Un paio di settimane più tardi, l’appartamento era in ottimo stato. Avevamo continuato a dipingere di sera e nei weekend. A quel punto, organizzammo un party, e la parete di Marion fu l’anima della festa. C’erano diciannove ospiti, molti amici dei giorni alla University of California di Berkeley, il posto dove Jan e io ci siamo conosciuti. Ce n’erano altri della Crown Zellerbach Company, l’azienda di Market Street dove lavoro. E la coppia del pianterreno, i Platt; Jan aveva fatto amicizia con Myrtle Platt alle cassette della posta del portico. Myrtle era un’allegra casalinga in sovrappeso, e dopo che lei e suo marito furono arrivati ed ebbero saputo tutto della parete (la prima cosa sulla quale ogni ospite doveva essere informato, ovviamente), lei scese a casa sua e tornò su con un enorme volume, una storia illustrata del cinema che io conoscevo, ma non potevo permettermi. Tutti si raccolsero attorno al libro, aperto sul tavolo che Jan aveva sistemato a ridosso di una parete, coi liquori e il necessario per preparare cocktail. E Myrtle sfogliò le pagine, in cerca di una foto da Ragazze focose. Ma non ce n’erano. Il film non veniva nemmeno menzionato.
Ellis Pascoe disse: — Quel film non è mai esistito. — Era un mio ex insegnante universitario, un ometto magro, barbuto, che mi raccontava sempre che il suo sogno sarebbe stato fare il professore a Oxford. — Non riconosci la grafia truccata di Nick, Jan? Lo sa Iddio se non la riconosco io, dopo tutte le sue prove scritte da semianalfabeta che ho dovuto leggere. Ti sta prendendo in giro. Quelle frasi le ha scritte lui per non dover togliere il resto della tappezzeria.
Drink alla mano, scrutando la parete di Marion, il gruppo azzardò ipotesi su ciò che poteva apparire su ulteriori strati della carta da parati dei Cheyney: un’enorme X sulla parete più grande, che sarebbe stata l’autografo di King Kong; un proclama di Walt Disney sulle bizzarre abitudini sessuali di Topolino. Ma non era possibile scacciare a forza di battute la realtà della grande scritta rossa. Conservava il suo mistero, e nessuno di noi, compresi Jan e me, poté impedirsi, in un momento o nell’altro della serata, di scrutare la parete di Marion. Dopo il party, mentre lavavamo i piatti, lasciammo entrare Al per uno spuntino di mezzanotte, prima di rimandarlo alla sua cuccia in cortile; e decidemmo che togliere il messaggio di Marion era del tutto fuori discussione: era diventato il pezzo forte di casa nostra.
Arrivò la primavera. Ci godemmo l’ultimo weekend della stagione a base di sci a Sugar Bowl, in marzo, e il weekend successivo un’amica di Jan dei tempi dell’università ci invitò a casa dei suoi a Tahoe, e andammo a fare sci d’acqua. A San Francisco c’è un meraviglioso nightclub ispirato ai vecchi tempi dell’età del jazz che si chiama Earthquake McGoon, e un paio di volte l’anno, in una cittadina della California, Volcano, il locale tiene un festival cinematografico. Invitano amici e clienti, noi compresi, e io non me lo perderei mai, a meno di avere una febbre da cavallo: grandi vecchi film della cineteca del dottor James Causey, della quale mi piacerebbe possedere anche i fondi di magazzino. Ci andammo; e vedemmo qualche nuovo film, leggemmo qualche libro, andammo a vedere un allestimento teatrale. Ci vennero a trovare amici, e noi ricambiammo le visite. In sei, un weekend, organizzammo un giro in bicicletta a Golden Gate Park. E a maggio, per il mio compleanno, Jan mi regalò un film a otto millimetri, Il segno di Zorro, con Douglas Fairbanks. Le costò cinquantacinque dollari e novantotto cent alla Blackhawk Film, molto più di quanto avrebbe dovuto spendere per il mio regalo, ma io fui felicissimo di avere la pellicola.
Arrivò l’estate, e cominciammo a parlare di cosa fare nelle mie tre settimane di ferie in luglio, però non mi veniva in mente niente che potesse essere il massimo del divertimento a costo zero. L’estate prima, eravamo stati a Tahoe per dieci giorni, e l’estate ancora prima a New York, per cui non muoverci quell’anno non ci dispiaceva poi molto. Per un paio di weekend uscimmo in barca nella Baia con qualche amico, e parlammo di comperare un’imbarcazione tutta per noi, ma sapevamo già di non potercela permettere. Io diedi una ritoccata alla vernice della Packard e le misi una marmitta nuova. E nel frattempo, in tutta questa grande allegria, continuai ad andare al lavoro dalle nove del mattino alle cinque e un quarto del pomeriggio, esclusi i compleanni di Lincoln e di Washington.
