5

Domenica mattina, quando entrai in cucina, la colazione era sul fuoco, e io sorrisi e dissi: — Buongiorno — a Jan. Ma lei si limitò ad annuire, e non parlò, non sorrise. Mentre mangiavamo lasciai entrare Al per rallegrare un po’ l’atmosfera, e ogni tanto gli lanciai un pezzo di pane tostato. Come sempre con tutto ciò che gli veniva gettato, il pane cadeva sul pavimento o rimbalzava sul suo naso, e lui doveva andare in cerca del cibo, fiutando come un cane da tartufi. Jan, seduta di fronte a me, era totalmente presa dalla prima pagina del giornale, e io cominciai a parlarle attraverso Al. — Vuoi dire a Jan di passarmi lo zucchero, Al? Grazie… Chiedi a Jan se vuole ancora un po’ di questo caffè assolutamente delizioso. E versalo anche per te, naturalmente.

Dopo un po’ lei accennò un sorriso debole, e disse ad Al: — Digli che oggi può aiutarmi a fare le pulizie di casa. Ce n’è bisogno!

Sopravvivemmo alla giornata trattandoci con estrema cortesia, leggendo da cima a fondo ogni singola parte del giornale; e nel pomeriggio, pulita la casa, Jan fece un sonnellino e io andai a fare una passeggiata con Al.

Ma lunedì sera, quando tornai a casa, lei aveva preparato in soggiorno, sul tavolino da caffè, drink e una ciotola di patatine fritte, e sedemmo a goderci il tutto sul divano, con le schiene rivolte alla parete di Marion. Jan disse che aveva riflettuto. Capiva che ero stato ingannato, e che non era giusto colpevolizzarmi. Lo disse la sua bocca, ma non i suoi occhi; non del tutto; non ancora.

Ma se non altro, ci eravamo riconciliati, per lo meno ufficialmente. Jan, seduta col drink in mano, con una voce che era la parodia della perfetta casalinga e un sorriso in tono, mi chiese: — Allora, amore? Com’è andata la giornata in ufficio?

— Rompiti una gamba — le risposi amabilmente. Poi Al arrivò a salutarmi e accettare qualche patatina. — E com’è andata la tua giornata, Al? — chiesi.

Jan rispose: — Pesante. Ha dovuto abbaiare all’uomo della spazzatura e all’uomo del gas, tutto in un solo ricco giorno.

— Be’, è il suo lavoro, no? — dissi ad Al. — Fa parte della posizione di cane. A tutto l’abbaiare ci pensa lui. Con le sue sole forze. Nessun altro lo aiuta o si offre di aiutarlo, ma lui non si lamenta mai. — Mi ero chinato in avanti verso lui, e anche se sono piuttosto in gamba a schivare, quella volta mi centrò alla guancia con la lingua. Asciugandomi il viso con uno dei fazzolettini di carta che Jan aveva preparato, dissi: — Esito a parlarne, ma dov’è che voialtri cani avete preso l’idea che essere leccati in faccia da un’umida lingua canina possa sembrare minaccioso? Cinquemila anni di status domestico, e ancora non avete capito che non serve a molto. Prova un po’ a trovare un gatto che lo faccia. — Le orecchie di Al si rizzarono alla parola “gatto”. — Loro sì che sono furbi. — Presi una patatina, e lui restò a fissarla. Gliela diedi e dissi: — Lo sai cosa farò di te, ragazzo mio? Ti spedirò via nave in Danimarca. — Lui si passò la lingua sulla bocca e continuò a guardare la ciotola delle patatine. — Là fanno un’operazione che ti trasformerà in un gatto. — Lui rizzò le orecchie, piegò la testa. — Già. Sforbiceranno quelle orecchie grosse, lunghe, mosce e pendule fino a farle diventare graziose, bellissime orecchie a punta come quelle dei gatti. — Gli lanciai un’altra patatina. — Ti insegnano a camminare sugli steccati. All’inizio usano un apparecchietto a ruote per abituarti, poi sono cavoli tuoi. E c’è un corso rapido di miagolio. Oh, ti piacerà moltissimo essere un gatto! — Gli presi un’orecchia e con quella gli diedi uno schiaffetto sul muso. — Un duello, m’sieu? — e lui mostrò i denti in una pigra, finta minaccia, sventolando la coda. Presi un’ultima patatina e gli indicai qualche briciola che aveva lasciato sul pavimento. — Un altro scherzo del genere, e pago un killer perché ti faccia fuori. Chiaro? — Gettai la patatina. Rimbalzò sul suo naso, e lui si aggirò a cercarla, la individuò (era a un metro circa di distanza), e Jan e io ci sorridemmo.

