ragazzo dell’università, era intento a pratiche ben poco ortodosse con un parrocchiano del suo stesso sesso. Ora, io non sono cattolico, e neanche un moralista. Non mi importa certo di chi si inchiappetta chi, a patto che entrambi siano consenzienti e adulti. Ma mi rendevo conto che non tutta l’opinione pubblica o, peggio, i parrocchiani del reverendo la potevano pensare come me. Ciò mi portò alla conclusione che padre O’Mara fosse, per dirla con i teologi, nella merda fino al collo. Se avessi fatto rapporto a Sissy, come mi aveva chiesto, avrei distrutto la carriera di un uomo giusto, che aiutava i poveri e i disperati, per salvare il nostro cliente, cioè, come ho già detto, un delinquentello che non meritava altro che di finire in carcere, dove la testimonianza del sacerdote l’avrebbe spedito senza alcuna difficoltà, purché si ignorasse la faccenda dell’inchiappettamento.
Però, se avessi fatto finta di niente, sarei venuto meno al mio dovere professionale. Ecco perché ero in un bel dilemma. Da un lato c’erano tutte le belle parole sulla giustizia, Sissy che mi chiamava «mio caro», il fatto che, almeno nella mia testa, questo caso mi dava la possibilità di diventare un eroe come quelli dei romanzi che leggevo da piccolo e di avere nuovi incarichi assieme a Sissy e quindi, così speravo, di andare a letto con lei. Argomentazione che per un uomo ha un’indubbia validità. Ma, d’altro canto, la prospettiva di diventare un rovina-preti per liberare un delinquente non mi piaceva proprio. Così mi arrovellai finché non mi venne in mente che, quando si ha un problema morale, ci si rivolge a un prete.
Brad Murphy — l’inchiappettato — mi combinò un incontro con il reverendo O’Mara davanti al palazzo della Legione d’Onore, proprio sotto la statua del Pensatore, ciò che mi sembrò opportuno, visto quanto avrei dovuto pensare ancora prima di riuscire a stendere un qualsiasi rapporto.
Il palazzo, per chi non l’ha mai visto, è una costruzione maestosa, con un arco neoclassico fiancheggiato da imponenti colonnati. Davanti c’è un tempietto con una piccola piramide di vetro e al di là dell’ampia corte c’è una vasca d’acqua, che in quel momento rifletteva in modo molto scenografico il cielo divenuto basso e grigio come metallo. Ancora più in là svettavano esotici eucalipti, oltre i quali si stendevano le acque immense del Pacifico. Tutta questa maestosa grandezza mi faceva sentire ancora peggio. La figura del detective alla Marlowe che impersonavo un paio d’ore prima era in quel momento offuscata da quella di un viscido guardone che scava senza pietà nei segreti più reconditi degli altri.
Mentre ero intento a questi pensieri, ecco arrivare il reverendo O’Mara, con la faccia più plumbea del cielo di quel pomeriggio. Aveva circa cinquant’anni ed era abbastanza alto, con le spalle larghe e la vita sottile. Il volto era regolare, incorniciato da capelli che iniziavano a tingersi di grigio. Non indossava l’abito, né aveva il collarino bianco; solo un dolcevita grigio e dei pantaloni anonimi. Gli tesi la mano, ma lui l’ignorò, e ciò peggiorò la mia sensazione di essere un individuo meschino e piccolo, molto, molto piccolo.
C’era un gruppo di giapponesi che fotografavano la statua, perciò ci spostammo verso la corte. Eravamo affiancati, ma il reverendo non mi guardava. Teneva lo sguardo davanti a sé, parlando come se si stesse confidando con l’aria.
«Presumo che voglia del denaro», disse.
Sgranai gli occhi. «Non voglio soldi, santo cielo, no. Sono qui per aiutarla.»
Sbuffò in un modo che mi fece vergognare ulteriormente. Stavamo passando sotto l’arco e i nostri passi rimbombavano.
«Mi vuole aiutare?» disse.
«Esatto. Non credevo certo di imbattermi in una situazione del genere, durante le indagini.» Entrammo nella corte e le nostre voci non riecheggiarono più. «Stavo solo controllando la testimonianza, questo era il mio compito, e così ho scoperto…» Mi sentivo come in confessionale.
Procedemmo fino alla vasca e ci fermammo a fissare l’acqua. Finalmente lui si girò a guardarmi. Lo vedevo solo di scorcio, ma mi sembrò che stesse cercando di valutarmi.
«Che sorpresa», disse in tono più mite. «Un investigatore privato con una coscienza.»
«In effetti… sono nuovo del mestiere», risposi.
«Capisco. Comunque, siamo davanti a un bel problema.»
«Mi ascolti, lei sembra una persona per bene, padre. Io non voglio distruggerle l’esistenza, ma non posso neanche far andare in prigione il mio cliente.»
«E perché? Ha sparato a una persona.»
«Lo so, ma… è un cliente», dissi quasi dispiaciuto.
«Capisco.»
Una folata di vento freddo ci raggiunse e io mi infilai le mani in tasca, incurvando le spalle. Lo guardai. Teneva gli occhi rivolti lontano, come se stesse contemplando l’arrivo della catastrofe. Aveva un aspetto nobile, in quel momento. Nobile e triste.
«Non ha preso in considerazione l’idea di ritrattare?» riuscii finalmente a dire.
«Che cosa significa?»
«Be’, forse non ha visto quello che dice di aver visto. Forse non ne è così sicuro, non può testimoniare.»
Aveva capito, naturalmente. Alzò il mento e sorrise. «Vuole che menta per salvarmi. Che lasci andare quel delinquente per salvare me stesso.»
«Senza offesa, reverendo, ma lei ha già mentito.»
Mi guardò, sempre sorridendo. Penso che dopotutto, se non mi sono sbagliato, avesse pietà di me. Un giovanotto invischiato in una faccenda più grande di lui. «Qualche volta può essere necessario variare leggermente la verità. In ogni caso, non l’ho fatto per proteggere me stesso, anche se non mi aspetto che lei mi creda. Ci sono tante persone che dipendono da me, dal lavoro che faccio. E molte altre che sarebbero danneggiate dallo scandalo, anche se non c’entrano.»
«Capisco», dissi. Avevo davanti agli occhi i bambini poveri che aiutava, e suo fratello, il governatore: sarebbero affondati tutti, insieme a lui. Non c’erano speranze.
Colse l’espressione che probabilmente avevo sul volto e rise mentre mi diceva: «Che cosa vuole che le dica? Penso che sia lei a dover decidere».
«Fantastico, bell’aiuto, da un prete.»
«Lei è cattolico?»
«No.»
