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Il sole si era abbassato parecchio. Un aereo che aveva l’aria di un grosso uccello passò ronzando nel cielo. Guardò in su e cominciò a ridere piano, tra sé… Non la risata sguaiata della pazzia. Era una risata autentica, genuina, perché sgorgava dall’immagine assurda di Napoleone Bonaparte che viaggiava in un aereo come quello, dall’irresistibile incongruenza di quell’idea.

Gli venne in mente, allora, che lui non era mai stato in aereo, per lo meno non se ne ricordava. Forse ci era stato George Vine; durante i suoi ventisette anni di vita, George Vine doveva pur aver volato. Ma questo significava forse che “lui” era stato in aereo? Questa domanda si perdeva in un interrogativo più vasto.

Si alzò e riprese a camminare. Erano quasi le cinque: presto Charlie Doerr avrebbe lasciato il giornale e sarebbe tornato a casa per cenare.

Forse era meglio telefonare a Charlie e assicurarsi che fosse in casa davvero quella sera.

Andò al bar più vicino e formò il numero. Trovò Charlie per un pelo. — Qui parla George — disse. — Sei a casa, stasera?

— Certo, George. Ero stato invitato per un poker, ma ho rimandato quando ho sentito che venivi tu.

Come facevi a sapere… Oh, te l’ha detto Candler?

— Sì. Non sapevo se avresti telefonato, così non ho avvisato Marge. Ma che ne dici di cenare insieme fuori? Per lei va senz’altro bene. La chiamo ora e glielo dico, se puoi.

— No, grazie, Charlie. Sono già invitato. E, per quanto riguarda il poker, non rinunciare. Sarò da te alle sette. Mica dovremo parlare tutta la sera: basterà un’oretta. Comunque non usciresti prima delle otto.

— Non preoccuparti. Non ho alcuna voglia di andarci e tu non vieni a trovarmi da un bel pezzo. Alle sette, allora.

Uscì dalla cabina telefonica, si avvicinò al bancone, e ordinò una birra. Chissà perché aveva rifiutato l’invito a cena. Forse nel suo subcosciente voleva rimandare di un paio d’ore quel colloquio penoso. Eppure voleva bene a Charlie e Marge.

Sorseggiò lentamente la birra per farla durare a lungo. Doveva mantenersi lucido quella sera, perfettamente lucido. Aveva ancora il tempo di cambiare idea, si era tenuto aperta una via d’uscita, per quanto angusta. Poteva ancora andare da Candler il mattino seguente e dirgli che non se la sentiva.

Sbirciando sopra l’orlo del bicchiere si guardò riflesso nello specchio del bar. Piccolo, capelli color sabbia, naso lentigginoso, la corporatura bassa e tarchiata corrispondeva, ma il resto! Neppure la più lontana rassomiglianza.

Mandò giù lentamente una seconda birra, tirando le cinque e mezzo.

Uscì e cominciò a camminare, questa volta verso la città. Passò davanti al Blade e diede un’occhiata su, al terzo piano, alla finestra dove si trovava quando Candler lo aveva mandato a chiamare. Chissà se sarebbe tornato ancora a quella finestra, per contemplare il mondo in un pomeriggio di sole?

Forse no.

Pensò a Clare. Gli andava di vederla quella sera?

Ecco, per essere sincero, proprio no. Ma se fosse scomparso per un paio di settimane senza neanche salutarla, avrebbe potuto farci una croce sopra. Lei non avrebbe più voluto saperne.

Meglio avvertirla.


Si fermò ad un altro bar e le telefonò a casa. — Sono George. Senti, domani vado fuori città, per lavoro. Non so quanto resterò assente. Può essere questione di giorni o di settimane. Potremmo vederci stasera?

— Ma certo, George. A che ora?

— Subito dopo le nove, ti va? Prima devo passare da Charlie per questioni di lavoro. Non credo che riuscirò a liberarmi prima delle nove.

