Robert A. Heinlein Stella doppia

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Se un tizio entra nel bar vestito come uno spaventapasseri e con l’aria di essere il padrone del mondo, state pur certi che si tratta di uno spaziale.

È nella logica delle cose. Col mestiere che fa, si sente il signore del creato; quando scende su terrasporca, guarda i bifolchi dall’alto in basso. E in quanto al suo modo di vestire, privo del minimo buon gusto, non si può pretendere che un uomo con l’uniforme addosso per nove decimi del suo tempo, abituato com’è a vivere più nello spazio interplanetario che nel mondo civile, abbia le idee chiare in fatto di moda. È un boccone ricercato per quei cosiddetti sarti che si aggirano a frotte per gli spazioporti, garantendo "elegantissimi completi da terra".

Si vedeva subito che quel tizio grande e grosso era finito fra le mani di Omar il Tendaiolo. Bastava guardargli le spalle imbottite in modo esagerato, o gli shorts talmente malfatti che, sedendosi, gli si arrampicavano su per le cosciacce pelose, o la camicia a jabot dai colori più adatti al mantello di una mucca.

Ma queste considerazioni le tenni per me e gli offrii da bere con l’ultimo mezzo credito che mi rimaneva, considerandolo un investimento produttivo. Perché gli spaziali, come sanno tutti, spendono e spandono neanche avessero le mani bucate.

Accensione! - brindai, sfiorando il suo bicchiere col mio. Mi lanciò una rapida occhiata di traverso.

Quello fu il primo errore, nei miei rapporti con Dak Broadbent. Invece di rispondere: "Buon decollo!" o "Atterraggio morbido!" come si usa, mi guardò di nuovo e disse lentamente: — Ottimo augurio, ma non fa per me. Non sono mai stato nello spazio, io.

Sarebbe stata un’ottima occasione per tenere la bocca chiusa. Gli spaziali arrivano di rado al bar del Casa Mañana: non è il loro tipo di albergo, e poi dista parecchie miglia dallo spazioporto. Quando ne arriva uno in borghese, che si cerca un angolino appartato e non vuole ammettere di essere uno spaziale, be’, è affar suo. Anch’io avevo scelto quell’angolino per poter vedere senza essere visto… capirete, in quel periodo avevo qualche debituccio. Niente di grosso, intendiamoci, ma è sempre una cosa imbarazzante. Avrei dovuto immaginare che anche lui avesse i suoi buoni motivi, e avrei dovuto rispettarli.

Ma avevo fatto i conti senza le mie corde vocali, che vivono una loro vita, sono assolutamente indipendenti e senza ritegno. Fu così che invece mi scoprii a ribattere: — A chi vuoi darla a bere, amico! Se tu sei un terricolo, allora io sono il sindaco di Tycho City. Scommetto che ti sei scolato più whisky su Marte che in tutta la tua vita sulla Terra — aggiunsi, osservando con quanta cautela reggeva il bicchiere, un indizio traditore che rivelava l’abitudine ad ambienti con forza di gravità ridotta.

— Parli più piano! — protestò lui, quasi senza muovere le labbra. — Come fa a sostenere che sono un voyageur, se non mi ha mai visto prima?

— Chiedo scusa — mi affrettai a rispondere. — Lei è padronissimo di essere quello che preferisce. Ma gli occhi li ho anch’io. Si è tradito appena ha messo piede qui dentro.

Imprecò sottovoce. — Sarebbe a dire?

— Non se la prenda. Non credo che gli altri l’abbiano notato. Ma io so vedere quello che sfuggirebbe a chiunque. — Gli porsi il mio biglietto da visita, forse con un tantino di sufficienza, ma in fin dei conti c’è solo un Lorenzo Smythe, l’Uomo Troupe. Sì, perché io sono proprio "Il Grande Lorenzo": presa diretta, registrazioni, teatro… "Attore Pantomimico, Imitatore Straordinario".

Lesse il biglietto e se lo cacciò distrattamente nel taschino, cosa che mi seccò moltissimo. Quei cartoncini mi erano costati un occhio: erano in vera imitazione del rilievo a mano.

— Capisco cosa vuol dire — rispose lentamente — ma cosa c’era di sbagliato nel mio comportamento?

— Glielo faccio vedere subito. Mi osservi bene. Ora vado fino alla porta camminando come un terricolo, e torno indietro camminando come lei. — Eseguii, esagerando leggermente nel ritorno l’imitazione del suo passo, tanto per compensare il fatto che non aveva l’occhio allenato a scorgere certe differenze minute: i piedi un po’ strascicati sul pavimento, come se per terra ci fossero le piastre metalliche delle astronavi; le spalle un po’ inclinate in avanti e la schiena rigida; le braccia staccate dal corpo e le mani in fuori, pronte ad afferrare un appiglio.

C’è ancora un’altra decina di particolari, ma non si possono esprimere a parole; tutto sta in una cosa, in fondo: quando volete camminare come uno spaziale, dovete sentirvi di esserlo. Dovete pensare di avere il corpo dello spaziale: pronto a scattare; dovete mantenervi inconsciamente in equilibrio come fa lui… insomma, dovete viverlo! L’uomo di città viaggia per tutta la vita su marciapiedi levigati, al sicuro, sotto la gravità normale terrestre… e finisce che incespica sul primo pacchetto di sigarette vuoto su cui poggia il piede, non c’è che dire. Uno spaziale no.

— Ha visto cosa intendo? — feci, tornando a sedere vicino a lui.

— Credo proprio di sì — ammise, un po’ turbato. — Ma davvero cammino in quella maniera?

— Sì.

— Uhm… Forse dovrei prendere qualche lezione di portamento da lei.

— Non sarebbe un’idea malvagia… — concessi.

Rimase a lungo a osservarmi, aprì la bocca come se volesse cominciare un discorso, poi cambiò idea e fece un cenno al barista di riempirci di nuovo i bicchieri. Una volta che le bibite furono davanti a noi, pagò, bevve la sua e si alzò, tutto in un solo movimento sciolto.

— Mi attenda un attimo — disse.

Con davanti a me un bicchierino offerto da lui, non potevo dirgli di no, e del resto non ne avevo neppure l’intenzione, perché quell’uomo m’incuriosiva. Lo conoscevo sì e no da una decina di minuti, ma mi era simpatico; era uno di quei bruttoni rudi che le donne trovano irresistibili, e da cui gli uomini sono disposti a lasciarsi dare ordini.

Si fece strada attraverso il locale, sempre con molta grazia; vicino all’uscita passò accanto a un tavolo di quattro marziani. A me i marziani non piacevano. Non mi andava che un "affare" che sembra un tronco d’albero sormontato da un casco coloniale pretendesse di avere gli stessi diritti di una persona umana. Non mi piaceva il modo con cui si facevano spuntare le pseudobraccia: mi sembravano serpenti striscianti dentro e fuori la tana. Non mi garbava che potessero guardare in tutte le direzioni contemporaneamente senza voltare la testa… ammesso e non concesso che si possa chiamare testa, la loro. E soprattutto non potevo sopportarne l’odore!

Nessuno avrebbe potuto accusarmi di pregiudizi razziali. Non davo importanza al colore della pelle di una persona, né alla sua razza o alla sua religione. Ma le persone erano persone umane, mentre i marziani erano dei "cosi", degli "affari". Secondo me non erano neppure animali. Avrei preferito trovarmi tra i piedi una bestia selvatica. Trovavo oltraggioso che avessero libero accesso nei bar e nei ristoranti frequentati dagli uomini. Ma naturalmente c’era il Trattato e quindi non potevo farci nulla.

Quei quattro non c’erano, quando ero entrato nel locale, ne ero sicuro: altrimenti ne avrei sentito le zaffate. Anzi, non c’erano neppure pochi istanti prima, quando ero andato fino alla porta e ritorno. Ma adesso erano lì, belli e ritti accanto al tavolo, inalberati sui loro piedistalli, a far finta di essere uguali a noi. Speravo almeno che il condizionatore d’aria si fosse messo a pompare più in fretta.

