La cosa era bassa, verde e a forma di scatola, e aveva dei cavi con dei guantoni fissati all’estremità al posto delle braccia, e rotolava su dei cingoli, e mi afferrò.
Mi issò sulla parte superiore piatta e quadrata, tenendomi per mezzo di quei guanti, e io non potevo muovermi, potevo solo cercare di scalciare contro il grande occhio di vetro che aveva sulla parte anteriore, ma non servi a nulla. Non si spezzò. La cosa era alta solo un metro e venti e le scarpe da tennis quasi toccavano terra; cominciò a muoversi verso Topeka trascinandomi con sé.
C’era gente dappertutto. Seduta sulle sedie a dondolo nei porticati, intenta a rastrellare il prato, a ciondolare ai distributori o a infilare monetine nei distributori di palline di gomma da masticare, o a dipingere una striscia bianca in mezzo alla strada; a vendere giornali all’angolo della strada, ad ascoltare la banda in un palco a forma di conchiglia in mezzo al parco, a giocare a sotto muro e ai quattro cantoni, a lucidare le macchine, seduti su di una panchina a leggere, lavare i vetri delle finestre, potare le siepi; gente che si toglieva la paglietta davanti alle signore, che raccoglieva le bottiglie del latte vuote, che strigliava i cavalli, che lanciava un bastone ad un cane perché lo riportasse, che si tuffava nella piscina comunale, che scriveva con il gesso su di una lavagna i prezzi delle verdure all’esterno di un negozio, che camminava mano nella mano con una ragazza, e tutti quanti che mi guardavano passare in cima a quella fottuta scatola di metallo.
Potevo sentire la voce di Blood che ripeteva quello che aveva detto proprio prima che entrassi nello scivolo: È tutto ordinato e pulito e si conoscono tutti; odiano i singoli. Troppe bande hanno fatto razzie nei sotterranei, violentato le donne, rubato il loro cibo, avranno messo delle difese. Ti uccideranno, ragazzo!
Grazie, bastardo.
Arrivederci.