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Riuscimmo, non so come, ad arrivare anche all’ultimo giorno della campagna elettorale. Di Bill non ci giunsero più notizie. Dalle liste dei passeggeri dei traghetti lunari scoprimmo che era ritornato sulla Terra due giorni dopo il suo fiasco. Può darsi che qualche giornale abbia riportato tutta la storia del clamoroso incidente, ma noi non ne venimmo mai a conoscenza, né Quiroga vi fece mai cenno nei suoi discorsi.

L’onorevole Bonforte continuò a migliorare; c’era quasi la certezza che dopo le elezioni avrebbe potuto riprendere il suo posto. In parte la paralisi continuava a sussistere, ma avevamo preparato una spiegazione anche per quella: per prima cosa, egli si sarebbe preso un periodo di riposo subito dopo le elezioni, come facevano abitualmente quasi tutti gli uomini politici, trascorrendo la vacanza sulla Tom Paine, al sicuro da tutto e da tutti. Poi, in un dato momento durante il viaggio, io sarei stato trasferito di nascosto e riportato clandestinamente sulla Terra, mentre gli altri avrebbero diffuso la voce che il Capo, in seguito agli strapazzi della campagna elettorale, aveva sofferto di un piccolo collasso.

Rog avrebbe dovuto rimettere a posto una certa quantità d’impronte digitali, ma poteva provvedere con calma a questo aspetto della sostituzione, attendendo fino a un anno o anche più.

Il giorno delle elezioni mi sentivo felice come un gattino nella scatola delle scarpe. La sostituzione era ormai terminata, anche se dovevo ancora compiere qualche breve "siparietto". Avevo già registrato due discorsi per la rete stereovisiva imperiale, entrambi della durata di cinque o sei minuti. In uno mi dichiaravo magnanimamente soddisfatto della vittoria, nell’altro ammettevo con signorilità la sconfitta; il mio lavoro terminava lì. Una volta registrata l’ultima parola e impacchettato il nastro, afferrai Penny e la baciai. Parve che lei non se ne accorgesse neppure.

L’ultimo "numero" che mi restava da fare era ordinato dall’alto. L’onorevole Bonforte voleva vedermi nei suoi panni prima che lasciassi per sempre la parte. Ora la cosa non mi dava più disturbo. Finito il periodo del massimo sforzo, non correvo più alcun pericolo nel fargli visita; recitare la sua parte per intrattenere lui stesso sarebbe stato un qualsiasi numero d’imitazione, con la sola differenza che l’avrei recitato dal vero. Ma cosa sto dicendo? Recitare dal vero è l’essenza stessa della professione drammatica!

S’era convenuto che tutti gli intimi si sarebbero riuniti nel salotto belvedere perché Bonforte, dopo essere rimasto al chiuso per varie settimane, desiderava rivedere almeno le stelle. Lì avremmo ascoltato i risultati elettorali, e poi avremmo brindato alla vittoria o annegato il dispiacere della sconfitta nell’alcol, ripromettendoci di far meglio la prossima volta. Cancellate per favore il mio nome dal cast della "prossima volta"; lì terminava la mia prima e ultima campagna elettorale, e non desideravo ritornare mai più alla politica. Non ero neppure sicuro di desiderare di ritornare a recitare. Recitare ogni minuto, ininterrottamente, per più di sei settimane, equivale a circa cinquecento rappresentazioni di lunghezza normale. Ero già stato fin troppo tempo sulla ribalta.


Lo portarono su con l’ascensore, dopo averlo fatto accomodare su una poltrona a rotelle. Io non mi feci vedere, e lasciai che lo sistemassero sul divano prima di fare il mio ingresso; un uomo ha il diritto di non mostrare la sua debolezza di fronte agli estranei. Inoltre volevo che il mio ingresso sulla scena si svolgesse secondo tutte le regole.

Al vederlo, la sorpresa fu tale che per poco non dimenticai la parte. Somigliava a mio padre!… Oh, era solo una vaga rassomiglianza "di famiglia"; io e lui ci somigliavamo molto di più di quanto entrambi non somigliassimo a mio padre, ma la somiglianza c’era, e anche l’età, perché Bonforte appariva decisamente vecchio. Non avrei supposto di trovarlo invecchiato così. Era esile, emaciato, e aveva i capelli completamente incanutiti.

