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Cosa ci sarà, poi, di tanto divertente in una persona che sta male come un cane? Certi fessi con lo stomaco foderato di lamiera ridono sempre, vedendone una. Scommetto che riderebbero perfino se vedessero che la nonna è cascata per terra e si è spaccata le gambe.

Il mal di spazio mi colpì in forma acuta, non occorre dirlo, appena si spensero i motori del razzo ed entrammo in caduta libera. I conati finirono relativamente in fretta, visto che il mio stomaco aveva poco da restituire — non avevo mangiato niente, dalla prima colazione in poi — ma rimasi in uno stato di malessere opaco per tutto il resto (eterno) di quel viaggio infernale. Ci volle un’ora e quarantatré per giungere al punto convenuto, il che equivale all’incirca a mille anni di purgatorio per un terricolo come me.

Va detto a onore di Dak che non rise. Era uno spaziale di professione, lui, e considerò la mia reazione, peraltro normalissima, con la cortesia impersonale delle assistenti di volo, non come quei cialtroni ridanciani e senza sale in zucca che compaiono nelle liste dei passeggeri dei traghetti lunari. Se comandassi io, quei burloni li sbatterei nello spazio, senza tuta, e li lascerei ridere a crepapelle… nel vuoto interplanetario.

Nonostante il turbine di pensieri che mi sconvolgeva la mente e le mille domande che avrei voluto formulare, eravamo già quasi arrivati al punto d’incontro con una "nave torcia", che ci aspettava su un’orbita di parcheggio intorno alla Terra, prima che trovassi la forza di riprendermi e d’interessarmi di quanto mi concerneva. Sono convinto che se prendono una persona che soffre di mal di spazio e le comunicano che verrà giustiziata l’indomani all’alba, la sua unica reazione sarà questa: — Davvero? Mi passa quel sacchetto, per favore?

Ma finalmente cominciai a sentirmi un po’ meglio, vale a dire che, invece d’indicare il desiderio della morte, con profonda convinzione, l’ago della bilancia era risalito fino a un certo interesse sparuto e titubante per la prosecuzione della vita. Dak continuava a darsi da fare con il comunicatore del razzo, e sembrava stesse parlando su un raggio direzionale molto sottile, perché spostava continuamente il controllo dell’antenna, come un mitragliere antiaereo che aggiustasse il tiro su un bersaglio difficile. Non riuscivo a sentire quello che diceva, e non potevo neppure leggergli le labbra, perché aveva ficcato tutta la parte inferiore del volto nella mascherina del laringofono. Ritenni, comunque, che stesse parlando con l’astronave da lunga crociera che dovevamo raggiungere, la "nave torcia".

Quando finalmente si tolse il comunicatore e lo mise da parte, accendendosi una sigaretta, dominai il conato di nausea che la semplice vista del tabacco mi aveva suscitato nello stomaco e chiesi: — Dak, non le sembra venuto il momento di spiegarmi qualcosa?

— Avremo tutto il tempo mentre saremo in viaggio per Marte.

— Ah sì? Accidenti a lei e alla sua presunzione! — protestai debolmente. — Non ho nessuna voglia di andare su Marte. Non avrei neppure preso in considerazione la sua offerta assurda, se avessi saputo che occorreva andare su Marte.

— Calma. Lei non è obbligato ad andarci.

— Eh?

— Il portello stagno è lì alle sue spalle. Scenda giù e torni a casa a piedi. E si ricordi di chiudere la porta.

Non mi degnai di rispondere alla spiritosaggine, e lui andò avanti: — Però, a meno che lei non riesca a respirare il vuoto assoluto, la cosa più semplice è rassegnarsi a venire con me su Marte: ci penserò io, poi, a farla tornare sulla Terra. La Puoi farcela, che sarebbe la bagnarola su cui siamo imbarcati, sta per incontrarsi con la Passa al primo turno!, che è una nave torcia da lunga accelerazione. Diciassette secondi dopo avere preso contatto con la Passa al primo turno!, secondo più secondo meno, e noi saremo già su a torciare per Marte. Dobbiamo assolutamente esserci entro mercoledì.

Risposi con la cocciutaggine e l’irritazione di chi sta male. — Non ho alcuna intenzione di venire su Marte. Non ho intenzione di muovermi da questo razzo. Qualcuno dovrà certo venire a prenderlo per riportarlo sulla Terra. Lei non mi frega.

