6

Solo allora notai che non mi aveva ancora chiamato una sola volta, come prima, "onorevole Bonforte". Ovviamente non poteva più farlo, dal momento che non ero più lui. Ero tornato a essere Lorenzo Smythe, l’attore ingaggiato per impersonarlo.

Mi lasciai andare contro lo schienale, sospirando, e cercai di rilassarmi. — Così, finalmente, è finita… E ce l’abbiamo fatta! — esclamai, con la sensazione di essermi tolto un grosso peso dalle spalle. Non m’ero accorto di quanto fosse grosso il peso fino al momento in cui non me lo tolsi. Persino la mia gamba "zoppa" aveva smesso di farmi male. Allungai una mano a battere la manina con cui Penny teneva il volante, e dissi con la mia voce: — Sono proprio contento che sia finita. Comunque lei mi mancherà, gliel’assicuro. Ci avevo fatto l’abitudine ad averla insieme con me. Lei è come una collega, ormai. Ma purtroppo è sempre così; quando s’incomincia a essere un po’ affiatati, la stagione finisce e la compagnia si scioglie. Spero comunque di poterla rivedere ancora qualche volta.

— Lo spero anch’io.

— Immagino che Dak abbia già studiato qualche trucco per tenermi nascosto e per farmi poi salire di soppiatto a bordo della Tom Paine.

— Non lo so. — La sua voce aveva un timbro strano, tanto che mi voltai a guardarla e constatai subito che piangeva. Il mio cuore fece un balzo. Penny che piangeva! Piangeva perché dovevamo dividerci, forse? Non potevo crederci, tuttavia l’avrei voluto. Qualcuno potrebbe essere portato a credere che con i miei lineamenti aristocratici e le mie maniere squisite le donne mi trovino irresistibile, invece debbo confessare che purtroppo molte di loro riescono sempre a resistere facilmente al mio fascino. Penny stessa, poi, sembrava non aver mai trovato alcuna difficoltà nel farlo.

— Penny, mia cara — mi affrettai a dire. — Perché tutte queste lacrime? Finirà col mandare la macchina a fracassarsi.

— Non riesco a dominarmi.

— Be’, si sfoghi, mi dica. Cos’è che non va? Mi ha detto che l’hanno ritrovato; ma non m’ha detto i particolari. — D’improvviso m’era balenata nella mente un’orrenda supposizione. — È vivo, no?

— Si… è vivo… ma… oh, gli hanno fatto tanto male! — Scoppiò in singhiozzi, tanto che dovetti afferrare io il volante.

— Mi scusi — disse, riprendendosi subito.

— Vuole che guidi io?

— No, ora è passata. Inoltre lei non sa… cioè, voglio dire, si pensa che lei non sappia guidare la macchina.

— Come? Non dica sciocchezze. Io ne sono perfettamente capace, e credo che ormai tutte queste finzioni non abbiano più importanza… — ma m’interruppi di botto, rendendomi conto che potevano avere ancora importanza, invece. Se Bonforte era ridotto male, in modo visibile, allora non poteva certamente mostrarsi in pubblico nelle sue condizioni… e certo non un quarto d’ora dopo essere stato adottato. Forse, quindi, avrei dovuto partecipare io alla conferenza stampa e partire io ufficialmente da Marte, mentre sarebbe stato il Bonforte vero quello da imbarcare alla chetichella sull’astronave. Be’, niente di preoccupante… solo una chiamata al proscenio per un bis imprevisto.

— Penny — domandai — Dak e Rog desiderano che continui a recitare ancora per un po’? Devo andare io a parlare coi giornalisti? Oppure no?

— Non lo so. Non abbiamo avuto il tempo di far progetti.

Stavamo già avvicinandoci alla fila di dock dello spazioporto, e le gigantesche cupole pressurizzate di Goddard City erano nettamente in vista. — Penny, rallenti un po’ e mi spieghi cos’è successo, per favore. Credo d’avere il diritto anch’io di sapere qualcosa.


Il conducente aveva parlato (mi dimenticai di chiedere se il sistema della forcina fosse stato usato o no). Era stato anche lasciato libero, perché tornasse a piedi, e gli avevano permesso di tenere la maschera dell’aria. Gli altri si erano diretti di gran carriera a Goddard City, con Dak al volante. Mi sentii fortunato di essere rimasto indietro; i voyageur non dovrebbero assolutamente avere il permesso di guidare altro che le astronavi.

S’erano precipitati all’indirizzo fornito dal conducente, nella Città Vecchia, sotto la prima cupola. Credo si tratti di quel tipo di casbah che si trova in tutti i porti, dal tempo in cui i fenici cominciarono a veleggiare lungo le coste dell’Africa: un covo di deportati, di prostitute, di spacciatori di droga, di loschi trafficanti e altra feccia… un posto, insomma, in cui i poliziotti vanno sempre a due per volta.

Risultò che il conducente aveva dato l’indirizzo giusto, ma che c’erano arrivati con qualche minuto di ritardo. La stanza era sicuramente stata usata come prigione per Bonforte, perché conteneva un letto che sembrava essere stato occupato per almeno una settimana di fila. Inoltre c’era una cuccuma di caffè ancora caldo e, avvolta in un tovagliolo sul comodino, c’era una vecchia protesi dentaria asportabile che Clifton riconobbe subito per quella di Bonforte. Ma Bonforte non c’era, e neppure i suoi rapitori.

Dak e gli altri se n’erano allora andati, con l’intenzione di mettere in atto quel piano originale che avevano comunicato anche a me: annunciare il rapimento di Bonforte come se fosse avvenuto subito dopo la sua adozione, ed esercitare pressioni su Boothroyd minacciando di rivolgersi al Nido di Kkkah. Invece avevano poi trovato Bonforte. Si erano semplicemente imbattuti in lui poco prima di uscire dalle ultime tortuose viuzze della Città Vecchia: un povero vecchio, lacero, sporco, inebetito, con la barba di una settimana e l’aspetto d’un alcolizzato. Gli uomini non l’avevano riconosciuto, ma Penny sì, e li aveva fatti fermare.

