Tre

Oscar strappò un pezzo di nastro adesivo da una bobina gialla e l’avvolse intorno a un mattone, quindi vi passò sopra uno scanner portatile, attivando il nastro. Era circa l’una del mattino. Il vento, che proveniva dagli alti pini scuri, soffiava umido e forte, ma Oscar stava lavorando duro e il clima sembrava tristemente appropriato al suo umore.

«Sono una pietra angolare» annunciò il mattone.

«Buon per te» grugnì Oscar.

«Sono una pietra angolare. Spostami di cinque passi sulla tua sinistra.»

Oscar ignorò quest’ultima richiesta e fissò rapidamente il nastro su altri sei mattoni. Fece passare lo scanner su ognuno di essi, quindi spostò di lato l’ultimo mattone per passare al livello successivo nella pila.

Non appena lo prese tra le mani protette dai guanti, l’ultimo mattone lo avvertì «Non installarmi ancora. Installa prima quella pietra angolare.»

«Ma certo» gli rispose Oscar. Il sistema di costruzione era abbastanza intelligente da possedere un limitato vocabolario tecnico. Sfortunatamente, però, non era in grado di udire molto bene le parole. I minuscoli microfoni incorporati nel nastro parlante erano assai meno efficaci degli altoparlanti grandi quanto l’unghia di un pollice. Tuttavia, era difficile non replicare a un blocco di cemento che si esprimeva con tanta grazia e autorità. Le voce proveniente dai nastri somigliava a quella di Franklin Roosevelt.

Era stato Bambakias a creare quel sistema di costruzione. Come tutte le creazioni dell’architetto, era estremamente funzionale, ma anche ricco di idiosincratici tocchi di eleganza. Oscar aveva piena fiducia nel sistema, una fede pragmatica, maturata attraverso una cospicua esperienza empirica. Aveva lavorato come un mulo in molti dei siti di costruzione creati da Bambakias. Nessuno, d’altra parte, era mai riuscito a conquistarsi la fiducia di Alcott Bambakias, oppure a entrare nel circolo dei suoi protetti, senza prima sobbarcarsi una dose non indifferente di duro lavoro.

Il duro lavoro, in effetti, costituiva il cuore e l’anima del salotto intellettuale di Bambakias. W. Alcott Bambakias nutriva un discreto numero di idee eterodosse, tra le quali, però, primeggiava la profonda convinzione che i sicofanti e gli artisti dell’imbroglio si stancano molto facilmente. Come molti altri membri della moderna classe superiore, il senatore era sempre pronto a compiere gesti munifici, a gettare alla folla ducati d’oro. Naturalmente la sua generosità attirava numerosi parassiti, ma lui sapeva come sbarazzarsi dei ‘soldati per un’estate e dei patrioti del bel tempo’, come si ostinava a chiamarli, esigendo frequenti prestazioni di brutale lavoro fisico. «Sarà divertente» annunciava con un ghigno feroce arrotolandosi le maniche dei suoi abiti di sartoria. «Otterremo dei grandi risultati.»

Bambakias non era un operaio a giornata. Era un uomo colto e benestante, sua moglie era una nota collezionista d’arte. Ed era proprio per questo che la coppia provava un perverso piacere nel farsi venire le vesciche alle mani, nello strapparsi i tendini e nel sudare come maiali. Il volto dell’architetto, di una bellezza matura, che non nascondeva i segni del tempo, si illuminava di una smagliante espressione da noblesse oblige mentre faticava nella sua tuta da falso operaio e nel suo cinto erniario. La sua elegante moglie traeva un evidente piacere masochistico nel sollevare l’equipaggiamento da costruzione mentre i suoi lineamenti finemente cesellati assumevano la stessa espressione decisa di una top model intenta a sollevare pesi in palestra.

D’altra parte, Oscar era cresciuto a Hollywood, dunque non aveva mai fatto troppo caso alle ostentazioni esibizionistiche della coppia. Il coordinato cappello e mantellina firmati, gli abiti fatti su misura, le manifestazioni di beneficenza a Boston per attirare l’attenzione… Per Oscar si trattava di cose familiari e, di conseguenza, rassicuranti. In ogni modo, il sistema di costruzione era davvero ottimo. Non era una montatura: non c’era alcun dubbio che funzionasse davvero. Quel gioco non poneva alcun limite al numero dei partecipanti. Chiunque poteva trovare un ruolo nel sistema. Era nello stesso tempo una rete e un modus vivendi, che fluiva dalla comunicazione e dalla progettazione digitali alla realtà di pareti e di pavimenti. Lavorare con un sistema del genere era davvero confortante, perché manteneva sempre le sue promesse, garantiva sempre dei risultati.