«Oh, allora è in un bel guaio.»
Risi anch’io, pur senza convinzione. Spinsi le mani più a fondo nelle tasche, guardando le nuvole riflesse sulla superficie dell’acqua.
«Quanti anni ha?» mi domandò.
«Ventidue», risposi.
«Poco più di un bambino.»
Non ebbi il coraggio di protestare; ero solo contento che né Weiss, né Bishop mi vedessero in quel momento.
Il prete allungò un braccio e mi afferrò la spalla. «Questo però posso dirglielo: lei è migliore di quel che crede. Una soluzione la troverà.»
Lo vidi dirigersi a lunghi passi verso il parcheggio, sotto quel cielo sempre più scuro.
Grandioso, pensai. «Merda», dissi.
Erano le cinque del pomeriggio e Jim Bishop — l’uomo che Chris e Kathleen Wannamaker conoscevano come Frank Kennedy — era ancora in casa. L’attesa aveva fiaccato i nervi di Chris, che non si sentiva per niente bene.
«Dannazione», imprecò guardando fuori dalla finestra per scorgere qualche movimento di Bishop. «Dobbiamo farlo uscire. Se è un poliziotto, devo scoprirlo.»
Kathleen, seduta sul letto dietro di lui, non rispose. Ma, dopo aver riflettuto un attimo, prese il telefono e compose un numero. Chris sentì il telefono squillare nella casa accanto.
«Sono Kathleen», sentì che la moglie diceva. «Devo parlarti.»
Chris si ritrasse. La figura di Kennedy era apparsa nel vano della finestra dell’altra casa, con il telefono in mano, lo sguardo rivolto verso di loro.
«No», stava dicendo Kathleen. «Ti devo parlare di Hirschorn, di Chris e Hirschorn. È importante, non posso dirtelo per telefono. Ci vediamo fra dieci minuti davanti al K-mart, al centro commerciale River. Fai in fretta, ti prego.»
Riattaccò la cornetta e si alzò per raggiungere Chris, ma lui le fece segno di stare indietro. «Non avvicinarti, sta guardando da questa parte», disse.
Kennedy aveva messo giù il telefono ma era ancora alla finestra. «Vedrà il furgone», sussurrò Chris, molto piano, come se l’altro potesse sentirlo. «Vedrà il furgone e capirà che sei qui.»
Kathleen parlò con voce più alta. «Sa che prendo l’autobus, quando non ci sei. A volte ci vado addirittura a piedi, al centro commerciale.»
«Sta facendo qualcosa.»
Kennedy si era ritratto dalla finestra ed era sparito nella stanza buia. Passò un lungo minuto, poi Chris, eccitato, disse: «Guarda! Sta funzionando. Ecco che se ne va».
Kathleen era seduta sul letto e guardava il pavimento, ancora coperto di fazzoletti bagnati del suo pianto. Ora però non aveva più lacrime, solo amarezza e rabbia. Kennedy, umiliandola, l’aveva resa così. Voleva fargli del male, come lui ne aveva fatto a lei.
«Se ne va, se ne va», sussurrò Chris, con aria di trionfo.
Kathleen udì Kennedy che avviava la motocicletta e partiva. Il rombo del motore diventò sempre più debole a mano a mano che si allontanava. Poi scomparve.
«Vai», disse a voce alta al marito. «Tornerà in fretta, quando si accorgerà che non ci sono. Perquisisci la casa, le chiavi sono nella mia borsa in cucina.»
Chris le obbedì, affrettandosi. Kathleen sentì che scendeva le scale e si sedette, nella penombra, con lo sguardo fisso sul pavimento, sui fazzoletti.
Vaffanculo, Frank, pensò.
Era pomeriggio inoltrato, ma il caldo era opprimente. Nonostante avesse solo attraversato il prato fino alla porta della casa a fianco, Chris era completamente sudato. Aveva il volto lucido e la maglietta grigia gli si era appiccicata al petto e alla schiena.
Entrò con le chiavi di Kathleen e salì subito le scale, superando i gradini a due per volta. Quando entrò nella camera da letto ansimava e colava sudore.
Il condizionatore era ancora acceso; ciò significava che Kennedy sarebbe rientrato presto. Il cigolio dell’apparecchio rendeva Chris nervoso e gli prosciugava la gola. Non lo avrebbe mai ammesso, neanche con se stesso, ma l’idea di affrontare un’altra volta Kennedy lo faceva letteralmente tremare. Doveva fare in fretta, prima che tornasse.
Esaminò la stanza con lo sguardo. Era abbastanza buio, ma adesso un raggio di sole entrava dalla finestra e formava un disegno sul pavimento. Così, Chris vide la borsa da viaggio di Kennedy sul letto, chiaramente piena. Quindi, pensò, stava per andarsene.
Chris si avvicinò e aprì la cerniera lampo. Gli sembrava che mancasse l’aria, gli pareva di soffocare, forse per la paura, ma si sforzò di continuare. Gocce di sudore caddero sui vestiti di Kennedy. Cercò fra gli indumenti, raggiunse il fondo della borsa con la mano e non gli ci volle molto per trovare il computer palmare.
Non aveva dimestichezza con simili aggeggi, ma non gli fu difficile accenderlo. Dopotutto era un pilota e conosceva gli strumenti computerizzati di bordo. Lo appoggiò sulla scrivania e si asciugò il sudore dalla fronte. Teneva le orecchie aperte, per sentire l’eventuale rombo della moto di Kennedy, e guardava di tanto in tanto fuori dalla finestra. Iniziò a sfogliare i file: note, rubrica, e-mail…
Chris respirava a bocca aperta mentre leggeva su quello schermo minuscolo. Lì dentro gli sembrava di soffocare, come se una mano fosse serrata sulla sua gola. Ma la mente era comunque vigile. Se questo Kennedy era davvero un poliziotto, pensò, se davvero aveva usato Kathleen per arrivare a Hirschorn… be’, l’avrebbe pagata cara. Hirschorn non aveva mezze misure, la sua vendetta sarebbe stata rapida e definitiva. Su Kennedy, certo, ma anche su lui e Kathleen… A meno che non fossero proprio loro ad avvisare Hirschorn, a fargli sapere di Kennedy, a metterlo in guardia. Forse allora sarebbero stati risparmiati, perdonati. Hirschorn si sarebbe comunque arrabbiato, ma forse non così tanto, forse gli avrebbe solo detto di controllare meglio sua moglie.