Una sera di giugno, tornando dal lavoro, scesi come al solito dal bus a due isolati da casa. Da lì, il percorso è quasi tutto in salita, e la giornata era stata piuttosto calda, sui trenta gradi, un clima splendido; così mi tolsi la giacca. La temperatura cominciava appena a scendere, mentre la prima nebbia calava sulla Baia. Salendo la collina di Buena Vista, con la giacca sulla spalla, con la panoramica della città che si espandeva sotto di me, mi sentii lieto come tutte le sere di quello spettacolo bianco pastello. E dello splendore della Baia, delle colline e montagne attorno, e di quanto restava della vecchia San Francisco. Gli speculatori interessati ai soldi stavano distruggendo la città il più in fretta possibile, bloccavano le vecchie visuali con edifici sempre più alti (lodati dal sindaco, approvati dai consiglieri comunali); e la distruzione della Baia con nuove costruzioni e inquinamento continuava. Ma c’era ancora parecchia bellezza da abbattere, prima che riuscissero a manhattizzare o milwaukizzare San Francisco; c’erano ancora molte cose belle da guardare. E io, cresciuto tra le pianure del Midwest, apprezzavo quel posto, e ormai ci vivevo da tanto tempo da sentirmene parte.
Arrivato al mio portico, leggermente senza fiato dopo la salita, pensai come sempre che avrei dovuto cominciare a fare jogging. E mi fermai a guardare un’altra volta la città, convinto di provare le stesse sensazioni di prima. Invece, in quel momento, senza un motivo comprensibile, venni trafitto da una perfida pugnalata di depressione. Era già successo, e c’ero abituato; com’ero abituato alla successione quasi automatica di pensieri che accompagnavano la depressione. L’idea stessa di quei pensieri mi annoiava e mi deprimeva a priori, così saltai quelli più grossi, i grandi problemi nazionali e internazionali dei quali sarete stanchi anche voi. Il pensiero successivo era l’idea che ormai da quasi cinque anni lavoravo in un posto che in teoria doveva essere solo un punto di passaggio fra l’università e chissà cosa; bastava solo che io scoprissi cosa realmente volevo fare. Ma per il momento, l’unica cosa che avessi scoperto era che non esisteva alcuna professione che mi interessasse sul serio. E nella mia testa aveva cominciato a prendere piede l’inquietante idea che quel lavoro (che era abbastanza gradevole, e nel quale riuscivo piuttosto bene, ma che non aveva il minimo rapporto con un solo tratto significativo della mia personalità) potesse essere permanente. Un giorno, incredibile!, avrei potuto trovarmi in pensione dopo avere trascorso tutta la mia vita lavorativa alla Crown Zellerbach. Poi giunse la consapevolezza che per Jan e me era l’ora di fare un figlio. Era un nostro desiderio, sul serio. A me piacciono i bambini, e piacciono anche a Jan, e prima o poi li avremo, ma come tanta gente avevamo deciso di concederci prima qualche anno senza problemi, e io non ero mai pronto a dire che gli anni senza problemi erano finiti. Poi c’era tutta una serie di altri pensieri altrettanto cupi e rituali. L’intera sequenza era diventata automatica, e io me ne stavo lì, col cervello quasi inerte, a fissare la città (centinaia di finestre erano un unico bagliore arancio nella luce del sole al tramonto), quando sentii aprirsi una finestra sopra il tettuccio del portico.
— Nick?
— No. Nick resta in ufficio fino a tardi. Io sono il teppista di quartiere, Rupert lo Stupratore. Apra, signora. Oggi tocca a lei.
— Cosa ci fai lì?
— Sto in equilibrio su una gamba sola. Sto cercando di stabilire il record mondia…
— Vieni su, Nick! Ho qualcosa da farti vedere!
— Okay. — Mi girai verso la porta, ed estrassi la chiave, ma prima che potessi infilarla nella serratura, sentii Jan correre giù per le scale. Spalancò la porta e mi sorrise, tutta eccitata. Indossava il pullover e i calzoni grigi che aveva comperato col buono-regalo che sua madre le aveva donato per Natale. Aveva in mano una rivista di piccolo formato, Tv Guide, e il pollice era infilato tra le pagine. Non parlò. Aprì la rivista e puntò l’indice. Le brillavano gli occhi.
Giovedì 14 giugno, lessi in cima alla pagina, e vidi che l’unghia smaltata di Jan era appoggiata sul disegnetto a forma di schermo televisivo, con un 9 stampato in bianco. La data di quel giorno; il Canale 9 era la rete televisiva della zona della Baia. Le presi di mano la rivista e, mentre salivo le scale, lessi il pezzo. 21,30. ALLE ORIGINI DEL CINEMA. Ragazze focose, film muto degli anni Venti con Richard Abel e Blanche Purvell: bonacce piene di liquore, gioventù sfrenata, automobili veloci, e feste da capogiro. Accompagnamento al pianoforte basato sullo spartito originale di Mabel Ordway.
