13 Confessioni

Alla luce del sole Edward era sconvolgente. Non riuscii ad abituarmici; eppure non gli tolsi gli occhi di dosso per tutto il pomeriggio. La sua pelle, bianca nonostante il debole colorito acquistato dopo la battuta di caccia del giorno precedente, era scintillante, come ricoperta di piccoli diamanti. Se ne stava perfettamente immobile nell’erba, con la camicia aperta sul petto iridescente e scolpito, le braccia nude e sfavillanti. Le palpebre, pallide e luminose, erano chiuse, ma ovviamente non dormiva. Una statua perfetta, sbozzata in una pietra sconosciuta, liscia come il marmo, lucente come il cristallo.

Di tanto in tanto le sue labbra si muovevano incredibilmente veloci, quasi tremassero. Quando glielo feci notare, mi disse che canticchiava tra sé, a voce troppo bassa perché io lo sentissi.

Anch’io mi godevo il sole, malgrado l’aria fosse troppo umida per i miei gusti. Mi sarebbe piaciuto sdraiarmi come lui e scaldarmi il viso. Invece rimasi rannicchiata con il mento sulle ginocchia, incapace di levargli gli occhi di dosso. Il vento era delicato, mi spettinava e scompigliava l’erba attorno alla sua sagoma immobile.

Il prato, che prima mi era sembrato così spettacolare, impallidiva di fronte a tanta magnificenza.

Esitai, presa anche allora dalla paura che lui si dissolvesse come un miraggio, troppo bello per essere vero... Ed esitando tesi un dito fino ad accarezzare il dorso della sua mano sfavillante, immobile a pochi centimetri da me. Quella trama perfetta, soffice come la seta, fredda come la pietra, non smetteva di meravigliarmi. Alzai lo sguardo e trovai i suoi occhi, aperti: quel giorno erano color miele, più chiari e caldi dopo la caccia. Agli angoli della sua bocca spuntò un sorriso.

«Non ti faccio paura?», chiese scherzoso, benché la sua voce morbida tradisse una curiosità sincera.

«Non più del solito».

Il sorriso si allargò: i suoi denti brillavano al sole.

Mi feci più vicina, e con la punta delle dita seguii il profilo del suo avambraccio. Mi accorsi che mi tremava la mano, e sapevo che non gli sarebbe sfuggito.

«Ti dà fastidio?», chiesi, poiché aveva richiuso gli occhi.

«No», disse, senza riaprirli. «Non hai idea di come mi senta».

Con la mano, delicatamente, seguii il profilo dei muscoli perfetti del braccio, lungo la debole traccia bluastra delle vene, vicino alla piega del gomito. Con l’altra mano cercai la sua. Lui intuì la mia mossa e mi offrì il palmo con uno di quei suoi movimenti invisibili, incredibilmente veloci. Mi spaventò, e per un istante le mie dita si arrestarono sul suo braccio.

«Scusa», mormorò. Alzai lo sguardo appena in tempo per osservarlo richiudere gli occhi. «È troppo facile essere me stesso, assieme a te».

Sollevai la sua mano, rigirandola e ammirando i riflessi del sole. L’avvicinai agli occhi per scoprirne le misteriose sfaccettature.

«Dimmi cosa pensi», disse in un sussurro. Incrociai il suo sguardo, improvvisamente concentrato su di me. «Mi sembra ancora così strano, non riuscire a capirlo».

«Noi comuni mortali ci sentiamo sempre così, sai?».

«Che vita dura». Mi stavo solo immaginando la sfumatura malinconica nella sua voce? «Non hai risposto».

«Mi chiedevo cosa stessi pensando tu...», poi esitai.

«E?».

«E desideravo poter credere che tu fossi vero. E mi auguravo di non avere paura».

«Non voglio che tu abbia paura». La sua voce era un sussurro esile. Sentii ciò che non poteva sostenere con certezza: che non c’era bisogno di avere paura, che non c’era niente da temere.

«Be’, non è esattamente quella la paura che intendevo, malgrado sia un aspetto da non trascurare».

Si mise a sedere di scatto, facendo leva sul braccio destro con un movimento fulmineo, non percepibile, lasciando l’altra mano tra le mie. Il suo viso d’angelo fu a pochi centimetri dal mio. Certo avrei potuto - avrei dovuto - arretrare, di fronte a quell’intimità imprevista, ma non riuscii a muovermi. Ero ipnotizzata dai suoi occhi dorati.

«E allora, di cosa hai paura?», sussurrò, serio.

Non trovavo le parole. Come mi era accaduto una volta soltanto, sentivo il suo respiro fresco sul viso. Dolce, delizioso, il suo profumo mi metteva l’acquolina in bocca. Era diverso da qualsiasi altro odore. Istintivamente, senza pensarci, mi avvicinai ad annusarlo.

E lui spari, sfuggendo alla mia presa. Nell’istante che mi occorse per mettere a fuoco la scena, si era già allontanato di una decina di metri, ai bordi del prato, sotto l’ombra lunga di un grosso abete. Mi fissava, gli occhi cupi nel buio, sul viso un’espressione indecifrabile.