Le guance di Chris avvamparono. Sua moglie. Sentì una rabbia pungente stringergli lo stomaco. In quell’ultima ora aveva cominciato a farsi l’idea che Kathleen non gli avesse detto tutta la verità. Lui si era così preoccupato del fatto che Kennedy fosse un poliziotto, si era così spaventato all’idea di che cosa potesse fare Hirschorn, da trascurare gli altri particolari della vicenda. Ma dentro di lui, comunque, era nato il sospetto che Kathleen stesse in parte mentendo su Kennedy. Era stata a letto con lui, ecco la verità. Aveva origliato le sue conversazioni con Hirschorn e le aveva riferite a Kennedy, ma non in ufficio. No. Gliele aveva confidate a letto.
Chris ne era ormai certo e il suo stomaco ribolliva, in fiamme. Doveva però ricacciare il pensiero e concentrarsi su quello che stava facendo.
Imprecò. «Maledizione.» Non c’era niente, non trovava niente. Nomi, indirizzi non significavano niente. Come diavolo poteva sapere chi fossero quelle persone?
Ma non c’era altro, quindi continuò a leggere, e arrivò ad aprire la cartella della posta elettronica.
C’era un unico messaggio non inviato, uno solo. Bishop era sempre attento a queste cose, ma quella volta era stato interrotto da Kathleen e quindi l’aveva salvato, dimenticandosene subito. Non l’aveva finito e non l’aveva spedito. Chris l’aprì.
Weiss, ha funzionato. Wannamaker è fuori, io sono in gioco. Stasera alle sei sarò in volo verso una destinazione ignota. Quando sarò là, mi daranno le istruzioni sul mio incarico e ti farò sapere. Se abbiamo fortuna, possiamo portare a termine la missione senza comprometterci…
Chris smise di pensare, smise quasi di respirare. Era ammutolito e il cuore sembrava volergli uscire dal petto, tanto batteva forte, riempiendogli la testa di un rumore pulsante.
«Wannamaker è fuori, io sono in gioco.»
Cristo, era ancora peggio di quanto avesse pensato. Era la cosa peggiore che potesse accadere. C’era un solo modo per essere fuori con Bernie Hirschorn. I suoi uomini potevano arrivare da un momento all’altro. Doveva affrettarsi, avvisare Hirschorn di Kennedy, doveva risolvere lui la situazione, in modo che Hirschorn non lo uccidesse.
I suoi occhi scorsero disperatamente il messaggio, cercando di memorizzarne le parole. Weiss… aveva già visto quel nome, nella rubrica del computer.
Sforzandosi di non tremare, digitò le lettere sulla tastiera e l’informazione apparve. Solo «Weiss» e un numero con il prefisso di San Francisco.
Chris alzò il telefono e lo compose.
Suonava libero. Aspettò cercando di respirare, ma il suo respiro pesante era quasi soffocato dal battito del cuore.
Wannamaker è fuori.
Un altro squillo. Forza, pensò. Poi una voce femminile rispose: «Weiss Investigations».
Chris non riusciva a parlare, gli sembrava di avere la gola chiusa.
All’altro capo, la donna continuava: «Weiss Investigations, pronto?»
«Siete un’agenzia di investigatori privati?»
«Sì, l’agenzia di investigazioni private Weiss.»
La mente di Chris vorticava, i pensieri si accavallavano. Kennedy era un investigatore privato, uno spione. Aveva usato Kathleen e ora stava per volare con Hirschorn. Mio Dio…
«Posso esserle utile?» stava chiedendo la donna all’apparecchio.
Ma proprio in quel momento, mentre era ancora con l’apparecchio in mano, Chris sentì un rumore all’esterno. Un motore. Kennedy era di ritorno, pensò. Ma non si trattava di una moto, sembrava invece un’auto. La vide dalla finestra, fra gli alberi.
Il sudore che gli colava dalle tempie si raggelò. Tutto il suo sangue si raggelò. Lentamente, come in trance, abbassò il ricevitore.
«Signore, come posso…» Sentì la voce della centralinista, lontana, e poi agganciò.
Rimase immobile, con la mascella abbassata, senza forze, paralizzato, annientato dalla paura. La BMW nera era una delle auto di Hirschorn, ne era certo. E si stava fermando proprio davanti a casa sua.
Chris guardò, senza fiatare, sudando. La testa gli ronzava, la stanza lo soffocava. Due uomini stavano scendendo dall’auto, dalle portiere anteriori. Non appena li vide, Chris emise un rauco lamento.
Erano gli uomini di Hirschorn, Goldmunsen, il gorilla, e Flake, l’isterico. Chris aveva sentito delle storie su quest’ultimo. Si diceva che Goldmunsen usava le armi da fuoco, mentre Flake era uno specialista del coltello. Gli piaceva tagliuzzare la gente.
I due uomini stavano percorrendo il vialetto che portava alla casa di Chris. Erano venuti a prenderlo.
Lui era immobile, raggelato, con gli occhi fissi su di loro e le gambe molli. Goldmunsen stava suonando il campanello.
«Non rispondere», sussurrò Chris, come se Kathleen potesse sentirlo.
Ma con la coda dell’occhio vide Kathleen, all’interno della casa, che si avvicinava alla porta. Gli venne in mente che anche Kennedy aveva potuto osservarla dalla finestra, anzi, osservarli tutti e due, vedere tutto quello che facevano. Doveva aver assistito alle visite di Hirschorn. Tornò a ribollire di rabbia, e una visione di sua moglie e quell’investigatore a letto insieme, a parlare di lui, gli attraversò la mente…
Kathleen aprì la porta e Chris vide che Goldmunsen le parlava. Flake non riusciva a stare fermo. Il gorilla sembrava gentile, calmo, sorrideva anche; ma l’altro non era in grado di contenersi. Cercava di sbirciare fra Kathleen e lo stipite, o sopra la sua spalla, per vedere se Chris era in casa.
Il volto di Chris era coperto di sudore che gli faceva bruciare gli occhi. Non riusciva quasi più a respirare, stava soffocando. Se Kathleen si fosse girata… se avesse indicato loro la casa a fianco… se avesse detto che lui era lì, sarebbe finita. Sarebbero venuti a prenderlo, e l’avrebbero portato via.
Chris emise un lamento, un suono che non aveva mai sentito uscire dalla sua bocca, un suono terribile. Era paralizzato dalla paura, torturato da una rabbia impotente. Odiava sua moglie con tutte le forze, perché aveva scopato con Kennedy e perché ora aveva la sua vita nelle mani. Tutto quello che poteva fare era rimanere lì fermo a guardare, ad aspettare tremando.
Ma Kathleen non lo tradì. Non si voltò verso di lui e si limitò a scuotere la testa, probabilmente dicendo ai due uomini che non sapeva dove fosse suo marito. Aveva capito. Aveva intuito che cosa stava succedendo e perché erano venuti a cercarlo. Mentiva per proteggerlo, per salvargli la vita.