Parlammo. Le mie ferie cominciavano la settimana successiva, e in mancanza di qualcosa di speciale da fare avevamo deciso di restare a casa: visitare i musei, andare a vedere una commedia che doveva essere piuttosto buona, provare un paio di ristoranti dei quali ci avevano parlato. E c’era ancora la camera degli ospiti da dipingere. Bevemmo un altro drink, e Jan mi raccontò cosa le aveva detto Myrtle Platt quel mattino, quando si erano viste alle cassette della posta.

Nell’insieme eravamo abbastanza rilassati, eppure al tempo stesso tesi, sul chi vive, e restammo in quello stato d’animo per tutta la sera. Marion se n’era andata sul serio? Sembrava di sì, però… A letto non facemmo la pace nell’unico modo che conti. Jan aveva paura, mi disse, e io non potevo certo fargliene una colpa. Parlando al buio, decidemmo che nel periodo di ferie avrei anche tolto la tappezzeria dalla parete di Marion.

Martedì rientrai un po’ tardi: una qualche solenne cretinata in ufficio che avrebbe anche potuto aspettare fino al primo mattino del 2001. Jan era in cucina a preparare la cena. La sentii armeggiare e andai direttamente da lei. La prima cosa che dissi, superando la soglia, fu: — Allora? — e lei afferrò al volo. Scosse la testa, sorridendo, e mi mostrò la destra a dita incrociate: Marion non era tornata. La baciai, la strinsi a me, frugai con la mano libera sotto la sua gonna finché non trovai qualcosa di elastico da far schioccare. Poi mi cambiai d’abito, preparai i drink sul gocciolatoio di legno, e bevemmo. Jan restò quasi incollata ai fornelli, io mi appoggiai al lavandino.

Le chiesi: — Jan, cosa provi? All’idea di essere stata… invasata? — Mi pareva che ormai se ne potesse parlare.

— È orribile. — Aveva aperto il forno e stava tastando con la forchetta qualcosa che sfrigolava. — È stato terribile, Nick — aggiunse, armeggiando con la forchetta; poi chiuse lo sportello e si rialzò. — Ero atterrita. — Annuii. Jan sorseggiava il suo drink distrattamente, gli occhi puntati su Al, che era affascinato dalle sue attività al forno. Poi scosse la testa e depositò il bicchiere sul piano d’appoggio più vicino ai fornelli. — No — disse. — Non è questo che provo. È quello che credo di dover provare, e basta. È stato spaventoso. — Ci pensò su. — Vagamente… spettrale. — Sorrise all’aggettivo. — Intravedevo solo in maniera vaga quello che faceva lei. Era tutto molto sfumato. Come guardare attraverso una decina di lastre di vetro. E solo per un istante ogni tanto… Quando lei si stancava, immagino, e per un attimo doveva allentare la presa.

— E com’erano, questi momenti occasionali?