Al primo sguardo presi mentalmente nota che, durante le ormai prossime vacanze nello spazio, io avrei dovuto aiutarlo a prepararsi per il passaggio delle consegne. Senza dubbio Capek avrebbe trovato il modo di mettergli un po’ di carne sulle ossa, ma anche nel caso contrario si può sempre riuscire a far apparire un po’ più robusto un uomo, senza doverlo imbottire in modo appariscente. Io stesso, inoltre, avrei potuto tingergli i capelli. Spostando l’annuncio del collasso che l’aveva colpito, poi, si potevano spiegare anche certe piccole differenze altrimenti ingiustificabili. In fin dei conti, egli aveva davvero subito tutto quel cambiamento in poche settimane; occorreva solo evitare che la cosa facesse ritornare alla mente le voci di una sostituzione.

Ma questi particolari d’ordine pratico si affacciavano da soli in un angolino della mia mente perché, dominante sopra ogni altro sentimento, mi sentivo sopraffatto dall’emozione. Per quanto fosse malato, da quell’uomo emanava una grande forza, sia spirituale che fisica. Sentii quella scossa di sacralità e di calore che si prova quando si ammira per la prima volta la grande statua di Abramo Lincoln. E mi ricordai anche di un’altra statua, vedendolo disteso sul divano con le gambe e la parte immobilizzata coperte da uno scialle: il Leone Ferito di Lucerna. Ne aveva la stessa forza, la stessa dignità imponente, anche se inerme: "La Guardia muore ma non si arrende".

Alzò lo sguardo su di me, vedendomi entrare; mi sorrise con quel sorriso calmo, benevolo, pieno di comprensione che avevo imparato a imitare, e mi fece un gesto con la mano sana perché mi avvicinassi. Gli rivolsi un sorriso, identico al suo, e mi avvicinai a lui. Mi strinse la mano con una stretta sorprendentemente forte e mi disse con cordialità: — Sono felice d’incontrarla, finalmente. — Parlava con una certa difficoltà, e ora, vedendolo da vicino, mi accorgevo come la parte del volto più distante da me rimanesse immobile.

— Mi sento onorato e felice di fare la sua conoscenza, signore. — Dovevo dominarmi con sforzo per non imitare il suo modo di parlare inceppato dovuto alla paralisi.

Mi osservò a lungo, da capo a piedi, poi commentò, sorridendo: — A quanto vedo, lei la mia conoscenza l’ha già fatta…

Piegai il capo e mi diedi un’occhiata anch’io. — Ho cercato, signore.

— "Cercato!" Lei c’è riuscito perfettamente. Fa davvero uno strano effetto, vedersi davanti a se stessi…

Compresi con doloroso stupore che non si rendeva conto di come fosse cambiato; l’aspetto con cui mi ero presentato davanti a lui gli sembrava sempre essere il "suo", e tutti i mutamenti sopravvenuti nel suo fisico non venivano presi in considerazione: li giudicava temporanei, portati dalla malattia. Intanto continuava a parlare:

— Le spiacerebbe fare qualche passo per la stanza? Sarei curioso di vedermi, cioè vedere lei… sì, vedere noi; per una volta voglio guardare dal punto di vista del pubblico.

Allora io raddrizzai le spalle e feci qualche passo per la stanza; parlai a Penny (la poverina continuava a osservare prima l’uno e poi l’altro, e aveva l’aria smarrita), presi un giornale, mi passai un dito nel colletto e mi strofinai il mento, mi tolsi la verga marziana da sotto il braccio e ci giocherellai un poco.

Bonforte mi guardava deliziato. Mi sentii in dovere di concedergli un piccolo extra. Ritto in mezzo al tappeto, pronunciai le frasi finali di uno dei suoi migliori discorsi, senza preoccuparmi di ripeterlo parola per parola, ma interpretandolo, lasciando che spumeggiasse, che scorresse fluente e che scrosciasse, come avrebbe fatto lui. Terminai con le sue stesse parole: — Non si può liberare uno schiavo se non è lui stesso a liberarsi, né si può rendere schiavo un uomo libero; il massimo che si può fare è ucciderlo.

Al termine della perorazione vi fu un silenzio reverente e commosso, rotto subito da uno scroscio d’applausi. Bonforte stesso batteva sul divano con l’unica mano capace di muoversi e gridava: — Bravo!

Fu l’unico applauso che ricevetti per tutta la durata della mia interpretazione. Ma fu sufficiente.