Non riuscii a trattenere uno sguardo addolorato e sorpreso. Le mani, vuote, mi bruciavano.

«Mi... dispiace... Edward», sussurrai. Sapevo che riusciva a sentirmi.

«Dammi solo un momento», disse, con un tono appena sufficiente per le mie orecchie meno sensibili. Restai immobile.

Dopo dieci secondi incredibilmente lunghi tornò indietro, più lentamente del suo solito. Si fermò a pochi metri da me e si lasciò cadere con grazia sul prato, sedendosi a gambe incrociate. I suoi occhi non mollarono i miei neanche per un istante. Fece due respiri profondi e sorrise per farsi perdonare.

«Mi dispiace tanto. Capiresti cosa intendo se ti dicessi che la carne è debole?».

Annuii, incapace di sorridere della battuta. Più mi rendevo conto del pericolo, più sentivo scorrere l’adrenalina. Ne sentiva l’odore fin da dov’era seduto. La sua espressione divenne un sorriso sarcastico.

«Sono il miglior predatore del mondo, no? Tutto, di me, ti attrae: la voce, il viso, persino l’odore. Come se ce ne fosse bisogno!». A sorpresa, scattò in piedi e schizzò via, scomparendo in un istante dalla visuale, per riapparire sotto lo stesso albero di poco prima, dopo aver percorso il perimetro della radura in mezzo secondo.

«Come se tu potessi fuggire», rise, maligno.

Afferrò un ramo dalla circonferenza di mezzo metro e lo divelse senza sforzo dal tronco di un abete rosso. Lo tenne in mano, in equilibrio per un momento, e poi lo lanciò a velocità impressionante verso un altro albero, contro cui si sbriciolò, scuotendolo.

Poi, rieccolo di fronte a me, a pochi centimetri, immobile come una pietra.

«Come se potessi combattere ad armi pari», disse, delicato.

Restai seduta senza muovermi, non avevo mai avuto così paura di lui. Non avevo mai visto ciò che nascondeva dietro quella facciata così ben costruita. Non era mai stato meno umano di così... né più bello. Sedevo lì, il viso cinereo e gli occhi sbarrati, un uccellino ipnotizzato dallo sguardo di un serpente.

I suoi begli occhi sembravano accesi dall’eccitazione. Poi, con il passare dei secondi, si spensero. La sua espressione, piano piano, si trasformò in una maschera di antica tristezza.

«Non avere paura», sussurrò, con voce vellutata e, suo malgrado, seducente. «Prometto... giuro che non ti farò del male». Sembrava più intento ad autoconvincersi che a convincere me.

«Non avere paura», mormorò di nuovo, avvicinandosi a me con lentezza esagerata. Si sedette con un movimento sinuoso e deliberatamente posato, fino ad avvicinare il suo viso al mio, a pochi centimetri di distanza.

«Per favore, perdonami», disse, con aria formale. «Sono capace di controllarmi. Mi hai preso in contropiede. Ma adesso sarò impeccabile».

Attese la mia risposta, ma ero paralizzata.

«Sul serio, oggi non ho così tanta sete». Mi strizzò l’occhio.

Non gli rifiutati una risata, benché debole e forzata.

«Stai bene?», chiese, con dolcezza, avvicinandosi per offrirmi di nuovo la mano marmorea.

Osservai la pelle liscia e fredda, poi lo guardai negli occhi. Erano dolci, contriti. Tornai alla sua mano, e ripresi a seguirne i contorni con la punta delle dita. Alzai lo sguardo e azzardai un sorriso timido.

Ricambiò, illuminandosi tanto da farmi perdere la testa.

«Cosa stavamo dicendo, prima che mi comportassi in maniera così sgarbata?», chiese, con la cadenza gentile di un altro secolo.

«Sinceramente non ricordo».

Sorrise, ma nei suoi occhi c’era un filo di imbarazzo: «Credo che stessimo parlando di ciò che ti mette paura, a parte le ragioni più ovvie».

«Ah, sì».

«Allora?».

Tornai a osservare la sua mano, disegnando ghirigori immaginari sul palmo liscio e luccicante. I secondi passavano.

«Com’è facile vanificare i miei sforzi», sospirò. Lo guardai negli occhi, e all’improvviso capii che la situazione in cui ci trovavamo era nuova per lui quanto per me. Malgrado gli innumerevoli anni di esperienza che probabilmente aveva, era in difficoltà. Questo pensiero mi diede coraggio.

«Avevo paura perché... per, ecco, ovvi motivi, non posso stare con te. Ma d’altro canto vorrei stare con te molto, molto più del lecito». Non staccavo gli occhi dalle sue mani. Era difficile dire certe cose ad alta voce.

«Sì». Parlò lentamente: «Non c’è dubbio, è una paura legittima, voler stare con me. È tutto fuorché una scelta vantaggiosa».

Lo guardai, accigliata.

«Avrei dovuto lasciarti perdere tempo fa», sospirò. «Dovrei lasciarti, adesso. Ma non so se ci riuscirei».

«Non voglio che tu mi lasci», mormorai accorata, abbassando lo sguardo per l’ennesima volta.