Con quei quattro marziani nel locale, anche il bicchiere gratis che avevo davanti stava perdendo interesse per me; aspettavo solo il ritorno del mio ospite per potermene andare educatamente. Mi ricordai che aveva dato un’occhiata rapida da quella parte prima di alzarsi in tutta fretta, e mi chiesi se per caso c’entrassero i marziani. Li osservai bene, cercando di scoprire se stavano guardando la nostra tavola… ma come si fa a capire cosa sta guardando un marziano, cosa sta pensando? Anche quella era una cosa che non mi andava.

Rimasi a sedere parecchi minuti centellinando la bibita e domandandomi cosa potesse essere successo al mio amico spaziale. Avevo nutrito la speranza che la sua ospitalità potesse estendersi anche a un invito a pranzo e, se gli fossi riuscito abbastanza simpatico, magari anche a un piccolo prestito temporaneo. Tolto lo spaziale, le prospettive che mi rimanevano erano tutt’altro che rosee, debbo ammetterlo. Le ultime due volte che avevo cercato di mettermi in contatto con il mio agente, la sua segreteria visifonica automatica si era limitata a registrare la comunicazione, e inoltre, quella sera, se non infilavo la moneta nella porta non sarei neppure potuto entrare nella mia stanza… fino a quel punto erano scese le mie azioni: ridotto a dormire in un bugigattolo a gettone…

Nel bel mezzo delle mie melanconiche riflessioni, un cameriere venne a toccarmi il braccio.

— Una chiamata per lei, signore.

— Eh? Bene, amico. Vuoi portarmi l’apparecchio al tavolo?

— Spiacente, signore, ma è una chiamata non trasferibile. Cabina 12, nel corridoio.

— Ah, grazie — risposi, con tutto il calore di cui fui capace, dal momento che non avevo un soldo di mancia da dargli. Nell’andare alla cabina badai bene a girare al largo dai marziani.

Capii subito perché la chiamata non potesse venir trasferita al tavolo: la cabina numero 12 era del tipo a massima sicurezza: audio, video e allarme automatico contro le interferenze. Sullo schermo non compariva alcuna immagine; il video non si mise a fuoco neppure quando fui entrato richiudendomi l’uscio alle spalle. Rimase lattiginoso fin quando non mi sedetti e accostai la faccia entro il campo di ripresa, allora si schiarì e mi trovai a fissare l’immagine del mio amico spaziale.

— Mi scusi se l’ho piantata in asso — disse in fretta — ma avevo molta premura. Desidero che venga subito nella stanza 2106 dell’Eisenhower.

Non mi diede nessuna spiegazione. L’Eisenhower non è un albergo da spaziali più di quanto lo sia il Casa Mañana. La faccenda cominciava a puzzare. Non è una cosa normale pescare un estraneo in un bar e poi invitarlo in una stanza d’albergo… non uno dello stesso sesso, almeno.

— Perché? — domandai.

Lo spaziale assunse l’espressione caratteristica degli uomini abituati a farsi ubbidire senza discutere; lo studiai con interesse professionale… non è un’espressione che denoti ira; è piuttosto come l’aspetto del cielo che prelude a un temporale. Ma riprese subito il controllo.

— Lorenzo — disse — non c’è tempo per spiegare, adesso. Accetterebbe un lavoro?

— Vorrà dire un contratto teatrale — risposi lentamente. Per un istante orribile avevo creduto che volesse offrirmi… sì, avrete capito, un impiego, tipo banca. Fino a quel momento ero sempre riuscito a mantenere immacolata la mia dignità di artista, nonostante le frecciate e i tiri mancini della sorte avversa.

— Sì, un contratto teatrale, certo — si affrettò a rispondermi. — Si tratta di una cosa per la quale ci occorre il miglior attore disponibile.

Mi dominai perché non mi si leggesse in faccia il sollievo che provavo. In verità sarei stato disposto ad accettare un lavoro qualsiasi nel campo dello spettacolo; avrei anche fatto il balcone in Giulietta e Romeo, pur di essere su un palcoscenico. Ma non è decoroso mostrarsi ansiosi.

— Di che tipo di contratto si tratterebbe? — mi limitai a domandare. — In questo periodo ho un mucchio d’impegni.

Tagliò corto. — Non posso spiegarle per visifono. Può darsi che lei non lo sappia, ma non esiste nessun circuito d’allarme che non possa venire neutralizzato; è sufficiente avere le apparecchiature adatte. Si sbrighi a venire.

L’amico sembrava piuttosto interessato; quindi potevo permettermi di fare il prezioso.

— Via! — protestai. — Ma per chi mi prende? Un cameriere? O un dilettante che smania per fare da comparsa con la lancia in mano? Io sono il Grande Lorenzo! - e così dicendo alzai il mento e assunsi un’aria offesa. — Quanto offrirebbe?

— Uh… Maledizione! Non posso correre il rischio di spiegarmi per visifono. Qual è la sua paga contrattuale?

— Come sarebbe a dire? Vuole sapere quanto sono solito prendere per recita?

— Sì, sì!

— Per una singola rappresentazione? Alla settimana? Per un contratto in esclusiva?

— Uhm… non saprei. Mi dica quanto guadagna al giorno.

— Il minimo, per una singola rappresentazione, sono cento crediti.

Non dicevo bugie. Sì, a volte ero stato costretto a dare delle bustarelle scandalose per assicurarmi la parte, ma sulla ricevuta non era mai apparsa retribuzione inferiore. C’è un certo standard da mantenere. Piuttosto che accettare una squalifica professionale preferivo morir di fame.

— Benissimo — si affrettò a rispondere lui. — Cento crediti in contanti, uno sull’altro, appena sarà arrivato qui. Ma svelto, faccia presto!

— Eh? — Mi stavo rendendo conto con disappunto che avrei potuto chiederne duecento; magari duecentocinquanta. — Ma non ho ancora detto di accettare il contratto — aggiunsi.

— Non importa. Ne discuteremo quando sarà qui. Quei cento saranno suoi anche se non accetterà. E se accetterà, li consideri un extra, fuori della paga. E adesso, vuole chiudere la comunicazione e venir qui al più presto?

— Subito, signore — risposi con un inchino. — Mi attenda un attimo.

Per fortuna l’Eisenhower non dista molto dal Casa, perché non avevo neppure gli spiccioli per il biglietto del metrò. Comunque, anche se l’arte di far due passi a piedi era ormai caduta in disuso, era un’arte che sapevo giustamente apprezzare e che, inoltre, in quell’occasione, mi dava la possibilità di mettere ordine nei miei pensieri. Non ero uno sciocco; mi rendevo benissimo conto che quando un tizio è ansioso di mettere in mano a un altro tizio una bella sommetta, è bene stare molto attenti, perché c’è sotto quasi certamente qualcosa d’illegale o di pericoloso, o di tutt’e due. Non che io fossi un fanatico della legalità per la legalità; ero d’accordo col poeta che la Legge è spesso idiota. Ma per lo più avevo sempre rigato diritto.

Rendendomi conto che i dati di cui disponevo non erano sufficienti a trarre una conclusione non ci pensai più e, gettatami la cappa sulla spalla, mi avviai, godendo il tepore di quell’autunno mite e gli acri odori della metropoli. Giunto a destinazione, pensai bene di evitare l’ingresso principale e presi un montacarichi dal sotterraneo al ventunesimo piano, perché avevo il vago dubbio che fosse preferibile non farmi riconoscere. Comparve all’uscio il mio amico voyageur. - Ce ne ha messo di tempo — brontolò, facendomi entrare.

— Davvero? — Lasciai cadere la questione e mi guardai in giro. Era un appartamento di lusso, come del resto mi aspettavo, ma tutto in disordine, e inoltre c’erano in giro un mucchio di tazzine da caffè e di bicchieri sporchi; non ci voleva molto acume per capire che attualmente ero l’ultimo di una numerosa serie di visitatori. Sdraiato su un divano, con gli occhi fissi su di me e con una certa espressione irritata sul volto, c’era anche un altro individuo; a occhio e croce, nel dubbio, classificai provvisoriamente anche lui come uno spaziale. Gli rivolsi un’occhiata interrogativa, ma nessuno ci presentò.