— Verissimo — convenne lui. — Qualcuno lo riporterà sulla Terra, ma lei non sarà a bordo. I tre furfanti che dovrebbero essere su questa bagnarola (secondo i documenti rimasti al Campo Jefferson), adesso sono sulla Passa al primo turno! Come lei avrà certamente notato, questa baracca ha tre soli posti, e non credo che i miei tre amici saranno molto d’accordo nel cederne uno a lei. Inoltre, come se la caverebbe con l’ufficio "Immigrazione"?

— Non importa! Mi basta tornare a terra.

— A terra sì, ma in prigione, e con tutta una serie di accuse che vanno dall’immigrazione illegale alla violazione del traffico spaziale. Come minimo, poi, penseranno che tentasse d’introdurre merce di contrabbando. La porteranno in uno stanzino tranquillo, dietro gli uffici. Prenderanno una bella siringa e le faranno un’iniezione qui, proprio in mezzo agli occhi, per farle raccontare tutto. Inoltre, le assicuro che sapranno già esattamente le domande che occorre farle; lei non potrà fare altro che vuotare il sacco. L’unica cosa che non crederanno, però, è che fossi presente anch’io. Perché io, cioè il loro vecchio amico Dak Broadbent, non potevo essere sulla Terra: sono fuori da un putiferio di tempo, nello spazio. Ho testimoni pronti a giurarlo, e si tratta di persone di specchiata onestà, assolutamente fuor d’ogni sospetto.

Rimuginai per un momento su quello che mi aveva detto, e provai un acuto senso di malessere, sia per la paura, sia per il mal di spazio che continuava ad affliggermi. — Ah, così lei darebbe l’imbeccata alla polizia? Lei è uno sporco, lurido… — m’interruppi solo perché ero incapace di trovare un sostantivo, da aggiungere agli aggettivi "sporco" e "lurido", adatto a insultarlo con tutta l’intensità che desideravo.

— Oh, no! Vede, vecchio marpione, potrei ricattarla un po’ facendole credere che ho intenzione di parlare alla polizia… ma non lo farò, può stare tranquillo. Però il fratello-coniugato di Rrringriil, Rrringlath, è certamente al corrente di una cosa: che il vecchio "Griil" è andato in un certo appartamento di un certo albergo, e poi non ne è più tornato. Ci penserà direttamente lui a dar subito l’imbeccata ai poliziotti. Non deve dimenticare che per i marziani, fratello-coniugato è un grado di parentela strettissimo. Talmente stretto che noi non possiamo neppure immaginarlo, dal momento che non ci riproduciamo per scissione.

Me ne infischiavo, io, se i marziani si riproducevano come i conigli o se invece era la cicogna a portarli, dentro il sacco nero dell’immondizia. Però, da come me la stava mettendo Dak, mi pareva che non avrei più avuto la possibilità di tornarmene sulla Terra. Espressi ad alta voce i miei timori, ma lui scosse la testa e rispose: — Niente affatto. Lasci fare a me, e la farò ritornare con la stessa facilità con cui è partito. Alla fine di tutto, lei uscirà da Campo Jefferson (o da qualsiasi altro Campo, fa lo stesso), con un permesso che riporta che lei è un meccanico e ha dovuto fare talune riparazioni dell’ultima ora. Per rendere credibile la cosa, lei indosserà una tuta sporca di grasso e porterà una cassetta dei ferri. Pensa che un attore del suo calibro riuscirà a recitare per qualche minuto la parte di un meccanico?

— Eh? Come, certo! Ma…

— Niente "ma"! Si fidi del suo amico Dak, che si prende cura di lei. Per la presente faccenda abbiamo già fatto entrare clandestinamente otto amici, tutti del "giro", prima per farmi arrivare sulla Terra, poi per far uscire me e lei. E se l’abbiamo fatto una volta possiamo farlo due. Però senza l’aiuto di un voyageur lei non caverebbe un ragno dal buco — aggiunse ridendo. — Ogni voyageur, nel cuor suo, è un mezzo filibustiere. L’arte del contrabbando è appunto un’arte, e tutti noi siamo sempre pronti a dare una mano a un amico, per aiutarlo a ingannare innocentemente le guardie portuali. Ma se uno non è del "giro", di solito non riceve alcun aiuto.

Cercai di imporre al mio stomaco la calma, e ci pensai sopra. — Dak — dissi poi. — Allora si tratta di una faccenda di contrabbando? Perché, vede…

— Oh, no! Salvo il fatto che stiamo contrabbandando… lei.

— Volevo dire che non considero il contrabbando un crimine.