Lei rifletté, poi sorrise, sorpresa della sua stessa risposta. — Interessanti. La vita certe volte può essere un po’ noiosa, è ovvio. Succede a tutti. E devo ammettere che era interessante essere, come dire?, precipitata nella mente e nelle sensazioni di qualcun altro. Qualcuno eccitato e soddisfatto praticamente di tutto ciò che vedeva. È affascinante sapere, sapere sul serio, Nick, come appaiono le cose viste dalla mente di un altro. — Sorseggiò dal bicchiere. Sembrava (la mia impressione era esatta? Non ne ero certo) un po’ triste, e all’improvviso io ebbi la bizzarra sensazione che forse qualcosa fosse scomparso dalla sua vita. Sorseggiando sovrappensiero il suo drink, Jan restò a fissare il nulla; poi i suoi occhi si puntarono su me, sputando lampi di rabbia. — E pensava che tu fossi il miele della vita! — Si voltò, si chinò a spalancare lo sportello del forno e tastare con la forchetta quello che c’era dentro.

Dopo un po’ si tirò su, fece le sue scuse, e io sorrisi, le dissi che era tutto a posto, e… Be’, sopravvivemmo anche a martedì.

Un mercoledì sì e uno no, Jan scendeva a giocare a bridge con Myrtle Platt e un paio di amiche di Myrtle, e Al e io le davamo sempre una mano con i piatti, in modo che potesse uscire al più presto: Al faceva fuori gli avanzi che gli gettavo mentre davo una prima ripulita ai piatti che Jan doveva lavare. Lei si cambiò d’abito, scese, e io mi aggirai un po’ per casa, in cerca di qualcosa da leggere. Quel giorno era arrivato un catalogo di film della Blackhawk, e io sedetti sotto il bovindo (c’era ancora un po’ di luce solare) e segnai un paio di cose che mi sarebbe piaciuto comperare prima o poi, magari per Natale: la versione del 1920 di Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, con Nita Naldi, il mio secondo nome preferito nella storia del cinema muto (il primo è Lya de Putti), e magari The Social Secretary con Norma Talmadge ed Erich von Stroheim. Misi giù il catalogo, e per qualche momento restai a guardare la parete di Marion. Marion Marsh ha vissuto qui, lessi di nuovo. 14 giugno 1926. Lo schienale del divano nascondeva il resto. Poi mi alzai, andai in cucina, sollevai il ricevitore del telefono, e composi il prefisso di zona e il numero di mio padre. Erano circa le venti da noi, le ventidue a Chicago. Lui rispose, e chiacchierammo: di tanto in tanto, uno di noi due chiamava l’altro, soprattutto quando eravamo in ritardo con la corrispondenza. Papà aveva incontrato al Loop un mio vecchio amico, Eddie Krueger, che aveva frequentato molto casa nostra quando io facevo le superiori e quando tornavo a casa dal college per le vacanze, con mia madre ancora viva. — E — disse papà — il clima fa schifo, ma c’era da aspettarselo.

— Già. Senti, volevo chiederti una cosa, papà. Semplice curiosità, ma ci sto pensando da un po’.

— Spara.

— Okay. I Venti. Mi chiedevo…

— I cosa?

— Gli anni Venti. Millenovecentoventi e dintorni.

— Ah. Cosa volevi sapere?

— Erano davvero grandi come si legge sempre? Erano proprio così diversi da oggi? La gente era diversa?

Ci fu una lunga pausa. Nel timore che fosse caduta la linea, aprii la bocca per aggiungere qualcosa, ma mio padre rispose proprio allora. — Be’, ci ho riflettuto anch’io. Devi tenere presente che almeno una parte dei Venti sono stati anche i miei vent’anni. Ero giovane, spensierato, e quando ripensi alla tua giovinezza tendi a vederla attraverso lenti colorate di rosa. E in generale, tendiamo a ricordare il bello del passato e dimenticare il brutto. Sugli anni Venti si è fatta anche molta propaganda. Sono stati molto esaltati. Posto tutto questo, Nick, avendo a mente queste cose e tenendole ben presenti… la risposta è diavolo, sì. Ah, Nick, sono stati un grande periodo. Un’epoca così diversa. Tutto era diverso, allora. Era un momento splendido e glorioso per essere vivi e giovani.

— Ma perché? In che senso?