Chris vide Goldmunsen annuire, crederle. Flake si agitava. Kathleen continuò a parlare; stava dicendo loro qualcosa… qualche balla. Forse che Chris era al bar, o all’aeroporto o qualcos’altro.
E poi, sollevato, Chris vide che i due se ne andavano, ritornavano alla macchina. Si sentì quasi sospeso in quell’aria stantia mentre aspettava che salissero e che accendessero il motore. Poi l’auto partì, si allontanò dal marciapiede, scomparve. Chris ebbe la sensazione di cadere fuori dal nulla, ritornando nel suo corpo. Improvvisamente era di nuovo in grado di respirare, pur ansimando, e sentiva di nuovo il battito cardiaco pulsargli nelle orecchie.
La macchina se n’era andata. Kathleen rimase per un attimo sulla porta, poi fece un passo fuori di casa e guardò verso la finestra dove era Chris. Aveva uno sguardo atterrito.
Chris le rivolse un sorriso tirato. In quel momento avrebbe voluto metterle le mani al collo.
Ritornò in sé e si diede un’occhiata intorno. Spense il computer e, per un attimo, pensò di portarselo via, di mostrarlo a Hirschorn, per metterlo in guardia e in cambio salvarsi la vita. Forse avrebbe anche potuto recuperare il suo lavoro di pilota. Sarebbe stato in gioco e non fuori…
Ma si accorse subito che il piano non era buono. Se avesse rubato il portatile, Kennedy se ne sarebbe accorto, si sarebbe sentito scoperto, avrebbe chiamato la polizia, quella vera, e rovinato tutto.
No. Doveva fermarsi un attimo e ragionare, anche se era molto spaventato. Non aveva bisogno del computer. Il messaggio non provava niente. Avrebbe anche potuto scriverlo lui stesso, per incastrare Kennedy. Hirschorn non era sciocco. Chris gli avrebbe parlato e poi lui avrebbe fatto i suoi controlli, avrebbe scoperto che era tutto vero. Doveva solo andare da lui il più presto possibile. Subito.
Sempre sudando, col respiro affannoso, Chris ripose il computer nella borsa, dove lo aveva trovato. Guardò l’orologio e si accorse che erano quasi le cinque e mezzo. Kennedy sarebbe partito alle sei, dall’aeroporto, con Hirschorn. Se si affrettava, poteva anticiparli, dire tutto a Hirschorn e fare il salvatore della patria. Allora gli scagnozzi sarebbero andati a cercare Kennedy per portarlo via. In macchina.
Si fermò un istante, mentre il sudore gli colava a rivoli sulle guance, e in quell’istante i suoi occhi s’illuminarono come quelli di un bambino che stia per compiere una marachella. Kennedy gli aveva preso la moglie, il lavoro, il rispetto degli amici e, praticamente, la vita. Kennedy gli aveva tolto tutto quello che faceva di lui un uomo. E ora, proprio quando Kennedy pensava di essere in vantaggio, era tempo di rendergli la pariglia. Chris avrebbe detto a Hirschorn la verità e le cose avrebbero preso un’altra piega.
Doveva affrettarsi, perché Hirschorn non rispondeva più alle sue telefonate. Doveva andare di persona all’aeroporto e arrivarci prima del decollo.
Si diresse verso la porta.
Il furgone di Chris si allontanò dal quartiere proprio nel momento in cui la moto di Bishop imboccava la strada dall’altro capo.
Dopo aver parcheggiato accanto alla casa, Bishop smontò e raggiunse la porta di corsa. Non perse tempo a guardare verso l’altra abitazione, quella di Kathleen. Non si chiese nemmeno perché lei non fosse venuta all’appuntamento. Ci era andato solo perché lei gli aveva parlato di Hirschorn, per non rischiare di perdersi qualcosa di importante. Ma in effetti non ci aveva creduto molto; pensava invece che si trattasse di una manovra di Kathleen per cercare di farlo ritornare da lei. Quando non l’aveva vista, non si era molto preoccupato, e di certo ora non aveva tempo di pensarci. Doveva andare subito all’aeroporto, per scoprire che cosa stava macchinando Hirschorn.
Salì le scale rapidamente, due gradini alla volta, come aveva fatto Chris. Entrò in camera e si avvicinò alla borsa ancora posata, aperta, sul letto. Chiuse la cerniera, afferrò i manici e si fermò a dare un’ultima occhiata alla stanza.
Ma aveva troppa fretta: non notò che qualcuno aveva frugato tra le sue cose, e non gli venne in mente che non aveva inviato l’ultimo messaggio per Weiss.
Si mise la borsa in spalla e nell’avviarsi alla porta spense il condizionatore.
Un minuto dopo, la motocicletta rombava sulla strada.
Chris arrivò per primo: fermò bruscamente il furgone davanti all’ingresso dell’hangar e saltò giù. Le suole dei suoi stivali risuonarono pesanti sul cemento mentre raggiungeva a lunghi passi il bimotore parcheggiato all’interno.
Ray Gambling stava vicino all’aereo, in tuta da lavoro e chino sulla cappottatura aperta, una chiave inglese in mano. Un altro meccanico, Wilson Tubbs, era sdraiato dentro la cabina di pilotaggio, con i piedi che spuntavano dalla portiera.
Chris li raggiunse in fretta e afferrò Ray prima che questi avesse il tempo di alzare gli occhi e riconoscerlo. Lo spinse indietro contro la cassettiera porta-attrezzi, le cui ruote erano bloccate. Ray gemette nell’urtare con la spina dorsale un cassetto aperto, e indietreggiò inciampando mentre il cassetto si chiudeva. Chris gli tolse la chiave inglese dalle mani e lo minacciò, urlando. «Dov’è Hirschorn?»
«Oddio, Chris… Oh Gesù…»
«Non fare la commedia con me, pezzo di merda. Sei tu che l’hai chiamato, Kennedy. L’hai messo dietro a mia moglie. Dovrei ammazzarti subito!» Chris alzò l’attrezzo come per colpire.
«Io non…»
«Kennedy l’hai chiamato tu, vero? È tutta opera tua.»
Tubbs, il meccanico, si era accorto solo in quel momento di quello che stava accadendo e stava cercando di uscire dall’aereo.
Ray si mise una mano sul petto. «Te lo giuro su Dio, Chris», balbettava. «Te lo giuro…»
«Dannazione, dov’è?» urlò Chris. «Dov’è Hirschorn? Che aereo deve prendere?»