Sorridevo quando arrivammo al nostro pianerottolo. — Ragazza, tu non lo sai, ma probabilmente mi hai appena salvato la vita. — Baciai Jan, con molto trasporto: e lei arrossì. — Adesso come diavolo riuscirò ad aspettare fino alle nove e mezzo?
Alle nove e ventotto accesi il televisore del soggiorno, lo sintonizzai sul Canale 9, e aspettai che si materializzassero immagini e suoni. All’altro lato della stanza, Jan sedeva sul divano imbottito, e Al era sdraiato sul tappeto, più o meno fuori combattimento com’è di solito dopo cena. Arrivò il sonoro: la voce di un uomo con un sottofondo musicale. La musica crebbe di volume, e la voce svanì. Poi l’immagine si gonfiò sino a riempire lo schermo, ruotando lentamente dall’alto in basso. Sintonizzai i comandi, e l’immagine si fermò. Due uomini, su sedie di plastica, stavano l’uno di fronte all’altro. Uno ascoltava e annuiva a lenti cenni del capo; le labbra dell’altro si muovevano, ma non si udiva parola, perché la musica sovrastava completamente la voce. La telecamera indietreggiò, e i due cominciarono a rimpicciolire, senza smettere di parlare. Uno dei due rovesciò la testa indietro in una risata. Sembravano totalmente presi da ciò che stavano dicendo, al punto di non essersi accorti che il programma era finito.
Mi sedetti sul divano. Sullo schermo apparve il logo della stazione televisiva, KQED. Per un po’ di tempo, una ventina di secondi o più, le lettere rimasero lì, mute; c’era solo il ronzio del televisore. Dissi: — Questa sì è classe. Niente annunci pubblicitari. — Mi allungai sul divano, stesi le gambe, e appoggiai i piedi (portavo un paio di pantofole molto morbide) su Al, che si trovava esattamente al posto giusto. Lui alzò la testa, a guardare dapprima me, poi i miei piedi. Potevo leggergli nel pensiero. Si stava chiedendo quale fosse la mossa meno faticosa: fare lo sforzo di alzarsi e sfuggire alla mia portata, oppure restare sdraiato e sopportare in silenzio. Ci pensò su, poi riabbassò la testa; con un sospiro, mi pare. Gli dissi: — Questo fa parte del tuo mestiere di cane, Al. Non basta abbaiare ai quattro venti. Devi guadagnarti la tua scatoletta quotidiana di cibo per cani da settantanove cent. Si paga tutto. — Con uno sforzo supremo, lui sbatté due volte la coda sul pavimento, e io tolsi i piedi dal suo corpo. Il logo della stazione televisiva svanì, e apparve la scritta ALLE ORIGINI DEL CINEMA, sovrimpressa su una fotografia di Charlie Chaplin. L’improvvisa colonna sonora fu una tempesta di pianola meccanica. Un bel giovanotto, in giacca e cravatta a farfalla, spuntò sullo schermo. Lo sfondo dipinto alle sue spalle rappresentava la cassa di un cinematografo. Il giovanotto parlò in tono gradevole, e con aria apparentemente autorevole, dei film degli anni Venti. Le solite balle. Dissi: — Lo vedi il sorrisetto divertito? Indica che quello sa che i vecchi film sono un po’ ridicoli. Però nota la voce misurata, il tono accademico. Nessuno potrà mai accusarlo di prenderli in giro.
— Ma cos’hai stasera?
— Sono Samuel Johnson. La mia mente è un bisturi. Riesco a vedere dietro tutte le facciate fasulle. La verità è che per quanto possa sembrare ridicolo, sono eccitatissimo.
— Anch’io.
Lo schermo diventò scuro, e (con Jan protesa a spalle in avanti per l’entusiasmo) il titolo del film apparve a lettere bianche su un fondo nero che era sbiadito, non completamente nero. Ragazze focose, diceva incredibilmente, in un grazioso corsivo d’epoca. Un film Paramount. L’accompagnamento al pianoforte (non più una pianola meccanica, grazie a Dio) diminuì di volume fino a diventare uno sfondo quasi impercettibile, però di importanza essenziale: ci ritrovammo in un altro tempo, molto prima che il cinema possedesse il sonoro. I titoli di testa corsero veloci, e piuttosto concisi. Lo schermo tornò buio per un attimo; poi apparve un’enorme automobile con tanto di chauffeur che imboccava un sentiero circolare in ghiaia, passando fra due alti cancelli in ferro battuto. Jan mi strinse il braccio. — Non posso crederci! La tensione mi uccide! Vedremo Marion Marsh!