— Be’, finalmente è arrivato. Veniamo al sodo.

— D’accordo. Il che mi fa ricordare — aggiunsi — che si era parlato di un compenso o acconto.

— Ah, già. — E volgendosi al tizio che stava sul divano: — Jacques, pagalo.

— Perché?

Pagalo!

Ecco chi comandava; ne fui sicuro in quel momento, anche se, come dovevo poi imparare, c’era poco da dubitarne, quando ci si trovava in presenza di Dak Broadbent. L’altro si affrettò ad alzarsi, sempre con un’espressione irritata, e mi contò un cinquanta e cinque da dieci. Io li presi con fare disinvolto, senza contarli, e dissi: — Sono a vostra disposizione, signori.

Il mio amico del bar si morse il labbro con un po’ di nervosismo.

— Per prima cosa voglio che lei mi giuri solennemente di non far mai parola, neanche nel sonno, di questo lavoro.

— Se non basta la mia parola, nuda e cruda, crede che un mio giuramento possa avere maggior valore? — Lanciai un’occhiata al secondo individuo, che intanto era tornato a sdraiarsi sul divano. — Non credo che ci abbiano mai presentato. Io sono Lorenzo.

Lui mi guardò, poi distolse gli occhi. L’altro spaziale si affrettò a osservare: — I nomi non contano, in questo lavoro.

— Davvero? Prima di morire, il mio riverito padre mi fece promettere tre cose: primo, di non mescolare mai il whisky con altro che non sia l’acqua; secondo, d’ignorare sempre le lettere anonime; terzo e ultimo, di non parlar mai con un estraneo che si rifiuta di dire il proprio nome. Buongiorno, signori — e mi voltai verso la porta, con i cento crediti al calduccio nella tasca.

— Si fermi! — Ubbidii. — Ha perfettamente ragione. Io sono…

Comandante!

— Chiudi il becco, Jacques. Io sono Dak Broadbent; e quello lì che ci guarda è Jacques Dubois. Tutt’e due siamo voyageur, capitani piloti di tutte le classi, sotto tutte le accelerazioni.

Mi inchinai. — Lorenzo Smythe — dissi con modestia. — Attore comico e drammatico… socio del Lambs Club — e così dicendo presi mentalmente nota di pagare gli arretrati.

— Ottimo. Jacques, provati un po’ a sorridere, tanto per cambiare. Lorenzo, lei è d’accordo di non parlare ad altri dei nostri affari?

— Parola d’onore. Riterrò che questo sia un colloquio riservato tra gentiluomini.

— Sia che lei accetti il contratto o no?

— Sia che giungiamo a un accordo o no. Sono solo un essere umano, ma a meno di venir sottoposto a metodi d’interrogatorio illegali, le vostre confidenze sono al sicuro, con me.

— So bene gli effetti della neodexocaina sui lobi frontali, Lorenzo. Non pretendiamo l’impossibile.

— Dak — disse Dubois, con voce preoccupata — è uno sbaglio. Dovremmo almeno…

— Sta’ zitto, Jacques. Non voglio ipnotizzatori tra i piedi, al punto in cui siamo. Lorenzo, vogliamo che lei faccia una… una sostituzione di persona. Dev’essere perfetta, tanto che nessuno, e dico nessuno, se ne possa mai accorgere. Lei è capace di fare questo tipo di cose?

Aggrottai la fronte. — La domanda giusta non è "sono capace?" ma "sono d’accordo?". In che occasione dovrei farla?

— Be’, entreremo nei dettagli in seguito. Così, grosso modo, si tratta della solita controfigura di una personalità della politica, un uomo molto celebre. L’unica differenza sta nel fatto che la sostituzione dev’essere fatta in modo talmente perfetto da ingannare anche chi lo conosce di persona e deve andargli vicino. Non si tratterà semplicemente di passare in rivista le truppe dall’alto di un palco d’onore o di appuntar medaglie sul petto di giovani esploratrici. — Mi fissò con sguardo penetrante. — Ci vuole un vero artista.

— No — risposi subito.

— Come? Ma se non sa ancora niente di preciso… Se lei ha delle obiezioni di ordine morale, posso assicurarle che nulla di quanto le chiederò andrà contro gli interessi della persona che lei dovrà sostituire… né, in definitiva, contro gli interessi di nessuno. È una cosa assolutamente necessaria.

— No.

— Ma, per l’amor di Dio, perché? Lei non sa neppure quanto la pagheremo.

— Non è questione di denaro — dissi con fermezza. — Sono un attore, io, non una controfigura.

— Non la capisco. Ci sono molti attori che arrotondano lo stipendio accettando di fare da controfigura per qualche celebrità, in occasione di avvenimenti pubblici.

— Sì, ma io quelli li considero prostitute, non colleghi. Lasci che mi spieghi. Crede che uno scrittore abbia stima di un "negro"? E lei rispetterebbe un pittore che permettesse a un altro di firmare le sue opere, per denaro? Probabilmente lei non conosce i sentimenti di un artista, ma forse potrò spiegarmi con un esempio relativo alla sua professione. Lei sarebbe disposto, solo per denaro, a pilotare un’astronave mentre un altro, privo del suo addestramento e della sua competenza, indossa l’uniforme e le mostrine di capitano, riceve tutti gli onori, ed è pubblicamente acclamato come il comandante della nave? Lo farebbe?

— Quanto chiede? — rispose seccamente Dubois.

Broadbent gli lanciò un’occhiataccia, poi si rivolse a me per dirmi: — Credo di capire la sostanza della sua obiezione.

— Per l’artista, signore, la fama è l’essenziale. Il denaro è solo il mezzo materiale che lo mette nelle condizioni di poter creare la sua arte.

— Uhm… Capisco. Dunque non lo farebbe, solo per denaro. E per qualche altro motivo? Se fosse sicuro che è una cosa che va assolutamente fatta e che lei è il solo che può riuscire a farla bene?

— Le concedo la possibilità, ma non riesco a immaginarne un caso concreto.

— Non avrà bisogno di immaginarlo; glielo spiego subito io.

Dubois si alzò di scatto dal divano. — Senti, Dak, non puoi…

— Piantala, Jacques! È giusto che lo sappia…

— Ma non ha bisogno di saperlo proprio adesso, proprio qui. E tu non hai il diritto di far correre rischi agli altri per il gusto di dargli delle spiegazioni. Cosa ne sai, di quest’uomo?

— È un rischio calcolato.

Broadbent tornò a rivolgersi a me, ma Dubois lo prese per un braccio, costringendolo a voltarsi.

— Calcolato un corno! Dak, sono sempre stato dalla tua parte, in passato… ma stavolta, prima di lasciarti fare una fesseria simile, uno di noi due dovrà passare sul cadavere dell’altro.

Broadbent parve sorprendersi di quelle parole, poi sogghignò freddamente, guardando Dubois dall’alto. — Pensi di farcela, vecchio marpione?

Dubois lo guardò fissamente, senza indietreggiare di un passo. Broadbent lo superava di tutta la testa e pesava almeno venti chili più di lui. In quel momento, per la prima volta dal mio arrivo, provai un moto di simpatia verso Dubois. C’è un genere di cose che mi commuove sempre: l’audacia spavalda di un gattino, la combattività di un galletto, il coraggio di un inerme che preferisce farsi schiacciare piuttosto che piegare il ginocchio a terra… E anche se non pensavo che Broadbent l’avrebbe ammazzato, mi aspettavo di vederlo ridotto a uno straccio.

Non che avessi la minima intenzione di mettermi tra i due contendenti. Secondo me, ciascuno ha il diritto di scegliere il momento e le modalità della propria distruzione.