Un’altra pausa. — Non riuscirò a spiegartelo esattamente. Le cose erano così maledettamente diverse. L’epoca, l’aspetto esteriore delle cose, il Paese stesso. Al diavolo, persino l’odore delle drogherie. E mio Dio, sì, la gente era diversa. Eravamo più fessi. Nemmeno lontanamente furbi quanto voi. A ventun anni, non mi è mai passata per la testa l’idea di mettere in discussione il perché di un certo stato di cose. Così come tu non metteresti in discussione il fatto che al mattino debba spuntare il sole, o che d’inverno debba nevicare. Però a me sembra che fossimo più cordiali. Più tolleranti. Non ricordo l’odio che esiste oggi. Eravamo più rilassati, più interessati alle cose. Eravamo più vivi, cavoli! Sapevamo divertirci. Credo sapessimo a cosa serve vivere. Non riesco proprio a spiegartelo, Nick. Era solo un’epoca migliore. Ritengo di essere stato fortunato a essere giovane negli anni Venti. E provo tristezza per i giovani di oggi. È tutto così maledettamente cupo.

Parlammo ancora un po’. Mi chiesi cosa avrebbe detto papà se gli avessi raccontato di Marion, ma ovviamente stetti zitto. Quando Jan tornò, io dormivo. Avevano giocato un rubber in più, mi disse a colazione, ed era stato lungo.

Verso le dieci di sera di giovedì, misi giù una rivista e guardai Jan. Stava lavorando a maglia su qualcosa che prima o poi, in teoria, si sarebbe trasformato in un maglione per me. Restai a guardarla, sapendo benissimo che in effetti dal suo lavoro sarebbe uscito un maglione. Però, emotivamente, mi è sempre impossibile credere che impastando una matassa di filo di lana con un paio di ferri si possa ottenere un capo d’abbigliamento davvero indossabile: cosa lo tiene assieme?

Jan sapeva che la stavo guardando, e finse di non saperlo. Indossava una blusa bianca e una gonna nera, piuttosto severa; però era molto, molto carina. Dissi: — Jan — e lei alzò gli occhi con un sorriso luminoso. I ferri si fermarono. — Se vuoi perdonare la banalità della frase, non possiamo andare avanti in questo modo.

— Lo so… — Lei riabbassò gli occhi sul suo lavoro.

— Allora, se posso offrire un suggerimento a una signora, perché non ci trasferiamo tranquilli e contenti in camera da letto, mano nella mano, e non ci facciamo una scopata?

Lei arrossì come un peperone.

Jan e io dobbiamo essere i fanalini di coda dell’ultima generazione cresciuta nella convinzione che esistano “brutte parole”. Tanti nostri amici sono solo poco più giovani, appena un paio d’anni o giù di lì, ma questa minima differenza deve essere la linea di confine, e loro sono capaci di pronunciare queste parole senza problemi. E anche se sono persone per bene, molto educate, che si guarderebbero dal menzionare certi termini se qualcun altro non ne accennasse, la differenza è lo stesso palpabile. Io me la sono cavata decentemente: ho fatto il militare, e sono un maschio. Ma Jan ha avuto enormi problemi. Ho scoperto (me lo ha confessato lei) che ha fatto pratica in casa. Lavando i piatti della colazione, per esempio, sola in casa, con le mani infilate nell’acqua saponata, si preparava spiritualmente, poi inspirava una boccata d’aria e diceva: — Fottere! — Dapprima, le è parso un verbo tutto sbagliato, capace di provocare scontri e tensioni, assolutamente inadatto alla buona società. Ma ha perseverato, si è abituata a inserire quella e altre parole de rigueur in frasi da tutti i giorni, allenandosi come si potrebbe fare per perfezionare l’accento francese; e finalmente è riuscita a lasciar cadere quei termini nelle sue frasi con la più totale indifferenza, senza sospetti d’enfasi o di mancanza d’enfasi. Alla fine, ha tentato esperimenti dal vivo in quelle che mio padre definirebbe “compagnie eterogenee”, e ha ottenuto splendidi risultati. Le veniva perfettamente naturale; l’unico problema era che assumeva un colorito rosso acceso, e rimaneva in quello stato per trenta minuti.