Poi Bonforte volle che andassi a sedermi accanto a lui. Vidi che dava un’occhiata alla verga e gliela consegnai.

— C’è la sicura, signore.

— Sì, so come si usa. — La osservò con attenzione, poi me la ridiede. Avevo pensato che se la sarebbe tenuta; poiché non l’aveva fatto, decisi di consegnarla a Dak perché gliela desse poi. Mi chiese affabilmente di me e disse di non ricordare d’avermi mai visto sulla scena, ma di avere visto un’interpretazione di mio padre del Cirano. Faceva uno sforzo enorme per controllare i movimenti della bocca, che tendeva a storcersi, e parlava chiaramente ma con penosa lentezza.

Poi mi domandò che intenzioni avessi per l’avvenire. Gli confessai di non aver fatto ancora progetti, e lui assentì. — Vedremo — mi disse. — C’è posto anche per lei. Abbiamo ancora molto lavoro da fare. — Non fece parola di compensi e ciò mi colmò d’orgoglio.

I risultati elettorali stavano cominciando ad arrivare; Bonforte rivolse l’attenzione allo stereovisore. Naturalmente, i risultati stavano già affluendo da quarantotto ore perché i mondi esterni e i collegi elettorali non legati a una circoscrizione definita votano prima della Terra, e perché anche sulla Terra un "giorno" d’elezioni dura più di trenta ore, a causa dei diversi fusi orari. Ma ora cominciavano ad arrivare i risultati delle circoscrizioni importanti dei grandi continenti. Avevamo iniziato già il giorno prima ad azzardare pronostici basati sui risultati delle circoscrizioni esterne, e Rog s’era sentito in dovere di dirmi che non avevano molto significato; il Partito espansionista stravinceva sempre sui mondi esterni. Ad avere realmente importanza erano i miliardi di persone che si trovavano sulla Terra: quelle che non se n’erano mai allontanate e che non avevano alcuna intenzione di farlo.

Ma tutti i voti esterni ci erano utili. Il Partito agrario di Ganimede aveva conquistato cinque seggi su sei; faceva parte della Coalizione, e il Partito espansionista non aveva messo in lista neppure candidati simbolici. La situazione su Venere era invece molto più pericolosa: i venusiani erano divisi in decine di partiti che si distinguevano tra loro per qualche sottilissima sfumatura di teologia politica, incomprensibile agli esseri umani. Tuttavia pensavamo che la maggior parte dei voti indigeni sarebbe stata per noi, sia direttamente, sia per mezzo di coalizioni patteggiate al vertice, da decidersi dopo le elezioni; inoltre avremmo dovuto prendere anche quasi tutti i voti umani del pianeta. Le restrizioni imperiali imponevano agli indigeni di eleggere esseri umani come loro rappresentanti a New Batavia; Bonforte si era impegnato a far togliere queste restrizioni: la cosa ci aveva fatto guadagnare voti su Venere, ma non si poteva ancora dire quanti voti ci avrebbe fatto perdere sulla Terra.

Poiché i nidi inviavano all’Assemblea solo degli osservatori, l’unico voto marziano che contasse era quello umano. Le simpatie popolari erano per noi; i nostri avversari avevano in mano l’amministrazione politica. Ma se non ci fossero stati brogli elettorali, ci aspettavamo un’affermazione clamorosa.

Dak era al fianco di Rog, chino su un calcolatore; Rog aveva davanti a sé un grosso foglio di carta su cui stava facendo calcoli servendosi di una complicata formula bilanciata di sua invenzione. Una decina dei più potenti cervelli elettronici del Sistema Solare stavano eseguendo gli stessi calcoli, quella notte, ma Rog si fidava soltanto delle sue congetture. Una volta Rog aveva affermato di riuscire a passare per una circoscrizione, di "annusare" l’aria, e d’arrivare a un risultato che non si discostava più del due per cento da quello giusto. Credo che dicesse il vero.

Il professor Capek rimaneva tranquillamente seduto, le spalle appoggiate allo schienale, le mani sulla pancia, rilassato come un bruco. Penny non faceva che camminare avanti e indietro, mettendo a posto le cose in disordine e viceversa, e portandoci da bere. Evitava accuratamente di guardare sia me che l’onorevole Bonforte.