La tensione andava aumentando visibilmente. Poi, d’improvviso, Broadbent scoppiò a ridere e diede una manata sulla spalla di Dubois. — D’accordo, Jacques. — Poi, volgendosi a me, disse calmo: — Vuole scusarci un momentino? Il mio amico e io dobbiamo fumare un grosso calumet della pace.

Nell’appartamento c’era un angolo a prova di suono, dov’erano installati anche il dittografo e il visifono. Broadbent prese Dubois per un braccio e lo portò da quella parte; rimasero lì fermi a parlottare fitto fitto.

Capita a volte che quei servizi, specialmente in luoghi pubblici come gli alberghi, non siano così perfetti come vorrebbero dare a intendere; è difficile eliminare completamente le onde sonore. Ma l’Eisenhower è un hotel di lusso e, almeno quella volta, l’apparato funzionava perfettamente. Riuscivo a vedere le labbra dei due muoversi, ma non riuscivo a percepire il minimo suono.

Però, come ho detto, il movimento delle labbra riuscivo a distinguerlo. Broadbent aveva il viso rivolto dalla mia parte, e inoltre, dietro di lui, c’era uno specchio che mi permetteva di scorgere la faccia di Dubois. Fin dall’epoca in cui presentavo il mio famoso numero di lettura del pensiero avevo potuto apprezzare pienamente la perspicacia di mio padre, quando aveva fatto fuoco e fiamme perché imparassi il linguaggio muto delle labbra. Nel mio numero la sala era illuminata a giorno e io mi servivo di occhiali che… ma non importa; l’importante è che so leggere quello che uno dice, guardandogli i movimenti delle labbra.

Dubois stava dicendo: — Dak, stupido, imbecille, incosciente che non sei altro, vuoi proprio farci finire sulle cave di pietra di Titano? Quel chiacchierone presuntuoso spiffererà tutto.

Per poco non mi perdevo la risposta di Broadbent. Presuntuoso a me! A parte la serena consapevolezza della mia genialità, mi ero sempre ritenuto un uomo di modestia esemplare.

— … a mali estremi, estremi rimedi — stava dicendo Broadbent. — Jacques, è la sola persona che ci può essere utile.

Dubois: — Va bene; allora chiama qui il professore; fagli iniettare la droga dopo averlo ipnotizzato. Ma non dirgli niente… aspetta che si sia condizionato, non qui su terrasporca.

Broadbent: — Uhm, è stato lo stesso professore ad avvertirmi che non potevamo far affidamento sull’ipnosi e sulle droghe; non per quello di cui abbiamo bisogno, comunque. Dobbiamo ottenere la sua cooperazione, la sua cooperazione intelligente.

Dubois: — Ma di quale intelligenza stai parlando? — Assunse un’espressione di assoluto disprezzo. — Ma guardalo: è tutto tronfio come un gallinaccio. Sì, ha la taglia e l’altezza del Capo; anche la stessa forma della testa… ma in quella testa c’è solo segatura. Perderà subito il sangue freddo, comincerà a dare i numeri, manderà tutto all’aria. Non può certo essere all’altezza della parte… è un povero guitto gigione, e nient’altro.

Se avessero accusato l’immortale Caruso di aver preso una stecca, non avrebbe potuto offendersi più di quanto rimasi offeso io allora. Credo che in quell’occasione mi guadagnai pienamente il diritto di rivendicare il mantello shakespeariano di Richard Burbage e Edwin Thomas Booth; continuai a lustrarmi le unghie sul bavero e ignorai l’apprezzamento… mi limitai a un appunto mentale per il giorno della rivincita, quando nel giro di venti secondi avrei portato prima al riso e poi al pianto l’amico Dubois con le mie arti drammatiche. Aspettai ancora qualche istante, poi mi alzai e mi avvicinai all’angolo a prova di suono. Vedendomi arrivare, subito i due smisero di confabulare. — Lasciate stare, signori. Ho cambiato idea — comunicai con tutta tranquillità.

— Ha deciso di rifiutare? — domandò speranzoso Dubois.

— Al contrario: ho deciso di accettare. Non occorre che mi diate spiegazioni. L’amico Broadbent mi ha già detto che si tratta di un lavoro che non mi darà preoccupazioni di coscienza, e tanto mi basta. Mi fido di lui. Inoltre mi ha assicurato che avete bisogno di un attore, e siccome gli interessi privati del produttore teatrale non sono di mìa pertinenza, accetto senz’altro.

Dubois era seccatissimo, ma tenne la bocca chiusa. M’ero aspettato che Broadbent fosse contento e sollevato, invece mi parve preoccupato anche lui. — Bene, dunque — dichiarò. — Lorenzo, non so ancora esattamente per quanto tempo avremo bisogno delle sue prestazioni. Credo si tratterà solo di pochi giorni. In tutto questo periodo lei dovrà "recitare" per un’ora alla volta o pressappoco, per un’occasione o due.

— Il particolare non ha importanza, purché mi sia concesso il tempo sufficiente per studiare la parte… la sostituzione, voglio dire. Ma per quanti giorni all’incirca vi occorreranno le mie prestazioni? Dovrei avvertire il mio agente.

— Oh, no! Non deve assolutamente farlo!

— Be’… quanto? Una settimana?

— No, bisogna che sia meno, altrimenti siamo fritti!

— Come?

— Niente, niente. Cento crediti al giorno le vanno bene?

Esitai ricordando con quanta facilità aveva accettato di darmi il mio minimo contrattuale solo per un colloquio… poi decisi che era il momento di fare il signore. Scossi la mano con noncuranza.

— Non parliamo di queste piccolezze. Sono certo che mi sarà offerto un onorario adeguato al valore della mia interpretazione.

— Bene, bene — tagliò corto Broadbent, voltandosi. — Jacques, mettiti in contatto col campo. Poi fatti passare Langston e avvertilo che stiamo dando inizio al piano Mardi Gras. Sincronizza l’orologio con il suo. — Si voltò verso di me. — Lorenzo… — mi fece cenno di seguirlo, precedendomi a grandi passi nel bagno. Aprì una cassettina e mi chiese: — Crede di riuscire a combinare qualcosa con queste cianfrusaglie?

"Cianfrusaglie": l’aveva detto. Si trattava di una di quelle scatole con il nécessaire per il trucco, roba costosissima che nessun professionista si sognerebbe mai di toccare, venduta negli empori e destinata ai bambini che vogliono giocare all’attore. Fissai la scatola con un certo disgusto, poi chiesi: — Se ho ben capito, lei, signore, mi chiede di dare inizio alla sostituzione, adesso, senza che abbia avuto neanche il tempo di studiare la persona da imitare?

— Come? No, no! Voglio solo che lei cambi faccia, in modo che nessuno riesca a riconoscerla quando usciremo di qui. Può farlo, vero?

Risposi seccamente che l’essere riconosciuto è uno dei fardelli cui tutte le celebrità devono assoggettarsi. Non mi parve necessario aggiungere che, con la massima certezza, migliaia di persone avrebbero riconosciuto immediatamente il volto del Grande Lorenzo, dovunque egli andasse.

— Bene. Cambi dunque faccia in modo che nessuno la riconosca — ripeté, e mi piantò in asso.

Con un sospiro cominciai a esaminare il nécessaire giocattolo che mi aveva lasciato e che, secondo lui, conteneva i normali strumenti della mia professione: ceroni adatti ai pagliacci, gommalacca puzzolente, una parrucca crespa e arruffata che pareva fatta con la lana strappata al tappeto buono della zia. Non uno dei ritrovati moderni, neppure un tubetto di Silicoderm, nemmeno una spazzola elettrica. Ma il vero artista è capace di far miracoli con un fiammifero bruciato e con altri oggetti comunissimi, di quelli che si possono trovare in qualsiasi cucina… e con il suo genio. Accesi tutte le luci e mi lasciai scivolare in una fantasticheria creativa.