L’auto sullo schermo rallentò, poi si fermò davanti alla scala in pietra di una grande casa di campagna. Mi protesi in avanti a scrutare, e riuscii a identificare l’ornamento sul radiatore: una Pierce Arrow. Apparve un sottotitolo: Una ricca villa di Long Island. Lo chauffeur aprì una portiera posteriore della berlina e aiutò a scendere un’anziana signora. La donna aveva gli occhialini col manico; indossava un vestito lungo e un cappello rotondo a tese larghe, leggermente curvo in alto. Dissi: — Sembra che abbia in testa una torta.
La scena cambiò: l’interno di una grande stanza (tappezzeria e lance incrociate alle pareti), con porte finestra spalancate che davano su una veranda in pietra, con un’imponente balaustra in pietra; dietro la veranda, un prato enorme si stendeva in distanza. Non riuscii a capire se fosse vero o fosse uno sfondo dipinto. L’anziana signora con gli occhialini col manico stava entrando nella stanza, e dalla veranda le andava incontro una giovane donna: Blanche Purvell, la star del film. In contrasto con l’abito della vecchia, il suo arrivava solo alle ginocchia ed era senza maniche. — Belle gambe — dissi, e sorrisi quando Jan mi lanciò un’occhiata.
Il ritmo della storia era veloce: Blanche Purvell era una ricca ereditiera, innamorata di un uomo povero che viveva nella città vicina, anche se la madre, la donna degli occhialini, non era d’accordo. Apparve il giovanotto. Consegnava generi di drogheria; portava un berretto bianco a punta curva, camicia bianca, cravatta, e un maglione. Con l’aiuto di una signora di mezza età in tenuta da cameriera, scaricò tutto da un cestino di vimini sul tavolo di una cucina molto strana, molto vecchiotta. Poi arrivò la ragazza. I due si scambiarono un sorriso d’amore mentre la cameriera non guardava, poi uscirono da una porta sul retro. Si incamminarono su una distesa d’erba, superarono un paio di campi da tennis dove gente giovane stava giocando. Mi chiesi dove fossero state girate quelle scene, e cosa ci fosse adesso al posto dell’erba: la rampa di una superstrada, probabilmente, oppure un centro commerciale con un parcheggio da cinque acri. La coppia proseguì verso un furgone, un Model T Ford nero con un tettuccio lungo e curvo che andava dal parabrezza alla sponda posteriore. Gli sportelletti laterali erano aperti. Era parcheggiato su una strada bianca.
Mentre attraversavano l’erba verso il furgone, la ragazza si guardò attorno, lanciò un’occhiata alla casa, poi lei e il ragazzo si tennero per mano per tutto il resto del percorso. — A lui interessano i soldi — disse Jan.
— Naturalmente. Porta quel berretto idiota perché è calvo come una palla da biliardo, e lei non lo sa.
— Che sorpresa, quando lui se lo toglierà in luna di miele.
— Bisogna vedere se lo toglierà.
Apparve una spider coi raggi delle ruote in legno, la capote abbassata. Frenò bruscamente; le ruote sembravano girare all’indietro. Una nube di polvere avvolse ragazzo e ragazza, e Jan mormorò: — Che splendore. — Un giovanotto in completo da tennis, con un golf di lana sulle spalle, saltò giù scavalcando la portiera chiusa dell’automobile. Aveva in mano un paio di racchette da tennis. Scrutò con aria di superiorità il furgone, poi con un cenno imperioso ordinò alla ragazza di seguirlo verso i campi da tennis. — Lo adoro! — disse Jan.
— Sei una snob. — Sullo schermo, la ragazza girò sui tacchi per mettersi alle calcagna del tipo in tenuta da tennis, poi si voltò a lanciare un’occhiata struggente al giovanotto rimasto davanti al furgone. Parlò, e mentre le sue labbra si muovevano, io dissi: — Ti amo, Ralph, ma Frank ha un odore migliore. — Sullo schermo, un sottotitolo disse: Preferirei restare con te!
Perdemmo interesse: la storia correva troppo veloce e troppo ovvia, e il mondo al quale faceva riferimento (se faceva riferimento a qualche mondo) era remoto al punto dell’incomprensibilità. Il film era la copia di una copia, probabilmente; i volti erano slavati, bianchissimi, e Jan mormorò: — Sono tutti occhi, labbra e sopracciglia, come nelle vecchie fotografie.
— Già. Sai una cosa? Questo film è stato girato grazie alla luce riflessa in un obiettivo. La luce proiettata dai volti di persone reali. Che un tempo esistevano davvero, e in quella certa scena facevano proprio quello che stiamo vedendo. Lo so, però non ci credo. Questo è stato sempre e solo un vecchio film, e al di fuori del film tutti loro non sono mai esistiti.