«Il che è precisamente la migliore ragione per andarmene. Ma non preoccuparti, sono una creatura essenzialmente egoista. Desidero troppo la tua compagnia per comportarmi come dovrei».

«Ne sono lieta».

«Non esserlo!». Ritrasse la mano, più dolcemente di prima; il suo tono di voce era più aspro del solito, ma restava più meraviglioso di qualsiasi voce umana. Era difficile seguire i suoi sbalzi di umore, restavo sempre indietro, stupita.

«Non è solo la tua compagnia che amo! Non dimenticarlo mai. Non dimenticare mai che sono più pericoloso per te che per chiunque altro». Osservava un punto indefinito della foresta.

Per qualche istante meditai in silenzio.

«Non credo di avere capito cosa intendi, specialmente l’ultima frase», dissi.

Tornò a fissarmi e sorrise, dopo l’ennesimo cambiamento di umore.

«Come faccio a spiegartelo senza metterti di nuovo paura... vediamo». Sovrappensiero mi offrì di nuovo la mano. La strinsi forte fra le mie, e il suo sguardo le contemplò.

«È straordinariamente piacevole il calore», sospirò.

Un momento dopo, riordinò le idee.

«Hai presente, i gusti delle persone? Ad alcune piace il gelato al cioccolato, ad altre la fragola?».

Annuii.

«Scusa l’analogia con il cibo, non trovo una metafora migliore».

Al mio sorriso seguì subito il suo, con un filo di imbarazzo.

«Vedi, ogni persona ha un suo odore, un’essenza particolare. Se chiudessi un alcolizzato in una stanza piena di lattine di birra sgasata, le berrebbe senza badarci. Se invece fosse un alcolista pentito, se decidesse di non berle, potrebbe riuscirci facilmente. Ora, se poniamo nella stanza un solo bicchiere di liquore invecchiato cento anni, il cognac migliore, il più raro di tutti, che diffonde ovunque il suo profumo... come credi che si comporterebbe il nostro alcolizzato?».

Restammo zitti, guardandoci negli occhi, cercando di leggerci nel pensiero a vicenda.

Fu lui a riprendere il discorso.

«Forse non è la metafora migliore. Forse rifiutare il cognac sarebbe facile. Forse dovrei trasformare il nostro alcolista in un eroinomane».

«Cioè, vorresti dirmi che sono la tua qualità preferita di eroina?», dissi, nel tentativo di alleggerire l’atmosfera.

Sorrise all’istante, sembrava apprezzare lo sforzo. «Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina».

«Succede spesso?», chiesi.

Alzò lo sguardo sopra le cime degli alberi, pensando a una risposta.

«Ne ho parlato con i miei fratelli». Non staccava gli occhi dall’orizzonte. «Secondo Jasper, siete tutti uguali. È stato l’ultimo a unirsi alla nostra famiglia e l’astinenza lo fa soffrire ancora molto. Non ha ancora imparato a distinguere tra i diversi odori e sapori». Mi lanciò un’occhiata timida.

«Scusa», disse.

«Non importa. Ti prego, non preoccuparti di offendermi, di spaventarmi o di qualsiasi altra cosa. È il tuo modo di ragionare. Riesco a capire, o perlomeno posso provarci. Però, ti prego, spiegami tutto come puoi».

Fece un respiro profondo e tornò a guardare il cielo.

«Perciò, Jasper non ha saputo dirmi con certezza se gli sia mai capitato di conoscere qualcuna che fosse...», esitò, in cerca della parola giusta, «attraente come tu sei per me. Il che mi fa ritenere che non l’abbia mai conosciuta. Emmett è dei nostri da più tempo, per così dire, e ha capito cosa intendevo. A lui è capitato due volte, una più forte dell’altra».

«E a te?».

«Mai».

Per un istante quella parola restò a mezz’aria, nella brezza calda.

«Come si è comportato Emmett?», chiesi, per spezzare il silenzio.

Era la domanda sbagliata. Il suo volto si fece scuro, la sua mano si strinse in un pugno. Guardò altrove. Restai in attesa di una risposta che non arrivò.

«Credo di aver capito», conclusi.

Alzò gli occhi: la sua espressione era malinconica, implorante.

«Anche i più forti di noi possono smarrire la strada, no?».

«Cosa stai chiedendo? Il mio permesso?». Fui più pungente di quanto intendessi essere. Cercai di proseguire con maggiore gentilezza; immaginavo quanto potesse costargli tutta quella sincerità. «Voglio dire, non c’è proprio speranza, allora?». Con quanta calma discutevo della mia morte!

«No, no!». Si pentì subito di ciò che aveva detto. «Certo che c’è speranza! Voglio dire, è ovvio, non...», ma non terminò la frase. Il suo sguardo bruciava dentro il mio. «Per noi è diverso. Emmett... quelle erano sconosciute, incontrate per caso. È accaduto tanto tempo fa, e lui non era... allenato e attento come ora».

Rimase zitto a osservarmi, mentre meditavo sulle sue parole.

«Perciò, se ci fossimo incrociati... in un vicolo buio, o qualcosa del genere...». La mia voce si affievolì.

