11 Complicazioni

Entrammo insieme nel laboratorio di biologia, sotto gli sguardi di tutti. Ci accomodammo al tavolo degli esperimenti, e notai come Edward non restasse più a distanza di sicurezza, sull’orlo della seggiola. Anzi, seduto al mio fianco, quasi mi sfiorava con il gomito.

Ma ecco spuntare il professor Banner - che tempismo perfetto, quell’uomo - intento a spingere un alto trespolo di metallo che reggeva un televisore pesante e datato e un videoregistratore. Oggi, lezione con video: il sollievo collettivo della classe era tangibile.

Il professore infilò un nastro nel videoregistratore recalcitrante e andò a spegnere le luci.

In quel momento, al buio, fui sconvolta dalla consapevolezza che Edward era seduto a pochissimi centimetri da me. Ero stupita dall’elettricità imprevista che mi sentivo scorrere dentro, meravigliata di poter avvertire la sua presenza ancora più del solito. Fui quasi vinta dal folle impulso di cercarlo, toccarlo, accarezzare il suo viso stupendo almeno una volta, nell’oscurità. Incrociai le braccia badando a tenerle strette e strinsi i pugni. Stavo per impazzire.

I titoli di testa irradiarono nella stanza un bagliore leggero. I miei occhi, automaticamente, cercarono lui. Sorrisi come una stupida, quando mi accorsi che la sua postura era identica alla mia, i pugni stretti sotto le braccia incrociate, gli occhi che sbirciavano me. Ricambiò il sorriso, il suo sguardo riusciva a brillare anche al buio. Guardai altrove, per non rischiare di andare in iperventilazione. Era assolutamente ridicolo sentirmi tanto elettrizzata.

L’ora di lezione sembrò molto lunga. Non riuscivo a concentrarmi sul filmato, non sapevo nemmeno di cosa parlasse. Cercai di rilassarmi, ma senza risultato: la corrente elettrica che sembrava provenire da qualche parte del suo corpo rimase costante. Di tanto in tanto mi concedevo un’occhiatina verso di lui, che appariva altrettanto incapace di rilassarsi. Anche lo spropositato desiderio di toccarlo non accennava a spegnersi e mi costrinse a serrare le dita contro le costole fino a sentirle indolenzite.

Quando il professor Banner riaccese le luci in fondo alla classe, mi lasciai scappare un sospiro di sollievo e stirai le braccia, muovendo di nuovo le dita irrigidite. Edward ridacchiò.

«Be’, interessante». Il suo tono di voce era cupo, lo sguardo pieno di cautela.

«Mmm», fu l’unica risposta di cui fui capace.

«Andiamo?», chiese, alzandosi con grazia.

Quasi mi feci sfuggire un grugnito. Ora di ginnastica. Mi alzai con attenzione, preoccupata che quella nuova e strana intensità avesse danneggiato il mio equilibrio.

Edward mi accompagnò in palestra senza parlare, e appena si fermò sulla soglia mi voltai per salutarlo. La sua espressione era inquietante: sembrava lacerato, quasi dolorante, di una bellezza tanto fiera da farmi sentire il desiderio di toccarlo con la stessa violenza di poco prima. Il saluto mi rimase in gola.

Sollevò la mano, indeciso, esitante, stava combattendo con se stesso; accarezzò svelto il profilo della mia guancia, con la punta delle dita. La sua pelle era ghiacciata come sempre, ma la traccia che lasciò sul mio viso era bollente, una scottatura che non provocava dolore.

Si voltò senza parlare e si allontanò a grandi passi.

Entrai in palestra con la testa vuota e le gambe molli. Fluttuai fino allo spogliatoio e infilai la tuta in trance, non del tutto consapevole delle altre persone attorno a me. Ripresi il contatto con la realtà soltanto quando qualcuno mi mise in mano una racchetta da badminton. Non era pesante, ma la maneggiavo con poca sicurezza. Alcuni miei compagni di classe mi lanciavano occhiate furtive. Il professor Clapp ci ordinò di formare le coppie.

Grazie al cielo, un po’ del vecchio istinto cavalleresco di Mike era sopravvissuto: si posizionò al mio fianco.