Ora, raccontandomi l’incontro, scoppiò di nuovo a piangere, perdendo il controllo della guida, tanto che per poco non andammo a sbattere contro un autoarticolato che stava uscendo da uno dei dock.

Secondo la ricostruzione più plausibile dei fatti, gli occupanti della seconda auto (cioè quella con cui avremmo dovuto scontrarci) erano ritornati a riferire l’accaduto. In seguito a ciò, gli ignoti istigatori dei nostri avversari avevano deciso che il rapimento ormai non serviva più ai loro scopi. Nonostante quanto già sapevo sulla probabile vendetta dei marziani, mi stupì che non lo avessero ucciso, semplicemente. Solo in un secondo tempo compresi che, comportandosi come si erano comportati, si erano dimostrati molto più astuti, molto più coerenti con i loro propositi, e anche molto più crudeli che non limitandosi semplicemente a ucciderlo.

— E adesso, dove si trova? — domandai.

— Dak l’ha portato all’albergo dei voyageur, nella Cupola 3.

— È là che stiamo andando?

— Non lo so. Rog si è limitato a dirmi di venire a prendere lei, poi sono spariti per la porta di servizio dell’albergo. No, non credo che possiamo correre il rischio di andare là anche noi. Non so proprio cosa fare.

— Penny, fermi la macchina.

— Come?

— Suppongo che su questa vettura ci sia un telefono. Non muoveremo un passo finché non avremo scoperto la cosa migliore da farsi, o almeno finché non avremo predisposto un piano abbastanza sensato. Sono certo di una cosa, comunque: che è mio dovere continuare a recitare la parte fino a quando Dak o Rog non avranno deciso di farmi scomparire dalla scena. Qualcuno deve pur parlare ai giornalisti. Qualcuno deve partire ufficialmente da Marte e salire sulla Tom Paine. Lei è sicura che l’onorevole Bonforte non possa ritornare in forma quel tanto che basta per poterlo fare di persona?

— Come? Oh, no, no! È assolutamente impossibile. Lei non l’ha visto, altrimenti non parlerebbe così.

— Va bene, le credo sulla parola. Allora, Penny, da questo momento io torno a essere "l’onorevole Bonforte", e lei la mia segretaria. Mi pare la cosa migliore.

— Sì… onorevole Bonforte.

— E adesso, mia cara, vuole per favore mettersi in comunicazione col capitano Broadbent?

Non riuscimmo a trovare un elenco telefonico nella macchina, e così Penny dovette chiedere il numero all’ufficio informazioni. Ma alla fine riuscì a mettersi in contatto con l’albergo dei voyageur. Io potevo sentire la conversazione da una derivazione. — Qui è il Club dei Piloti. Parla la signorina Kelly.

Coprendo il microfono con una mano, Penny mi domandò: — Devo dare il mio nome?

— Certo. Non abbiamo nulla da nascondere.

— Qui è la segretaria dell’onorevole Bonforte — disse allora lei, con tono piuttosto sostenuto. — C’è per favore il suo pilota? Il capitano Broadbent.

— Oh, certo, lo conosco benissimo. — Sentii gridare:

— Ehi! Qualcuno di voi lupi dello spazio ha visto dove si è cacciato Dak? — Dopo una breve pausa, la voce riprese:

— È nella sua stanza. Lo chiamo.

Penny disse poche parole: — Comandante? Il Capo le vuole parlare — e mi allungò il microfono.

— Parla il Capo, Dak.

— Oh… dov’è, onorevole?

— Sempre in macchina. Penny mi è venuta a prendere. Dak, mi pare di ricordare che Bill avesse organizzato una conferenza stampa. Dove?

Dopo una breve esitazione, Dak rispose: — Sono contento che lei abbia chiamato, Capo. Bill ha rinviato la conferenza. Ci sono stati… dei leggeri mutamenti nella situazione.

— Già, infatti Penny me ne ha vagamente accennato. Debbo confessare che sono contento di questo rinvio, perché mi sento molto stanco. Ho deciso di non passare la notte su terrasporca. La gamba mi ha fatto male per tutta la cerimonia, e gradirei un bel riposo, molto lungo, in caduta libera. — Personalmente detestavo di trovarmi in caduta libera, ma a Bonforte piaceva, invece. — Lei o Rog vogliate presentare le mie scuse al Commissario e sbrigare tutte le altre formalità.

— Provvederemo noi a tutto, Capo.

— Bene. Per quando potete farmi preparare un traghetto?

— La Pixie la sta già aspettando, Capo. Ha solo da recarsi all’uscita 3; ci penserò io a telefonare e a mandare una macchina da campo a prenderla.

— Benissimo. Non c’è altro.

— Non c’è altro.

Riconsegnai il ricevitore a Penny che lo appoggiò sulla forcella. — Ricciolina — dissi — non so se questa frequenza telefonica sia controllata o no, e forse c’è un dispositivo spia all’interno della vettura. In tal caso, i nostri nemici sanno già due cose: primo dove si trova Dak, e perciò anche dove si trova lui, e, secondo, quello che stiamo per fare noi due. Non le suggerisce niente questa constatazione?

Lei ci pensò un momento, poi tirò fuori il suo taccuino per la stenografia e ci scrisse: Usciamo dalla macchina.

Io feci un cenno d’assenso. Presi il taccuino e scrissi anch’io una frase: Quanto dista l’uscita 3?

Lei rispose: Ci arriviamo a piedi.

Senza parlare, aprimmo la portiera e scendemmo a terra. Penny aveva parcheggiato la vettura nel posto riservato a qualche funzionario, vicino a un deposito, in modo che non intralciasse il traffico né desse per il momento nell’occhio; senza dubbio dopo qualche tempo l’avrebbero restituita al legittimo proprietario, ma non era il caso di dare importanza a minuzie come queste.

Avevamo percorso una cinquantina di metri quando mi fermai. Mi pareva che qualcosa non andasse per il suo verso, ma non riuscivo ancora a scoprire che cosa. Non dipendeva dal tempo, certamente. Era una giornata tranquilla, il sole splendeva luminoso nel cielo di Marte. Il traffico, vetture e pedoni, non sembrava prestare alcuna attenzione a noi, o almeno, se la prestava, la prestava alla donna giovane e bella che mi accompagnava e non a me direttamente. Eppure non mi sentivo tranquillo.