«Mi c’è voluta tutta la forza che avevo per non assalirti durante la prima lezione, in mezzo agli altri ragazzi, e...», rimase in silenzio, distogliendo lo sguardo. «Quando mi sei passata accanto, ho rischiato di rovinare in un istante tutto ciò che Carlisle ha costruito per noi. Se non avessi messo a tacere così a lungo la mia sete negli ultimi, be’, troppi anni, non sarei riuscito a trattenermi». Rivolse il suo sguardo inquieto agli alberi.

Poi mi guardò torvo, rievocando, come me, la scena. «Avrai creduto che fossi posseduto dal demonio».

«Non riuscivo a capire come potessi odiarmi così, e perché poi, dal primo istante...».

«Ai miei occhi eri una specie di demone, sorto dal mio inferno privato per distruggermi. L’odore soave della tua pelle... Quel primo giorno ho temuto di perdere definitivamente la testa. In quella singola ora ho pensato a cento maniere diverse di portarti via dall’aula, di isolarti. E mi sono opposto a tutte, temendo le conseguenze che avrebbero colpito la mia famiglia. Dovevo scappare, andarmene prima di pronunciare le parole che ti avrebbero obbligata a seguirmi...».

Alzò gli occhi sul mio viso sconcertato, mentre cercavo di mettere a fuoco quei suoi ricordi amari. Nascosti dalle ciglia, i suoi occhi dorati bruciavano, ipnotici e mortali.

«Mi avresti seguita, te lo garantisco».

Cercai di rispondere con calma: «Senza dubbio».

Tornò alle mie mani torvo, liberandomi dal suo sguardo magnetico. «E poi, proprio mentre cercavo inutilmente di cambiare l’orario settimanale per poterti evitare, rieccoti. In quella stanzetta calda il tuo profumo mi faceva impazzire, in quel momento sono stato lì lì per prenderti. C’era soltanto quell’altra fragile umana, me ne sarei sbarazzato senza difficoltà».

Malgrado il sole caldo, sentii un brivido: rivedendo i miei ricordi attraverso i suoi occhi mi rendevo finalmente conto del pericolo corso. Povera signorina Cope: il pensiero di quanto fossi stata vicina a causarne la morte mi provocò un altro brivido.

«Ma ho resistito, non so come. Mi sono imposto di non aspettarti fuori da scuola, di non seguirti. All’esterno la tua scia era più debole, perciò sono riuscito a pensare lucidamente, a prendere la decisione giusta. Ho accompagnato gli altri a casa - mi vergognavo troppo di raccontare ciò che mi stava succedendo, avevano soltanto intuito che qualcosa non andava - e sono torso da Carlisle, all’ospedale, ad annunciargli che me ne sarei andato di casa».

Rimasi a guardarlo, sorpresa.

«Ho scambiato la mia auto con la sua: aveva appena fatto il pieno, e non volevo fermarmi. Non ho osato tornare a casa ad affrontare Esme. Lei non mi avrebbe lasciato andare, non senza prima farmi una scenata. Avrebbe cercato di convincermi che non ce n’era bisogno...».

«Il mattino dopo ero in Alaska». Sembrava si vergognasse di qualcosa che sentiva come una codardia. «Ci sono rimasto per due giorni, da alcune vecchie conoscenze... ma avevo nostalgia di casa. Ero tormentato dal pensiero di avere sconvolto Esme e il resto della mia famiglia adottiva. In mezzo all’aria pura di montagna era difficile credere che tu fossi così irresistibile. Mi sono convinto che la fuga fosse una scelta da debole. Avevo già lottato contro la tentazione, in precedenza, ma anche se non era mai stata così grande, così violenta, sapevo di essere forte. Chi eri tu, piccola e insignificante ragazza», e fece un ghigno, «per scacciarmi dal posto in cui desideravo vivere? Perciò sono tornato...». Il suo sguardo si perse all’orizzonte.

Ero senza parole.

«Ho preso tutte le precauzioni possibili, sono andato a caccia, mi sono nutrito più del solito, prima di tornare a incontrarti. Ero sicuro di essere tanto forte da poterti trattare come un qualsiasi essere umano. Sono stato molto arrogante.

Un’altra grossa complicazione, in tutto questo, è stata la mia incapacità di leggerti nel pensiero, il non poter conoscere le tue reazioni. Non ero abituato a dover ricorrere a certi sotterfugi, come leggere le tue parole nel pensiero di Jessica... non è una persona granché originale, e non sai che noia dovermici adattare. Per giunta, non capivo se le tue parole fossero sincere. Tutto ciò è stato tremendamente irritante». Quel ricordo lo rese ancora più serio.

«Desideravo farti dimenticare il mio comportamento del primo giorno, se possibile, perciò ho tentato di parlare con te come facevo con chiunque altro. A dire la verità, morivo dalla voglia di decifrare qualche tuo pensiero. Ma eri troppo interessante, e mi sono perso nel tuo modo di fare... Poi di tanto in tanto facevi un gesto con la mano, o ti sistemavi i capelli, e l’odore tornava a colpirmi...