«Ti va di stare in squadra con me?».

«Grazie, Mike... lo sai che non sei costretto, eh?», cercai di scusarmi anticipatamente.

«Non preoccuparti, ti starò lontano». Sorrise. A volte era così facile trovarlo simpatico.

Non andò affatto liscia. In qualche modo riuscii a colpire la mia stessa testa e a centrare la spalla di Mike con un movimento solo. Passai il resto dell’ora nell’angolo del campo più lontano dalla rete, con la racchetta nascosta dietro la schiena. Malgrado l’handicap, Mike giocò piuttosto bene: vinse tre partite su quattro da solo. Quando il fischietto del professore decretò la fine della lezione, il mio caro compagno di squadra mi diede anche un cinque, che non meritavo affatto.

«E allora», disse, mentre ci allontanavamo dal campo.

«Allora cosa?».

«Tu e Cullen, eh?», chiese, con un filo di irritazione. Cancellai subito la mia benevolenza per lui.

«Non è affar tuo, Mike». Tra me e me, augurai a Jessica le più crudeli e subitanee pene dell’inferno.

«Non mi piace», bofonchiò, incurante del mio commento.

«Non è che debba piacere a te», sbottai.

«Ti guarda come se fossi... qualcosa da mangiare», proseguì, senza badarmi.

Soffocai la crisi isterica che minacciava di esplodere, ma nonostante gli sforzi mi scappò un risolino acuto. Lui mi guardò in cagnesco. Lo salutai e sparii nello spogliatoio.

Mi rivestii in fretta, con lo stomaco affollato da qualcosa di più pesante delle farfalle, già lontanissima dalla discussione con Mike. Chissà se Edward mi stava aspettando o se l’avrei trovato accanto alla sua auto. E se ci fossero stati anche i suoi fratelli? Sentii un’ondata di vero terrore. Sapevano quel che sapevo io? E a me era permesso di sapere che sapevano che sapevo?

Quando uscii dalla palestra, ero intenzionata a tornare a casa a piedi, senza dare nemmeno uno sguardo al parcheggio. Tanta preoccupazione per nulla. Edward mi aspettava, appoggiato al muro della palestra, con aria disinvolta, senza l’ombra di un pensiero sul viso mozzafiato. Mi misi al suo fianco e provai una curiosa sensazione di sollievo.

«Ciao», dissi, con un sospiro e un ampio sorriso.

«Ciao». Ricambiò con un sorriso luminoso. «Com’è andata in palestra?».

Il mio entusiasmo scemò appena. «Bene», mentii.

«Davvero?». Non era convinto. I suoi occhi si socchiusero e misero a fuoco qualcosa dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi Mike di schiena che se ne andava.

«Che c’è?», chiesi.

Tornò a fissare me, con lo stesso sguardo teso. «Newton inizia a darmi sui nervi».

«Non dirmi che ti sei rimesso ad ascoltare», inorridii. Ogni traccia del mio buonumore era svanita.

«Come va la testa?», chiese lui, innocentemente.

«Sei incredibile!». Mi voltai, accelerando il passo verso il parcheggio, malgrado in quel momento non fossi più convinta di volermene andare con lui.

Mi stava accanto senza sforzo.

«Sei stata tu a incuriosirmi: hai detto che non ti avevo mai vista in palestra». Non sembrava pentito, perciò ignorai del tutto le sue parole.

Procedemmo in silenzio - un silenzio imbarazzato e furioso, per quel che mi riguardava - fino alla sua auto. Ma a pochi passi di distanza fui costretta ad arrestarmi: la macchina era attorniata da una folla di ragazzi, tutti maschi. Poi mi resi conto che non stavano osservando la Volvo, ma la cabriolet rossa di Rosalie, mangiandosela con gli occhi. Nessuno si accorse di Edward che si faceva spazio per aprire la portiera. M’infilai sul sedile del passeggero, passando altrettanto inosservata.

«Appariscente», bofonchiò.

«Che macchina è?».

«Una M3».

«Tradotto per i comuni mortali?».

«Una BMW». Alzò gli occhi, senza guardarmi, intento a fare retromarcia evitando di investire gli ammiratori.

Annuii, il nome non mi era nuovo.