Rimasi lì fermo in mezzo alla strada a pensare, toccandomi il mento con un dito, e Penny mi domandò stupita: — Che cosa c’è, Capo?

— Già… Ecco che cosa c’è!

— Sì?

— Ecco… io non sto comportandomi come il "Capo". Non è nel suo carattere andarsene a piedi come facciamo noi. Torniamo indietro, Penny.

Non stette a discutere, ma mi seguì docilmente fino all’automobile. Questa volta mi accomodai sul sedile posteriore, mi sedetti con aria dignitosa, e lasciai che fosse Penny a scarrozzarmi fino all’uscita 3.

Non era lo stesso cancello dal quale eravamo passati all’arrivo: credo che Dak l’avesse scelto perché era più per le merci che per i passeggeri. Penny non prestò attenzione ai divieti di sosta e portò la grossa Rolls fino alla sbarra che bloccava il passaggio. Un guardiano cercò di fermarci, ma Penny si limitò a informarlo freddamente: — È la vettura messa a disposizione dell’onorevole Bonforte. Vorrebbe essere tanto gentile da avvisare il Commissario che la mandi a riprendere qui?

L’uomo parve interdetto; guardò nell’interno, credette di riconoscermi, mi salutò, e ci lasciò rimanere lì con la macchina. Io risposi con un cenno amichevole, e lui si affrettò ad aprirmi la portiera per farmi scendere. — Mi scusi — disse. — Il tenente desidera sempre che gli spiazzi davanti al cancello siano sgombri, onorevole Bonforte. Però questa volta credo non sia proprio il caso.

— Può ordinare subito di portare via la macchina. Io e la mia segretaria partiamo immediatamente. La nostra vettura da campo è già arrivata?

— Vado subito in ufficio a chiedere, onorevole — rispose il guardiano, e si allontanò. Era giusto la quantità di testimoni che mi occorreva, tanto per spargere la notizia che "l’onorevole Bonforte" era arrivato con l’auto messagli a disposizione dal Commissario e se n’era ripartito per il suo yacht spaziale. M’infilai la verga marziana sotto il braccio come il bastone di Napoleone e lo seguii zoppicando, accompagnato a poca distanza da Penny. Il guardiano andò a parlare con l’ufficiale doganale, poi ritornò subito a riferire premurosamente, con un sorriso: — La sua vettura da campo la sta già aspettando, onorevole.

— Grazie — e mi rallegrai con me stesso per il tempismo con cui si stava svolgendo la nostra partenza.

— Oh… — Il guardiano sembrava un po’ confuso. Si affrettò ad aggiungere, a bassa voce: — Sa, sono anch’io un espansionista, onorevole. Oggi lei ha fatto una gran cosa! — e guardò la verga marziana con timore reverenziale.

Sapevo alla perfezione come si sarebbe comportato Bonforte in una simile circostanza. — Oh, grazie — dissi in tono bonario. E aggiunsi: — Lei avrà molti figli, spero. Bisogna fabbricarci una solida maggioranza per l’avvenire.

Lui rise più di quanto meritasse la battuta. — Questa sì che è buona! Uh… le spiace se la ripeto a qualche amico?

— Niente affatto. — Intanto eravamo quasi giunti al cancello e io stavo per oltrepassarlo. L’ufficiale doganale mi toccò il braccio e mi chiese rispettosamente: — Ehm… Il suo passaporto, onorevole Bonforte.

Spero di essere riuscito a non mutare espressione. — I passaporti, Penny — mi limitai a dire.

Lei rivolse all’ufficiale un’occhiata raggelante. — Il capitano Broadbent ha provveduto a ottenere tutti i permessi necessari. S’informi.

L’ufficiale mi lanciò una rapida occhiata, poi abbassò lo sguardo. — Sì, credo sia tutto a posto. Ma dovrei controllare i passaporti e segnare il loro numero.

— Sì, certo. Allora penso che dovrò chiedere al capitano Broadbent di fare una corsa fino al campo. Al mio traghetto è già stato assegnato l’orario di partenza? Se sì, sarà meglio avvisare la torre di controllo perché lo rinvii.

Ma Penny ci interruppe; nervosa come una gatta arrabbiata. — Onorevole Bonforte! — strillò. — È semplicemente ridicolo! Non abbiamo mai incontrato tante formalità burocratiche prima d’ora, specialmente su Marte.

Il guardiano azzardò timidamente: — Ma sì che va tutto bene, Hans. In fin dei conti si tratta dell’onorevole Bonforte.

— Certo, ma…

Li interruppi con un sorriso gioviale. — C’è un mezzo più semplice per risolvere la questione. Come si chiama lei, tenente?

— Haslwanter. Hans Haslwanter — rispose quello, con riluttanza.

— Senta, allora, tenente Haslwanter, se lei mi chiama il signor Commissario Boothroyd, gli parlerò direttamente: potremo in tal modo risparmiare al mio pilota un viaggio fino al campo… e a me un’ora e più di tempo.

— Oh, onorevole, non vorrei disturbare il Commissario. Potrei telefonare invece al comandante dello spazioporto… — propose l’ufficiale, speranzoso.

— No. Mi dia il numero del Commissario Boothroyd, per favore. Gli parlerò io. — Stavolta avevo messo nel tono di voce quel tanto di freddo, quel tanto di seccato dell’uomo indaffarato e importante che vuol essere democratico, sì, ma che ormai s’è scocciato di trovarsi tra i piedi quegli zelantoni che mettono sempre i bastoni tra le ruote.

Il trucco riuscì. — Non occorre, onorevole Bonforte — si affrettò infatti a dire il tenente. — Ma sa com’è… i regolamenti…

— Certo, certo, lo so. Grazie — e mi mossi.

— Un momento, onorevole! Guardi da questa parte!

