23 L’angelo

Andavo alla deriva, e sognavo.

Mentre affondavo nell’acqua scura, sentii il suono più piacevole che la mia mente potesse ricostruire: bellissimo, rincuorante e altrettanto pauroso. Era un altro ringhio, anzi un ruggito, più profondo e selvaggio, pieno di furia.

Un dolore acuto squarciò la mia mano alzata davanti al volto e mi riportò quasi in superficie, ma non riuscivo a trovare la strada giusta per riaffiorare, per aprire gli occhi.

A quel punto capii di essere morta.

Perché, dal profondo, sotto quell’acqua di piombo, sentii la voce di un angelo che mi chiamava per nome, guidandomi verso l’unico paradiso che desideravo.

«Oh no, Bella, no!», gridava la voce dell’angelo, spaventato.

Oltre a quel suono tanto amato, sentivo un altro rumore, un tumulto tremendo da cui la mia mente cercava di fuggire. Un ringhiare cupo e malefico, uno schianto terrificante, e un lamento acutissimo che si troncò all’improvviso...

Cercai di concentrarmi sulla voce dell’angelo.

«Bella, ti prego! Bella, ascoltami, ti prego. Ti prego, Bella, ti prego!».

Avrei voluto rispondere con un sì. O in qualsiasi altro modo. Ma non riuscivo a trovare le labbra.

«Carlisle!», esclamò l’angelo, la sua voce perfetta agonizzava. «Bella, Bella, no! Oh ti prego, no, no!». E l’angelo iniziò a gemere, senza versare una lacrima.

Non era giusto, l’angelo non doveva piangere. Volevo trovarlo, dirgli che andava tutto bene, ma l’acqua era troppo profonda, e mi schiacciava, non riuscivo a respirare.

Sentii qualcosa premermi al di sopra della fronte. Faceva male. Poi, dopo quel dolore, nell’oscurità che mi attorniava ne sentii altri, più intensi. Gridai qualcosa, affannandomi nel tentativo di uscire dalla pozza scura.

«Bella!», urlò l’angelo.

«Ha perso sangue, ma la ferita alla testa non è profonda», mi informò una voce tranquilla. «Attento alla gamba, è rotta».

Un urlo di rabbia si strozzò nella bocca dell’angelo.

Sentii una fitta acuta al fianco. Questo non era il paradiso, certo che no. C’era troppo dolore.

«Anche qualche costola, credo», aggiunse la voce, metodica.

Ma le fitte erano sempre più deboli. Sentivo un dolore nuovo, che mi ustionava la mano e copriva tutto il resto.

Qualcuno mi stava bruciando.

«Edward», cercai di dire, ma la mia voce usciva lenta e pesante. Non riuscivo nemmeno io a sentirmi.

«Bella, andrà tutto bene. Mi senti, Bella? Ti amo».

«Edward». Ci riprovai, la mia voce migliorava.

«Sì, sono qui».

«Fa male».

«Lo so, Bella, lo so». Poi disse a qualcuno, allontanandosi da me: «Non puoi farci niente?».

«La valigetta, per favore... Trattieni il respiro, Alice, sarà meglio», le consigliò Carlisle.

«Alice?», farfugliai.

«È qui, sapeva dove ti avremmo trovata».

«Mi fa male la mano», cercai di dire.

«Lo so, Bella. Carlisle ti darà qualcosa per calmare il dolore», mi rassicurò Edward.

«La mano sta andando a fuoco!», urlai, sbattendo gli occhi e uscendo finalmente dall’oscurità. Ma non riuscivo a vederlo in faccia, perché qualcosa di caldo e umido mi annebbiava la vista. Perché non si accorgevano del fuoco, perché non lo spegnevano?

Lui sembrava spaventato: «Bella?».

«Il fuoco! Qualcuno spenga il fuoco!», gridavo, e intanto mi sentivo bruciare.

«Carlisle! La mano!».

«L’ha morsa». Carlisle non era più calmo, era sbigottito.

Edward aveva smesso di respirare, terrorizzato.

«Edward, devi farlo». Era la voce di Alice, vicina alla mia testa. Sentivo dita fredde sfregare i miei occhi umidi.

«No!».

«Alice», provai, la voce impastata.

«Potrebbe esserci ancora una possibilità», disse Carlisle.

«Quale?», lo implorò Edward.