È stato a quel punto che hai rischiato di morire schiacciata nell’incidente, proprio sotto i miei occhi. Poco dopo, ho architettato un alibi perfetto per giustificare a me stesso il mio comportamento: se non ti avessi salvata, di fronte al tuo sangue non sarei riuscito a nascondere la mia vera natura. Ma questo l’ho pensato dopo. In quel momento, l’unica cosa che avevo in mente era: “Non lei”».

Chiuse gli occhi, perso nello sforzo della confessione. Lo avevo ascoltato con più curiosità che razionalità. Il buon senso mi diceva che avrei dovuto esserne terrorizzata. Riuscire a comprenderlo fu un sollievo. E un’ondata di compassione per la sua sofferenza mi pervase, anche mentre ammetteva di aver desiderato la mia vita.

Infine, riuscii a spiccicare parola, malgrado la mia voce fosse un sussurro: «E in ospedale?».

M’inchiodò con lo sguardo. «Ero scioccato. Non riuscivo a credere di avere corso quel rischio, di averlo fatto correre a tutti i miei, per proteggere proprio te. Come se ci fosse bisogno di un motivo in più per ucciderti». Nell’istante in cui questa parola gli uscì di bocca, scattammo entrambi. «Ma l’effetto è stato il contrario», aggiunse immediatamente. «Ho litigato con Rosalie, Emmett e Jasper, che sostenevano fosse il momento giusto... il peggior litigio da quando viviamo assieme. Carlisle e Alice erano dalla mia parte». Sorrise, nominando la sorella. Non riuscivo a immaginare perché. «Secondo Esme dovevo fare tutto il possibile per rimanere». Scosse il capo, benevolo.

«Il giorno dopo ho origliato le menti di tutte le persone con cui avevi parlato, stupito che avessi mantenuto la parola. Non ti avevo affatto capita. Ma sapevo che non potevo lasciarmi coinvolgere ulteriormente da te. Ho fatto del mio meglio per starti lontano. E ogni giorno il profumo della tua pelle, del tuo respiro, dei tuoi capelli... mi colpiva forte, come la prima volta».

Incrociò il mio sguardo, sembrava sorprendentemente tenero.

«E la cosa più assurda è che mi sarei curato meno di rovinarci tutti il primo giorno, piuttosto che farti del male qui, ora, senza testimoni, senza nessuno in grado di fermarmi».

Fui abbastanza comprensiva da doverglielo chiedere: «Perché?».

«Isabella». Pronunciò il mio nome completo con attenzione; poi, con la mano libera, giocò con i miei capelli, scompigliandoli. Quel contatto così casuale mi scatenò una tempesta dentro. «Bella, arriverei a odiare me stesso, se dovessi farti del male. Non hai idea di che tormento sia stato», abbassò gli occhi, intimorito, «il pensiero di te immobile, bianca, fredda... di non vederti più avvampare di rossore, di non poter più cogliere la scintilla nel tuo sguardo quando capisci che ti sto prendendo in giro... non sarei in grado di sopportarlo». Mi fissò con i suoi occhi meravigliosi e angosciati. «Ora sei la cosa più importante per me. La cosa più importante di tutta la mia vita».

Il rapido cambio di direzione nella conversazione mi fece girare la testa. Eravamo passati dalla spensierata constatazione della mia imminente scomparsa alle dichiarazioni ufficiali. Aspettava una risposta, e malgrado non levassi lo sguardo dalle nostre mani intrecciate, sentivo i suoi occhi dorati addosso.

«Sai già cosa provo, ovviamente», risposi, infine. «Sono qui, il che, in due parole, significa che preferirei morire, piuttosto che rinunciare a te». Abbassai lo sguardo. «Sono un’idiota».

«Certo che lo sei», ribadì lui, con una risata. Lo fissai negli occhi, e anch’io iniziai a ridere. Ridevamo di quel momento così folle e totalmente imprevedibile.

«Così, il leone si innamorò dell’agnello...», mormorò. Guardai altrove nascondendogli i miei occhi, elettrizzata da quelle parole.

«Che agnello stupido», sospirai.

«Che leone pazzo e masochista». Per un istante interminabile scrutò le ombre della foresta, preso da chissà quali pensieri.

«Perché...?». Tentai di parlare ma non ero sicura di come proseguire.

Mi guardò e sorrise: il suo viso, i suoi denti, sfavillavano al sole.

«Sì?».

«Dimmi perché prima sei fuggito in un lampo da me».

Il suo sorriso si spense. «Lo sai, il perché».

«No, voglio dire, cos’ho fatto di preciso? È meglio che stia in guardia, per imparare cosa non posso fare. Questo, per esempio», gli accarezzai il dorso della mano, «non crea problemi».

Sorrise di nuovo. «Non hai fatto niente di male, Bella. È stata colpa mia».

«Ma se posso, voglio aiutarti, voglio renderti la vita meno difficile».

«Be’...», meditò, per un istante. «È stata una questione di vicinanza. Gli esseri umani sono per la maggior parte naturalmente timidi con noi, la nostra alterità li allontana... Non mi aspettavo che ti avvicinassi così tanto. E poi il profumo del tuo collo». Non aggiunse altro, cercava di capire se mi avesse turbata.