Adesso era rossa in volto, ma annuì allegramente. — Lasciami solo finire questo ferro.

Quando lei arrivò in camera da letto, io mi stavo abbottonando la giacca del pigiama, e con le dita dei piedi grattavo le costole di Al; lui era sdraiato sul nostro scendiletto, in preda al suo coma del dopocena. — Sarà meglio biscottarlo fuori — disse Jan.

Mi accoccolai a fianco di Al e gli battei sulla spalla. Un occhio castano si socchiuse di qualche millimetro, e io gli feci l’imperioso gesto dell’arbitro che espelle un giocatore, battendo col pollice sul suo corpo, e l’occhio si chiuse. — Dice che non ha voglia di uscire.

— Be’, deve uscire. Nickie… Ho paura.

— Già, anch’io. — Battei di nuovo sulla spalla di Al. Questa volta lui non aprì un occhio. — Dice che ha diritto a restare qui quanto chiunque altro. Dice che è un essere umano anche lui.

— Be’, digli che le persone col pelo sulle palpebre non sono affatto umane. Hai paura davvero?

— Sì. Non voglio che lei torni. Però…

— Lo so, lo so.

— Tu non sei per niente un essere umano. Sei un cane! Credi che non riusciamo a capire la differenza? — Sollevai la coda inerte di Al. — E questa? — Alzai una delle sue lunghe orecchie. — Come la spieghi questa qui? — Gli battei l’indice sul naso nero, gommoso. — E questo! — Afferrai una zampa. — E questa! Abbiamo un sacco di indizi. Non puoi fregarci! — Guardai Jan, che si stava slacciando la gonna. — Ma se preferisci non farlo…

— Oh, no! No. Non possiamo. Andare avanti. All’infinito. Senza.

Al stava sbattendo fiaccamente la coda, e io gli feci notare: — Quel movimento è la prova decisiva, conclusiva. Tu sei un cane. Dai, vieni a prendere il tuo biscotto. — Lui si tirò su, sbadigliò, si stiracchiò, sorrise a Jan, e mi seguì in corridoio. Quando tornai, Jan era seduta sul letto. Aveva sulle labbra il sorriso rigido di un cadavere deciso a essere felice.

Non erano certo le condizioni ideali per fare l’amore, ma ci mettemmo all’opera, con lentezza, esitazione, coraggio. Cominciò ad andare un po’ meglio, poi molto meglio; poi diedi a Jan un bacio extra-speciale, e lei lo ricambiò con un altro in stile raccomandata espresso con ricevuta di ritorno, e le cose si misero sull’ottimo. Le dissi: — Tu sei una ragazzina molto sporcacciona, e io lo dirò a tua madre.

— Fai pure. Non ti crederà mai.

Le regalai un bacio lungo, intenso, che Jan ricambiò. Poi mi sollevai su un gomito e accesi la luce. Jan mi fissò esterrefatta. — Jan?

, per amor del cielo!

Spensi la luce, la riaccesi immediatamente. — Dove sei nata?

Cosa?

— Dove sei…

— Kankakee, Illinois! Mio Dio!

Tesi la mano verso l’interruttore, mi fermai. — Qual è il cognome da ragazza di tua madre?

Sellers!

Spensi la luce. Jan mi si avvicinò nel buio. Appoggiandole le labbra all’orecchio, mormorai: — Qual è il tuo numero di assistenza sanitaria?

Lei rispose dolcemente: — 481-03-2660.

Amore — dissi; e finalmente Jan e io facemmo la pace sul serio.


Il venerdì arrivò e finalmente passò, e adesso avevo davanti tre lunghe settimane di ferie. Non avevamo intenzione di combinare molto, però era sempre una vacanza, e così tornai a casa pronto a celebrare: saremmo usciti a cena con Fritz e Anita Kahker.