— E chi lo ha mai considerato un crimine, salvo coloro che ci portano via i soldi mettendo esclusive su certi prodotti? No, no, si tratta semplicemente di sostituire un’altra persona, Lorenzo, e lei è la persona più adatta per fare da controfigura. Non è stato affatto per caso che mi sia imbattuto in lei, al bar. La stavamo seguendo da due giorni. Mi sono recato direttamente al bar per incontrarla, appena sceso su terrasporca. — Assunse un’espressione preoccupata. — Vorrei però essere sicuro che i nostri onorevoli nemici stessero seguendo me, e non lei.

— Perché? Non capisco…

— Se stavano seguendo me, vuol dire che lo facevano per scoprire cosa stavo macchinando, e allora tutto andrebbe bene perché avevamo previsto questa eventualità: sappiamo benissimo chi sono i nostri nemici, e così anche loro. Ma se invece stavano seguendo lei, allora vuol dire che sapevano già cosa stavo cercando… vale a dire un attore capace di fare da controfigura.

— Ma come facevano a saperlo, a meno che non glielo avesse detto lei?

— Lorenzo, si tratta di una faccenda importante, molto più importante di quanto lei s’immagina. Neppure io ne conosco appieno le implicazioni… Meno lei ne saprà, fin quando non le spiegheranno tutto, meglio sarà per lei. Posso dirle questo: una scheda recante le caratteristiche personali di un certo individuo è stata messa nell’Ufficio statistico centrale del Sistema Solare, all’Aia, e la macchina ha confrontato quelle caratteristiche con i dati di tutti gli attori viventi. L’operazione è stata portata a termine con la massima discrezione possibile, tuttavia qualcuno potrebbe avere sospettato… e parlato. I dati riguardavano l’identificazione di due persone: una è il principale, e l’altra è l’attore che può sostituirsi a lui, perché il lavoro dev’essere assolutamente perfetto.

— Oh! E la macchina vi ha detto che l’attore più adatto sono io?

— Sì, lei… e un altro.

Ecco un’altra occasione per tenere la bocca chiusa. Ma non avrei potuto farlo, nemmeno se ci fosse stata la mia vita in ballo, come in effetti era. Dovevo a tutti i costi sapere chi fosse quell’altro attore, considerato abile al punto di poter recitare una parte che richiedeva il mio inimitabile talento. — Un altro attore? Chi è?

Dak mi guardò a, lungo. Mi accorsi che esitava. — Uhm, un tale chiamato Orson Trowbridge. Lo conosce?

— Quel filodrammatico! — per un istante fui talmente furibondo da non accorgermi più della nausea.

— Ah, davvero? Eppure mi dicono che sia molto apprezzato.

Non potei proprio fare a meno di indignarmi all’idea che qualcuno avesse potuto sia pur soltanto pensare che quell’asino di Trowbridge fosse adatto a sostenere una parte per cui andavo bene io. — Quello sbracciato! quell’ampolloso! — esclamai, per interrompermi però subito, pensando che era molto più dignitoso ignorare certi colleghi… ammesso che si possa chiamarli colleghi. Ma quel pappagallo era talmente pieno di sé che… be’, se doveva baciare la mano di una dama, Trowbridge faceva solo finta, e si baciava il pollice. Un narcisista, una posa, una doppia finzione. Come poteva vivere un personaggio, uno come lui?

Eppure, l’ingiustizia della sorte è tanto profonda che i gesti esagerati e la retorica di Trowbridge rendevano bene, mentre i veri artisti facevano la fame.

— Dak, non riesco a capire come abbiate potuto pensare a lui.

— Be’, non proprio. Ha un contratto per una lunga serie di recite, e la sua assenza si noterebbe subito; farebbe sorgere un mucchio di domande. Ma per fortuna abbiamo trovato lei che era… ehm, "senza impegni". Appena lei ha accettato il lavoro, ho detto a Jacques di comunicare all’altro gruppo di sospendere i tentativi d’entrare in contatto con Trowbridge.

— Vorrei ben credere!

— Però… senta, Lorenzo, voglio essere chiaro. Mentre lei era occupato a rimettere il pranzo di ieri, appena spenti i motori, ho chiamato la Passa al primo turno! perché avvertano giù di riprendere i contatti con Trowbridge.

— Cosa?