Mi voltai. Quell’ufficiale, con la sua mania di mettere i puntini sulle "i" e i trattini sulle "t", era riuscito a trattenerci quel tanto che bastava per permettere alla stampa di raggiungerci. Un uomo aveva poggiato un ginocchio a terra e puntava verso di me l’obiettivo di una stereocamera; alzò gli occhi e disse: — Metta in mostra la verga marziana, in modo che possa riprenderla. Ecco… così. — Oltre a lui ce n’erano vari altri, con diversi tipi di macchine; uno s’era perfino arrampicato sul tetto della Rolls. Un altro aveva sfoderato un registratore, e un altro ancora puntava verso di me un microfono direzionale come se fosse stato una pistola.

Mi sentivo inviperito come una primadonna che vede il suo nome scritto troppo in piccolo sui manifesti, ma mi ricordai in tempo chi dovevo essere. Sorrisi, e avanzai lentamente verso di loro; Bonforte era perfettamente al corrente che in registrazione i movimenti appaiono sempre più veloci e affrettati, perciò mi presi il lusso di muovermi con tutta la lentezza necessaria.

— Onorevole Bonforte, perché ha rimandato la conferenza stampa?

— Onorevole Bonforte, si dice che lei intenda chiedere alla Grande Assemblea di concedere ai marziani la piena cittadinanza dell’Impero. È vera la notizia?

— Onorevole Bonforte, quando ha intenzione di costringere l’attuale governo a chiedere il voto di fiducia?

Alzai il braccio, brandendo la verga marziana, con la bocca atteggiata a un sorriso. — Uno alla volta, per carità! Avanti, qual è la prima domanda?

Risposero tutti quanti in una volta, come m’ero aspettato. Ora che si furono messi d’accordo su chi doveva farmi per primo la domanda, erano già passati parecchi secondi senza che io avessi bisogno d’aprir bocca. In quella arrivò alla riscossa Bill Corpsman. — Abbiate un po’ di cuore, ragazzi. Il Capo ha avuto una giornata campale. Vi darò io tutte le notizie che vi servono.

Alzai una mano verso di lui. — No, no, Bill — gli dissi. — Posso benissimo dedicare un paio di minuti a questi giovanotti. Sto per salpare, signori, ma cercherò di rispondere in breve, con qualche dato essenziale, alle domande che m’avete posto. Per quanto ne posso sapere io, l’attuale governo non ha alcuna intenzione di riesaminare la presente relazione tra Marte e l’Impero. Poiché io non faccio parte di tale governo, le mie opinioni non sono rilevanti in merito. Vi consiglio quindi di rivolgervi al Primo Ministro, signor Quiroga. Quanto al fatto del se e del quando l’opposizione chiederà al governo il voto di fiducia, ebbene, tutto quel che so dirvi è che non lo faremo finché non saremo sicuri di aver partita vinta. E su questo, ora come ora, ne so quanto voi.

Qualcuno disse: — Non è che ci dica molto, non le pare?

— E infatti non intendevo dirvi molto — ribattei, addolcendo la frase con un affabile sorriso. — Ma vedete, signori, la colpa non è mia. Ponetemi delle domande legittime, e io vi risponderò in modo legittimo. Ma finché le vostre domande saranno scottanti come quelle che mi avete fatto or ora, e cercheranno di mettermi con le spalle al muro, proprio come se mi chiedeste se intendo piantare mia moglie, allora io sarò costretto a darvi le risposte che vi meritate. — A questo punto esitai, ricordando che Bonforte aveva fama di essere sempre schietto e onesto, specialmente con la stampa; perciò aggiunsi: — Non voglio prendervi in giro, credetemi… Tutti voi sapete perché sono venuto qui, oggi. Permettetemi di parlarvi di questo… e se lo desiderate, potete pubblicarlo. — Mi frugai nella mente e ne cavai un brano adatto alla presente situazione, traendolo da uno dei discorsi di Bonforte che avevo studiato. — Il vero significato di ciò che è avvenuto oggi non si limita a una singola onorificenza conferita a un singolo uomo. Questa — e agitai la verga marziana — costituisce la prova migliore che due grandi razze possono superare l’abisso della diversità, grazie alla comprensione. La nostra razza si sta espandendo verso le stelle. Troveremo, come del resto abbiamo già trovato, che ci sono altre razze, molto più numerose di noi. Se vogliamo che la nostra espansione verso le stelle abbia un esito felice, dobbiamo comportarci onestamente, umilmente, a cuore aperto. Qualcuno ha suggerito che, se ne avessero l’occasione, i nostri vicini marziani s’impadronirebbero della Terra. Questa, signori, è una sciocchezza madornale. La Terra non è adatta per i marziani. Proteggiamo pure ciò che è nostro, sì, ma non lasciamoci indurre a compiere azioni folli sotto la seduzione della paura e dell’odio! Le menti grette e meschine non potranno mai raggiungere le stelle; dobbiamo essere grandi, com’è grande lo spazio!

Uno dei reporter mi strizzò l’occhio e disse: — Onorevole Bonforte, mi pare di averla già sentita dire le stesse cose, lo scorso febbraio…

— E le risentirà anche il febbraio prossimo. E in gennaio, in marzo, in tutti i mesi. Non si ripeterà mai abbastanza la verità… — Mi voltai a dare un’occhiata all’ufficiale doganale e aggiunsi: — Mi dispiace, ma ora debbo proprio andarmene, altrimenti rischierò di perdere la coincidenza. — Mi volsi e presi ad arrancare zoppicando, seguito da Penny.

Salimmo sulla piccola vettura da campo, la cui portiera si chiuse con un sibilo. Si trattava d’un veicolo corazzato da piastre di piombo per proteggere gli occupanti dalle radiazioni, e funzionava automaticamente, così non ci fu bisogno di continuare a recitare a uso e consumo di un singolo conducente. Mi lasciai cadere sul sedile, rilassandomi. — Uff!

— Si è comportato in modo magnifico — disse Penny, con tutta serietà.

— Ho passato un brutto momento quando quel tizio ha riconosciuto il discorso che stavo scopiazzando.

— Sì, ma è riuscito a superare l’inciampo. È stata una vera ispirazione. Sembrava… sembrava proprio lui.

— C’era per caso tra i presenti qualcuno che avrei dovuto salutare per nome?

— Non proprio. Forse uno o due, ma non s’aspettavano certo che lei lo facesse, visto che aveva tanta premura.