«D’accordo», risposi decisa, desiderosa di alleggerire l’atmosfera improvvisamente plumbea. Alzai il colletto fino al mento. «Niente collo scoperto».

Funzionò: lo feci ridere. «No, davvero, più che altro è stata la sorpresa».

Alzò la mano libera e la posò dolcemente sul mio collo. Ero immobile, il suo tocco ghiacciato agiva come un allarme naturale - un allarme che mi avvertiva di farmi prendere dal terrore - ma non sentivo un briciolo di paura. Dentro di me c’erano ben altre sensazioni...

«Vedi? Nessun problema».

Il cuore mi batteva all’impazzata, non so cos’avrei dato per rallentarlo, conscia che il suo pulsare così potente nelle vene avrebbe creato qualche problema. Di sicuro riusciva a sentirlo.

«Resta ferma», sussurrò, come se non fossi già impietrita.

Lentamente, senza staccare gli occhi da me, si avvicinò. Poi, all’improvviso, ma con grande delicatezza, posò la guancia fredda nell’incavo del mio mento, sulla gola. Anche se avessi desiderato muovermi, non ci sarei riuscita. Ascoltai il rumore del suo respiro regolare, guardando il sole e il vento giocare con quei capelli di bronzo, il più umano dei suoi tratti.

Con lentezza calcolata, fece scivolare le mani lungo il mio collo. Sentii un brivido e mi accorsi che tratteneva il respiro. Ma non si fermava, scorreva morbidamente sulle spalle, poi si arrestò.

Spostò il viso di lato, sfiorandomi la clavicola con il naso. Infine, si accucciò con il volto appoggiato dolcemente al mio petto.

Ascoltava il mio cuore.

Gli sfuggì un sospiro.

Non so per quanto tempo restammo immobili in quella posizione. Ore intere, per quel che mi sembrava. Alla fine, il ritmo del mio cuore rallentò, ma lui non disse una parola e continuò a stringermi a sé. Sapevo che avrebbe potuto perdere il controllo in qualsiasi momento e la mia vita sarebbe finita lì, tanto in fretta da non accorgermene neanche. Eppure, non riuscivo a provare paura. Sentivo il contatto con lui e non pensavo ad altro.

Infine, troppo presto, mollò la presa.

Il suo sguardo era quieto.

«Non sarà più così difficile», disse, soddisfatto.

«È stata dura?».

«Non terribile come immaginavo. E per te?».

«No, niente affatto terribile... per me».

Sorrise al mio tono. «Hai capito cosa intendo».

Sorrisi.

«Vieni qui». Mi prese la mano e se la avvicinò alla guancia. «Senti?».

La sua pelle, di solito ghiacciata, era quasi calda. Me ne accorsi però a malapena, perché stavo sfiorando il suo viso, un gesto che desideravo fare dal primo giorno.

«Resta lì», sussurrai.

Nessuno era capace di restare immobile come Edward. Chiuse gli occhi e rimase fermo come una pietra, una scultura in mano mia.

Mi muovevo ancora più lentamente di lui, evitando gesti improvvisi. Gli carezzai la guancia, sfiorai delicatamente le palpebre e l’ombra violacea dell’incavo attorno all’occhio. Seguii il profilo del suo naso perfetto, e poi, con la massima delicatezza, delle labbra impeccabili. Al contatto con la mia mano si dischiusero, e sentii il suo respiro freddo sulla punta delle dita. Desideravo avvicinarmi, annusare il suo profumo. Perciò levai la mano e mi scostai un poco: non volevo esagerare.

Aprì gli occhi, e il suo sguardo affamato scatenò in me un’ondata di paura, però mi chiuse la bocca dello stomaco e mandò di nuovo il mio cuore a mille.

La sua voce era un sussurro: «Vorrei... vorrei sentissi la complessità... la confusione... che provo. Vorrei che potessi comprendere».

Mi sfiorò i capelli e me li strofinò sul viso, con delicatezza.

«Spiegamelo».

«Non credo che ci riuscirei. Te l’ho detto, da una parte sento fame di te, anzi sete, da creatura deplorabile quale sono. E questo lo puoi capire, in un certo senso». Abbozzò un sorriso. «Anche se, dal momento che non sei dipendente da nessuna sostanza illegale, probabilmente non te ne rendi conto fino in fondo».

Mi sfiorò le labbra, allora, e avvertii l’ennesimo brivido. «Ma... ci sono altri tipi di fame. E quelli non riesco a interpretarli, mi sono del tutto estranei».

«Forse riesco a capire questo più di quanto ti aspetti».

«Non sono abituato a sentirmi tanto umano. Funziona sempre così?».

«Per me? No, mai. Mai prima di oggi».

Prese le mie mani tra le sue; sembravano tanto fragili, in quella stretta d’acciaio.

«Non so come fare a starti accanto in questo modo», ammise. «Non sono sicuro di esserne capace».

Mi avvicinai molto lentamente, tranquillizzandolo con lo sguardo. Posai la guancia sul suo petto marmoreo. Non sentivo che il suo respiro.

«Così va bene», sospirai, chiudendo gli occhi.

Con un gesto molto umano, mi abbracciò e avvicinò il viso ai miei capelli.