— Mi ha costretto lei, amico. Vede, quando uno di noi accetta di portare una carretta su Ganimede, vuol dire che quella carretta, su Ganimede, la porta… oppure che muore per portarcela; non perdiamo i nervi cercando di "svicolare" mentre viene fatto il carico. Lei ha detto che accettava il lavoro: punto e basta. Niente "se", "ma", "però". Poi poco più tardi, a causa di un po’ trambusto, lei ha una crisi di nervi. Ancora più tardi, al Campo, lei cerca di darmi il blu. E solo dieci minuti fa, è tutto un pianto per ritornare su terrasporca. Lei sarà forse più bravo di Trowbridge come attore. Non lo so. Io so solamente che abbiamo bisogno di un uomo su cui si possa contare, che non perda i nervi quando si arriva al dunque. E mi dicono che Trowbridge è uno su cui si può contare. Così, adesso, se riusciamo ad avere Trowbridge, prendiamo lui; diamo a lei il benservito, non le diamo altre informazioni, la rimandiamo indietro. Capito?

Capivo fin troppo bene. Dak non l’aveva detto, e forse non ne sapeva neppure il significato esatto, ma mi faceva capire che non ero un vero attore. E il peggio è che aveva ragione. Non avevo ragione d’arrabbiarmi: potevo solo arrossire di vergogna. Ero stato un idiota ad accettare il contratto senza informarmi meglio, però avevo accettato, senza porre condizioni o comode scappatoie. E adesso cercavo di tirarmi indietro come un filodrammatico preso dal panico alla prima recita.

"Lo spettacolo deve continuare" è il più antico motto della gente di teatro. Forse non contiene nessuna verità filosofica, ma ben di rado le cose che gli uomini vivono possono venire dimostrate in base alla logica. Mio padre ci aveva creduto… l’avevo visto recitare per due atti con l’appendice perforata, e inchinarsi ancora agli applausi, prima di lasciarsi condurre all’ospedale. E ora mi pareva di vederlo davanti a me, con il viso atteggiato al sommo disprezzo dei veri professionisti per l’attorucolo disposto a lasciare il pubblico a bocca asciutta.

— Dak — dissi umilmente — mi dispiace. Ho agito male.

Lui mi lanciò un’occhiata penetrante. — Accetta il lavoro?

— Sì — risposi, ed ero sincero. Ma subito mi venne in mente un particolare che m’avrebbe impedito di recitare la parte, come se si fosse trattato d’impersonare Biancaneve nei Sette nani.

— Sì — ripetei. — Cioè… mi piacerebbe. Ma…

— "Ma" cosa? — domandò lui con profondo disprezzo. — Un altro di quei suoi maledetti capricci?

— No, no! Però mi ha detto che si va su Marte… Dak, dovrò fare questo lavoro di sostituzione in mezzo ai marziani?

— Eh?… Certo. Chi vuole che ci sia, su Marte?

— Già… Ma, Dak… io proprio non li posso sopportare! Mi fanno venire la tremarella. Mi sforzerò come posso… cercherò di resistere, ma la sostituzione potrebbe far fiasco.

— Ah, se si preoccupa solo di questo, lasci perdere.

— Come posso lasciar perdere? Non posso far a meno di provare ribrezzo.

— Le ho detto di lasciar perdere. Senta, amico, sappiamo già benissimo che lei è bifolco su tante cose. Sappiamo tutto, di lei. Lorenzo, il suo ribrezzo per i marziani è una cosa puerile e irragionevole come la paura dei ragni o dei serpenti. Noi ne abbiamo già tenuto conto, e prenderemo i provvedimenti del caso. Quindi, le ripeto per la terza volta: lasci perdere.

— Be’… allora… — Non mi sentivo molto convinto, ma le sue parole mi avevano punto sul vivo. "Bifolco"… Ma come!? I bifolchi sono il pubblico! Così mi guardai bene dall’insistere.

Dak prese il laringofono, senza preoccuparsi d’infilare la bocca nella mascherina antifonica. — Dente di Leone a Ranuncolo. Dente di Leone a Ranuncolo. Annullare il piano Macchia d’inchiostro. Proseguiamo con Mardi Gras.

— Dak — lo chiamai mentre dava il segnale di chiusura.

— Più tardi… — mi rispose. — Devo mettermi sulla loro orbita. È probabile che il contatto sarà un pochino rude, perché non posso perder tempo a controllare al millesimo. Quindi stia zitto e si tenga forte.