— Per un attimo mi sono sentito con le spalle al muro. Quel pignolo di un ufficiale e i suoi passaporti! A proposito, Penny, mi sembrava più giusto che li tenesse lei, piuttosto che Dak.

— No, non è vero che li abbia Dak. — Frugò nella borsetta e mi mostrò il suo documento. — Io il mio l’avevo, ma non ho osato dirlo.

— Come?

Lui aveva il suo in tasca quando lo hanno rapito. Non ci siamo fidati di chiederne la sostituzione… date le circostanze.

Mi sentii improvvisamente tremare le ginocchia.


Non avendo ricevuto altre istruzioni da Dak o da Rog, continuai a recitare la commedia a bordo del traghetto e al mio arrivo sulla Tom Paine. Il resto non fu difficile. Mi limitai a recarmi direttamente nella cabina principale, e passai lunghe ore infelici in caduta libera, mangiandomi le unghie e chiedendomi cosa stesse succedendo nel frattempo sul pianeta. Con l’aiuto di qualche compressa antinausea riuscii finalmente a cadere in un sonno agitato, il che fu poi peggio, perché passai da un incubo all’altro. Mi vedevo tra la folla, senza calzoni, con giornalisti che puntavano su di me il microfono, guardie che mi toccavano sulla spalla, marziani che prendevano la mira per fulminarmi con la verga. Tutti questi personaggi che abitavano i miei incubi sapevano perfettamente che ero una controfigura: stavano semplicemente discutendo tra loro chi avesse il privilegio di tagliarmi a fette per farmi scomparire nell’oubliette.

Mi svegliò lo scampanellio dell’avviso d’accelerazione. La voce baritonale di Dak stava tuonando: — Primo e ultimo avviso! Un terzo di g! Un minuto! — M’affrettai a trascinarmi sulla cuccetta e a tenermi forte. Mi sentii subito meglio quando vennero accesi i motori; un terzo di g non è molto, fa un po’ l’effetto di stare su Marte, credo, ma è sufficiente a mettere a posto lo stomaco e a far distinguere il pavimento dal soffitto.

Qualche minuto dopo, Dak venne a bussare; entrò mentre mi recavo ad aprirgli la porta. — Come va, Capo?

— Salve, Dak. Non le dico come sono felice di rivederla.

— Mai quanto me — rispose lui, con voce stanca. — Posso sdraiarmi lì? — mi chiese, indicando la cuccetta.

— Faccia pure.

Lui si sdraiò con un gran sospiro. — Accidenti, sono a pezzi. Sento che potrei dormire per una settimana di fila… e penso che lo farò.

— Allora siamo in due. Dica… l’avete portato a bordo?

— Sì, e che gincana!

— Lo immagino. Eppure credo sia stato più facile farlo in un piccolo porto come questo, privo di sorveglianza, che organizzare tutta quella montatura per farmi uscire dal Campo Jefferson.

— Eh? No, qui è stato molto più difficile.

— Cosa?

— Certo. Qui tutti si conoscono… e si parlano. — Dak fece un sorriso storto. — L’abbiamo portato a bordo dentro una cassa con l’etichetta: "Gamberi marziani congelati". Abbiamo perfino dovuto pagare le tasse doganali.

— Dak, come sta?

— Be’… — cominciò lui, aggrottando la fronte. — Il professor Capek afferma che si ristabilirà completamente… che è solo questione di tempo. Riuscissi solo a mettere le mani addosso a quegli schifosi! — esclamò con ferocia. — C’è da buttarsi per terra a piangere, a vedere come l’hanno conciato… eppure dobbiamo lasciarli andare senza far niente… per il suo bene.

A guardarlo attentamente, lo stesso Dak sembrava sul punto di buttarsi per terra a piangere, mi pareva. Con tutta la gentilezza di cui fui capace, gli dissi: — Penny mi ha raccontato che l’hanno picchiato da far spavento. Ha ferite gravi?

— Eh? No, no, lei deve aver frainteso le parole di Penny. A parte il fatto che era sporco da far schifo e che aveva la barba di una settimana, fisicamente non aveva un graffio addosso.

— Credevo che l’avessero picchiato — ribattei, sorpreso. — M’ero immaginato che lo avessero battuto con una mazza da baseball o qualcosa di simile.

— Sarebbe stato preferibile. Cosa vuole che siano poche ossa rotte? No, no… probabilmente Penny si riferiva a quello che gli hanno fatto al cervello.

— Oh… — balbettai, con un profondo senso di malessere. — Lavaggio del cervello?

— Sì. Sì e no. Certo non intendevano farlo parlare, perché non aveva alcun segreto da nascondere di possibile importanza politica. Ha sempre agito alla luce del sole, lo sanno tutti. Devono avere usato le droghe solo per tenerlo prigioniero senza fastidi, per evitargli di fuggire.

Continuò: — Il professore dice che devono avergli dato la dose minima giornaliera, quel tanto che bastava per tenerlo tranquillo, fino a poco prima di lasciarlo libero. Poi gli hanno iniettato una dose da istupidire un elefante. I suoi lobi frontali devono esserne inzuppati come una spugna da bagno.

Mi sentivo così male che ero felice di non aver mangiato niente. Avevo letto un articolo, una volta, sull’argomento. Erano cose talmente orribili da affascinarmi. Secondo me c’è qualcosa d’immorale e di degradante in senso assoluto, cosmico, nell’alterare la personalità d’un individuo. A paragone l’assassinio è una cosa pulita, un peccatuccio veniale. "Lavaggio del cervello" è un termine che ci viene dal movimento comunista del Tardo Medioevo. Nella sua forma iniziale, erano vari metodi che servivano a spezzare la volontà d’un uomo con torture fisiche e morali. Ma quei primi metodi richiedevano mesi per giungere a un risultato. Più tardi fu scoperto un sistema "migliore", capace di trasformare in pochi secondi un uomo in uno schiavo balbettante, mediante la semplice iniezione di alcuni derivati della cocaina nei lobi frontali del soggetto.