— D’accordo George. Vieni quando vuoi.


Si fermò a una bancarella di hamburger anche se non aveva appetito, e riuscì a mandar giù un panino imbottito e un pezzo di pasticcio di carne. Erano ormai le sei e un quarto, e se fosse andato a piedi sarebbe arrivato a casa di Charlie proprio all’ora giusta. S’incamminò.

Charlie gli venne Incontro sulla soglia. Posandosi un dito sulle labbra, accennò con la testa in direzione della cucina, dove Marge stava rigovernando — Non le ho detto niente, George — bisbigliò. — Si metterebbe in agitazione.

Lui avrebbe voluto domandargli perché Marge dovesse preoccuparsi tanto, poi pensò che era meglio star zitto. Forse aveva paura della risposta. Se Marge si preoccupava per lui, era brutto segno. Eppure gli sembrava di essersi comportato bene in quei tre anni.

Comunque non ebbe il tempo di fare domande, perché Charlie lo introdusse subito nel soggiorno, comunicante con la cucina, senza tacere un attimo. — Che buona idea quella di venire a giocare a scacchi, George! Peccato però che Marge debba uscire, stasera; c’è un film che le interessa in un cinema qui vicino. Io sarei andato a fare quella partita tanto per ammazzare il tempo ma non ne avevo molta voglia.

Prese scacchi e scacchiera da un armadietto e sistemò il tutto su un tavolino.

Marge entrò con due grossi bicchieri pieni di birra fresca sopra un vassoio, che posò accanto alla scacchiera. — Ciao George — disse. — Allora, te ne vai per un paio di settimane?

Lui annuì. — Ma non so dove. Candler, il direttore, mi ha chiesto se ero libero per un servizio fuori città e io ho acconsentito volentieri. Mi dirà i particolari domani.

Charlie gli tese i pugni chiusi, un pezzo in ciascuna mano, e lui scelse la sinistra. Bianco. Disposero i pezzi sulla scacchiera: Re, Regine, pedoni.

Marge stava trafficando col cappello davanti allo specchio.

— George se te ne vai prima che io torni — disse — ti saluto adesso. Auguri.

— Grazie, Marge. Ciao.

Fecero qualche mossa prima che la donna, finalmente pronta, venisse a salutare il marito con un bacio.

Per un attimo i loro occhi si incrociarono e lui capì che Marge era preoccupata. La cosa lo spaventò un poco.

Quando la porta si richiuse, lui disse: — Lasciamo perdere il gioco, Charlie. Andiamo al sodo, perché ho un appuntamento con Clare alle nove. Non so quanto starò lontano, dunque devo salutarla.

Charlie lo guardò. — Tu e Clare fate sul serio? — domandò.

— Non so.

Charlie afferrò il suo bicchiere e mandò giù un sorso Poi parlò con voce chiara e precisa. D’accordo — disse — andiamo al sodo. Domattina alle undici abbiamo appuntamento con un certo Irving, dottor J.E. Irving, in Appleton Block. È uno psichiatra, consigliato dal dottor Randolph. Gli ho telefonato oggi pomeriggio, dopo aver parlato con Candler, che a sua volta aveva già chiamato Randolph. Ecco che cosa ho raccontato: prima di tutto ho dato il mio nome, poi ho spiegato che ho un cugino che da qualche tempo a questa parte si comporta in modo strano e che avrei voluto fargli esaminare. Non ho detto, però, il nome del cugino e neanche quali siano le sue stranezze. Ho evitato di rispondere alle domande dicendo che preferivo fosse lui a giudicare, senza pregiudizi. L’ho informato che ti avevo convinto io a rivolgerti a uno psichiatra. Io conoscevo soltanto Randolph che in genere non fa visite private e che mi aveva indirizzato a lui. Gli ho anche detto che sono il tuo parente più stretto. Se riuscirai a convincere Irving di essere davvero pazzo e lui deciderà di farti ricoverare, io insisterò per sentire anche il parere di Randolph, che avevo già richiesto in principio. E questa volta lui acconsentirà.