Le note del pianoforte non si interruppero mai. Neri, grigi e bianchi continuarono ad alternarsi sullo schermo, e noi restammo a guardare in preda all’apatia. Di tanto in tanto, con l’altro di guardia, uno di noi due si alzava per andare a prendere qualcosa da mangiare, qualcosa da bere, fare un salto in bagno, o un giro in casa. Stavamo seguendo il film da più di quaranta minuti, e io ero in cucina, seduto al tavolo, a leggere le pagine sportive (verdi) del Chronicle e mangiare patatine fritte. Il rumore del sacchetto e il profumo delle patatine avevano miracolosamente risvegliato Al dal suo coma. Adesso era seduto sul pavimento a guardarmi, come una goffa imitazione basset hound del terrier che stava di fronte al fonografo nei vecchi annunci pubblicitari, a testa piegata, orecchie ritte (o almeno, fino al massimo del ritto di cui era capace), e ogni tanto io gli lanciavo una patatina. Ho tentato di insegnargli ad afferrare le cose al volo, ma i suoi occhi non sono esattamente perfetti; e ogni patatina gli atterrava sul naso, rimbalzava sul pavimento, e lui doveva andarla a cercare. Poi la mandava giù in un sol boccone e ricominciava a guardarmi, in attesa di altri rifornimenti.
Al mi piace, come penso di aver già lasciato capire, e i suoi occhi mi affascinano. Sono così grandi e castani, così umani e innocenti. È come se un bambinetto di quattro anni, colmo di fiducia, vi guardasse negli occhi da un peloso muso canino marrone e bianco. Era ciò che Al stava facendo in quel momento, e io mi sporsi dal tavolo a guardarlo diritto negli occhi e fargli una domanda vecchia e familiare in quella situazione. — Senti, ma tu chi sei? Tu che stai lì dentro? Sul serio. Non mi freghi, sai, con quel folle costume da cane. — Sollevai una delle sue orecchie marroni incredibilmente lunghe. — Nessun cane ha orecchie ridicole come queste. È qui che hai commesso il tuo grande errore! — Di colpo, balzai in ginocchio al suo fianco, lo afferrai sotto le zampe anteriori, e lo coricai sulla schiena. Tenendolo fermo sul pavimento con una mano, mi misi a frugare nel pelo bianco del suo petto. — Dov’è la cerniera lampo? Adesso ti tolgo questo stupido costume da cane! Ti sbugiardo per l’impostore che sei! — Era un vecchio gioco, il tipo di spupazzamento che Al adora. Si mise a lottare con le zampe posteriori e con denti molto cauti. Dopo un minuto, lo lasciai rialzare, lo calmai con un po’ di grattate dietro le orecchie. — Okay, hai vinto un’altra volta. — Gli diedi una patatina. — Sei furbo, come no. Lo sappiamo. Però quella cerniera c’è, e un giorno o l’altro la troverò.
— Nick, ci siamo, credo! — strillò Jan. Versai a terra le ultime patatine per Al e corsi fuori dalla cucina.
La scena era un party nella grande stanza dell’inizio del film, adesso piena di gente. Al pianoforte a coda, con le spalle che sussultavano al ritmo rapido della musica, sedeva un giovanotto con un filo esilissimo di baffi e capelli neri, impomatati, pettinati all’indietro. Al suo fianco, sul sedile, una ragazza in gonna corta beveva frequenti e rapidi sorsi dal drink che teneva in mano. L’altra mano si muoveva nell’aria all’altezza delle spalle, apparentemente a tempo col pianoforte. Un’altra ragazza era coricata sul piano, col mento tenuto su dalla mano destra; nella sinistra aveva un bicchiere da cocktail. I tappeti erano stati arrotolati, e le coppie ballavano a ritmo frenetico. Su un’ampia scalinata curva era seduta gente che si baciava; diversi altri tizi, sdraiati su un divano, mimavano l’ebbrezza alcolica. Quasi tutti avevano in mano un bicchiere da cocktail, e bevevano spessissimo, rovesciando indietro la testa.
Una cosa completamente irreale. Quegli individui e quel party non erano mai esistiti. Quelle antiche fotografie che piroettavano mute alla musica di un implacabile pianoforte erano assurde. L’obiettivo della macchina da presa si spostò lentamente ai margini della festa, e rivelò: una coppia ubriaca in maniera esagerata, seduta sotto un tavolo; un maggiordomo privo d’espressione che entrava con un vassoio di bicchieri pieni e una bottiglia che qualcuno gli rubò immediatamente; una partita di dadi sul pavimento, con maschi e femmine tutti in ginocchio; un gruppetto di uomini (compreso l’arrogante tennista, adesso in smoking) che accerchiavano una ragazza, quasi al punto di nasconderla.