Questa pratica disumana era stata inventata, all’origine, con uno scopo perfettamente legittimo: quello di calmare i pazienti mentali acuti e così poterli sottoporre alla psicoterapia. Usata in quel modo era un’invenzione nobile, una conquista dell’umanità, perché veniva a sostituire la lobotomia… "Lobotomia" è un termine fuori uso, oggi, come "cintura di castità", ma è la parola con cui si indicava l’andare a ficcare un bisturi nell’interno del cervello di una persona, in modo tale da distruggere la sua personalità senza ucciderlo. Sì, facevano anche cose simili: del resto, nei secoli precedenti, usavano picchiare i malati mentali per "scacciare il diavolo"…

I comunisti svilupparono la nuova tecnica del lavaggio del cervello mediante droghe, fino a farla diventare molto efficiente. Poi, quando il comunismo decadde, le Unioni della Fratellanza la rispolverarono, apportandovi perfezionamenti tali da riuscire a dosarne accuratamente gli effetti. Si andava dalla dose minima, quella che rendeva un uomo leggermente più suscettibile a lasciarsi suggestionare da un capo, alla dose massima, quella che lo faceva diventare una massa di protoplasma priva di ragione… e tutto veniva fatto nel dolce nome della "Fratellanza". In fin dei conti, che fratellanza ci può essere se un tizio è talmente individualista da voler tenere per sé i propri segreti? E quale modo migliore di assicurarsi che non abbia segreti, che infilargli un ago tra gli occhi e iniettargli nel cervello una droga che gli faccia "cantare" tutto? "Non si può far la frittata senza rompere le uova" e quel che segue: i soliti sofismi con cui si giustificano gli scellerati.

Naturalmente, ormai da moltissimo tempo, la pratica era stata messa al bando per legge, salvo specialissimi casi terapeutici per i quali occorreva il permesso del giudice. Tuttavia i criminali non si sono mai fatti scrupolo di usarla, e neppure i poliziotti sono perfettamente immacolati al riguardo, in quanto la droga fa effettivamente parlare qualsiasi prigioniero e non lascia su di lui alcuna traccia. Si può perfino ordinare alla vittima di dimenticare che gli è stata fatta l’iniezione.

La maggior parte di queste informazioni le sapevo già quando Dak mi riferì cos’avevano fatto a Bonforte, e il resto me lo andai a cercare nella copia dell’Enciclopedia Batavia che avevamo a bordo. Se vi interessano ulteriori particolari, andate a consultare le voci "Integrazione mentale" e "Tortura".

Scossi la testa, come a scacciare gli incubi che le sue parole avevano evocato. — E ci sono possibilità di guarigione?

— Il professore dice che la droga non danneggia il tessuto cerebrale, ma si limita a inibirne le funzioni. Dice che alla fine la circolazione sanguigna riesce a raccogliere e a portar via tutta la droga; una volta raggiunti i reni viene espulsa dal corpo senza far danni. Ma ci vuol tempo. — Dak tacque, poi mi guardò fisso e disse: — Capo?

— Eh? Mi pare sia ora di smetterla con questa faccenda del "Capo", no? Ormai è tornato lui.

— Ecco, volevo proprio parlarle di questo. Le darebbe fastidio continuare la sostituzione ancora per qualche tempo?

— Ma perché? Qui a bordo siamo tra amici.

— Non è del tutto vero. Lorenzo, siamo riusciti a tenere maledettamente segreta la cosa. La sappiamo io, lei… — contava sulle dita — poi il professore, Rog, Bill. Già, bisogna contare anche Penny, naturalmente. E c’è anche un uomo, sulla Terra, un certo Langston che lei non ha mai visto. Credo che Jimmie Washington abbia dei sospetti, ma quello non parla. È un tipo talmente abbottonato da non dire l’ora neppure a sua madre. Non sappiamo quante persone abbiano preso parte, direttamente o indirettamente, al rapimento, ma le assicuro che non possono essere molte. Comunque, loro non oseranno mai parlare… e il buffo della cosa è che non possono dimostrare che il Capo è rimasto assente, neppure se lo volessero fare. Voglio dire questo: qui sulla Tom Paine, equipaggio e servitù varia non sono al corrente dell’accaduto. Senta, vecchio marpione, che ne direbbe di continuare ancora per un po’, di farsi vedere tutti i giorni dalla ciurma e dalle dattilografe di Jimmie Washington, e così via? Finché lui non starà meglio, voglio dire? Eh?

— Uhm… non vedo perché non potrei farlo. Quanto crede che ci vorrà?

— La durata del viaggio di ritorno. Ce la prenderemo comoda, a bassa accelerazione. Sarà un viaggio che lei si godrà in pieno.

— D’accordo. Dak, questa prestazione non l’aggiunga al mio onorario; la faccio gratis, perché il lavaggio del cervello è una cosa che mi ripugna.

Dak balzò in piedi e venne a darmi una manata sulla spalla. — Lei mi va proprio a genio, Lorenzo. E non si preoccupi per la paga. Non avrà da lamentarsi.

Poi, cambiando modi: — Benissimo, Capo. Ci vedremo domattina, onorevole.


Ma una cosa tira l’altra. L’accelerazione in cui era entrata l’astronave con il ritorno di Dak serviva semplicemente a farci cambiare orbita, allontanandoci dal pianeta fino a un punto dove fosse poco probabile che le agenzie di stampa mandassero un traghetto per ulteriori interviste. Mi destai in caduta libera, e mi riaddormentai con l’aiuto di una compressa. La mattina dopo, al mio risveglio, riuscii lo stesso a mandar giù la colazione. Poco dopo arrivò Penny. — Buongiorno, onorevole Bonforte.

— Buongiorno, Penny. — Piegai il capo in direzione della cabina degli ospiti. — Qualche novità?

— No, signore. Sempre lo stesso. Il capitano le manda i suoi omaggi e le dice, se non le arreca troppo disturbo, di recarsi nella sua cabina.

— Niente affatto. Vengo subito. — Penny mi accompagnò ed entrò con me. Insieme con Dak, che si era appollaiato sulla sedia, stringendone le gambe con le caviglie per evitare di galleggiare nell’aria, c’erano anche Rog e Bill, legati alle cuccette.