«Prova a succhiarle il veleno. Il taglio è piuttosto pulito». Mentre Carlisle parlava, sentivo qualcosa premermi contro la testa, qualcosa che mi tastava la ferita sopra la fronte. Quel dolore si perdeva dentro il dolore per il fuoco ardente.

«Funzionerà?», chiese Alice nervosamente.

«Non lo so», disse Carlisle. «Ma dobbiamo sbrigarci».

«Carlisle, io... non so se ce la faccio». Nella bellissima voce di Edward si sentiva di nuovo l’agonia.

«La decisione spetta a te. Non posso aiutarti. Se tu succhierai il sangue dalla mano, io dovrò fare in modo che smetta di sanguinare qui, dalla testa».

Mi dibattevo nella morsa di quella tortura infuocata, ma il movimento non faceva che amplificare il dolore alla gamba.

«Edward!», gridai. Avevo chiuso di nuovo gli occhi senza accorgermene. Li riaprii, provavo il bisogno disperato di rivedere il suo volto. E lo trovai. Finalmente avevo di fronte il suo viso perfetto che mi fissava, una maschera di indecisione e dolore.

«Alice, portami qualcosa per tenerle la gamba ferma!». Carlisle era piegato su di me, alle prese con la ferita sulla testa. «Edward, devi farlo subito, o sarà troppo tardi».

L’espressione di Edward era contratta. Vidi il dubbio nei suoi occhi improvvisamente scalzato da una bruciante determinazione. Strinse i denti. Sentii le sue dita fredde e forti immobilizzare la mano che mi bruciava. Poi si chinò, e avvicinò le labbra fredde alla mia pelle.

All’inizio, sembrava che il dolore peggiorasse. Urlai e mi dibattei cercando di liberarmi dalla sua stretta fredda. Sentii la voce di Alice che tentava di calmarmi. Qualcosa di pesante mi bloccava la gamba sul pavimento, e Carlisle mi costringeva la testa nella presa delle sue braccia di pietra.

Poi, lentamente, iniziai a dimenarmi meno, mentre la mano si intorpidiva. Il fuoco si stava spegnendo, si concentrava su un punto sempre più piccolo. Mano a mano che il dolore diminuiva, sentivo svanire i miei sensi. Temevo di ricadere nell’oceano buio, di perdere ancora Edward nell’oscurità.

«Edward». Cercavo di parlare, ma non sentivo la mia voce. Loro, per fortuna, sì.

«È qui, Bella».

«Resta, Edward, resta con me...».

«Sì, resto». La sua voce era esausta, ma trionfante.

Sospirai, tranquillizzata. Il fuoco si era spento, il resto dei dolori annebbiato da un torpore che andava avvolgendo il mio corpo.

«È uscito tutto?», chiese Carlisle, lontanissimo.

«Il sangue mi sembra pulito», rispose Edward. «Sentivo il sapore della morfina».

«Bella?», disse Carlisle.

Cercai di rispondere: «Mmm».

«Il fuoco è spento?».

«Sì», sussurrai. «Grazie, Edward».

«Ti amo», mi rispose lui.

«Lo so», dissi afona, senza forze.

Sentii il mio suono preferito: quello della risata a mezza voce di Edward, stanco e rincuorato.

«Bella?», chiamò di nuovo Carlisle.

«Cosa c’è?». Ancora. Volevo solo dormire.

«Dov’è tua madre?».

«In Florida», mormorai. «Mi ha imbrogliata, Edward. Ha guardato le nostre cassette». La rabbia nella mia voce sembrava fragile, inconsistente.

Ma ciò mi riportò alla memoria qualcosa.

«Alice», cercai di riaprire gli occhi, «Alice, il video... Ti conosceva, Alice, sapeva da dove vieni». Avrei voluto dirle tutto in fretta, ma la mia voce era troppo debole. «Sento puzza di benzina», aggiunsi, sorpresa: la mia mente era così annebbiata.

«Possiamo portarla via», disse Carlisle.

«No, voglio dormire», mi lamentai.

«Puoi dormire, cara, ti porto io», disse Edward per tranquillizzarmi.

Ed eccomi già accoccolata sul suo petto, tra le sue braccia. Fluttuavo, e non sentivo più il dolore.

«Adesso dormi, Bella», furono le ultime parole che udii.

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