Non aveva torto: fu davvero rude. Quando ci fummo finalmente trasferiti sulla nave torcia, fui lieto di tornare alla cara vecchia caduta libera; gli scrolloni dell’attracco sono perfino peggiori del vecchio, caro mal di spazio. Non restammo più di cinque minuti in caduta libera. I tre uomini che dovevano tornare a terra sulla Puoi farcela si pigiarono nella cabina pressurizzata mentre noi fluttuavamo a bordo della Passa al primo turno! Seguì qualche momento di gran confusione per me. Credo proprio di essere un terricolo fino all’osso, se mi disoriento con tanta facilità quando non distinguo il soffitto dal pavimento. Qualcuno gridò: — Dov’è? — Un altro rispose: — Eccolo! — (era la voce di Dak, questa). Poi la voce che aveva parlato per prima esclamò: — Lui? — come se non credesse ai propri occhi.

— Sì, sì! — ripeté Dak. — Adesso è truccato… Lascia perdere, è tutto a posto. Dammi una mano a metterlo sotto torchio.

Una mano mi afferrò per il braccio e mi trascinò lungo uno stretto passaggio fino a una cabina. Contro una parete c’erano due cuccette d’alta accelerazione, i "torchi per olio", a forma di vasca da bagno: cuscini idraulici a pressione uniforme, in uso sulle navi torcia. Non ne avevo mai visto uno prima, ma li conoscevo già approssimativamente, perché ne avevamo usato delle perfette imitazioni nel dramma spaziale I commando di Terra 1.

Sulla parete, dietro le cuccette, c’era scritto con la matita rossa: ATTENZIONE — Vietato usare torchi a più di 3 g senza tuta — Ordine di… La scritta ruotò lentamente fuori del mio campo visivo prima che riuscissi a leggerla tutta, e qualcuno mi spinse dentro il "torchio". Dak e un altro erano intenti a legarmi febbrilmente con le cinture di sicurezza quando un campanello si mise a suonare orribilmente, poco lontano. Continuò per diversi secondi, poi smise; una voce disse: — Avviso! Due g! Tre minuti! Avviso! Due g! Tre minuti! - Poi il campanello riprese a suonare.

In tutto quel baccano, sentii la voce di Dak domandare in tono insistente: — Il proiettore è a posto? I nastri sono pronti?

— Sì, sì.

— La siringa? — Dak mi fluttuò davanti e mi disse: — Senta, amico, adesso le facciamo un’iniezione. Niente paura. Si tratta di due preparati: in parte è Gravitiol, il resto è uno stimolante… perché lei deve star sveglio a studiare la parte. Sulle prime sentirà un bruciore agli occhi e un po’ di prurito, ma non c’è niente da temere.

— Un momento, Dak, io…

— Non c’è tempo! Devo fumar via questo barcone di rottami. — Fece una capriola a mezz’aria e uscì prima che avessi il tempo di protestare. Il secondo individuo mi arrotolò fin sopra al gomito la manica sinistra, mi appoggiò una pistola ipodermica contro la pelle, e in un batter d’occhio m’iniettò un liquido nella vena. Se ne andò immediatamente, mentre l’altoparlante ritornava a gridare: — Avviso! Due g! Due minuti!

Mi sforzai di guardarmi intorno, ma l’iniezione accresceva la mia confusione. Mi sentivo bruciare occhi e gengive, e cominciavo a sentire un prurito insopportabile lungo la schiena, ma le cinghie che mi legavano m’impedivano di grattarmi l’area tormentata… e probabilmente anche di spezzarmi un braccio sotto accelerazione.

Il campanello smise di nuovo di suonare, e questa volta rimbombò dall’altoparlante la voce di Dak, baritonale e sicura di sé: — Ultimo avviso! Due g! Un minuto! Mettete via le carte da gioco e spicciatevi ai vostri posti, lazzaroni! Tra un po’ si fuma! — Invece del campanello, questa volta ci fu una registrazione di Ad astra, Opera 61 in Do maggiore di Arkezian. Era la polemica esecuzione della London Symphony Orchestra, con la serie delle quattordici note "terrificanti" scandita dai timpani. Ma io ero talmente depresso, confuso, e imbottito di farmaci che non fecero alcun effetto su di me. Cosa volete, era come far piovere sul bagnato.

Una sirena si affacciò alla porta. Intendiamoci, non aveva una coda di pesce, verde e squamosa, tuttavia mi sembrò proprio una sirena quando entrò fluttuando a mezz’aria nella cabina. Quando la vista mi si schiarì abbastanza, vidi che sembrava trattarsi invece d’una giovane donna in maglietta e calzoncini, decisamente mammifera. Nuotava a mezz’aria nella mia direzione, con la sicurezza di un’esperta di caduta libera; mi diede un’occhiata senza accennare a sorrisi, si pilotò fino all’altro "torchio" e afferrò le maniglie senza curarsi di allacciare le cinghie di sicurezza. La musica era giunta al finale maestoso, e io mi sentivo pesante, molto pesante.