«Sei ancora arrabbiata?», chiese, una volta conclusa attentamente la manovra.

«Assolutamente sì».

Sospirò: «Se chiedo scusa mi perdoni?».

«Forse... se sei sincero. E in più se prometti che non lo rifarai».

Rilanciò immediatamente, scaltro: «E se sarò sincero e in più ti lascerò guidare, sabato?».

Ci pensai un istante e conclusi che probabilmente era l’offerta migliore che potessi strappare: «Aggiudicato».

«Bene, mi dispiace molto di averti fatta arrabbiare». I suoi occhi arsero di sincerità per qualche istante - sgominando i battiti del mio cuore - e poi si rifecero giocosi. «E sarò sulla soglia di casa tua sabato mattina presto».

«Uhm, una misteriosa Volvo sul vialetto non ci aiuterà di certo, con Charlie».

Ora sorrideva, comprensivo. «Non ho detto che verrò in auto».

«Ma come...».

Mi interruppe: «Non preoccuparti. Ci sarò, senza macchina».

Lasciai perdere. Avevo una domanda più pressante.

«“Più tardi” è arrivato?», chiesi, con un tono eloquente.

Lui tornò serio. «Pensavo fosse più tardi».

Aspettavo, cercando di mantenere un’espressione educata.

Arrestò la macchina. Alzai lo sguardo, sorpresa: naturale, eravamo già di fronte a casa di Charlie, parcheggiati dietro il pick-up. Viaggiare con Edward era più facile se guardavo fuori solo quando tutto era finito. Tornai a osservarlo e vidi che mi studiava, come per valutarmi.

«Vuoi ancora sapere perché non ti posso portare a caccia?». Sembrava solenne, ma nei suoi occhi mi sembrava di leggere un’ombra di ironia.

«Be’, più che altro mi chiedevo il perché della tua reazione».

«Ti ho spaventata?». Sì, stava scherzando.

«No», mentii, ma non ci cascò.

«Ti chiedo perdono per averti terrorizzata», insistette, abbozzando un sorriso, ma subito dopo sbarazzandosi di ogni accento ironico: «È stato soltanto il pensiero della tua presenza... durante la caccia». Si irrigidì.

«Non sarebbe il caso?».

Parlò senza smettere di digrignare: «Nemmeno per scherzo».

«Perché?».

Fece un respiro profondo e osservò, al di là del parabrezza, le nuvole dense e veloci che sembravano schiacciarci, quasi a portata di mano.

Iniziò a parlare controvoglia, lentamente: «Quando cacciamo, ci abbandoniamo ai sensi... e non è la mente a governarci. Seguiamo soprattutto l’olfatto. Se nel perdere il controllo sentissi che sei vicina...». Scosse la testa, senza staccare lo sguardo assorto dalle nuvole dense.

Cercai con tutte le forze di mantenermi calma, aspettandomi l’occhiata fulminea che avrebbe giudicato la mia reazione. La mia espressione era impenetrabile, quando arrivò.

Ma i suoi occhi non si staccarono dai miei, e il silenzio si faceva sempre più denso, e diverso. L’atmosfera si fece sovraccarica: sotto il suo sguardo ostinato, l’elettricità che avevo percepito quella mattina riprese a vibrare. Solo quando mi sentii quasi mancare, mi accorsi che stavo trattenendo il respiro. Quando ruppi il silenzio espirando in un tremito, Edward chiuse gli occhi.

«Bella, credo che a questo punto dovresti rientrare». La sua voce era bassa e roca adesso, lo sguardo di nuovo tra le nuvole.

Aprii la portiera, e il vento artico che invase l’auto mi aiutò a riprendere lucidità. Timorosa di inciampare, rintronata com’ero, poggiai il piede con attenzione e richiusi la portiera senza guardare indietro. Il ronzio del finestrino elettrico mi fece voltare.

«Ah, Bella?», mi chiamò con voce più serena. Si sporse dal finestrino aperto con la traccia di un sorriso sulle labbra.

«Sì?».

«Domani è il mio turno».

«Per cosa?».

Sfoderò un sorriso ampio e luminoso. «Per le domande».