L’albergo texano, per esempio, era una costruzione interamente virtuale, una serie infinita di uno e zero incorporati in una serie di microprocessori. E tuttavia l’albergo desiderava intensamente esistere. Sarebbe diventato splendido ed era già molto intelligente. Riusciva già a dirigere la propria comparsa nella realtà fisica a partire da mucchi sparpagliati a caso di materiali grezzi. Sarebbe stato un buon albergo. Avrebbe allietato il vicinato e valorizzato la città. Avrebbe tenuto lontani il vento e la pioggia. Le persone sarebbero state contente di fermarsi lì.

Oscar trascinò il mattone che aveva affermato di essere una pietra angolare verso l’angolo della parete meridionale. «Questo è il mio posto» dichiarò la pietra angolare. «Stendi della malta sopra di me.»

Oscar raccolse una spatola. «Ciao, sono lo strumento per stendere la malta» squittì allegramente la piccola spatola. Oscar cominciò a usarla spalmandovi sopra una discreta quantità di pasta grigia, spessa e granulosa. Quella sostanza polimerica non era vera ‘malta’, ma era economica quanto quella tradizionale e funzionava molto meglio, dunque aveva naturalmente rubato il nome alla sostanza originale.

Oscar sollevò il mattone verso la parte superiore della parete, che ormai arrivava all’altezza dell’anca. «A destra» si affrettò a indicare il blocco. «A destra, a destra, a destra… a sinistra… spostami un po’ indietro… Girami, girami, girami… Bene! Ora passa lo scanner.»

Oscar sollevò lo scanner legato a una cordicella e lo passò sul blocco. Lo scanner si collegò, confrontò la posizione esatta del blocco ed emise un trillo di soddisfazione.

Erano ormai due ore che Oscar sistemava mattoni. Si era recato lì nel cuore della notte, aveva collegato e avviato il sistema e aveva iniziato a lavorare; il resto della krew aveva smesso con il calare del buio.

Quel particolare muro non poteva crescere ancora di molto. Ben presto sarebbe arrivato il momento di iniziare a lavorare all’impianto idraulico. Oscar odiava quel lavoro: era sempre il compito più difficile. Si trattava di una tecnica molto vecchia, tutt’altro che plug-and-play, non così facile e liscia come il flusso di bit. Gli errori commessi durante il montaggio dell’impianto idraulico erano frequenti e molto fastidiosi. Quando sarebbe arrivato il momento di posare i tubi, il sistema di costruzione di Bambakias avrebbe prudentemente smesso di funzionare. Tutte le funzioni più avanzate sarebbero rimaste in standby fino a quando gli operai non avessero portato a termine il loro lavoro.

Oscar si tolse il casco e si coprì le orecchie gelate con le mani protette dai guanti da lavoro. La schiena e le spalle gli dicevano che, il mattino seguente, si sarebbe pentito amaramente di quello che stava facendo. Be’, almeno sarebbe stato un nuovo tipo di rimpianto.

Oscar camminò sotto uno dei riflettori da cantiere a forma di parabola per cercare le casse che contenevano l’occorrente per l’impianto idraulico. Il riflettore più vicino ruotò sull’alto palo su cui era montato per seguire i passi di Oscar, che salì sopra una gigantesca bobina di cavo per osservare dall’alto l’intero cantiere.

Il cono di luce si sollevò con lui e illuminò l’erba invernale calpestata. Improvvisamente Oscar scorse uno sconosciuto che indossava un giaccone imbottito e un berretto di lana; era immobile sul marciapiede crepato, sotto un pino, oltre il recinto di sicurezza in plastica arancione.

I siti di costruzione di Bambakias attiravano sempre i curiosi, ma sicuramente solo pochissimi curiosi se ne sarebbero rimasti al freddo e al buio all’una del mattino a osservare la scena. Tuttavia, persino la piccola Buna aveva una vita notturna. Presumibilmente quell’uomo era semplicemente ubriaco.

Oscar avvicinò alla bocca le mani protette dai guanti e unite a coppa. «Le andrebbe di dare una mano?» Era l’invito standard che veniva rivolto in ogni sito che utilizzava il sistema di Bambakias. Faceva parte del gioco. Era sorprendente quanti volontari energici e disinteressati la krew di Bambakias fosse riuscita ad attirare con quello stratagemma.

Lo sconosciuto passò goffamente attraverso una breccia nel reticolato arancione, entrando nell’arco di luce di Oscar.