Diversi sono i modi per evitare che un viso celebre venga riconosciuto. Il più semplice consiste nello sviare l’attenzione dell’osservatore: fate indossare a un uomo un’uniforme, e nessuno, probabilmente, noterà più il suo volto… Ricordate, voi, che faccia avesse l’ultimo poliziotto che vi è capitato di incontrare? Siete certi che riuscireste a riconoscerlo, la prossima volta, vedendolo vestito in borghese? Sullo stesso principio si basa il lineamento singolo che richiama specificamente l’attenzione su di sé. Mettetevi un nasone enorme, magari deturpato da un po’ d’acne rosacea: le persone maleducate rimarranno a fissare il vostro naso incantate, le educate volteranno la testa dall’altra parte per non mettervi in imbarazzo, ma né le une né le altre baderanno al resto del viso.

Tuttavia decisi di non attenermi a questo secondo accorgimento, troppo semplicistico, perché mi pareva che i miei datori di lavoro preferissero che non mi facessi affatto notare, piuttosto che farmi ricordare per un lineamento troppo particolare, pure senza essere riconosciuto. Così era più difficile per me, tuttavia. Tutti sono capaci di farsi notare, ma per passare inosservati ci vuole del talento vero. Mi occorreva un viso comune e impossibile da ricordare come il vero volto dell’immortale Alec Guinness. Sfortunatamente i miei lineamenti aristocratici sono troppo distinti, troppo belli… il che costituisce un handicap non trascurabile per un attore caratterista. Mio padre soleva infatti dirmi: — Larry, sei troppo bello, accidenti! Se non ti scrolli un po’ dalle chiappe la pigrizia e non ti decidi a far lavorare il cervello, passerai quindici anni a far parti d’amoroso, nell’errata convinzione d’essere un attore, e poi finirai nel loggione a vendere caramelle per sbarcare il lunario. "Stupido" e "bello" sono i difetti più gravi sulle scene, e tu li hai entrambi!

Poi si sfilava la cinghia, e se ne serviva per stimolare la mia intelligenza. Papà era uno psicologo pratico, ed era convinto che scaldando i glutei maximi con una striscia di cuoio si riuscisse a trarre il sangue in eccedenza dal cervello. Anche se posso nutrire dei dubbi sull’esattezza dei fondamenti teorici di tale convinzione, debbo però ammettere che i risultati giustificarono il metodo: a quindici anni ero in grado di star ritto sulla testa sopra un filo teso, e di recitare pagine e pagine di Shakespeare o di Shaw senza inciampi, e di richiamar l’attenzione del pubblico su di me, in una scena, con il semplice gesto di far accendere una sigaretta.

Ero profondamente immerso nelle nebbie della creazione artistica quando Broadbent fece capolino. — Santo cielo! — esclamò. — Non ha ancora incominciato?

Lo fissai freddamente. — Se non vado errato, lei desidera da me il meglio che posso dare, no? E allora non si può improvvisare una simile creazione da un momento all’altro. Crede che un cordon bleu riuscirebbe a mescolare una nuova salsa in sella a un cavallo lanciato al galoppo?

— Al diavolo il cavallo! — ribatté, lanciando un’occhiata all’orologino che portava al mignolo. — Le restano sei minuti. Se non riesce a combinare qualcosa in questo tempo, dovremo rischiare il tutto per tutto.

Be’, certo preferisco avere tutto il tempo a disposizione, ma avevo sostituito mio padre nella sua creazione trasformistica L’assassinio di Huey Long, quindici personaggi diversi in sette minuti, e una volta ero riuscito a eseguirla in nove secondi meno di lui.

— Rimanga lì! — gli risposi prontamente. — Sarò subito da lei.

Così detto cominciai a crearmi il viso di "Benny Grey", lo smorto tuttofare che commette i delitti nella Casa senza porte… due rapidi colpi di matita per farmi due righe stanche sulle guance, dal naso agli angoli della bocca, un semplice accenno di borse sotto gli occhi, e un fondo giallastro Factor N. 5 sopra il tutto. Tempo richiesto: venti secondi. Sarei riuscito a farlo anche dormendo. La casa senza porte tenne cartellone per novantadue recite prima che la registrassero.

Poi mi volsi verso Broadbent che restò senza fiato: — Santo cielo! Non l’avrei mai creduto.

Fedele al personaggio di "Benny Grey", non sorrisi neppure in risposta. Quel che Broadbent non poteva capire era che il cerone, a dire il vero, non era affatto necessario. Certo, con un po’ di cerone la cosa diventa più facile, ma io me n’ero dato una lustratina soltanto per un motivo: perché lui pensava che dovessi farlo. Era pur sempre un bifolco, e supponeva che il trucco di un artista fosse tutta questione di cerone e d’impiastri.

Lui continuava a fissarmi. — Senta un po’ — disse poi. — Non potrebbe fare qualcosa di simile anche per me? In fretta?

Stavo per dire di no, quando mi resi conto che la sua richiesta costituiva un’interessante sfida alla professione artistica. Avevo la tentazione di rispondergli che se mio padre avesse cominciato a lavorare su di lui a cinque anni, adesso sarebbe stato pronto per vendere zucchero filato al baraccone della fiera del paese, ma preferii non deluderlo.

— Le basta non essere riconosciuto? — domandai.

— Sì, sì! Non potrebbe truccare anche me, mettermi un naso finto, o qualcos’altro?

Scossi il capo. — No, col trucco non otterremmo nulla: tutt’al più riuscirei a farla assomigliare a un bambino che si è messo in maschera per la sfilata di Carnevale. Occorre saper recitare, e lei non può più imparare, alla sua età. No, meglio non far nessun ritocco al viso…

— Ma allora… con questo naso che mi ritrovo…

— Mi dia ascolto. Qualunque cosa facessi, quel suo signor naso finirebbe lo stesso per richiamare l’attenzione. Invece, non le basterebbe qualcosa di diverso? Che uno che la conosce, vedendola, dicesse: "Ehi, ma guarda, quello, come rassomiglia a Dak Broadbent. Sono sicuro che non è lui, certo, però un po’ gli rassomiglia". Eh?

— Ma… penso di sì. Basta però che sia sicuro di non avermi riconosciuto. Dopotutto dovrei essere su… lasciamo perdere. Non dovrei essere sulla Terra, in questo momento.

— Saranno tutti sicuri di non averla riconosciuta, perché cambieremo la sua andatura. È proprio l’andatura la sua caratteristica più saliente. Se non camminerà nel solito modo, nessuno la riconoscerà… penseranno che sia qualche altro omaccione grande, grosso e spalluto come lei.

— Va bene. Mi faccia vedere come devo camminare.

— No, non lo imparerebbe mai. La costringerò a farlo nel modo voluto, per forza.

— Ma come?

— Mettendo un po’ di sassolini o qualcosa di simile nella punta degli stivali. La costringeranno ad appoggiarsi più sul tacco, e la faranno star diritto con la schiena. Non riuscirà più a scivolare via col passo felpato dello spaziale. Uhm… metterò anche una bella striscia di cerotto tra le scapole, così si ricorderà di tenere indietro le spalle. Dovrebbe bastare.

— Ma lei crede che risulterò irriconoscibile solo perché camminerò in modo diverso?

— Sicuro! Uno che la conosce non saprà dire perché è così sicuro che non è lei, ma proprio per il fatto che la sua convinzione è subconscia e primitiva, non avrà alcun dubbio. Oh, se proprio vuole, posso fare anche qualcosa per la sua faccia, tanto perché si senta a suo agio, ma le assicuro che non ce n’è bisogno.

Ritornammo nel salotto dell’appartamento. Io continuavo a essere "Benny Grey", naturalmente. Una volta che assumo una personalità diversa, mi occorre poi uno sforzo di volontà per ritornare a essere me stesso.

Dubois era sempre affaccendato col visifono. Alzò gli occhi, mi vide, e rimase un istante a fissarmi imbambolato. Poi uscì di corsa dalla cabina a prova di suono per domandare: — E questo chi è? Dov’è andato l’altro, l’attore?