«Ti prego, Chris, te lo giuro…»
«Ehi!» Era Tubbs, un ragazzo di circa trent’anni, basso ma svelto e reattivo. Era riuscito a svincolarsi dall’aereo e si trovava alle spalle di Chris. Gli afferrò il polso e cercò di fargli mollare la chiave inglese. «Che cosa diavolo stai…»
Chris liberò il braccio dalla presa e assestò una gomitata sul naso a Tubbs, che venne spinto contro l’aeroplano. Cadde seduto sul cemento e poi si sdraiò sul fianco, le mani sul viso insanguinato.
Chris brandiva ancora la chiave inglese sopra la testa di Ray. «Dimmi dov’è o ti spacco la testa in due.»
«Chris, io…»
Dietro di loro si udì uno stridore di pneumatici. Chris si girò per guardare fuori dall’hangar.
E questa volta furono i suoi occhi a riempirsi di terrore. Sul piazzale c’era la BMW nera degli uomini di Hirschorn, che probabilmente lo avevano seguito fin lì, dopo essersi appostati vicino a casa. Goldmunsen e Flake si stavano affrettando a scendere dalla macchina. L’espressione minacciosa sul volto di Chris si era tramutata in sgomento. Il suo urlo divenne un lamento e gli si seccò in gola.
«Oddio», esclamò.
Lasciò andare Ray, che tornò a urtare la cassettiera. La chiave inglese cadde rumorosamente a terra. E in un secondo Chris era scomparso, schizzato via. Stava correndo verso il suo furgone.
Nel piazzale Goldmunsen, il gorilla, lo vide e cacciò un urlo. Flake, il piccoletto, assunse l’espressione di un segugio che punta la preda e iniziò a correre.
Chris aveva ormai la mano sulla portiera del passeggero quando, attraverso il finestrino, vide Flake che correva verso di lui, seguito da Goldmunsen. Erano a cinque passi. Stavano cercando la pistola sotto la giacca.
Non c’era il tempo per salire in macchina. Chris si bloccò, ruotò sui talloni e tornò a correre verso l’hangar.
Ray non si era mosso, paralizzato dalla paura. Quando vide Chris venirgli addosso come un treno in corsa, si appiattì contro l’aereo.
Chris lo superò guardandosi alle spalle per vedere dov’erano i suoi inseguitori, e per tale ragione si accorse troppo tardi della cassettiera degli attrezzi. Vi andò a sbattere con violenza e uno spigolo lo colpì allo stomaco, togliendogli il respiro. Nonostante le ruote fossero bloccate, la cassettiera s’inclinò e si rovesciò, rovinando fragorosamente a terra mentre Chris, senza fiato, barcollava nella direzione opposta e cadeva battendo malamente una spalla sul cemento.
Da quella posizione, vide Flake precipitarsi verso di lui. Lanciò un grido acuto, come quello di una donna, e annaspò finché non riuscì ad alzarsi, riprendendo la corsa frenetica verso la porticina dall’altra parte dell’hangar.
Era chiusa, ma aveva una finestrella di vetro. Da lì, Chris poté vedere la pista di volo, il cielo azzurro e il calore dell’estate che scioglieva l’asfalto.
Chris sapeva che la porta non era chiusa a chiave e vi si buttò contro. Per un istante, la sua faccia si appoggiò al vetro: Chris vide la pista, il cielo, il calore ruotare in una gran confusione nella sua mente sconvolta. E, in quello stesso istante, notò il particolare che poteva cambiare tutto, che gli avrebbe salvato la vita.
Vide Hìrschorn. Attraverso il tremolio dell’aria calda scorse Hirschorn in piedi vicino al 504, il Cessna bimotore. Tranquillo, con le mani in tasca, che guardava senza particolare interesse le ville sulle colline.
Pur spaventato, Chris riuscì a rincuorarsi. Ce l’aveva fatta, aveva trovato Hirschorn: gli avrebbe detto di Kennedy, del fatto che era un detective. Avrebbe salvato la missione e sarebbe rimasto vivo, al contrario di Kennedy.
Chris non si voltò, non c’era tempo. Ma sapeva che Flake non era ancora troppo vicino, che non lo avrebbe preso. Diede una spinta alla porta dell’hangar, che cominciò ad aprirsi verso l’esterno.
Poi il finestrino si annerì, perché Goldmunsen era apparso dall’altra parte e aveva sbattuto l’uscio in faccia a Chris.
Quando riaprì gli occhi, il pilota vide la faccia del gorilla che lo fissava, con una smorfia di soddisfazione. In quel momento fu raggiunto anche da Flake, che gli puntò alla gola la fredda canna di una Glock mentre, con il poco fiato rimasto, gli sussurrava nell’orecchio: «Ti ho beccato, figlio di puttana». Lo scostò dalla porta per permettere a Goldmunsen di entrare. Ray Gambling era immobile, ammutolito.
«Aspettate», urlò Chris, senza fiato. «Devo parlare con Hirschorn, devo dirgli…»
Non riuscì a terminare la frase. Goldmunsen lo colpì allo stomaco con uno dei suoi pugni duri come magli e il rantolo di Chris risuonò per tutto l’hangar, fino a giungere alle orecchie di Ray. Il pilota cadde in ginocchio.
Goldmunsen osservò la sua vittima con un gran sorriso, poi alzò gli occhi su Ray e gli rivolse lo stesso grottesco sorriso. Il vecchio distolse subito lo sguardo.
Chris, in ginocchio, cercava di parlare, di dir loro ciò che aveva scoperto, ma riusciva solo a rantolare.
Il gorilla alzò nuovamente il pugno, lo fece roteare in alto come un’enorme mazza e poi colpì la testa di Chris, che cadde in avanti perdendo i sensi.
Goldmunsen lo prese per un braccio, all’altezza del tatuaggio NATO PER SCATENARE L’INFERNO. Flake lo afferrò per l’altro. Lo trascinarono via così, lasciando strisciare i suoi piedi sul cemento dell’hangar.
Ray Gambling continuò a tenere gli occhi bassi. Wilson Tubbs, che si era tirato su appoggiandosi a un gomito, quando si rese conto di cosa stava accadendo abbassò a sua volta il capo, fissando il suo stesso sangue che dal naso colava sul pavimento.
Né Tubbs né Gambling osarono sollevare lo sguardo mentre Goldmunsen e Flake trascinavano Chris nel parcheggio. Nessuno dei due osò farlo finché i due gorilla non ebbero portato via Chris nella loro lucida vettura nera.
Circa due minuti dopo, l’Harley di Jim Bishop faceva il suo ingresso nel parcheggio. La moto s’arrestò scivolando leggermente sulla ghiaia che schizzò via da sotto le ruote. Bishop smontò e si diresse velocemente verso l’hangar, con la borsa da volo sulla spalla sinistra e il bagaglio nella mano destra.