Dak si guardò intorno e disse: — Grazie per essere venuto, Capo. Abbiamo bisogno d’aiuto.

— Buongiorno a tutti. Di che si tratta?

Clifton rispose al mio saluto con la sua solita deferenza cortese e mi chiamò "Capo"; Corpsman si limitò a un cenno. Parlò Dak: — Per terminare la cosa in bello stile, lei dovrebbe mostrarsi in pubblico ancora una volta.

— Eh? Credevo…

— No, poca roba. — Le reti stereovisive si aspettavano che oggi lei facesse un discorso importante di commento alla cerimonia di ieri. Pensavo che Rog intendesse rimandarlo, ma Bill ha già scritto tutto il discorso. La domanda è questa: lei sarebbe disposto a pronunciarlo?

L’ho sempre detto, io, che il guaio di portarsi a casa un gatto è che si finisce con una fila di micini. — Dove? — mormorai. — A Goddard City?

— Oh, no, se ne rimarrà comodo nella sua cabina. Il discorso verrà trasmesso a Phobos, e di qui a Marte che lo immetterà nel circuito principale per New Batavia, dove le reti terrestri lo invieranno a Venere, Ganimede eccetera. In quattro ore raggiungerà tutti i punti del Sistema Solare, ma lei non avrà bisogno di muoversi dalla cabina.

C’è sempre una tentazione irresistibile, quando si sente parlare delle reti stereovisive interplanetarie. Io ero riuscito a comparirvi una volta sola, ma quella volta il mio atto era stato talmente tagliato che la mia faccia si era vista solo per ventisette secondi esatti. Ora, avere una trasmissione tutta per me…

Dak ebbe l’impressione d’una mia riluttanza, e s’affrettò ad aggiungere: — Non le costerà nessuna fatica, dato che qui a bordo della Tom Paine abbiamo un impianto di registrazione completo. Riprenderemo il discorso e poi lo proietteremo, nel caso occorra apportare qualche taglio.

— Be’… accetto. Ha qui il testo, Bill?

— Sì.

— Me lo faccia controllare.

— Cosa intende dire? Lo avrà abbastanza in anticipo.

— È quello che ha in mano ora?

— Be’ sì.

— Allora me lo faccia leggere.

Con aria seccata, Corpsman rispose: — Glielo farò avere un’ora prima della registrazione. Questi discorsi vanno meglio quando suonano spontanei.

— Suonare spontanei è solo questione di attenta preparazione, Bill. Sono cose che so benissimo. È il mio mestiere.

— Ieri, allo spazioporto, lei se l’è cavata bene senza bisogno di prove. Quella di oggi è la stessa solfa; voglio che lei faccia come ieri.

Più Corpsman insisteva, più prepotente sentivo affiorare in me la personalità di Bonforte. Credo che Clifton si fosse accorto che stavo per esplodere, perché intervenne dicendo: — Oh, per l’amor di Dio, Bill. Dagli il discorso.

Corpsman sbuffò e mi lanciò il mazzo dei fogli. Poiché eravamo in caduta libera, fluttuarono sparpagliandosi nell’aria. Penny li raccolse, li rimise in ordine, e me li passò. La ringraziai e, senza dire parola, mi misi a scorrerli.

Lessi il discorso in una frazione del tempo che mi sarebbe occorso per pronunciarlo. Giunto alla fine, alzai gli occhi.

— Be’? — mi domandò Rog.

— Circa cinque minuti del discorso sono occupati dalla relazione sulla cerimonia dell’adozione. Il resto sono parole a sostegno della politica del Partito espansionista. Suppergiù le stesse cose che ho sentito nei discorsi che m’avete dato da studiare.

— Già — convenne Clifton. — L’adozione ci serve come esca per poter esporre anche il resto. Come lei saprà, tra non molto abbiamo intenzione di costringere il governo a chiedere il voto di fiducia.

— Comprendo benissimo. È un’occasione da non perdersi per battere sulla grancassa. Be’, è tutto a posto, ma…

— "Ma" cosa? Cos’è che la preoccupa?

— Ecco… è la resa del personaggio. Ci sono taluni punti in cui occorre cambiare le parole. Non è il modo in cui si esprimerebbe lui.

Corpsman sbottò, pronunciando una parola che non si dovrebbe mai dire in presenza di una signora. Io gli lanciai un’occhiata gelida. — Mi stia a sentire bene, Smythe — proseguì. — Chi può insegnarci la maniera in cui Bonforte direbbe o non direbbe una data cosa? Lei? Oppure l’uomo che da quattro anni gli scrive i discorsi?

Cercando di dominarmi, dovetti constatare che il mio avversario aveva segnato un punto a suo favore. — Ciò nondimeno, si dà il caso — gli risposi — che una frase, che sembra bellissima a vederla scritta, suoni male una volta che la si pronunci. Ho avuto modo di vedere come l’onorevole Bonforte sia un magnifico oratore. Appartiene alla categoria dei Webster, dei Churchill, dei Demostene… una grandeur trascinante che s’esprime mediante parole semplici. Prendiamo ad esempio la parola "intransigente", da lei scritta ben due volte nel discorso. È una parola che potrei dire io, che ho un debole per le parole lunghe; mi piace sfoggiare la mia erudizione letteraria. Ma l’onorevole Bonforte direbbe invece "testone", o "cocciuto", o "ostinato". Il motivo, ovviamente, è che lui sa benissimo che queste parole trasmettono le emozioni in modo più immediato ed efficace.

— Ci pensi lei a rendere efficace la recitazione! Delle parole mi occupo io.

— Vedo che lei non capisce, Bill. A me non interessa che il discorso sia o non sia efficace politicamente; il mio compito è quello di recitare una parte, ricreando un personaggio. Non potrò farlo bene se dovrò mettere sulle labbra del personaggio certe parole che lui non si sognerebbe mai di usare; suonerebbero false e artificiose come una scimmia che si esprimesse con citazioni di greco classico. Se invece mi si darà da leggere un discorso scritto con parole che lui stesso userebbe, la mia recitazione otterrà automaticamente la massima efficacia. Bonforte è un grande oratore.