Dopo avermi guardato di sfuggita in quel primo istante, aveva distolto gli occhi e non s’era più preoccupato di me. "Benny Grey" è un ometto talmente scialbo e trascurabile che nessuno si cura d’osservarlo.

— Che attore? — risposi io, con la voce piatta e incolore di Benny. La domanda riportò su di me l’attenzione di Dubois, che mi fissò, voltò via gli occhi indeciso, poi ritornò a fissarmi, esaminando anche i miei abiti. Broadbent scoppiò a ridere, dandogli una manata sulla spalla.

— E così, dicevi che non era buono a far niente! — Poi aggiunse brusco: — Sei riuscito a metterti in contatto con tutti, Jacques?

— Sì. — Dubois tornò a guardarmi, perplesso, poi distolse ancora lo sguardo.

— Bene. Dobbiamo essere fuori di qui entro quattro minuti. Avanti, Lorenzo, vediamo quanto ci mette a prepararmi.

Dak si era già sfilato uno stivale, si era tolto la giubba e si era arrotolato la camicia sulla schiena in modo che potessi fissargli il cerotto tra le scapole. Stavo per avvicinarmi a lui, quando la lampadina sopra l’uscio si accese e il campanello si mise a ronzare. S’irrigidì. — Jacques! Deve venire qualcuno?

— Sarà forse Langston. Ha detto che cercava di raggiungerci qui, prima che partissimo. Se faceva in tempo. — Dubois si diresse verso l’uscio.

— Potrebbe non essere lui. Potrebbe essere… — Non riuscii a sentire dalla voce di Broadbent chi sarebbe potuto essere, perché intanto Dubois aveva aperto. E inquadrato sulla soglia, come un fungo velenoso da incubo, c’era un marziano.

Per un lungo e orribile momento non riuscii a vedere altro che il marziano. Non mi accorsi che dietro di lui c’era anche un uomo, e non notai neppure l’arma che la creatura stringeva nello pseudoarto: la caratteristica verga marziana.

Poi la creatura scivolò dentro, contorcendosi tutta. Anche l’uomo entrò, e la porta si richiuse automaticamente. Il marziano squittì: — Buongiorno, signori. Stavate partendo?

Mi sentivo paralizzato, stordito da un accesso acuto di xenofobia. Dak era impacciato dai vestiti, che gli toglievano la libertà di movimento. Ma il piccolo Jacques Dubois agì con un semplice, naturale eroismo che me lo fece amare per sempre come un fratello, anche se morì subito… Si gettò contro l’arto che brandiva la verga, e afferrò l’arma tra le braccia senza far nulla per scansare il colpo.

Dovette morire all’istante, con in pancia un buco grosso come un pugno, prima ancora di cadere a terra. Ma tenne la presa, e lo pseudoarto si allungò come se fosse di gomma. Poi si spezzò con uno schiocco, a pochi centimetri dall’attaccatura sul collo del mostro, e il povero Jacques continuò a stringere la verga, tra le braccia senza vita.

L’uomo entrato insieme alla creatura fetida e puzzolente dovette fare un passo di fianco per poter sparare, e commise un errore molto grave. Avrebbe dovuto sparare prima a Dak e poi a me, ma sprecò il primo colpo sul povero Jacques: il secondo colpo non riuscì mai a spararlo, perché Dak lo colpì in piena fronte. Io non mi ero neppure accorto che Dak fosse armato! Privo dell’arma, il marziano non fece nessun tentativo di fuga. Dak balzò in piedi, fece qualche passo fino a lui (strascicando i piedi), e gli disse: — Ah, Rrringriil. Ti vedo.

— Ti vedo, capitano Dak Broadbent — squittì il marziano, e aggiunse: — Lo dirai al mio nido?

— Lo dirò al tuo nido, Rrringriil.

— Ti ringrazio, capitano Dak Broadbent.

Dak allungò un dito grosso e massiccio e lo infilò nell’occhio più vicino, spingendo finché le nocche furono a contatto del cranio. Allora ritrasse il dito, sporco di un umore verdastro simile a fango. Con uno spasmo riflesso, gli pseudoarti si ritrassero strisciando nelle loro cavità, ma la creatura continuò a rimanere ritta sul suo piedistallo. Dak si precipitò subito in bagno; dal rumore che sentii, si sciacquava con cura le mani. Io rimasi dov’ero, paralizzato dall’orrore, immobile quasi come il defunto Rrringriil.

Dak tornò subito, asciugandosi le mani nella camicia. Disse: — Qui dobbiamo dare una pulita. Non abbiamo molto tempo. — Sembrava che stesse parlando di una macchia di liquore per terra…

Cercai di fargli capire bene, con un farfugliamento confuso, che non volevo assolutamente prestarmi ai suoi piani, che l’unica cosa da fare era chiamare la polizia, che volevo andare via prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, che si ficcasse dove meglio credeva quel suo pazzo lavoro di sostituzione, e che avrei voluto possedere le ali per volarmene via dalla finestra. Dak non mi badò. — Non faccia il fifone, Lorenzo. Abbiamo meno tempo di prima. Mi dia una mano a portare i cadaveri nel bagno.

— Eh? Che importa? Chiudiamo a chiave l’uscio e tagliamo la corda. Probabilmente non verranno mai a sapere che eravamo presenti.

— Probabilmente no — convenne — dal momento che nessuno di noi due dovrebbe trovarsi qui adesso. Però capiranno subito che è stato Rrringriil a uccidere Jacques, e la cosa sarebbe molto spiacevole per tutti noi. Specialmente adesso.

— Eh?

— Non possiamo permettere che la stampa imbastisca uno scandalo su un marziano che uccide un terrestre. Perciò lasci perdere le obiezioni e mi dia una mano, invece.

Lasciai perdere le obiezioni e gli diedi una mano. Ritornai più sicuro di me ricordandomi che "Benny Grey" era un sadico psicopatico della peggior specie, e che traeva un vero piacere dallo smembrare le sue vittime. Lasciai che fosse "Benny Grey" a trascinare nel bagno le due vittime umane, mentre Dak prendeva la verga marziana e tagliava a pezzi Rrringriil per poterlo portare via meglio. Badò con molta perizia a fare il primo taglio proprio sotto la scatola cranica, in modo da sporcare meno. Io non mi preoccupai di dargli aiuto, perché mi pareva che un marziano morto puzzasse ancor più che un marziano vivo.

L’oubliette era dietro una porticina del bagno, accanto al bidet. Per fortuna c’era il solito simbolo che avvertiva delle radiazioni, il trifoglio, altrimenti sarebbe stato difficile trovarla. Dopo averci gettato i resti mortali di Rrringriil (riuscii a ritrovare un po’ del mio sangue freddo, tanto da poter dare una mano), Dak affrontò il problema più complesso: macellare e far scomparire i cadaveri umani per mezzo della verga lavorando, com’è ovvio, nella vasca da bagno.

È davvero stupefacente constatare quanto sangue contenga un corpo umano. Tenemmo aperto il rubinetto dell’acqua per tutto il tempo, eppure fu una brutta faccenda lo stesso. Quando fu la volta del povero piccolo Jacques, Dak non se la sentì. Gli si riempirono gli occhi di lacrime, non riuscì più a vederci, cosicché lo feci da parte con una gomitata, prima che si tagliasse via una mano, e lasciai che "Benny Grey" prendesse il sopravvento.

Quando ebbi terminato e nell’appartamento non rimase nessuna traccia della presenza di altri due uomini e di un mostro, risciacquai ben bene la vasca e mi rialzai. Dak stava accanto all’uscio, calmo come sempre.

— Ho lustrato il pavimento come uno specchio — mi disse. — Credo che uno specialista della scientifica, con tutta l’attrezzatura, sarebbe in grado di ricostruire l’accaduto, ma possiamo contare su un fatto: nessuno sospetta di niente. Andiamo subito via. Dobbiamo trovare un modo per riguadagnare una decina di minuti. Avanti!

Ormai non mi curavo più di sapere dove andavamo e cosa facevamo. — Bene — dissi — occupiamoci degli stivali.