E poi se ne andò, accelerando lungo la strada e dileguandosi dietro l’angolo, prima ancora che potessi riordinare le idee. Entrai in casa sorridendo. Se non altro, era evidente che il giorno dopo ci saremmo rivisti.

Quella sera, come al solito, Edward popolò i miei sogni. Il clima del mio inconscio, però, era cambiato. Agitata dalla stessa elettricità che aveva attraversato il pomeriggio, mi girai e rigirai nel letto senza sosta, svegliandomi spesso. Solo nelle prime ore del mattino mi lasciai andare a un sonno profondo e senza sogni.

Al risveglio ero ancora stanca e nervosa. Infilai un dolcevita marrone e gli immancabili jeans, sospirando mentre sognavo a occhi aperti canottiere e pantaloni corti. La colazione fu il solito evento tranquillo. Charlie si preparò le uova fritte, io la mia tazza di cereali. Chissà se si ricordava di ciò che avrei fatto sabato. Rispose alla mia domanda silenziosa alzandosi da tavola per sciacquare il suo piatto.

«A proposito di sabato...», esordì, attraversando la cucina e aprendo l’acqua del lavandino.

Ero già in imbarazzo. «Sì, papà?».

«Sei sempre decisa ad andare a Seattle?».

«I miei piani sarebbero quelli». Storsi il naso, il mio ultimo desiderio era di rispondergli fabbricando con scrupolo qualche mezza verità.

Spruzzò il detersivo sul piatto e lo strofinò con la spugna. «E sei sicura di non riuscire a tornare in tempo per il ballo?».

«Papà, al ballo non ci vado». Lo guardai torva.

«Nessuno ti ha invitata?». Provava a nascondere la preoccupazione concentrandosi sul piatto da lucidare.

Cercai di non entrare nel campo minato. «Gli inviti spettano alle ragazze».

«Ah». Si fece serio, mentre asciugava.

Lo capivo. Essere padre è senz’altro difficile: vivere nel timore che tua figlia incontri un ragazzo che le piace e allo stesso tempo aver paura che non lo incontri. Che cosa tremenda, pensai con un brivido, se Charlie avesse lontanamente sospettato cosa fosse colui che in realtà mi piaceva.

Poi mi salutò e uscì, e io salii al piano di sopra a lavarmi i denti e a prendere i libri. Dopo aver sentito il rumore dell’auto della polizia che se ne andava, mi bastò aspettare qualche secondo prima di sbirciare dalla finestra. L’auto metallizzata era già nel vialetto, al posto di quella di Charlie. Scesi le scale di corsa e mi precipitai fuori dalla porta, chiedendomi quanto a lungo avremmo continuato con quella bizzarra routine. Desideravo che non finisse mai.

Mi aspettava in macchina, apparentemente distratto mentre giravo la chiave nella toppa, senza preoccuparmi di chiudere il catenaccio. Mi avvicinai all’auto, trattenendomi un istante imbarazzata, prima di aprire la portiera e salire. Era sorridente, rilassato, e come al solito perfetto e bellissimo, da star male.

«Buongiorno». Che voce vellutata. «Oggi come stai?». I suoi occhi perlustrarono il mio viso, come se quella domanda fosse più che un semplice gesto di cortesia.

«Bene, grazie». In sua compagnia stavo sempre bene, molto, più che bene.

Si soffermò sulle mie occhiaie. «Sembri stanca».

«Non riuscivo a dormire», confessai, passandomi automaticamente i capelli sulla spalla a mo’ di protezione.

«Neanch’io», disse, ironico, mentre avviava il motore. Mi stavo abituando a quelle fusa tranquille. Tornare a guidare il pick-up mi avrebbe assordata e terrorizzata.

Scoppiai a ridere. «Non c’è dubbio. Diciamo che avrò dormito poco più di te».

«Ci scommetto».

«E tu, cos’hai fatto ieri sera?».

Rise. «Alt. Oggi le domande spettano a me».

«Ah, d’accordo. Cosa vuoi sapere?». Non riuscivo a immaginare cosa trovasse di tanto interessante in me.

«Qual è il tuo colore preferito?», chiese, compassato.

Non sapevo cosa rispondere. «Cambia ogni giorno».