Ray Gambling stava aiutando Tubbs ad alzarsi e a tamponarsi il naso. «Cazzo!» stava dicendo il giovane, forse per la quinta volta. «Hai visto che roba?»
Ray vide Bishop arrivare da sopra la spalla del ragazzo. «Tubbs…» cercò di dire, ma la voce gli tremava.
«Cazzo! Ma hai visto?»
«Tubbs!» Il ragazzo lo guardò da sopra lo straccio che si premeva sul naso. «Vai a farti vedere, dammi retta. Di’ al dottore che hai battuto contro l’ala di un aeroplano. Hai capito?»
«Ray, ma cosa…»
«Vai, Tubbs, non è successo niente, sei solo inciampato. Ora vattene e tieni la bocca chiusa. Vai.»
Tubbs annuì, confuso. Il tono di Ray non ammetteva repliche. Quando Bishop raggiunse Ray Gambling, il ragazzo era ormai quasi fuori dall’hangar.
Bishop lo guardò, poi si rivolse a Ray. «Che cosa è successo?»
«Hanno preso Chris», rispose Ray in un sussurro, la voce tremante, e deglutì a fatica. Bishop indossava gli occhiali da aviatore e Ray, non vedendo i suoi occhi, non riuscì a capire quale fosse la sua reazione alla notizia che gli aveva appena dato. Si affrettò a proseguire. «Lo sa, figliolo. Chris sa che sei un detective e che sono stato io a chiamarti. È entrato qui come una furia, chiedendo di Hirschorn, per spifferargli tutto; ma poi sono arrivati i due scagnozzi, l’hanno riempito di botte e l’hanno portato via, senza dargli il tempo di parlare. Sono entrati, l’hanno stordito e se ne sono andati.»
Bishop non disse niente per un lungo istante. Poi annuì lentamente. «L’hanno stordito.»
«Sì, ma se si sveglia, se si sveglia e spiffera tutto, sono un uomo morto. Mi uccideranno, ammazzeranno tutta la mia famiglia. Se Hirschorn lo viene a sapere… non avrei mai dovuto immischiarmi. Dannazione, non avrei dovuto. Che cosa facciamo, Bishop? Come dobbiamo comportarci?»
Bishop era immobile, in piedi, con gli occhi chiari nascosti dagli occhiali, e non diceva niente. Ray aveva ragione; se Chris si svegliava e convinceva i due tipi a credergli, Hirschorn avrebbe ucciso Ray e poi anche lui.
«Che si fa?» ripeté Ray. «Non possiamo chiamare la polizia, non in questa città. Hirschorn lo saprebbe dopo due secondi. Non avrei mai dovuto farlo. Uccideranno me, mia moglie, i miei figli. Uccideranno te e poi tutti quanti. Che facciamo?»
«Niente», rispose Bishop calmo. «Non possiamo fare niente, dobbiamo correre il rischio.»
«Ma se si sveglia? Che succede se si sveglia?»
«Cerca di capire questo», Bishop replicò. «Non si sveglierà. Mi senti? L’hanno stordito per questo. Prima che possa svegliarsi, sarà già morto.»
Ray Gambling sembrò voler replicare nuovamente, ma Bishop non lo ascoltò. Passò oltre e si diresse verso l’aereo che lo aspettava.
Le foreste che si stendevano tremila piedi più sotto erano di un verde scuro alla luce del tramonto. Il Cessna s’inclinò mentre Bishop lo portava verso nord, attraversando il crepuscolo.
La voce di Hirschorn si fece sentire nelle cuffie. «C’è un bel mucchio di niente là sotto, vero?»
Bishop annuì mentre riportava l’aereo in assetto orizzontale, come Hirschorn gli aveva raccomandato di fare.
«Nessun modo per entrare, nessuno per uscire», continuò Hirschorn. «Niente strade, né telefoni.»
«Neanche piste d’atterraggio, per quel che posso vedere», replicò Bishop.
Sentì l’altro fare una risatina che suonò fredda e meccanica in cuffia. «Nervoso?»
Bishop accennò un sorriso.
Il sole era sceso dietro le montagne, a ovest, ma il cielo era ancora di un azzurro intenso. Bishop si sfilò gli occhiali e li mise in tasca. Fu allora, con l’ultima luce diurna, che intravide qualcosa in basso, un’impercettibile linea tortuosa fra gli alberi, troppo marrone per essere un fiume, troppo stretta per essere una strada.
Hirschorn se ne accorse. «Sì, è quella», disse. «È una strada mineraria, ai tempi della corsa all’oro la usavano per trasportare la dinamite dal deposito alla miniera. Adesso non serve più a niente, una via della dinamite a cinquanta chilometri di montagne impervie da qualsiasi abitazione. Ma dall’aria… seguila, e inizia a scendere.»
Bishop gli lanciò uno sguardo interrogativo che significava: inizia a scendere dove? Ma Hirschorn si limitò a mostrare i denti fra i baffi argentei. Bisognava riconoscere che quel vecchio aveva un gran sangue freddo.
Bishop iniziò la manovra e sentì l’aereo abbassarsi dolcemente. Inclinò l’apparecchio in virata per seguire la via della dinamite durante la discesa.
«Al massimo atterriamo sugli alberi; sei capace, no?» stava dicendo Hirschorn, mentre rideva.
E per lunghi istanti parve proprio che così avrebbero fatto. Il Cessna scese sempre più, fino a sfiorare le cime delle querce e dei pini, ma l’unica interruzione nel verde sconfinato era la linea marrone, poco più di un sentiero, sulla destra dell’aeroplano. E anche quella divenne difficile da seguire, man mano che calava la sera. Le foglie degli alberi vennero inghiottite da ombre incolori e l’azzurro del cielo si fece violetto. La via della dinamite era appena un filo grigio.
«Là», disse Hirschorn.
Dove? pensò Bishop, strizzando gli occhi per cercare di vedere. Ma niente, non c’era niente. Poi, sì, in un istante, ecco la pista d’atterraggio a ore una… ma era già scomparsa, l’avevano superata.
Bishop sporse le labbra in una smorfia di disappunto. Hirschorn rise ancora. «Non c’è molto spazio per atterrare.»
Questo era poco ma sicuro. Poco più di seicento metri di terra battuta, circondata da pini e querce che rischiavano di colpire le ali. Sarebbe stato difficile beccarla con un elicottero, figuriamoci con un aeroplano.
«Pensi di farcela?» domandò Hirschorn.
Bishop non rispose neanche. Virò per tornare indietro e rallentò mentre si avvicinava. La ripercorse tutta dall’alto, misurandola mentalmente. Non era facile. E anche la pista stava per sparire nel buio.