Era la prima volta che partecipavo a un party della notte dell’elezione. Queste festicciole sono diverse da qualsiasi altra. Si ha una sensazione calda, intima, dove tutte le passioni si sono consumate. In definitiva non ha poi molta importanza la decisione degli elettori: avete fatto del vostro meglio, siete in mezzo agli amici e ai conoscenti, e per un certo periodo non c’è nessuna preoccupazione, nessuna tensione, nonostante una certa eccitazione comune per i risultati che stanno per giungere. È come quando la torta è ormai cotta: occorre solo metterci lo zucchero vanigliato.

Non ricordavo d’avere avuto da molto tempo dei momenti così tranquilli.

Rog alzò gli occhi, mi osservò, poi parlò all’onorevole Bonforte: — Questi risultati dell’Europa hanno gli alti e bassi di un’altalena. Gli americani stanno immergendo la punta del piede prima di venire in massa dalla nostra parte; si chiedono: "Quanto sarà profonda quest’acqua?".

— Può già fare una previsione, Rog?

— Non ancora. Sì, il voto popolare è nostro, ma se si vanno a calcolare i seggi alla Grande Assemblea, al momento attuale potrebbe ancora esserci una maggioranza di una decina di rappresentanti sia per noi che per loro. — Si alzò. — Forse è meglio che vada a fare un giro in città.

A dire il vero, ci sarei dovuto andare io, nelle mie vesti di "onorevole Bonforte". È infatti naturale che il leader politico si faccia vedere alla sede del Partito per qualche momento, nella notte dell’elezione. Ma io non mi ero mai fidato d’entrare nella sede, perché è uno di quei posti dove trovi sempre qualcuno che t’attacca bottone, imprevedibilmente: lì la mia sostituzione correva il rischio di farsi scoprire. La "malattia" mi aveva sempre fornito una scusa per non andarci durante la campagna elettorale; nella notte dell’elezione non valeva il rischio di fare atto di presenza, e così sarebbe andato Rog al posto mio, a stringere mani, a fare sorrisi, e a prestarsi agli abbracci e ai pianti commossi delle attiviste che s’erano sobbarcate la parte più dura e interminabile del lavoro d’ufficio. — Tornerò tra un’ora.

La nostra piccola festicciola si sarebbe dovuta svolgere sotto, al piano inferiore, e avrebbero dovuto parteciparvi tutti gli impiegati dell’ufficio, soprattutto Jimmie Washington; ma non lo si sarebbe potuto fare senza escluderne automaticamente lo stesso onorevole Bonforte. Anche gli impiegati, naturalmente, stavano facendo una festicciola identica alla nostra. Mi alzai. — Rog — dissi — vengo anch’io a salutare le ragazze di Jimmie.

— Come? Non ce n’è bisogno, lo sa.

— Sì, ma mi pare che sarebbe la cosa giusta da fare, no? E poi non mi dà nessun fastidio, e non mi pare comporti dei rischi. — Mi volsi verso l’onorevole Bonforte. — Lei che ne pensa, signore?

— Ne sarei felicissimo.

Scendemmo con l’ascensore e attraversammo le stanze deserte e silenziose dell’appartamento, poi passammo per il mio ufficio e per quello di Penny. Al di là di quella porta c’era una specie di manicomio. Un ricevitore stereo, portato lì per seguire i risultati, berciava a pieno volume; per terra era pieno di cicche e di bicchieri di carta sporchi, e tutti stavano fumando, o bevendo, o tutt’e due le cose. Perfino Jimmie Washington reggeva un bicchiere in mano mentre ascoltava i risultati. Si limitava solo a reggerlo, a dire il vero: Jimmie era astemio e non fumava. Senza dubbio glielo doveva avere passato qualcuno, e lui l’aveva tenuto; Jimmie aveva un senso molto sviluppato: quello "della cosa giusta al momento giusto".

Feci il giro delle stanze, sempre con Rog al fianco, fermandomi a scambiare qualche parola con questo e con quello, e ringraziai con particolare calore e sincerità Jimmie Washington. Poi, accusando molta stanchezza, mi accinsi a congedarmi. — Vado di sopra a riposarmi un po’, Jimmie. Vuole scusarmi lei presso gli altri?

— Certo, signore. Lei dovrebbe prendersi un po’ più cura di sé, se posso dirlo, signor Primo Ministro.

Risalii quindi nel salotto panoramico, mentre Rog invece usciva verso le gallerie pubbliche e la sede del Partito.