Scosse la testa. — No, mi rallenterebbero. A questo punto, l’unica cosa che conta è fare in fretta. Se mi riconoscono, pazienza.

— Mi affido a lei. — Lo seguii alla porta, dove si fermò per dire: — Potrebbero essercene altri nei paraggi. Se ne vede qualcuno, cerchi di sparare per primo… non c’è altro da fare. — Teneva in mano la verga marziana, avvolta nella cappa.

— Marziani?

— O uomini. O gli uni e gli altri.

— Dak, mi dica una cosa. Rrringriil era uno di quei quattro marziani del bar Mañana?

— Sicuro. Perché diavolo crede che io abbia fatto tutto quel traffico per farla uscire dal bar e per farla venire qui? Quelli o stavano dietro a lei, come del resto stavamo anche noi, o stavano dietro a me. Non lo ha riconosciuto?

— Santo cielo, no! Quei mostri mi sembrano tutti uguali.

— Anche loro dicono che noi sembriamo tutti uguali. Quei marziani erano Rrringriil, suo fratello-coniugato Rrringlath, e altri due dello stesso nido, di linee diverse. Ma adesso, zitto. Se vede un marziano, spari. Ha con sé l’altra pistola?

— Uhm, sì. Mi stia a sentire, Dak. Io non so niente di questa storia, ma mi basta sapere che quei mostri sono contro di voi per essere dalla vostra parte. I marziani mi disgustano.

Rimase scosso dalla mia affermazione. — Lei non sa quello che dice — ribatté. — Noi non siamo affatto contro i marziani. Quei quattro sono dei traditori.

— Cosa?

— In giro ci sono un mucchio di ottimi marziani… anzi, quasi tutti lo sono. Perdio, anche Rrringriil non era cattivo, sotto certi aspetti. Ho giocato con lui tante belle partite a scacchi.

— Come? Allora, io…

— Zitto. Ormai lei c’è dentro fino al collo, per pensare di squagliarsela. Svelto, all’ascensore. Io controllo che non ci sia nessuno alle spalle.

Rimasi zitto. C’ero dentro fino al collo, lo sapevo anch’io, inequivocabilmente.

Giunti nel sotterraneo ci recammo direttamente all’espresso pneumatico. Proprio in quell’istante era arrivato un abitacolo a due posti; Dak mi cacciò dentro a precipizio, tanto che non feci in tempo a vedere la destinazione da lui scelta sui quadri di comando. Non rimasi affatto sorpreso quando, riavutomi dalla spinta d’accelerazione, potei finalmente alzare la testa e scorgere la tabella luminosa: SPAZIOPORTO JEFFERSON — Capolinea.

A dire il vero la stazione d’uscita non m’interessava, purché fosse il più lontano possibile dall’Eisenhower. Durante i pochissimi minuti trascorsi all’interno della galleria pneumatica avevo avuto tempo di studiare un piano, abbozzato, provvisorio, e ancora da definire nei dettagli, come dicono sempre le righe in carattere piccolo stampate alla fine dei contratti, ma pur sempre un piano. Lo si poteva sintetizzare in una frase sola: tagliare la corda.

Solo poche ore prima, mi sarebbe stato impossibile tentar di concretizzare un piano simile; nel nostro tipo di civiltà, un uomo senza un soldo è inerme come un bimbo in fasce. Ma con cento sacchi in tasca potevo andar lontano, e in fretta. Non sentivo alcun obbligo nei confronti di Dak Broadbent. Per motivi suoi — e nei quali io non c’entravo proprio per niente — a momenti mi aveva fatto ammazzare, poi mi aveva coinvolto nell’occultamento di un’azione delittuosa, e infine mi aveva costretto a fuggire, eludendo la giustizia. Ma per fortuna tutto era andato bene, finora, e la polizia non ne sapeva niente, così, se ora riuscivo a togliermi dai piedi Broadbent, potevo dimenticare tutto l’accaduto, accantonandolo come un brutto sogno. Era poco probabile che si facesse il mio nome a proposito dei delitti, anche se fossero stati scoperti… per fortuna un gentiluomo porta sempre i guanti, e i miei me li ero tolti solo per truccarmi, prima, e poi durante quell’agghiacciante "pulizia domestica".

A parte il piccolo slancio d’entusiasmo puerile che avevo provato credendo per un attimo che Dak combattesse contro i marziani, i suoi progetti non m’interessavano per niente, e persino quell’entusiasmo si era dileguato immediatamente al sentire che i marziani gli piacevano, in generale. E quel suo lavoro di controfigura, non l’avrei toccato neppure con la proverbiale pertica. Che andasse al diavolo! Tutto ciò che desideravo dalla vita era quel tanto di denaro sufficiente a tenere insieme anima e corpo, e l’occasione di poter mettere in pratica la mia arte. Le bambinate tipo guardie e ladri non rivestivano per me il minimo interesse: come forma di teatro le giudicavo piuttosto squallide.

Lo spazioporto Jefferson sembrava fatto apposta per facilitare l’attuazione del mio piano. Affollato e assordante nella sua baraonda, con espressi pneumatici che si allontanavano a ragnatela in ogni direzione e che l’attraversavano da un capo all’altro, bastava che Dak mi togliesse gli occhi di dosso un momento e mi sarei subito trovato su un abitacolo per Omaha. Mi sarei tenuto nascosto per qualche settimana, poi avrei ripreso contatto con il mio agente, con circospezione, per vedere se qualcuno mi avesse cercato nel frattempo.

Dak mi fece scendere dall’abitacolo spingendomi per il braccio, altrimenti gli avrei chiuso la portiera alle spalle e sarei partito subito. Feci finta di non accorgermi della sua manovra, e rimasi appiccicato a lui come un manifesto mentre salivamo sulla scala mobile che portava all’atrio principale, immediatamente sotto il livello del suolo. Sbucammo tra gli uffici della Pan-American e quelli dell’American Skylines. Dak tagliò dritto per la sala d’attesa e si avviò direttamente verso la Diana, Ltd. Ne dedussi che intendesse prendere il biglietto per il traghetto della Luna. Come poi pensasse di riuscire a farmi salire a bordo, senza passaporto e certificati di vaccinazione, era una cosa che non riuscivo a immaginare, anche se mi ero già accorto che era un tipo dalle mille risorse. Decisi di confondermi tra la tappezzeria quando avrebbe tirato fuori il portafogli; quando si contano i soldi ci sono sempre alcuni secondi in cui gli occhi e l’attenzione non riescono a badare a nient’altro

Invece oltrepassò gli uffici della Diana e si diresse a una porta a vetri su cui spiccava la scritta: ORMEGGI PRIVATI. Nel corridoio oltre la porta non c’era molta gente, e le pareti erano di muratura, nude e lisce. Mi resi conto con dispetto che mi ero lasciato scappare di mano l’occasione migliore, prima, tra la folla dell’atrio. Mi fermai, e chiesi: — Dak, ha intenzione di salire su un razzo?

— Certo.

— Dak, lei è pazzo! Non ho i certificati, non ho neppure il permesso turistico per la Luna…

— Non ne avrà bisogno.

— Ah no? Ci fermeranno all’"Emigrazione" e lì troveremo un poliziotto grosso come un armadio che comincerà a far domande.

Una mano enorme mi artigliò il braccio. — Non stiamo a perder tempo. Perché lei dovrebbe passare per l’"Emigrazione" se, ufficialmente, non sta partendo? E perché dovrei passarci io, che ufficialmente non sono mai arrivato? Svelto, brutto marpione.

Io sono abbastanza robusto, e anche alto, ma mi sentii trascinato di peso, come se il braccio di un robot del traffico m’avesse abbrancato per togliermi da un punto pericoloso. Vidi un’insegna con la scritta: UOMINI, e feci un tentativo disperato per svincolarmi. — Dak, per piacere, mezzo minuto. Ho una piccola necessità idraulica…

Mi sghignazzò in faccia. — Ah, proprio? Ma se c’è andato un attimo prima di uscire dall’albergo. — Non rallentò il passo e non mi lasciò andare.