«Chris ha fatto scoppiare uno pneumatico la prima volta che ci ha provato. Siamo quasi andati a sbattere contro un albero.» Hirschorn parlava in tono allegro. «Ora capisci perché avevo bisogno di un pilota molto esperto.»
Bishop impegnò l’aereo nell’avvicinamento finale. Abbassò il carrello e credette di sentire le ruote che urtavano i rami. I fasci delle luci di atterraggio si perdevano nella nebbiolina che saliva dalla foresta, e davanti a sé il pilota non vedeva quasi più niente; distingueva a malapena la pista nel crepuscolo. I flap, la velocità che rallentava, il ronzio uniforme, l’ombra della pista sempre più vicina erano parte della sua coscienza. Scelse il punto esatto, un metro o due oltre la linea degli alberi. Passata l’ultima quercia, alzò il muso dell’aereo, e il Cessna si abbassò bruscamente, come un mattone, quasi in verticale. Tutto l’abitacolo fu scosso dalla vibrazione quando le ruote toccarono il terreno. Bishop intanto combatteva per tenere su il muso, per impedire il più a lungo possibile alla ruota anteriore di toccare terra. Quando poi, diminuita la velocità, non ci fu più pericolo di sbandare o ribaltarsi, portò giù il muso e abbassò con sicurezza il piede sui freni.
Tra gli alberi era quasi completamente buio. Mentre l’aereo rollava, Bishop cercò di guardare oltre il parabrezza, per vedere dove finiva la pista. Improvvisamente si trovò davanti un muro di tronchi, ma ormai il Cessna era sotto controllo. La notte parve rallentare attorno a loro, fino a fermarsi. L’aereo stazionava immobile sulla pista, i motori al minimo. Erano atterrati.
Bishop si concesse un sospiro di sollievo e guardò Hirschorn con la coda dell’occhio. Scorse il suo profilo.
«Ti sei divertito?» disse il vecchio, ma Bishop non rispose. Hirschorn rise, una risata gioviale. Sporse il braccio sopra il pilota e prese le chiavi dell’apparecchio. «Vedrai il prossimo volo!» aggiunse.
Quando scese dall’aereo, Bishop notò delle luci che si avvicinavano dalla foresta e colse un rumore di passi sulle foglie cadute. Dopo un istante apparvero due uomini, in tuta mimetica e cappellino. Entrambi portavano una mitraglietta in spalla.
Bishop pensò che era un discreto armamentario per quel posto sperduto nel bel mezzo del niente. Anche lui, che non era abituato ad avere paura, si sentì improvvisamente solo e abbandonato, incredibilmente lontano da qualsiasi possibilità di fuga o di aiuto.
«Andiamo», ordinò Hirschorn.
Bishop prese la sua borsa dal sedile posteriore dell’aereo e, a un cenno del capo, seguì uno dei due uomini che si avviava verso gli alberi. L’altro si mise in coda al gruppo.
Non c’era un sentiero, ma solo radici intricate, foglie, alberi e una nebbiolina inquietante. A un certo punto apparvero delle piccole luci confuse, che non aiutavano però a orientarsi. Non si poteva far altro che seguire l’uomo, senza perderlo di vista.
Nella foresta l’aria era più fresca che in città, ma molto più umida. La maglietta di Bishop si intrise di sudore in pochi minuti e il viso si fece appiccicoso. Arrivarono le zanzare, a stormi ben visibili nel raggio delle torce. Bishop udì l’odioso ronzio che annunciava l’attacco e le maledisse con tutte le sue forze. Cominciò a schiaffeggiarsi il collo e le guance, sporcandosi del proprio sangue mentre si schiacciava gli insetti addosso.
Il tragitto però non fu lungo, circa dieci minuti. Il primo segno che la meta era vicina fu il rumore di un generatore, poi i rami contorti degli alberi e dei rampicanti cominciarono a stagliarsi contro un riverbero bianco e spettrale, una luce lontana filtrata dalla foschia.
A dispetto di quelle avvisaglie, l’arrivo al campo base costituiva una sorpresa. Non c’era nessuna radura, solo un paio di prefabbricati incuneati fra gli alberi. Uno era una baracca a due piani, composta da due container di metallo messi uno sull’altro, con una finestra per ogni parete di entrambi i blocchi e una scala appoggiata a un lato corto. Dalle finestre oscurate sfuggiva solo quella pallida luce spettrale che si diffondeva tra i vapori del bosco, trasportata dal loro lento moto a spirale.
L’altra costruzione, più grande, era una specie di capannone completamente buio.
Mentre si avvicinava senza rompere la fila, Bishop guardò istintivamente in alto e vide una stella in un rettangolino di cielo. Tutto il resto era coperto dalle chiome degli alberi. Sopra il capannone, poi, c’era una specie di rete, simile a quella delle zanzariere, che serviva a mimetizzare ulteriormente il posto, se mai ce ne fosse stato bisogno. Si poteva sorvolarlo a duecento piedi per centinaia di volte senza mai vederlo, pensò. Soprattutto al buio. Non aveva dubbi: se non fosse riuscito a tirarsi fuori di lì da solo, nessuno lo avrebbe mai trovato.
Il capofila si fermò e così tutti i suoi compagni. Si percepivano il rumore del generatore e il canto dei grilli, qualche rana e i misteriosi suoni della foresta.
Hirschorn si deterse il sudore dalla faccia con un fazzoletto bianco, che Bishop intravide nell’oscurità. Il vecchio sembrava non aver perso la sua compostezza, nonostante l’umidità e le zanzare.
Con il fazzoletto indicò a Bishop il capannone. «Ti lascerò andare a lavarti e sistemarti fra pochissimo», disse, «ma prima devi dare un’occhiata al mio gioiello.»
Alzò il mento per indicare all’uomo davanti a loro di andare al capannone. A un altro gesto di Hirschorn, Bishop lo seguì.
L’uomo armeggiò con la catena che chiudeva la porta, tenendo la torcia sotto il braccio. Quindi aprì i battenti, uno alla volta.
Bishop, accostatosi all’ingresso, vide solo la luce della torcia che si muoveva nel buio. Poi, con un crescente disagio, iniziò a distinguere una massa più nera dell’oscurità circostante.
L’uomo che aveva aperto girò un interruttore e le luci al neon inondarono lo spazio coperto, accendendosi a una a una, lentamente. E Bishop vide che cosa Hirschorn vi teneva nascosto.
Fischiò, e Hirschorn rise, contento della sua reazione.
Il pilota cercò di dire qualcosa, ma non poté. Riuscì solo a emettere un altro fischio di sorpresa e poi a sussurrare: «Santo cielo».