«Sei molto più bravo di quanto tu voglia credere».

«Possiedo ancora istinti umani. Sono sepolti da qualche parte, ma ci sono».

Restammo in quella posizione per un altro momento eterno; chissà se anche lui, come me, desiderava che non finisse mai. Purtroppo la luce stava calando, le ombre della foresta si avvicinavano. Mi lasciai sfuggire un sospiro.

«Devi andare».

«Pensavo non fossi capace di leggermi nel pensiero».

«Comincio a vederci qualcosa». Lo sentii sorridere.

Lo guardai in faccia, le sue mani mi tenevano per le spalle.

«Posso mostrarti una cosa?», chiese, lo sguardo acceso da un entusiasmo improvviso.

«Cosa?».

«Il modo in cui io mi sposto nella foresta». Notò subito la mia espressione allibita. «Non preoccuparti, non c’è pericolo e torneremo al pick-up molto più velocemente». Con le labbra disegnò quel suo sorriso sghembo, così magnifico da fermarmi il cuore.

«Ti trasformi in un pipistrello?», chiesi, intimorita.

Rise, più forte che mai. «Come se non l’avessi già sentita!».

«Già, immagino che te lo dicano tutti».

«E dai, fifona, salta in spalla».

Aspettai un istante, per capire se stesse scherzando, ma evidentemente faceva sul serio. Sorrise della mia incertezza e aprì le braccia per incoraggiarmi. Il mio cuore reagì; malgrado non potesse leggermi nel pensiero, il battito accelerato mi tradiva. Mi prese per mano e mi aiutò ad aggrapparmi a lui, senza troppo sforzo. Mi avvinghiai con una presa tanto stretta di braccia e gambe da poter soffocare un comune mortale. Era come aggrapparsi a una roccia.

«Sono un po’ più pesante di un normale zaino».

«Figuriamoci!», sbottò. Di certo stava alzando gli occhi al cielo. Non l’avevo mai visto tanto di buonumore.

Mi sorprese quando all’improvviso afferrò la mia mano, se la premette contro il naso e inspirò forte.

«Sempre più facile», mormorò.

E poi iniziò a correre.

La paura di morire che avevo sentito poco prima era stata niente, a confronto di come mi sentii in quel momento.

Sfrecciava tra le piante del sottobosco denso e scuro come un proiettile, come un fantasma. In assoluto silenzio, come se i suoi piedi restassero sempre sollevati da terra. Respirava regolarmente, senza sforzo. Ma gli alberi ci passavano davanti a velocità mortale, mancandoci ogni volta di pochi centimetri.

Ero troppo terrorizzata per chiudere gli occhi, malgrado l’aria fredda della foresta frustasse violenta il mio viso. Era come aprire ingenuamente il finestrino di un aereo in volo. Per la prima volta in vita mia, sentii la fiacchezza e le vertigini tipiche della nausea da movimento.

Tutto finì in un attimo. Quel mattino avevamo camminato per ore per raggiungere il prato di Edward, e adesso, in pochi minuti, rieccoci al pickup.

«Elettrizzante, eh?». Era entusiasta, su di giri.

Restò immobile, in attesa che scendessi. Ci provai, ma i muscoli non rispondevano. Tenevo braccia e gambe intrecciate a lui, e la testa mi girava fastidiosamente.

«Bella?», chiese, con una certa ansia.

«Credo di dovermi sdraiare», dissi ansimando.

«Oh, scusa». Attese inutilmente che mi muovessi.

«Ho bisogno di aiuto, credo».

Rise sotto i baffi, e con delicatezza sciolse la mia presa strangolatrice. Non c’era modo di resistere alla forza delle sue mani d’acciaio. Mi prese e mi fece scivolare di lato, cullandomi come una bambina. Mi trattenne per un istante, poi mi posò dolcemente sulle foglie elastiche delle felci.

«Come va?».

Non riuscivo a capirlo neanch’io, con la testa che girava in quella maniera. «Credo di avere un po’ di nausea».

«Tieni la testa tra le ginocchia».

Ci provai, e funzionava. Respiravo lentamente, con la testa immobilizzata. Sentivo Edward seduto al mio fianco. Dopo qualche minuto, riuscii a sollevare il capo. Un sibilo vuoto mi ronzava nelle orecchie.

«Forse non è stata una grande idea».

Cercai di non demoralizzarlo, ma avevo perso la voce. «No, è stato parecchio interessante».

«Ma dai! Sei pallida come un fantasma... anzi, sei pallida come me!».

«Forse avrei dovuto chiudere gli occhi».

«La prossima volta ricordatelo».

«Ma quale prossima volta?!».

Rise, non aveva perso il buonumore.

«Spaccone», bofonchiai.

«Apri gli occhi, Bella», disse, sottovoce.

E il suo viso era lì accanto a pochi centimetri dal mio. La sua bellezza non smetteva di sconvolgermi: era troppo, un eccesso a cui non riuscivo ad abituarmi.

«Mentre correvo, pensavo...».

«A non centrare gli alberi, spero».

«Sciocca», sghignazzò. «Correre per me è un gesto automatico, non è qualcosa a cui devo stare attento».

«Spaccone».