«Oggi qual è?». La sua aria era ancora solenne.

«Probabilmente il marrone». Di solito mi vestivo seguendo l’umore.

Dimenticò l’espressione seria e soffocò una risata. «Marrone?», chiese, scettico.

«Certo. Il marrone è caldo. Ho nostalgia del marrone. Tutto ciò che in teoria è marrone - tronchi d’albero, rocce, terra - da queste parti è coperto di roba verde e viscida».

Sembrava affascinato dalla mia breve filippica. Rimase zitto a riflettere per un istante, fissandomi negli occhi.

«Hai ragione», concluse, tornato serio, «il marrone è caldo». Si avvicinò, veloce ma in qualche modo esitante, per risistemarmi i capelli dietro le spalle.

Eravamo già a scuola. Si voltò di nuovo dal mio lato, impegnato nella manovra di parcheggio.

«Cosa c’è in questo momento nel tuo lettore CD?», chiese con tono grave come se stesse pretendendo la confessione di un’omicida.

Ricordai di non avere mai rimesso a posto il CD che mi aveva regalato Phil. Quando gli dissi il nome della band, sorrise di sbieco con una curiosa espressione. Aprì uno scompartimento alloggiato sotto il lettore CD dell’autoradio, dai trenta e più compact disc ammassati in quello spazio esiguo ne estrasse uno e me lo sventolò sotto il naso.

«Da Debussy a questo?». Alzò un sopracciglio.

Era lo stesso disco. Ne esaminai la copertina familiare, tenendo basso lo sguardo.

Continuò così per tutto il giorno. Mentre mi accompagnava alla lezione di inglese, quando mi venne a prendere dopo spagnolo, durante tutta l’ora della pausa pranzo, mi fece domande senza sosta sui dettagli più insignificanti della mia vita. Quali film mi piacevano o non sopportavo, i pochi posti che avevo visitato e i tanti che avrei desiderato vedere, e i libri soprattutto, domande senza fine sui libri.

Non ricordavo un’altra occasione in cui avessi parlato così tanto. Spesso mi sentivo in imbarazzo, ero sicura di annoiarlo. Ma la sua espressione assorta e l’interminabile sequela di domande mi obbligavano a continuare. Si trattava perlopiù di curiosità innocenti e discrete. Solo alcune stuzzicarono la mia facilità ad arrossire. Ma ogni mio minimo rossore dava il via a un nuovo giro di domande.

Come quando mi chiese quale fosse la mia pietra preferita, e risposi «topazio» senza nemmeno pensarci. Mi stava tartassando, subissandomi con una velocità tale da farmi sentire in uno di quei test psicologici in cui si risponde con la prima parola che passa per la testa. Ero sicura che avrebbe continuato imperterrito a seguire la lista che aveva in mente, di qualunque genere fosse, se non mi avesse vista arrossire. Mi ero vergognata perché fino a poco tempo prima la mia pietra preferita era stata il granato. E guardando i suoi occhi di topazio era impossibile non ricordare perché avessi cambiato idea. Ovviamente, non si diede per vinto finché non confessai il motivo del cambiamento.

«Dimmelo», ordinò infine, dopo che i tentativi di persuasione erano falliti; e fallivano solo perché stavo ben attenta a non incrociare il suo sguardo.

«È il colore dei tuoi occhi, oggi», sospirai, senza distogliermi dalle mani che giocherellavano con una ciocca di capelli. «Dovessi chiedermelo tra due settimane ti risponderei che è l’onice». Grazie alla mia onestà involontaria avevo lasciato trapelare più informazioni del necessario, ed ero preoccupata che scatenassero la solita strana rabbia che nasceva quando, incespicando, rivelavo con troppa chiarezza la mia ossessione per lui.

Ma il suo silenzio fu molto breve.

«Quali sono i tuoi fiori preferiti?». E via con un’altra raffica.

Sospirai di sollievo e proseguii con la psicoanalisi.

L’ora di biologia fu l’ennesima complicazione. Edward continuò il suo quiz finché il professor Banner non entrò in classe, portandosi dietro il solito trabiccolo per gli audiovisivi. Mentre l’insegnante si avvicinava all’interruttore per spegnere la luce, mi accorsi che Edward allontanava impercettibilmente la sedia. Non servì a nulla. Appena si fece buio, riecco l’elettricità del giorno prima, lo stesso desiderio di cercarlo, lì accanto a me, di toccare la sua pelle fredda.