«Benvenuto nel luogo in cui sorgerà il nostro albergo! È mai stato qui prima d’ora?»

In silenzio, l’altro scosse la testa coperta dal berretto di lana.

Oscar scese dalla bobina, trovò una confezione di guanti sottovuoto e gliela porse. «Provi questi.»

La sconosciuta — si trattava di una donna — sfilò le mani nude, simili a zampe di ragno, dalle tasche del giaccone. Oscar trasalì, quindi sollevò lo sguardo dalle dita al volto nascosto dall’ombra. «Dottoressa Penninger! Buongiorno.»

«Signor Valparaiso.»

Oscar estrasse dall’involucro un paio di guanti comodi, di misura extra large, le cui dita in plastica morbida erano provviste di piccole protuberanze per favorire la presa sugli oggetti. Non si era aspettato di avere compagnia in quel posto e quella notte, men che mai la compagnia di un membro del consiglio direttivo del Collaboratorio.

Era stato colto alla sprovvista dall’incontrare Greta Penninger in quelle circostanze, ma ormai non aveva alcun senso esitare. «Per favore, provi a infilarsi questi guanti, dottoressa… Vede la striscia gialla lungo le nocche? Sono indicatori di posizione incorporati nei guanti, fanno in modo che il nostro sistema di costruzione sia sempre al corrente della posizione esatta delle sue mani.»

La dottoressa Penninger si infilò i guanti, ruotando i polsi sottili come un chirurgo che si lavasse le mani prima di operare.

«Avrà bisogno di un casco, di una cintura e di un paio di puntali di protezione per le scarpe. Anche delle ginocchiere non sarebbero una cattiva idea. Adesso la collegherò al nostro sistema, se tutto è a posto.»

Cercando in mezzo all’attrezzatura della krew, accatastata nell’oscurità, Oscar tirò fuori un casco di riserva e un paio di puntali di protezione per le scarpe con lo strappo in velcro. Greta indossò l’attrezzatura da costruzione senza dire una parola.

«Va bene» disse Oscar. Le porse uno scanner portatile a forma di matita fissato a una cordicella di plastica. «Ora, dottoressa, lasci che le illustri la nostra filosofia progettuale. Vede, in fondo il nostro sistema è molto flessibile, molto semplice. Il computer è sempre a conoscenza della posizione di ogni componente catalogato e inserito nel database del sistema. Il sistema, inoltre, dispone di algoritmi completi per assemblare l’edificio a partire dai semplici elementi costitutivi. Esistono milioni di modi possibili per completare la costruzione, dunque si tratta soltanto di coordinare tutti gli sforzi e di tenerne sempre traccia. Grazie al processo di assemblaggio distribuito e parallelo…»

«Non si preoccupi, so tutto. L’ho osservata.»

«Oh.» Oscar interruppe il suo discorso preconfezionato. Sollevò l’orlo del casco di plastica e la studiò attentamente. Non stava scherzando. «D’accordo, lei stende la malta, e io porto i mattoni. Sa stendere la malta?»

«Sì, so stendere la malta.»

La dottoressa Penninger cominciò a spalmare la sostanza viscida sulla spatola ciarliera. I componenti continuarono a chiacchierare allegramente, la dottoressa Penninger continuò a non dire nulla e il ritmo di lavoro di Oscar addirittura raddoppiò. La dottoressa ce la metteva tutta. Era notte fonda, quel posto era deserto, desolato, battuto dal vento, faceva così freddo che si rischiava il congelamento, ma quella scienziata stava lavorando sul serio. Lavorava come un mulo. Come un demonio.

Alla fine la curiosità ebbe il sopravvento su Oscar. «Perché è venuta qui a quest’ora di notte?»

La dottoressa Penninger si raddrizzò, stringendo la spatola tra le mani guantate. «Sono le uniche ore libere che ho a disposizione. Rimango sempre nel mio laboratorio fino a mezzanotte.»

«Capisco. Be’, le sono davvero grato per la sua visita. Lei è un’eccellente lavoratrice. Grazie per l’aiuto.»

«Di nulla.» La donna gli rivolse un’occhiata indagatrice dall’altro lato della chiazza di luce. Se Oscar avesse trovato attraente Greta Penninger, avrebbe potuto trattarsi di un’occhiata provocante.

«Dovrebbe venire a farci visita alla luce del sole, quando tutta la krew è all’opera. La vera chiave della costruzione distribuita è la coordinazione degli elementi, il lavoro di squadra. In determinati casi, la struttura viene su in un colpo solo, come se si stesse cristallizzando. È uno spettacolo che vale sicuramente la pena di vedere.»