Poi due degli uomini, come per caso, si spostarono, e apparve la ragazza, e noi sgranammo gli occhi: sapevamo, da quanto aveva raccontato mio padre, che era Marion Marsh. In un abitino corto, molto anni Venti, come tutte le altre donne; coi capelli alla maschietta come tutte, con una ciocca a forma di J su ogni guancia, e il viso bianco come tutti gli altri, Marion restò ad ascoltare uno degli uomini. Poi sorrise e gli rispose, e io, senza sapere perché, mi resi conto che aveva catturato la mia attenzione. In un modo assolutamente indefinibile, grazie alla semplice magia di una personalità rara, diversa, quella ragazza sembrava reale, a differenza degli altri. Era una figurina granulosa in un angolo dello schermo, però parlava sul serio. Mi sorpresi a protendermi in avanti sul divano, come se in quella maniera mi fosse possibile udirla; e avrei voluto udire. Alzò la mano, scosse l’indice, rimproverando scherzosamente uno degli uomini, poi sorrise, e Jan e io sorridemmo con lei. In finta supplica, uno degli uomini intrecciò le mani in preghiera, poi prese Marion per il gomito; cercò di allontanarla dagli altri; e quando lei scosse dolcemente la testa, e piegò le labbra in un sorriso di rifiuto, io la desiderai come donna. Per chissà quale motivo, che non ho capito allora e non capisco oggi, a differenza di tutte le altre figure di quella scena assurda, quella figura in grigio e bianco era viva.
Distolse gli occhi dagli uomini che aveva attorno, scrutò la stanza. E l’ombra di noia che apparve sul suo viso in quel momento, e che svanì non appena lei si girò di nuovo verso il gruppo, era genuina. Guardandola riprendere la conversazione, mi parve di capire i veri sentimenti della donna che interpretava; in seguito ricordai l’intera scena come se avessi udito la sua voce. E in quell’attimo mi sembrò addirittura credibile che le caricature attorno a lei, gli uomini che quasi saltavano nell’esagerata enfasi dell’attenzione per Marion, provassero davvero ciò che stavano recitando. La macchina da presa si mosse, l’immagine di Marion rimpicciolì, la scena svanì sullo sfondo, e io mi protesi in avanti per cogliere le ultime immagini di lei. E quando Marion scomparve del tutto dall’inquadratura, io restai sotto l’incantesimo della sua presenza, con la netta sensazione che lei stesse ancora sorridendo e parlando fuori campo.
Quell’impressione durò per un lungo momento, nell’interminabile musica del pianoforte, con i fotogrammi che continuavano a scorrere senza più avere il minimo significato per me. Poi uscii dalla trance e guardai Jan. — Ragazzi — mormorai. — Aveva la scintilla. L’aveva sul serio.
— Sì… Oh, potrei mettermi a piangere! Nick, sarebbe diventata una star! Il suo nome ci sarebbe stato noto come…
— Lo so. Come quelli di Norma Talmadge o Clara Bow. Non c’è il minimo dubbio.
— Be’, è un peccato! Pensa a come deve essersi sentito tuo padre guardando il film.
— Gli è passata da un bel pezzo, ne sono certo.
Restammo davanti al televisore per qualche altro minuto, poi Jan disse: — Non credo di poter resistere ancora mezz’ora, Nick. Sono quasi le dieci e mezzo, e sono stanca. Ma sono così contenta di averlo visto. — Si girò a guardare le parole di Marion sulla parete alle nostre spalle.
— Si vede ancora. Alla fine.
— Solo per un secondo, o così ha detto tuo padre, e io sono troppo stanca. Oggi ho fatto le pulizie di casa. Tu guarda pure, se vuoi. Io vado a letto e continuerò a pensare a lei finché non mi addormenterò.
— Okay. Prima “biscotta” fuori il vecchio, ti spiace? — Non ricordo come fosse iniziata la cosa, ma alla sera, anziché ricorrere ai metodi bruti e semplicemente ordinare ad Al di uscire, gli passavamo un biscotto sul naso. La sua lingua guizzava automaticamente fuori dalla bocca e dava una ripassata al naso. Lui mandava giù le briciole di biscotto, sgranava gli occhi, si alzava con scatto atletico, trotterellava in cucina e usciva dalla porticina tutta per lui che avevo installato alla base della porta. Quando era in cortile, gli davamo il biscotto e lo chiudevamo fuori. Veloce, semplice; niente discussioni e tutti contenti, almeno finché Al non aveva divorato il biscotto.