Mi allungai sul banco, appoggiando il mento alle braccia conserte e afferrai i bordi del tavolo con le dita nascoste, sforzandomi di combattere l’istinto irrazionale che mi sconvolgeva. Non osavo osservarlo, temevo che se ne avessi incrociato gli occhi sarebbe stato ancora più difficile mantenere il controllo. Provai sinceramente a guardare il filmato, ma alla fine dell’ora non ne ricordavo nemmeno un fotogramma. Di nuovo, quando il professor Banner riaccese le luci sospirai di sollievo e mi girai verso Edward: mi guardava, una luce ambigua negli occhi.

Si alzò in silenzio e si fermò ad aspettarmi, immobile. Mi accompagnò in palestra senza dire una parola, come il giorno prima. E come il giorno prima, mi accarezzò il viso, muto - ma stavolta con il dorso della mano fredda, dalla tempia al mento - prima di voltarsi e sparire.

L’ora di ginnastica passò in fretta: feci da spettatrice all’assolo di Mike durante le partite di badminton. Non mi rivolse la parola, forse per reazione alla mia espressione vuota, forse perché era ancora arrabbiato dopo il bisticcio del giorno prima. Una piccola parte del mio cervello l’aveva presa male. Ma non riuscivo a concentrarmi su di lui.

Dopo la lezione corsi a cambiarmi, in fretta e furia e un po’ in ansia, conscia che prima avessi finito, prima avrei ritrovato Edward. I miei gesti erano più goffi del solito, ma alla fine riuscii ad andarmene e, quando lo vidi, provai lo stesso sollievo di sempre. Sul mio volto sbocciò automaticamente un gran sorriso. Lui contraccambiò, prima di tuffarsi nell’ennesimo interrogatorio.

Tuttavia, rispondere a quella nuova serie di domande fu più difficile. Voleva sapere cosa mi mancasse di più di Phoenix, e insisteva nel farsi descrivere i particolari di ciò che non gli era familiare. Restammo di fronte a casa di Charlie per ore, mentre il cielo si oscurava e un diluvio improvviso ci assaliva.

Cercai di descrivere cose impossibili, come l’odore di creosoto: amaro, leggermente resinoso, ma piacevole; il suono acuto e lamentoso delle cicale in luglio; gli alberi spogli, leggeri come piume; l’ampiezza del cielo, che si stendeva bianco e blu da un capo all’altro dell’orizzonte, disturbato a malapena dalle basse montagne coperte di rocce vulcaniche violacee. Il difficile era spiegare perché tutto ciò mi apparisse così bello: giustificare una bellezza che non dipendeva dalla vegetazione rada e spinosa che spesso sembrava mezzo morta, una bellezza legata più alle forme della terra spazzata dal vento, alle conche vuote delle vallate tra i profili marcati delle colline arse continuamente dal sole. Mi ritrovai a dover accompagnare le mie descrizioni con grandi gesti.

Nel suo modo tranquillo e pacato di indagare, mi fece parlare senza sosta, e alla luce fioca del temporale dimenticai qualsiasi imbarazzo per il fatto che stavo monopolizzando la conversazione. Conclusa la descrizione della mia stanza disordinata a Phoenix, lui rimase in silenzio, anziché rispondere con un’altra domanda.

«Hai finito?», chiesi, sollevata.

«Neanche per sogno... ma tra poco tornerà tuo padre».

«Charlie!», esclamai in un fiato, ricordandomi improvvisamente della sua esistenza. Guardai il cielo scuro e gonfio di pioggia, senza riuscire a leggerlo. «Quanto è tardi?», mi chiesi ad alta voce, controllando l’orologio. Ne rimasi sorpresa: Charlie sarebbe arrivato nel giro di qualche minuto.

«È il crepuscolo», mormorò Edward, lo sguardo puntato a ovest, verso un orizzonte coperto di nubi. Sembrava pensieroso, come se la sua mente vagasse chissà dove. Rimasi a osservarlo, mentre i suoi occhi si perdevano là fuori, al di là del parabrezza.