Arrivai a casa, e Anita aveva telefonato nel pomeriggio. Si era presa l’influenza; bisognava rimandare la cena. Non volevo accettare l’idea, non volevo restare chiuso nel nostro appartamento un’altra sera; volevo fare qualcosa per celebrare. Non sapevo cosa. E alla fine andammo al cinema.

Non c’era niente di interessante da vedere. Lessi ogni singolo titolo sulle pagine rosa del Chronicle della domenica, le pagine degli spettacoli che conserviamo per avere il quadro generale della settimana, e nell’intera città o nei dintorni non c’era un solo film degno di essere visto, ma uscimmo lo stesso. Andammo a vedere un western del quale non avevo mai sentito parlare, cosa rara per me, al Metro di Union Street, e fu un enorme errore.

Comperai il popcorn, per festeggiare sul serio, ma Jan non ne voleva, e ci guardammo il maledetto film, un Technicolor a grande schermo. Tentai di interessarmi per lo meno al paesaggio, che era molto spettacolare. La colonna sonora si gonfiava in frequenti crescendo e poi piombava in drammatici silenzi. Il vento ululava nei canyon, i proiettili fischiavano e facevano schioccare l’aria in strade polverose, gli zoccoli battevano il terreno, le ruote dei carri cigolavano; e persone che vivevano nel miUeottocentosettanta o giù di lì, anticipando con grande sagacia l’idioma dei nostri giorni, dicevano cose come: — Ma tu crederesti a duecento indiani?

Cominciai a richiamare alla memoria i nomi degli interpreti secondari, i titoli degli altri film nei quali li avevo già visti; nessun film è uno spreco totale di tempo, per me. Ma quando lanciai un’occhiata a Jan a metà della proiezione, lei dormiva, col mento abbassato sul petto. Sapevo che non avrei dovuto trascinarla lì, e se fosse stata sveglia le avrei proposto di uscire. Ma cominciavo a nutrire un vago interesse per gli sviluppi della trama, e lei dormiva tranquilla, e così restammo. Più tardi, quando vidi che si era svegliata, mi girai per chiederle se volesse andarsene, ma adesso sembrava che il film le piacesse. Sorrideva a bocca socchiusa, ascoltava attentamente, e così restammo sino alla fine.

Le luci si accesero, lo scarso pubblico si alzò per uscire, e lei si girò verso me. — Che meraviglia! — disse, e io sorrisi al suo sarcasmo.

— Sì, grande. — Aspettai che Jan si alzasse, ma lei continuava a fissare lo schermo bianco.

— Quei paesaggi! — disse, e io mi resi conto che c’era una nota eccitata nella sua voce. La gente che avanzava lentamente tra le poltrone della nostra fila si voltò a guardarci. — I costumi! — disse lei, continuando a fissare lo schermo. — E il colore! — Si girò a guardarmi. — Nickie, bastardo, non mi hai detto che i film sono a colori! E che lo schermo è così grande! — Si chinò verso me, a occhi sgranati. Gli altri spettatori sorridevano apertamente, e la sua voce si abbassò a un sussurro. — E che parlano. Oh, Nickie, sono tornata a dare un’ultima occhiata al mondo, ed è una fortuna che lo abbia fatto. — La sua voce si alzò di nuovo, eccitata, esuberante. — Ma immagina! Puoi davvero sentire quello che dicono! Ragazzi! Ragazzi, ragazzi, RAGAZZI!

Sbatté le palpebre e diede un’occhiata allo scherma. — Oh. Il film è finito. — Si alzò di fretta, si girò a raccogliere la giacca. — Mi spiace. Penso di essermi addormentata. — Infilando il braccio nella manica della giacca mentre ci avviavamo tra le poltrone, Jan chiese sottovoce: — Era atroce, eh? Ma sai una cosa? — Mi prese sottobraccio e puntò verso l’uscita. — Sento dentro lo stesso tipo di calore e piacere che a volte provo dopo avere visto un film meraviglioso.

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