Jan mi diede un bacio sulla guancia, biscottò fuori Al, e io restai a guardare il film fino in fondo, per un’altra trentina di minuti, rovesciato sul divano, mezzo sveglio e mezzo addormentato. Negli ultimi istanti di Ragazze focose, una sposa, Blanche Purvell, lanciava il bouquet a un gruppo di damigelle d’onore ai piedi della scalinata, e Marion Marsh si intravedeva per qualche altro attimo. In effetti, faceva esattamente le stesse identiche cose di tutte le altre damigelle, e la si vedeva per non più di quattro secondi, prima che il suo viso venisse nascosto da un braccio che si sollevava. Ma mi aveva catturato; si era fatta un fan. E, annuendo, dissi a me stesso che anche in quella scena così breve lei spiccava fra le altre. Fine, disse il sottotitolo sullo schermo. La musica di pianoforte svanì mentre io mi alzavo per andare a spegnere il televisore, prima che il tizio col cravattino tornasse a spiegarci cosa avevamo visto. — Be’, Marion — dissi, mormorando nel silenzio appena nato — eri grande. Assolutamente grande.
— Sì.
La luce del televisore si stava riducendo alle dimensioni di un minuscolo diamante. Io rimasi immobile, col sangue che defluiva dalla superficie della mia pelle. Misi al lavoro il cervello, in cerca di alternative. Ma non ce n’erano. Non potevo negare l’inconfondibile differenza tra una cosa semplicemente immaginata e una cosa reale. Sapevo di avere veramente sentito quell’unica parola, pronunciata con perfetta chiarezza, da una voce femminile piacevolmente rauca che non era quella di Jan. L’idea di muovermi non mi andava a genio, però mi mossi; girai la testa a scrutare l’intera stanza, nella fioca luce che entrava dalle finestre. Una trave del soffitto emise un crepitio legnoso, contraendosi dopo il caldo della giornata; ma sapevo di cosa si trattava, c’ero abituato, e continuai a frugare la stanza con gli occhi.
Il buio non era sufficiente per permettere a qualcuno di nascondersi, e non si vedeva nessuno. Lo sapevo già; sapevo più di quanto volessi permettermi di ammettere; e i capelli sulla nuca e i peli sulle mie braccia erano diritti, elettrici.
— Nick, sono io.
— Chi?
— Marion — rispose la voce, spazientita.
— Marion… — Mi costò un notevole sforzo dirlo. — Marsh?
— Naturalmente! Dovevo vedere il mio film. Dio, non ero brava?
Annuii, poi mi venne in mente che magari lei non poteva vedermi, e dissi: — Sì — ma mi si spezzò la voce. Mi schiarii la gola, ritentai, e questa volta la voce era troppo alta. — Sì, eri brava! — dissi. — Sei un… — E di nuovo mi fu difficile pronunciare quella parola. Era troppo ridicola. — Un fantasma?
Ci fu un lungo silenzio. Forse non avrei più udito altro. Poi, perplessa e leggermente divertita, colma di meraviglia come se l’idea fosse del tutto nuova, la voce disse: — Suppongo di sì. — Una risata. — Ma pensa tu! Però sì, immagino che debba essere un fantasma. Possiamo tornare nei posti dove abbiamo vissuto, sai, anche se sono in pochi a farlo. Richiede tanta… Tu come la chiameresti?
— Energia metapsichica? — Ero talmente affascinato che mi ero scordato di avere paura. Anzi, ero eccitatissimo. Immaginavo già di raccontarlo a Jan, ai colleghi in ufficio, ai party.
— Sì, qualcosa del genere, suppongo. Bisogna proprio avere voglia di tornare. E io l’avevo, credimi! Il mio film, e non lo avevo mai visto! Finalmente proiettato qui in casa mia! Cos’è quell’affare?
— Un televisore.
— Serve a vedere i film?
— Sì. Soprattutto a quello.
— Però non è il massimo, eh? Così piccolo. Ma che differenza fa? Finalmente ho visto il mio film! Sono rimasta tagliata fuori, ricordi?, a soli vent’anni.
— Ventuno, no? — Non mi ero più mosso; non mi era venuto in mente di farlo.
— Oh, chi se ne frega? Perché è tanto importante? A te è sempre piaciuto sottolineare che eri un po’ più giovane di me.
Non vedevo l’utilità di correggerla. Dissi: — Senti, com’è? Dall’altra… — Odio frasi del genere, ma non mi veniva in mente nessun surrogato. — Dall’altra parte?
— Oh… — La voce fece una pausa. — Un po’ come essere sbronzi. Ci si sente piuttosto bene e non si pensa molto. Com’è essere vivi? Io l’ho quasi dimenticato.
— Il contrario, grosso modo. Marion, senti, potresti apparire? Come realmente eri. Come sei. Come eri.
— Oh, Nickie, è fantasticamente difficile. Anche solo per un secondo o due. Dev’essere per questo che i fantasmi spariscono così in fretta, non credi? L’unico mezzo per poter restare in circolazione per un po’ di tempo è la possessione.
— Cioè?
— Entrare in qualcuno. Si può fare solo per un motivo terribilmente importante.
— Però tu puoi apparire per qualche secondo. Lo vuoi fare? Ti prego. — Alla fine, mi venne in mente che potevo anche sedermi, e così mi buttai sull’orlo del divano.