All’improvviso scivolarono di nuovo nei miei.

«Per noi è il momento più sicuro della giornata», disse, rispondendo alla domanda silenziosa del mio sguardo. «L’ora più leggera, ma in un certo senso, anche la più triste... la fine di un altro giorno, il ritorno della notte. L’oscurità è troppo prevedibile, non credi?». Sorrise malinconico.

«A me la notte piace. Se non ci fosse il buio non vedremmo le stelle. Be’, non che qui si vedano granché».

Rise, e l’atmosfera si alleggerì.

«Charlie tornerà tra qualche minuto. Perciò, a meno che tu non voglia dirgli che sabato verrai con me...». Mi guardava di sottecchi.

«Grazie, ma... no, grazie». Raccolsi i libri, ritrovandomi indolenzita dalla sosta prolungata sul sedile. «Quindi, domani tocca a me?».

«Certo che no!». Si atteggiò da irritato, per scherzo. «Ti ho detto che non ho ancora finito, no?».

«E che altro manca?».

«Lo scoprirai domani». Si allungò ad aprirmi la portiera, e la sua vicinanza improvvisa mi scatenò palpitazioni frenetiche.

Ma la sua mano restò immobile.

«Cattive notizie», bofonchiò.

«Che c’è?». Notai che teneva la mascella contratta e il suo sguardo era inquieto.

Mi lanciò un’occhiata fulminea. «Un’altra complicazione», disse, cupo.

Aprì la portiera con una mossa veloce e in un istante si spostò per evitare il contatto con me.

La mia attenzione fu catturata da un paio di fari nella pioggia e da un’auto scura che procedeva sull’asfalto verso di noi.

«Charlie è dietro l’angolo», mi avvertì, osservando il veicolo sotto lo strato di pioggia che copriva il parabrezza.

Scesi dall’auto con un balzo, malgrado la confusione e la curiosità. All’aperto, la pioggia colpiva rumorosa la mia giacca a vento.

Cercai di identificare le sagome sul sedile anteriore dell’altra auto, ma era troppo buio. Vidi Edward illuminato dal fascio dei fari della macchina ferma di fronte a noi; guardava dritto di fronte a sé, con gli occhi fissi su qualcuno o qualcosa che non riuscivo a scorgere. La sua espressione era un misto di frustrazione e sfida.

Poi mise in moto, e le gomme stridettero sull’asfalto fradicio. La Volvo sparì nel giro di pochi secondi.

«Ehi, Bella», disse una voce roca, familiare, dal posto di guida della piccola auto nera.

«Jacob?». Scrutai attraverso la pioggia socchiudendo gli occhi. Proprio in quel momento la volante di Charlie svoltò l’angolo e illuminò gli occupanti del veicolo che mi stava di fronte.

Jacob era intento a scendere, il suo sorriso ampio si distingueva persino nell’oscurità. Dalla parte del passeggero era seduto un uomo molto più anziano di lui, un volto dai lineamenti marcati, difficile da dimenticare: un volto che quasi tracimava, con le guance che poggiavano sulle spalle, e la pelle bronzea attraversata da rughe simili alle increspature di una vecchia giacca di pelle. E gli occhi, neri, sorprendentemente familiari, che sembravano allo stesso tempo troppo giovani e troppo antichi per l’ampio viso che li conteneva. Era Billy Black, il padre di Jacob. Lo riconobbi all’istante, benché nei cinque anni passati dal nostro ultimo incontro mi fossi dimenticata anche del suo nome, richiamato alla memoria da Charlie soltanto il giorno del mio arrivo a Forks. Mi guardava fisso, perciò tentai un sorriso. Spalancava gli occhi e le narici, come fosse spaventato. Il mio sorriso svanì.

Un’altra complicazione, aveva detto Edward.

Billy seguitava a fissarmi con uno sguardo intenso, ansioso. Soffocai un gemito di fastidio. Era stato così facile, per Billy, riconoscere subito Edward? Credeva davvero alle leggende impossibili di cui suo figlio si era preso gioco?

La risposta nei suoi occhi era chiara: sì, ci credeva.

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