— Non hai detto da quale malattia mentale ti sembravo afflitto?

Charlie scosse la testa. — Dunque, domani nessuno dei due andrà in ufficio — disse. — Io partirò da casa alla solita ora, così Marge non si accorgerà di mente, ma ti raggiungerò in centro, diciamo nella hall del Christina, alle undici meno un quarto. E se riuscirai a convincere Irving che sei da internare andremo subito anche da Randolph e sistemeremo la faccenda in giornata.

— E se io cambiassi idea?

— Disdirei l’appuntamento, ecco tutto. Be’, ora abbiamo finito. Terminiamo la partita a scacchi; sono solo le sette e venti.

Lui scosse la testa. — Preferivo parlare, Charlie. Ti sei dimenticato di programmare la giornata di dopodomani. Ogni quanti giorni verrai a prendere le notizie da riferire a Candler?

— È vero, me n’ero scordato. Ogni volta che saranno permesse le visite. Tre volte alla settimana: lunedì, mercoledì e venerdì pomeriggio. Domani è venerdì, così, se entrerai in gabbia, non potrò vederti prima di lunedì.

— D’accordo. Senti un po’, Candler ti ha mai parlato della storia che dovrei andare a controllare?

L’altro scrollò la testa lentamente. — Neanche una parola. Di che si tratta? O è un segreto di stato?

Guardò Charlie, perplesso. Poi, all’improvviso, sentì che non poteva dire la verità: non la conosceva. Ma, ammettendolo, avrebbe fatto la figura dello sciocco. Non se n’era accorto, quando Candler gli aveva spiegato la ragione per cui non poteva dirgli niente. Ma adesso gli sembrava un’idiozia.

— Se lui non te l’ha raccontata — disse — è meglio che stia zitto anch’io, Charlie. — E poiché quello non era un motivo molto convincente, aggiunse: — Ho promesso a Candler di non farne parola.

I bicchieri erano vuoti ormai e Charlie li portò in cucina per riempirli di nuovo.

Lui lo seguì sentendosi più a suo agio nella semplicità della cucina.

Sedette a cavalcioni di una sedia, puntando i gomiti sullo schienale, mentre Charlie si appoggiava al frigorifero.

— Alla tua salute! — disse Doerr. Bevvero, poi domandò: — Ce l’hai pronta, la storia da raccontare al dottor Irving?

Lui annuì. — Candler ti ha detto che cosa dovrei raccontargli?

— Che sei Napoleone? — Charlie scoppiò a ridere.

Ma era naturale quella risata? Guardò Charlie e capì che il suo sospetto era del tutto assurdo. Doerr era un tipo schietto ed onesto. Charlie e Marge erano i suoi migliori amici; lo erano stati per tutti e tre gli annidi cui aveva memoria. E molto più a lungo. Molto di più, secondo loro. Ma al di là di quei tre anni… c’era qualcos’altro.

Si schiarì la gola perché le parole cominciavano ad uscirgli con difficoltà, ora. Ma doveva chiedere, doveva essere sicuro.

— Charlie, voglio farti una domanda maledettamente imbarazzante. Questa faccenda è tutta chiara e onesta?

— Eh?

— È piuttosto difficile chiederlo. Ma… tu e Candler mica pensate che io sia pazzo, vero? Mica state complottando per farmi ritirare, o almeno esaminare, senza mettermi in agitazione sino a che sarà troppo tardi?

Charlie lo fissava allibito. — Ehi, George, ma tu mi credi capace di una cosa simile?

— No. Ma potresti pensare che sia per il mio bene e quindi agire di conseguenza. Senti, se le cose stanno veramente così, se tu la pensi a quel modo, lasciami dire che non è un comportamento leale. Sto per andare da uno psichiatra per mentirgli, per convincerlo che sono un paranoico. Per comportarmi in modo disonesto nei suoi confronti. E voi sareste terribilmente sleali nei miei. Lo capisci, vero, Charlie?