Appena uscii dall’ascensore, vidi Penny venirmi incontro in punta di piedi, con il dito indice sulle labbra. Bonforte s’era assopito e avevano messo al minimo l’audio dello stereovisore. Dak era seduto davanti alle immagini e riempiva di cifre un foglio di carta, in attesa del ritorno di Rog. Capek non s’era mosso. Mi fece un segno col capo e levò verso di me il bicchiere.

Accettai da Penny uno scotch con soda, poi uscii nella terrazza belvedere. Era notte, tanto d’orologio quanto di fatto, e la Terra era quasi piena, accecante in mezzo a una miriade di stelle scintillanti come gemme. Scorsi l’America del Nord e cercai d’individuare la piccola macchia da cui m’ero allontanato solo poche settimane prima; mi sforzai di non lasciarmi sopraffare dalla commozione.

Poco dopo, ritornai nel salotto: sulla Luna la notte fa un effetto troppo sconvolgente. Rog ritornò dopo qualche decina di minuti e si rimise sopra i suoi calcoli senza dire parola. Mi accorsi che Bonforte era di nuovo sveglio.

Cominciavano a giungere i risultati decisivi, e tutti rimanevano in silenzio per permettere a Rog con la sua matita e a Dak con il suo regolo di lavorare senza essere disturbati. Dopo un lungo, lunghissimo intervallo Rog spinse indietro la sedia. — Ci siamo, Capo — disse, senza alzare gli occhi. — Siamo in vincita. Una maggioranza di almeno sette seggi, probabilmente diciannove, forse anche trenta.

Dopo una pausa, Bonforte domandò tranquillamente: — Ne è sicuro?

— Sicurissimo. Penny, per favore, cambi canale, così controlliamo.

Io andai a sedermi accanto a Bonforte. Avevo la gola chiusa e non riuscivo a parlare. Lui mi dette un colpetto paterno sulla mano e tutt’e due restammo con lo sguardo fisso sullo stereovisore. La prima stazione che Penny riuscì a captare stava dicendo: — … alcun dubbio, amici. Otto cervelli elettronici dicono di sì. Il CURIAC dice forse. Il Partito espansionista ha ottenuto una decisiva… — Penny passò a un altro canale.

— … conferma per i prossimi cinque anni il suo mandato provvisorio. Non riusciamo a metterci in contatto con l’onorevole Quiroga per ottenere dichiarazioni, ma il suo organizzatore generale, da noi intervistato a New Chicago, afferma che non è più possibile che s’inverta l’attuale…

Rog si alzò per andare al visifono; Penny abbassò l’audio dello stereovisore perché non lo disturbasse. Restammo a guardare l’annunciatore muovere la bocca; probabilmente ripeteva con parole diverse le cose che già conoscevamo.

Rog ritornò, e Penny aumentò di nuovo il volume. L’annunciatore parlò per un istante, poi si fermò, lesse qualcosa su un foglio di carta che qualcuno gli aveva passato, rialzò la testa con un largo sorriso. — Amici e concittadini! Ora lascio la parola al Primo Ministro per una comunicazione!

La sua immagine scomparve e fu sostituita dal mio discorso di vittoria.

Rimasi a guardarmi, raggiante; provavo un complesso d’emozioni confuse e commosse, tutte d’una soddisfazione quasi dolorosa. Avevo messo molto impegno in quel discorso, e lo sapevo; avevo un aspetto stanco, sudato, ma avevo anche un’espressione di tranquillo trionfo. Suonava proprio adatto all’occasione.

Ero appena arrivato a: — Avanziamo dunque uniti, con la libertà per tutti… — quando udii uno strano rumore alle mie spalle.

— Onorevole Bonforte! — gridai. — Professore! Professore! Svelto!

L’onorevole Bonforte annaspava verso di me con la destra, come a richiamare la mia attenzione, e apriva penosamente la bocca nell’inutile sforzo di dirmi qualcosa d’importante. Ma non ci riuscì; la sua povera bocca si rifiutò di servirlo, e la sua indomita forza di volontà non riuscì a farsi obbedire dal corpo ormai troppo provato.

Lo presi tra le braccia, ma ormai era già entrato in respirazione Cheyne-Stokes e dopo pochi istanti sopraggiunse la fine.

Dak e Capek riportarono la salma nella sua stanza con l’ascensore. Io non sarei stato capace di muovere un dito. Dak venne a darmi un’affettuosa manata sulla spalla, poi se ne andò. Penny era già scesa con gli altri. Dopo un po’ uscii sulla balconata. Sentivo il bisogno di un po’ d’"aria fresca", anche se lì c’era la stessa aria della sala, pompata attraverso il sistema di condizionamento. Tuttavia sembrava un poco più fresca sulla terrazza.