La voce era morbida. — Vuoi rivedermi ancora una volta, eh, Nickie? Sei dolce. Se solo non avessimo litigato! Tutto sarebbe potuto essere così diverso. Va bene. Guarda nell’angolo verso l’ingresso, dall’altra parte delle finestre.
Guardai, e quello che vidi fu un convergere, un raccogliersi di luce dal resto della stanza. Alla periferia della mia visuale, gli angoli del soggiorno e il bianco del soffitto divennero palesemente più scuri; poi svanirono nell’oscurità totale. La luce si riversò sul pavimento. Poi corse veloce lungo il battiscopa, come in un piccolo banco di nebbia; si concentrò e cominciò a sollevarsi nell’angolo buio al lato opposto della stanza, dapprima grigia come nebbia, poi soffusa di un fioco chiarore, iridescente. All’improvviso, un’esplosione di colori che fluirono l’uno sull’altro, si separarono, assunsero consistenza, si fissarono in forme ben definite. E poi apparve lei, sorridente.
La figura era trasparente. La parete era chiaramente visibile dietro lei. Però Marion era perfettamente nitida e chiara. Indossava un vestito blu e verde; l’orlo della gonna arrivava alle ginocchia di (rimasi stupefatto di me stesso per essermene reso conto) un paio di gambe meravigliose. L’incarnato era di un delizioso colore tra rosa e bianco, e, sorprendentemente, i capelli che nel film non sembravano biondi erano invece gialli. Mi guardava, abbassando di tanto in tanto le palpebre degli occhi azzurri; non era bella, ma molto carina, e trasmetteva la sorprendente sensazione di vitalità che comunicava anche nel film. Con una voce molto più fioca, disse: — Non sei cambiato, Nick. O almeno, solo pochissimo. Sei un po’ più vecchio. Adesso sei più vecchio di me! E sei sposato, vero? La ragazza di prima era tua moglie. Tutti e due qui nel mio vecchio appartamento.
Stavo aprendo la bocca per risponderle, per dirle chi realmente fossi. Ma le sue ultime parole erano scese quasi a livello di impercettibilità, e i colori e l’intera immagine stavano rapidamente perdendo consistenza. Era quasi scomparsa, solo vagamente visibile, quando sollevò un poco la testa. Per la prima volta, parve accorgersi della scritta che copriva la parete dietro il divano, e la perdita di consistenza si interruppe. Forma e colori ripresero una certa sostanza, la conservarono grazie a quello che doveva essere uno sforzo di volontà. Vidi la sua mano salire al petto, vidi gli occhi sgranarsi e il volto piegarsi in una smorfia. Poi la sentii esclamare, a voce molto bassa: — Essere stata viva! — Le vestigia di colori e forma svanirono, e io vidi di nuovo gli angoli della stanza, il chiarore bianco del soffitto. Sussurrai: — Marion? — Ma non mi aspettavo una risposta, e non la ebbi.
Andai alle finestre. Guardai la città, la lunga linea di luci arancio che erano l’unica cosa visibile del Bay Bridge. Pensavo di voler restare lì a riflettere su ciò che era appena accaduto, ma la mia mente era vuota, si rifiutava di pensare; in quel momento, mi sentivo sopraffatto. Dopo qualche momento, con un’occhiata alla parete di Marion mentre passavo, uscii in corridoio e andai in camera da letto.
A letto, Jan era rivolta verso me. Le sfiorai le labbra nel solito bacio della buonanotte, un contatto lieve per non svegliarla. Ma lei era sveglia, almeno parzialmente; si avvicinò a me, e io la presi fra le braccia. Chiusi gli occhi, esausto, contento di poter dormire. Ma l’abbraccio di Jan si fece più intimo, mi attirò al suo corpo, e io sorrisi, sorpreso: quando Jan si addormentava, strapparla al sonno prima del mattino era difficile come svegliare un bambino. Credevo di essere esausto, ma Jan mi lasciò stupefatto, e scopersi di non essere affatto esausto. Ma quando ci coricammo di nuovo fianco a fianco, col mio braccio attorno alla vita di Jan, mi sentii precipitare nel sonno come stessi correndo su una pista per toboga, e ne fui lieto: ciò che era accaduto in soggiorno richiedeva una mole di riflessioni al momento del tutto impossibili. E mi sentivo anche felice, più di quanto fossi da parecchio tempo. Ultimamente, le cose fra Jan e me non erano andate bene come avrebbero dovuto, e non sapevo perché. Niente di serio, però non riuscivamo a trovare un rimedio, e ovviamente problemi del genere te li porti anche a letto. Ma quella sera la tensione fra noi era sparita, di colpo; realmente sparita. Mi sentivo felice e, per quanto insonnolito, quasi esuberante. Che serata straordinaria, pensai, sorridendo nel buio; poi, wham!, caddi addormentato.