Due g non sono poi tanti, specialmente quando si sta galleggiando su un letto liquido. Sulla superficie del "torchio" si erano gonfiati una serie di cuscini di materia plastica e morbida: esercitavano la giusta pressione e mi reggevano completamente. Provavo solo una gran sensazione di peso e una certa difficoltà nel respirare. Si sente spesso raccontare di piloti che "torciano" a 10 g e che si riducono a rottami, e credo che quelle storie siano vere. Ma 2 g, presi su una cuccetta idraulica, vi fanno sentire solo fiacco, incapace di muovervi.

Avevo la testa così confusa che mi ci volle del tempo prima d’accorgermi che l’altoparlante sul soffitto stava parlando proprio a me. — Lorenzo? Come va, vecchio marpione?

— Bene. — Lo sforzo di parlare mi faceva ansimare. — Quanto deve durare questa faccenda?

— Due giorni circa.

Mi sfuggì un lamento, e Dak scoppiò a ridere. — La smetta di frignare, marmocchio! La prima volta che andai su Marte impiegai trentasette settimane, tutte in caduta libera su un’orbita ellittica. Lei invece viaggia sulla rotta più comoda, sotto 2 miserabili g per un paio di giorni… e poi ci sarà un periodo a un solo g a metà viaggio per voltare la nave, se le interessa. Dovremmo farle pagare un supplemento sul biglietto!

Stavo per dirgli cosa pensavo di lui e del suo umorismo, con le più feroci battute da caserma, quando mi ricordai che era presente una signora. Mio padre mi diceva sempre che una donna è disposta a perdonare qualsiasi azione, ivi compresi gli approcci con violenza, ma le parole sconvenienti la urtano. La più gentile metà del genere umano dà molto valore ai simboli verbali… cosa piuttosto strana, dato il suo estremo senso pratico. Comunque sia, non mi sono mai lasciato sfuggire una parola meno che conveniente in presenza di una signora, dal giorno in cui il dorso della mano di mio padre mi era calato duramente sulla bocca. Mio padre avrebbe potuto dare dei punti al professor Pavlov, in fatto di condizionamento dei riflessi.

— Penny! — stava dicendo intanto Dak. — Ci sei anche tu, piccola impertinente?

— Sì, capitano — rispose la giovane donna che era in cabina con me.

— Va bene, allora comincia a fargli un po’ di doposcuola. Io scenderò appena questa trappola sarà sulla rotta.

— Benissimo, capitano. — La ragazza voltò la testa verso di me e mi disse con bellissima voce di contralto, tutt’al più un po’ fioca: — Il professor Capek le consiglia di cercare di rilassarsi, e di limitarsi a osservare i nastri per qualche ora. Io posso rispondere alle sue eventuali domande.

— Grazie a Dio — sospirai — finalmente ho trovato qualcuno disposto a rispondere alle mie domande!

Non rispose ma, non senza difficoltà, sollevò un braccio per girare un interruttore. Le luci si spensero, e davanti ai miei occhi si materializzò un’immagine tridimensionale. Riconobbi subito la figura che stava al centro della scena… così come l’avrebbero riconosciuta i miliardi di cittadini dell’Impero… e finalmente capii fino a che punto, spietatamente, mi avesse ingannato Dak Broadbent.

Era Bonforte.

Proprio lui, Bonforte… l’Onorevolissimo John Joseph Bonforte, ex Primo Ministro, capo dell’opposizione di Sua Maestà l’Imperatore, leader della Coalizione espansionista: l’uomo più amato (e più odiato!) di tutto il Sistema Solare.

La mia mente attonita fece un prodigioso balzo immaginario, e giunse a quella che sembrava la conclusione ovvia. Bonforte era sopravvissuto a tre attentati almeno, o così ci volevano far credere i giornalisti. Due volte su tre era riuscito a salvarsi per miracolo. E se invece non ci fosse stato nessun miracolo? E se gli attentatori avessero sempre colto nel segno ma il caro John Bonforte, con la sua aria da vecchio zio affettuoso, non fosse mai stato sul luogo dell’attentato?

A far come lui, si può consumare un mucchio d’attori.

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