— Soffro di reni…

— Lorenzo, brutto marpione, qui mi sembra di scorgere un caso di fifa galoppante. Stia a sentire cosa conto di fare. Vede quel poliziotto laggiù? — Alla fine del corridoio, negli uffici degli ormeggi privati, c’era un difensore della sicurezza pubblica. Calmo e tranquillo, si riposava i piedi sul bancone. — Mi è venuta improvvisamente una crisi morale. Ardo dal bisogno di sgravarmi la coscienza… di raccontare come lei ha ucciso due cittadini del pianeta e un turista marziano… come mi ha minacciato con la pistola, come mi ha costretto ad aiutarla a far sparire i cadaveri, come mi ha…

— È impazzito?

— Certo. Sono quasi fuori di me dalla fifa e dal rimorso, amico.

— Ma… lei non ha prove contro di me.

— Crede proprio? Io sono convinto che la mia storia suonerebbe molto più convincente della sua. Intanto, io so cosa bolle in pentola, e lei no. So tutto di lei, e lei non sa nulla di me. Per esempio… — e mi ricordò un paio di cosette che mi erano accadute in passato e che credevo ormai morte e sepolte, l’avrei giurato. Sì, va bene, m’ero prestato per un paio di recite un po’ porno, non esattamente adatte per famiglie… ma si deve pur mangiare, no? E la faccenda di Barbara… quella era un colpo basso: non potevo certo sapere che fosse minorenne. Quel famoso conto d’albergo, poi, va bene che far fesso un locandiere di Miami Beach viene punito dai tribunali locali come la rapina a mano armata nelle altre parti del mondo, ma sono atteggiamenti molto provinciali… se avessi avuto i soldi avrei pagato, ecco tutto. C’era infine quello spiacevole incidente a Seattle… Be’, insomma, voglio dire questo: Dak sapeva una quantità stupefacente di cose sul mio conto, e le interpretava tutte nel senso sbagliato. Però…

— Così — continuò lui — meglio andar subito dall’amico poliziotto e toglierci il peso dalla coscienza. Scommetto sette contro due chi finirà per primo in gattabuia.

Fu così che oltrepassammo il poliziotto senza fermarci. Era intento a parlare con un’impiegata dietro gli sportelli, e nessuno dei due ci degnò di uno sguardo. Dak si tolse di tasca due tessere su cui era stampigliato: CANCELLI PER LE RAMPE DI LANCIO — PERMESSO DI PASSAGGIO PER MANUTENZIONE — ORMEGGIO K 127, e le infilò nella fessura del monitor. Dopo avere esplorato i permessi con un fascio a scansione, la macchina rilasciò una pellicola che avvertiva di prendere un vagoncino per il livello superiore e di comporre il numero "King 127"; il cancello si aprì per lasciarci passare e poi si chiuse immediatamente alle nostre spalle, mentre una voce registrata ci avvertiva: "Attenzione al passaggio, prego, e rispettare gli avvisi di radiazione. La Compagnia non si assume responsabilità per gli incidenti che possono verificarsi all’interno dei cancelli".

Dak entrò nel vagoncino e formò un numero completamente diverso. Il veicolo girò su se stesso, s’immise su una rotaia, e partì in direzione del livello sotterraneo, anziché per quello superiore. La cosa non mi fece nessuna impressione. Ormai non m’interessava più niente.

Quando scendemmo, il vagoncino tornò automaticamente al punto di partenza. Davanti a me si innalzava una scala a pioli che spariva nel soffitto d’acciaio, sopra di noi. Dak mi toccò col gomito.

— Su, salga. — In cima alla scala si vedeva un portello, con appeso un cartello ammonitore: RADIAZIONI — PERICOLO — Massima tolleranza ottimale 13 secondi. I numeri erano scritti col gessetto. Mi fermai. Non m’interessa particolarmente aver figli, ma non sono talmente sciocco da assorbire una dose elevata di radiazioni per niente. Dak sghignazzò e disse: — Cosa fa, cerca le mutande di piombo? Avanti, salga, apra il portello in fretta e scappi su per la scaletta interna del razzo. Se non si ferma a grattarsi le pulci, può farcela risparmiando tre secondi.

Credo d’averne risparmiati cinque. Uscii per un paio di metri alla luce del sole, poi entrai in un lungo condotto all’interno del razzo. Ricordo d’aver fatto gli scalini a tre per volta.

Il razzo sembrava piuttosto piccolo. Per lo meno in sala comando non c’era spazio per muoversi; quanto al resto, non so dire, perché non ebbi mai modo di vederlo. Fino a quel momento, le uniche astronavi che avessi mai visto dall’interno erano i traghetti lunari Evangeline e la sua gemella Gabriel, in quell’anno disgraziato in cui avevo accettato imprudentemente un contratto per la Luna, in società con un impresario. Il mio socio era convinto che lassù, con la forza di gravità ridotta a un sesto, uno spettacolo di giochi di prestigio e di acrobazie potesse dare risultati migliori. Il ragionamento era abbastanza giusto, ma non avevamo pensato che occorre un lungo periodo di prove per acclimatarsi alla diminuzione di gravità… risultato: tornai sulla Terra col foglio di via e fui costretto a lasciare sulla Luna tutto il guardaroba.

In sala comando c’erano due individui. Uno stava sdraiato in una delle tre cuccette d’accelerazione a gingillarsi con manopole e quadranti, l’altro stava eseguendo un misterioso lavoretto con il cacciavite. Quello nella cuccetta mi lanciò un’occhiata, ma non aprì bocca. L’altro si voltò, fece la faccia preoccupata e chiese, guardando oltre me: — Cos’è successo a Jacques?

Alle mie spalle, Dak intanto era arrivato, quasi volando fuori del portello. — Non c’è tempo! — tagliò corto. — Hai già rifatto i calcoli senza il suo peso?

— Sì.

— Red, è pronto il piano di volo? La torre di controllo?

L’uomo sulla cuccetta si sollevò pigramente sul gomito, e dichiarò: — Ho rifatto i calcoli ogni due minuti. La rotta è libera, dice la torre di controllo. Meno quaranta… ehm… sette secondi al via.

— Vìa dalla cuccetta! — lo incitò Dak. — Svelto! Non voglio perdere un secondo.

Red si alzò dalla cuccetta con riluttanza, mentre Dak prendeva i comandi. L’altro mi fece sdraiare sulla cuccetta del pilota in seconda e mi legò come un salame con le cinture di sicurezza. Poi si voltò e si lasciò scivolare giù per il condotto da cui eravamo saliti noi. Red gli andò dietro, ma si fermò dopo due o tre scalini, ergendosi con tutta la testa e le spalle. — Signori, prego, biglietti! — gridò in tono faceto.

— Oh, perdio! — Dak allentò la cintura di sicurezza, infilò la mano in tasca, estrasse i due permessi che ci erano serviti per scivolare a bordo clandestinamente, e li gettò a Red.

— Grazie — disse Red. — Vediamoci qualche volta in chiesa — scherzò. — Accensione! e tutto quel che segue. — Si dileguò per la scaletta con calma; sentii il rumore del portello pressurizzato che si chiudeva, e un’improvvisa pressione ai timpani. Dak non rispose all’augurio di Red; era indaffarato a girare le manopole del computer e ad apportare piccole correzioni al piano di volo.

— Ventun secondi — mi comunicò. — Non ci sarà nessun conto alla rovescia. Stia attento a tenere le braccia dentro, e cerchi di rilassarsi. La partenza andrà liscia come il burro.

Ubbidii senza fiatare, e aspettai per ore in uno stato di tensione spasmodica, come se avesse dovuto alzarsi il sipario su una prima. Alla fine azzardai: — Dak?

— Zitto!

— Solo una cosa: dove andiamo?

— Marte. — Vidi il suo pollice affondare su un pulsante rosso, e piombai nell’incoscienza.

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