L’avevano ucciso. I suoi nemici l’avevano ucciso, proprio come se gli avessero piantato un coltello nella schiena. Nonostante tutto quello che avevamo fatto, nonostante i rischi che avevamo corso, alla fine erano riusciti ad assassinarlo. "Mai crimine fu più scellerato!"

Mi sentivo annientato, istupidito dal colpo. Avevo visto morire "me stesso", avevo rivisto morire mio padre. Capivo, in quel momento, perché quando muore un fratello siamese è così difficile che l’altro si salvi. Ero come svuotato.

Non so per quanto tempo restai lì, solo. Ricordo che d’improvviso sentii la voce di Rog chiamare: — Capo?

Mi volsi. — Rog — gli dissi con intensità — non mi chiami così, la prego.

— Capo — insisté lui — lei sa quello che le resta da fare, no?

Provai un senso di vertigine e mi parve che il suo viso si nascondesse dietro un velo di nebbia. Non sapevo a che cosa stesse alludendo… non volevo saperlo.

— Cosa intende dire?

— Capo… un uomo muore, ma lo spettacolo continua. Lei non può lasciarci ora.

La testa mi doleva; continuavo a vedere tutto confuso. Mi sembrava che Rog ondeggiasse avanti e indietro, e da lontano mi giungeva la sua voce: — … gli hanno strappato la possibilità di completare la sua opera. Deve dunque farlo lei al posto suo. Lei deve farlo rivivere!

Scossi la testa facendo un grande sforzo per rientrare in me e per rispondergli. — Rog — dissi lentamente, con voce stanca — lei non si rende conto di quello che dice. È assurdo. È ridicolo! Io non sono un uomo di Stato, ma soltanto un miserabile attore. Faccio delle smorfie per far ridere il pubblico, non sono capace di fare altro.

Con mio grande orrore, m’accorsi che stavo pronunciando quelle parole con la voce di Bonforte.

Rog mi guardò fisso. — Mi pare che fino a questo momento lei se la sia cavata benissimo.

Sforzandomi di ritornare alla mia vera voce, di riprendere il controllo della situazione, risposi: — Rog, lei è sconvolto. Non sa quel che dice. Quando sarà ritornato in condizioni normali, si renderà conto lei stesso dell’assurdità della sua richiesta. Lei ha ragione: lo spettacolo deve continuare. Ma non nel modo che dice lei. La cosa giusta da fare, l’unica cosa da fare, è che lei stesso diventi capo del Partito. L’elezione è vinta, avete la maggioranza; ora potete formare il nuovo Governo e passare a svolgere il vostro programma.

Mi guardò a lungo, poi scosse tristemente la testa. — Lo farei, se potessi, lo confesso. Ma non posso. Capo, ricorda quelle maledette riunioni del Comitato Direttivo? Era lei a tenerli a freno. Tutta la Coalizione è rimasta insieme grazie alla forza magnetica e al polso fermo d’un solo uomo. Se ora lei ci verrà a mancare, tutti gli ideali per cui lui è vissuto… ed è morto… cadranno a pezzi.

Non sapevo cosa rispondere. Forse Rog aveva ragione: nel corso del mese e mezzo precedenti avevo potuto vedere i complessi ingranaggi della politica. — Rog, anche se quello che dice è vero, la soluzione che mi prospetta è impossibile. Siamo riusciti a malapena a tener in piedi questa finzione mostrandomi solo in talune condizioni che erano frutto d’una attenta regia… e c’è mancato poco che ci scoprissero. Ma quanto a portare avanti la sostituzione una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, se capisco bene quello che lei intende dire… no, non si può fare. È assolutamente impossibile. Io non posso farcela!

— Sì che lei può! — Si piegò verso di me e mi disse con convinzione: — Ne abbiamo discusso tra noi, e ne conosciamo i rischi quanto lei. Ma lei avrà la possibilità di perfezionarsi gradualmente. Intanto, come inizio, due settimane nello spazio… diavolo, anche un mese, se vuole! Studierà per tutto il tempo: i suoi giornali, i suoi diari, i suoi quaderni d’appunti. S’immergerà in essi, e noi le saremo sempre accanto per aiutarla.