— Senta, Smythe. Lei non è qui per scrivere discorsi. Lei è stato assunto per…

— Piantala, Bill! — tagliò corto Dak. — E nomina un po’ meno "Smythe", cerca di ricordartelo. Be’, Rog, che ne dici?

— Se non ho capito male, Capo — disse Clifton — le sue obiezioni si riferiscono solo a certe parole non adatte, vero?

— Be’, in genere sì. Suggerirei poi di smussare un po’ quell’attacco personale a Quiroga, e anche l’insinuazione relativa ai finanziatori dietro le quinte. Non mi pare che Bonforte sarebbe così violento.

— Sono stato io a mettere quelle frasi — disse Rog, con aria colpevole. — Lui concede sempre a tutti il beneficio del dubbio. — Rimase in silenzio per un istante. — Faccia pure tutte le correzioni che le sembrano necessarie. Lo registreremo e lo vedremo poi in proiezione. Ad ogni buon conto, c’è sempre la possibilità di fare dei tagli… o anche di sospendere tutto il discorso "a causa di difficoltà tecniche". — Fece un sorriso. — Faremo così, Bill.

— Accidenti, ma è una ridicola…

— Calma, Bill. È così che occorre fare.

Corpsman se ne andò furibondo dalla cabina, e Clifton emise un lungo sospiro. — Bill non sopporta che gli altri gli diano ordini. Li accetta solo da Bonforte. Ma è un uomo molto capace… Capo, quando sarà pronto per il discorso? Lo mandiamo in onda alle quattro.

— Non posso dirlo. Ma sarò pronto per l’ora stabilita — lo rassicurai.

Penny mi accompagnò nella cabina ufficio. Dopo aver chiuso la porta, le dissi: — Non avrò bisogno di lei per un’oretta, Penny. Ma mi farebbe il favore di chiedere alcune compresse per me? Può darsi che ne abbia bisogno.

— Sì. — S’avviò fluttuando verso la porta, ma poi si fermò per dirmi: — Capo?

— Sì, Penny?

— Volevo solo dirle di non dare retta alle parole di Bill sul fatto che è lui a scrivere i suoi discorsi!

— Le assicuro che non ci ho creduto neppure io. I suoi discorsi li ho sentiti… e ho letto questo.

— Oh, Bill gli passa effettivamente delle minute, un mucchio di volte. E così pure Rog. Anch’io ogni tanto gli do dei suggerimenti. Lui accetta aiuti da tutti, quando gli pare che possano servirgli. Ma quando scrive un discorso, quel discorso è suo, parola per parola.

— Lo credo. E vorrei che avesse scritto anche questo, in anticipo.

— Sarà sufficiente che lei faccia del suo meglio.


Seguii la sua esortazione. Incominciai con piccole sostituzioni di parole, mettendo dei sinonimi d’uso corrente al posto delle parole più lunghe e più difficili da pronunciare. Poi incominciai ad appassionarmi al lavoro, fui preso da una sorta di sacra esaltazione dionisiaca. Feci scempio delle minute, con gli occhi che mi brillavano e con il volto arrossato. È molto divertente per un attore mettersi a pasticciare con il copione: non è una cosa che gli capiti spesso…

Come pubblico impiegai la sola Penny, e mi assicurai presso Dak che i comunicatori con il resto dell’astronave fossero chiusi, anche se ho il sospetto che quel gaglioffo mi abbia imbrogliato e abbia preso parte anche lui all’ascolto. Nel giro di tre minuti Penny aveva le lacrime agli occhi; alla fine (ventotto minuti e mezzo, appena in tempo per avvertire le reti di trasmissione di lasciarci libero il canale) era completamente esausta. Non mi concessi alcuna deviazione dalla schietta dottrina espansionista, nella formulazione ortodossa fornita dal suo profeta ufficiale, l’Onorevolissimo John Joseph Bonforte; semplicemente ricostruii da capo a piedi il messaggio e il discorso, servendomi abbondantemente di frasi contenute in orazioni precedenti.

Cosa strana… mi accorsi che ero disposto a crederne ogni parola, mentre lo pronunciavo.

Vi assicuro, amici: che discorso!


Dopo averlo registrato, lo riascoltammo in proiezione, completo di immagine stereovisiva di me stesso. C’era anche Jimmie Washington, e la sua presenza servì a far rimanere tranquillo Bill Corpsman. Terminata la trasmissione dissi: — Che gliene pare, Rog? Occorre tagliarne qualche parte?

Rog si tolse il sigaro di bocca e disse: — No. Se vuole un consiglio, Capo, lo lasci così com’è.

Corpsman se ne andò furibondo una seconda volta, ma il dottor Washington mi si avvicinò con le lacrime agli occhi… le lacrime sono un grosso guaio, in caduta libera; non si sa dove metterle. — Onorevole Bonforte, è una meraviglia!

— Grazie, Jimmie.

Quanto a Penny, non aveva assolutamente parole.

Dopo l’esibizione mi ritirai. Le recite impegnative mi lasciano spossato. Dormii per otto ore filate, e fui svegliato dalla campanella d’allarme dell’astronave. Mi ero legato alla cuccetta (odio andarmene in giro galleggiando nell’aria mentre dormo in caduta libera) così non ebbi neppure bisogno di spostarmi per proteggermi dall’accelerazione. Ma non mi risultava che fosse prevista una partenza, e perciò chiamai la cabina di controllo tra il primo e il secondo avviso. — Capitano Broadbent?

— Un attimo, signore — sentii rispondere da Epstein.

Poi giunse la voce di Dak: — Sì, Capo? Stiamo partendo come previsto… Come da suo ordine.

— Eh? Ah, già, certo.

— Credo che il signor Clifton stia venendo proprio ora nella sua cabina.

— Va bene, capitano. — Mi stesi sulla cuccetta e attesi.

Poco dopo, appena incominciato ad accelerare a 1 g, entrò in cabina Rog Clifton. Aveva un’espressione preoccupata sul volto e non riuscii a capirne il motivo. Era un misto di trionfo, di preoccupazione, e di confusione. — Che c’è, Rog?

— Capo, ci hanno dato il via prima del tempo. Il governo Quiroga ha rassegnato le dimissioni!

Загрузка...