Charlie era leggermente impallidito. — Davanti a Dio — disse — ti giuro che non è niente del genere, George. Io so soltanto quello che tu e Candler mi avete detto.

— Sei convinto che io sia sano di mente, completamente sano?

Charlie si passò la lingua sulle labbra. — Vuoi che ti risponda sinceramente?

— Sì.

— Non ne ho mai dubitato fino a questo momento. A meno che… Ecco l’amnesia, in un certo senso, è un’anomalia mentale, suppongo, e tu non sei mai riuscito a superarla. Ma tu non intendevi questo, vero?

— No.

— Allora te lo ripeto: mai, fino a questo momento… perché, George, questo mi ha tutta l’aria di una mania di persecuzione, se pensi veramente quello che hai detto. Una congiura per farti… Ma lo puoi capire anche da solo quanto sia ridicolo! Che motivo potremmo avere io e Candler per convincerti a mentire e a farti ricoverare in un manicomio?

— Scusami, Charlie — disse lui. — È stata un’idea momentanea. Naturalmente, non lo penso affatto. — Lanciò un’occhiata all’orologio da polso e soggiunse: — Finiamo questa benedetta partita, vuoi?

— Sì. Ma aspetta che riempio di nuovo i bicchieri.


Giocò malissimo, e riuscì a perdere in un quarto d’ora. Rifiutò l’offerta di Charlie che gli proponeva la rivincita e si abbandonò contro lo schienale della sedia.

— Charlie, hai mai sentito parlare di pezzi da scacchi rossi e neri?

— N… no. Li ho sempre visti bianchi e neri, oppure rossi e bianchi. Perché?

— Ecco… — sorrise. — Forse non dovrei dirtelo dopo averti fatto dubitare per un attimo della mia sanità mentale, ma da qualche tempo faccio sempre gli stessi sogni. Non si tratta di sogni particolarmente fuori dell’ordinario, solo che si ripetono con insistenza. Uno riguarda un gioco tra rossi e neri; non so neppure se si tratti di scacchi. Lo sai com’è nei sogni: sembra sempre che tutto abbia senso anche se non ce l’ha. Mentre sogno non mi chiedo neppure se quel gioco tra rossi e neri è una partita a scacchi o no; evidentemente lo so o mi sembra di saperlo. Ma poi… non so più niente. Capisci quello che voglio dire?

— Certo. Continua.

— Ecco, mi sono domandato se questa faccenda non potesse avere qualche relazione con quello che sta dall’altra parte del muro che non sono ancora riuscito a superare. Questa è la prima volta nella mia… be’, non nella mia vita, forse, ma nei tre anni che ricordo, che mi capita di fare sogni così insistenti. Mi domando se la mia memoria non… non stia cercando di aprire una breccia nel muro. Per esempio, ho mai posseduto dei pezzi da scacchi rossi e neri? Oppure nelle scuole che frequentavo, non si giocavano mai partite di basket o baseball tra squadre con quei colori? Oppure… non so, qualcosa del genere?

Charlie rifletté per alcuni minuti. Poi scrollò la testa.

— No — disse — niente del genere. Naturalmente c’è del rosso e del nero in una roulette… Rouge et noir. E questi sono anche i colori di un mazzo di carte da gioco.

— No, sono sicuro che carte e roulette non c’entrano. Non è… non è così. È un gioco tra rossi e neri. Loro sono i giocatori, non so come. Pensaci bene, cerca di ricordare da dove io, non tu, possa aver attinto quell’idea!

Lo guardò spremersi le meningi inutilmente per un po’, poi disse: — Lascia perdere, Charlie. Prova invece con quest’altro: Il Risplendente.

— Il risplendente cosa?

— Niente, Risplendente e basta. Significa niente per te?

— No.

— Va bene — disse lui. — Non pensarci più.

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