Non risposi. Egli continuò: — Vede, Capo, lei ha imparato che un personaggio politico non è un singolo uomo: è una squadra… una squadra tenuta insieme da uno scopo comune e da comuni convinzioni. Abbiamo perso il capitano della nostra squadra e ora ce ne occorre un altro. Ma la squadra c’è sempre.

Anche Capek era insieme a noi, sul balcone. Solo allora mi accorsi della sua presenza. — È anche lei dello stesso parere? — gli domandai.

— Sì.

— È suo dovere — aggiunse Rog.

Capek disse lentamente: — Non vorrei arrivare a dire questo. Ma spero che lei sia disposto a farlo. Però, accidenti, non intendo fare la parte della sua coscienza. Credo ancora nel libero arbitrio, per quanto possa sembrare superficiale questa affermazione sulle labbra d’un medico. — Si voltò verso Clifton. — È meglio che noi lo lasciamo, Rog. Lo sa anche lui. Sono decisioni che un uomo deve prendere da solo.

Ma, anche se se n’erano andati, non ero rimasto solo. Era sopraggiunto Dak. Con mio grande sollievo, non mi chiamò "Capo"; gliene fui riconoscente.

— Salve, Dak.

— Salve. — Rimase in silenzio per un istante, a fumare e a guardare le stelle. Poi si voltò verso di me. — Vecchio marpione, ne abbiamo viste delle belle, insieme! — cominciò. — Adesso la conosco bene, e sono disposto per l’avvenire ad aiutarla senza fare domande, sia con la pistola che col denaro o con i pugni. Se lei preferisce andarsene via adesso, non gliene farò certo un rimprovero; continuerò lo stesso a pensar bene di lei. Lei ha fatto anche troppo.

— Oh, grazie, Dak.

— Una sola parola, prima che me la squagli. Se lei decide di non farlo, quei farabutti che gli hanno lavato il cervello avranno vinto. Nonostante tutto avranno vinto.

Ritornò nella sala.

Ero sconvolto, confuso, dibattuto, incerto… mi lasciai andare all’autocommiserazione. Non era giusto! Avevo ancora la mia vita da vivere. Ero al vertice della mia abilità professionale e i massimi trionfi mi attendevano. Non era leale chiedermi di seppellirmi, forse per anni interi, nell’anonimato della sostituzione di un altro uomo… mentre il pubblico pian piano si dimenticava di me, gli impresari e gli agenti scordavano il mio nome, finendo forse per credermi morto.

Non era leale. Era chiedere troppo.

Poi allontanai da me questi pensieri, e per qualche tempo non pensai a nulla. La madreterra continuava a brillare nel cielo, serena, meravigliosa, immutabile. Mi chiedevo come potesse svolgersi laggiù la notte dell’elezione. Marte, Giove e Venere erano tutti in vista, appesi sullo zodiaco come medaglie. Naturalmente non riuscivo a vedere Ganimede e neppure la solitaria colonia sulla superficie del lontano Plutone.

"I mondi della speranza", li aveva chiamati Bonforte. Ma Bonforte era morto. Non c’era più. Gli avevano strappato il diritto di vivere che aveva acquisito con la nascita, gliel’avevano tolto proprio quando era giunto nella matura pienezza delle sue forze. Era morto.

E volevano affidare a me il compito di ricreare la sua persona, di farlo rivivere.

Sarei mai riuscito a farlo? Sarei mai stato all’altezza dei suoi nobili ideali? Cosa mi avrebbe detto di fare, se gli fosse stato ancora possibile? E se ci fosse stato lui al mio posto, come si sarebbe comportato? Mille e mille volte mi ero già chiesto, durante la campagna elettorale: – Che cosa farebbe adesso Bonforte?

Udii un fruscio alle mie spalle e mi voltai. Era Penny. La guardai e dissi: – Ti hanno mandato loro? Sei venuta a far opera di persuasione?

— No.

Non disse altro, e non sembrò attendersi risposta. Né ci guardammo direttamente. Il silenzio si protrasse a lungo. Alla fine lo ruppi dicendo: – Penny? Se tentassi, mi aiuteresti?

Lei si volse allora di scatto. – Sì. Oh, sì, Capo! L’aiuterò!

— E allora tenterò – dissi in tutta umiltà.