Tutto ciò che Weiss desiderava in quel momento era uno scotch. Stava guidando verso casa dall’aeroporto, dopo la visita a Whip Pomeroy nella prigione su al Nord.
Durante la sua assenza il tempo era cambiato e il cielo, sopra lo stadio del baseball e sul mare, appariva fitto di nubi. Non si era visto il tramonto: l’oscurità era scesa all’improvviso e le luci di Oakland, dall’altra parte della baia, si confondevano in una nebbia sempre più fitta. Weiss le osservò pigramente. Il traffico era lento. Le auto lungo la superstrada davanti a lui emettevano rossi baluginii, poi tornavano scure per lampeggiare nuovamente a ogni colpo di freno.
Era il momento della giornata in cui il bevitore dice: «È ora». Gli sembrava quasi di sentire il sapore dello scotch in bocca, di percepirne il profumo nelle narici. La sua mente stava quasi implorando la sua porzione di tranquillità. Sarebbe stata sempre meglio di quest’agitazione, di questo ossessivo fantasticare: la scala, la porta chiusa, la ragazza dal viso angelico nell’aureola dei capelli rosso-dorati e così via. Oh, grazie di avermi salvato, grazie, grazie.
«Ma fammi il piacere», mormorò mentre guidava.
Avrebbe dovuto sentirsi meglio, adesso. Julie Wyant era riuscita a fuggire con la sua parrucca, e una nuova identità. Nessuno l’avrebbe più trovata. L’unica persona che ne conosceva il segreto, Whip Pomeroy, era rinchiusa in un buco fuori dal mondo, sorvegliato da centinaia di guardie, dove era improbabile che l’inarrestabile Shadowman, come lo descrivevano i giornali, riuscisse ad arrivare. Perciò Julie era salva, almeno per il momento; non c’era urgenza, né scale, né una porta sbarrata. Nemmeno i minuti contati. Perché quindi era così preoccupato?
I fari degli stop del fuoristrada davanti a lui si accesero e Weiss fu costretto a frenare. I clacson delle auto immobilizzate nel traffico sembravano oche starnazzanti. Weiss tamburellava sul volante, con impazienza.
Mio Dio, pensò, chi era in fondo quella donna? Quella Julie Wyant? Era davvero speciale? Era davvero qualcuno? Non si sapeva neanche da dove venisse. Per quanto la polizia e lui stesso avessero cercato, non si era trovato niente: nessun passato, nessuna famiglia, nessuno che sapesse dove fosse stata prima di fare la sua comparsa fra le ragazze di Moncrieff. Era stata come un lampo di luce venuto dal nulla e ritornato al nulla senza lasciare traccia. Tranne un video che ne rimandava la figura ammiccante e una schiera di uomini innamorati. Ossessionati. Moncrieff… Shadowman.
Weiss si sentì avvampare mentre ci pensava. Provava imbarazzo, vergogna. Lui non era diverso dagli altri, con i suoi sogni a occhi aperti, quel desiderio struggente e febbrile. Per non parlare della prostituta con la parrucca rossa. Se questa non era ossessione…
La colonna di auto riprese a muoversi e le luci degli stop si spensero in successione, come pedine del domino che cadevano una dopo l’altra. Poco più avanti, dei lampeggianti ai lati della strada segnalavano la presenza della polizia. Due auto si erano tamponate. Ecco quindi l’incidente, la strozzatura, la coda. Weiss superò il punto e poté riprendere un’andatura normale, nel traffico che si andava diradando. Alla sua sinistra apparvero infine le incerte luci gialle della città, velate dalla foschia. Sulle labbra aveva già il gusto del primo sorso di scotch, ne percepiva già il calore dentro di sé. Era ora.
Ma proprio in quell’istante gli venne in mente una cosa. Gli venne in mente nel senso weissiano del termine, proprio come l’arrivo di una presenza separata all’interno dei suoi pensieri, la logica di un’altra personalità. Era questo il metodo di Weiss. I sentimenti, i percorsi emotivi delle persone venivano a lui spontaneamente, si insediavano nel suo profondo permettendogli di comprendere all’improvviso che cosa quelle persone avrebbero pensato, che cosa avrebbero fatto. Eppure non sapeva come e perché ciò avvenisse.
Aveva pensato a Julie Wyant. Poi a Shadowman. E poi ancora a se stesso e… Ecco, era accaduto. Quella mente avvelenata, la logica di una mente avvelenata era dentro di lui. E con essa un tremendo furore — terrificante, corrosivo —, un furore che, come una seconda anima, imponeva la sua volontà su un uomo, finché ogni sua azione non era altro che una manifestazione di furore.
Era un pensiero pazzesco, spaventoso. Perché non era concepibile che una personalità come quella potesse provare amore. Sì, Weiss aveva conosciuto picchiatori che trattavano bene la moglie, boss della mala tenerissimi con i figli, persino un serial killer gentilissimo con la vecchietta della porta accanto. In questi casi, però, lo spirito violento e quello gentile erano due entità separate. Amavano chi volevano amare e uccidevano chi dovevano uccidere e non si trattava mai della stessa cosa.
Ma in un qualche modo, senza sapere come, mentre era seduto nell’auto, Weiss era entrato nell’animo di Shadowman e aveva compreso che lì questa separazione non esisteva. La mente avvelenata che aveva ucciso i bambini a China Beach era la stessa che desiderava Julie Wyant, che la bramava. Pomeroy aveva frainteso: Shadowman non aveva prima picchiato Julie e poi implorato la ragazza di essere sua. Era stata un’unica cosa. Picchiarla era il suo modo di corteggiarla e dimostrarle il suo amore… Il suo amore altro non era che un atto distruttivo e la distruzione di Julie era il sommo atto d’amore. Era come se il Furore si fosse fatto persona per adorare qualcuno, come fosse stato l’Omicidio, o il diavolo stesso… Weiss sbuffò rendendosi conto di quanto fosse melodrammatico quel pensiero. Eppure era inquietante. Il diavolo innamorato… Come si sarebbe comportato il diavolo, nella sua prima notte di nozze? E che cosa non avrebbe fatto per reclamare la sua donna?
Weiss imprecò. L’auto imboccò la rampa di uscita, scendendo verso la nebbia, ai piedi della città. Sterzò con rabbia, facendo stridere gli pneumatici.
Prese Market Street, ma non in direzione del suo appartamento, e del bicchiere di scotch che tanto anelava. Era diretto verso l’ufficio, verso il computer e il telefono.
Perché, ora, finalmente, lentamente, cominciava a capire. Cominciava a capire cosa stava per succedere.