Sorrise.

«Dicevo... Pensavo a una cosa che vorrei provare». Di nuovo prese il mio viso tra le mani.

Mi tolse il fiato.

Sembrava esitare, ma non in maniera normale.

Non come un uomo che sta per baciare una donna, incerto della reazione e della risposta di lei, che volesse prolungare quell’istante, il momento perfetto dell’attesa impaziente che spesso è meglio del bacio stesso.

Edward esitava per mettersi alla prova, per non correre rischi ed essere certo di saper controllare i propri desideri.

Poi posò le sue labbra di marmo freddo sulle mie.

Ciò che nessuno di noi prevedeva fu la mia reazione.

Mi sentii ribollire il sangue e bruciare le labbra. Il mio respiro si trasformò in un affanno incontrollabile. Intrecciai le dita ai suoi capelli, stringendolo a me. Dischiusi le labbra per respirarne il profumo inebriante.

Immediatamente lo sentii trasformarsi in pietra insensibile. Con le mani, delicatamente ma senza che potessi oppormi, allontanò il mio viso dal suo. Aprii gli occhi e lo vidi, guardingo.

«Ops».

«“Ops” è troppo poco».

I suoi occhi ardevano, stringeva i denti sforzandosi di resistere all’istinto, eppure non perse un briciolo di contegno. Tratteneva il mio viso a pochi centimetri dal suo, inchiodandomi con uno sguardo ipnotico.

«Devo...?», e cercai di liberarmi dalla presa per lasciargli un po’ di spazio.

Non mi permise di muovermi di un millimetro.

«No, è sopportabile. Per favore, aspetta un attimo». Il suo tono di voce era aggraziato, controllato.

Osservai l’eccitazione nei suoi occhi attenuarsi e ammorbidirsi.

Poi, a sorpresa, sfoderò un sorriso malizioso.

«Ecco», disse, palesemente soddisfatto di se stesso.

«Sopportabile?».

Liberò una risata fragorosa. «Sono più forte di quanto pensassi. È una bella notizia».

«Mi piacerebbe poter pensare altrettanto di me».

«E dai, dopotutto sei soltanto un essere umano».

«Tante grazie», risposi acida.

Con uno dei suoi movimenti leggiadri e istantanei scattò in piedi. Mi tese una mano con un gesto inaspettato. Ero abituata all’assenza di contatto tra noi. Afferrai il suo palmo ghiacciato, avevo più bisogno di sostegno di quanto immaginassi. Non avevo ancora ritrovato l’equilibrio.

«Ti senti ancora indebolita dalla corsa? O è stato il mio bacio da maestro?». Scoppiò a ridere, spensierato e umano come non mai, senza un’ombra di inquietudine sul volto serafico. Era un Edward diverso da quello che avevo conosciuto. E ciò aumentava la mia infatuazione. A quel punto, separarmi da lui sarebbe stato un dolore fisico.

«Non so, mi sento ancora imbambolata», riuscii a rispondere. «L’uno e l’altro, penso».

«Forse è meglio che guidi io».

«Sei pazzo?».

«Sono un pilota migliore di te nella tua forma più smagliante. Hai i riflessi molto più lenti dei miei».

«Certo, ma non credo che i miei nervi o il mio pick-up possano farcela a sostenerti».

«E dai, Bella, un po’ di fiducia».

Stringevo forte la chiave del pick-up nella tasca dei pantaloni. Serrai le labbra e scossi la testa sorridendo.

«No. Nemmeno per sogno».

Mi guardò incredulo.

Allora mi avvicinai al posto di guida, cercando di scansare Edward. Forse mi avrebbe lasciata passare, se non avessi barcollato in quel modo. O forse no. Le sue braccia attorno alla vita furono una trappola a cui non riuscii a sfuggire.

«Bella, fino a questo momento il mio sforzo personale nel tentativo di salvarti la vita è stato enorme. Non permetterò certo che tu ti metta al volante nel momento in cui non riesci nemmeno a camminare in linea retta. Oltretutto, gli amici non lasciano guidare chi ha bevuto, lo sai». Sorrise della sua battuta. Sentivo l’aroma dolce e irresistibile irradiato dal suo petto.

«Pensi che sia ubriaca?».

«Sei intossicata dalla mia presenza». Riecco quel ghigno malizioso.

«Non ti posso dare torto». Non avevo scelta: era inutile girarci intorno e ostinarmi a resistergli. Lasciai oscillare la chiave e la mollai all’improvviso; sotto i miei occhi la sua mano schizzò e la prese al volo, silenzioso e veloce come un lampo. «Vacci piano», lo avvertii, «il pick-up è un pensionato».

«Molto ragionevole», disse con approvazione.

«E tu, non sei nemmeno scalfito dalla mia presenza?», chiesi maliziosa.

Ancora una volta la sua espressione si trasformò e i suoi tratti si fecero dolci, caldi. Anziché rispondere, avvicinò il viso al mio, inclinandolo leggermente, e prese a sfiorarmi lento con le labbra, dall’orecchio al mento, avanti e indietro. Tremavo.

«E in ogni caso», mormorò, «i miei riflessi sono più pronti dei tuoi».

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