Scrissi queste parole venticinque anni fa, per cercare di mettere ordine nella mia confusione mentale. Mi sforzai di dire la verità senza esitazioni, perché queste pagine erano destinate ad essere lette esclusivamente da me e dal mio terapeuta, il professor Capek, e da nessun altro. Fa uno strano effetto rileggere dopo un quarto di secolo le parole sciocche, dettate dall’emozione, di quel giovanotto. Mi ricordo di lui, eppure non riesco a rendermi pienamente conto che fossi io. Mia moglie Penelope sostiene di ricordarsi di lui meglio di quanto non me ne ricordi io e mi assicura di non avere mai amato altri. Ecco come ci cambia il passare degli anni!

Scopro di poter "ricordare" meglio la vita precedente di Bonforte che non la mia vera vita nei panni di quella persona piuttosto patetica, Lawrence Smith, o (come amava darsi nome lui stesso) "Il Grande Lorenzo". Sono dunque pazzo, schizofrenico? Forse sì ma, se lo sono, questa pazzia mi è stata imposta dalla parte che dovevo recitare perché, per permettere a Bonforte di rivivere, quel piccolo attore dovette essere soppresso, completamente.

Pazzo o no, io sono cosciente del fatto che lui una volta è esistito, e che io sono stato lui. Non ebbe mai molto successo come attore, onestamente, anche se debbo riconoscere che talvolta fu sfiorato dalla genuina follia. La sua definitiva uscita di scena fu perfettamente in carattere. Conservo, non so dove, un ritaglio ingiallito di giornale in cui si legge che fu "trovato morto" in una stanza d'albergo a Jersey City, avvelenato da una dose eccessiva di sonnifero. A quanto pare l'aveva presa in un accesso d'abbattimento: il suo agente riferì che da diversi mesi non trovava scritture. A dire il vero, penso che non avrebbero dovuto ricordare il particolare che fosse senza lavoro: anche se non era una calunnia vera e propria, non era certo una cosa gentile da dirsi. Tra l'altro, dalla data del ritaglio, si deduce che non poteva assolutamente trovarsi a New Batavia, né in altre località, nel corso della campagna elettorale del '15.

Forse dovrei bruciare quel ritaglio.

Ma ormai, oltre a Dak e a Penelope, non è più vivo nessuno che sappia la verità, salvo forse coloro che assassinarono il corpo di Bonforte.

Sono stato a capo del governo tre volte, e tre volte il mio governo è caduto; forse la presente legislatura sarà l'ultima cui prenderò parte. La prima volta fui messo in minoranza dopo essere finalmente riuscito a far sedere nella Grande Assemblea gli extraterrestri: venusiani, marziani e gioviani esterni. Gli esseri non umani ci rimasero, e anch'io ritornai al governo. La gente è disposta ad accettare una certa quantità di riforme per volta. Poi desidera venir lasciata tranquilla. Ma le riforme restano. In verità la gente non ama i cambiamenti. Non vorrebbe mai alcun cambiamento, e la xenofobia è radicata molto profondamente. Ma noi andiamo avanti, perché occorre andare avanti se vogliamo arrivare alle stelle.

Mille e mille volte mi sono posto la domanda: – Che cosa farebbe adesso Bonforte? – e non sono sicuro di avere sempre dato la risposta giusta (anche se sono senza dubbio il più profondo conoscitore delle sue opere in tutto il Sistema Solare). Ma ho sempre cercato di agire in carattere con il suo personaggio. Molto tempo fa qualcuno (Voltaire, forse?) scrisse: "Se Satana dovesse mai sostituirsi a Dio, si accorgerebbe che gli è necessario agire come lui".

Non ho mai rimpianto la mia professione perduta. In un certo senso non l'ho perduta: Guglielmo aveva ragione. Ci sono anche altri tipi d'applausi, oltre al battere delle mani, e c'è sempre l'intimo compiacimento d'una buona recita. Io ho cercato, in un certo senso, di creare il perfetto capolavoro della professione drammatica. Forse non ci sarò riuscito pienamente, comunque penso che anche mio padre l'avrebbe definita "una buona interpretazione".

No, non rimpiango affatto la mia professione, anche se allora mi sentivo più felice… per lo meno dormivo più tranquillo. In fin dei conti, si prova un certo tipo solenne di soddisfazione, quando si fa del proprio meglio per otto miliardi di persone.

Forse la loro vita non è importante di fronte alla vastità del cosmo, ma anch'essi hanno dei sentimenti. Anch'essi soffrono.

FINE
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