Greta si toccò il mento deciso con una mano guantata ed esaminò il muro di mattoni. «Adesso non dovremmo provvedere all’impianto idraulico?»

Oscar rimase sorpreso da quella domanda. «Quanto tempo è stata a osservarmi?»

Le spalle della donna si sollevarono leggermente sotto il giaccone. «È ovvio che adesso è la volta dell’impianto idraulico.» Oscar comprese di averla delusa. Lei aveva sperato che fosse più intelligente.

«È il momento di fare una pausa» annunciò Oscar. Sapeva di non possedere il quoziente d’intelligenza straordinariamente alto di Greta Penninger. Ovviamente aveva esaminato i rapporti sulla carriera della donna; la dottoressa Greta Penninger era sempre stata la tipica prima della classe: compulsiva, iperattiva, con un vero talento per la tecnica. Comunque, al mondo esistevano numerose abilità. Era sicurissimo di poterla distrarre, se solo fosse riuscito a cambiare argomento.

Entrò all’interno del cerchio di rozze pareti di mattoni, dove un fuoco ardeva in un vecchio bidone di ferro sotto un telo di plastica. La schiena gli doleva, con effetti analoghi al mal di denti. Aveva davvero abusato delle sue forze. «Le va un po’ di arrosto in stile cajun? La krew va pazza per questo piatto.»

«Certo. Perché no.»

Oscar le porse una fetta di carne tremendamente speziata mentre affondava i denti in un altro grosso pezzo annerito. Indicò con una mano. «Il sito sembra molto caotico adesso, ma provi a immaginarselo quando tutto il lavoro sarà finito.»

«Sì, riesco a visualizzarlo… Non mi ero mai resa conto che il vostro albergo sarebbe diventato così elegante. Credevo fosse prefabbricato.»

«Oh, ma certo che lo è. Però il sistema modifica sempre i progetti per tenere conto delle caratteristiche specifiche del sito. Dunque l’edificio finale è sempre originale. Quel mucchio di travi lì, quelle andranno sopra l’ingresso… Il patio, invece, sorgerà qui, proprio dove siamo noi adesso, e appena dopo quella loggia di ingresso ci sarà la pergola… Quelle due lunghe ali saranno riservate alle camere per gli ospiti e alla sala da pranzo, mentre il piano superiore ospiterà la nostra biblioteca, i vari balconi e la serra.» Oscar sorrise. «Perciò, quando il lavoro sarà terminato, spero che verrà a farci visita. Prenda una suite. Resti qui per un po’. Si offra una buona cena.»

«Dubito di potermelo permettere.» Aveva parlato in tono cupo, triste.

Ma cosa diavolo voleva quella donna? Nel crepuscolo bluastro proiettato dai riflettori, i suoi occhi molto distanti tra loro, simili a gocce di cioccolato, sembravano avere dimensioni diverse… ma sicuramente si trattava di una bizzarra illusione, dovuta alle sopracciglia troppo folte e alla visibile tensione delle palpebre. Aveva un mento grande e deciso, il labbro superiore era sporgente, stranamente increspato. Niente rossetto. Denti minuti, non perfettamente allineati, aguzzi. Un lungo collo cartilaginoso e l’aspetto di una donna che non aveva mai visto davvero la luce del sole negli ultimi sei anni. Greta Penninger dava l’impressione di essere una donna davvero singolare, un personaggio sui generis. A un esame più accurato, non sarebbe risultata meno strana, anzi, esattamente il contrario.

«Ma lei sarà una mia ospite personale» la rassicurò Oscar. «Perché quello che le sto rivolgendo adesso è un invito.»

Quella tattica funzionò, qualcosa scattò nella testa coperta dal berretto di lana della dottoressa Penninger. Improvvisamente Oscar era riuscito a ottenere la sua completa attenzione. «Perché mi ha mandato quei fiori?»

«Buna è una città fatta per i fiori. Dopo avere partecipato a tutte quelle riunioni della commissione, sapevo che ricevere un bel mazzo di fiori le avrebbe fatto piacere.» Papaveri rossi, prezzemolo e vischio — Oscar presumeva che lei conoscesse il linguaggio dei fiori. Forse, però, era così disperatamente isolata dalla società che non era in grado di comprendere neppure quello. Si era trattato di un messaggio molto spiritoso, ma forse non l’aveva capito.

«Perché mi ha mandato tutti quei messaggi di posta elettronica, facendomi tutte quelle domande?» insistette in tono tranquillo la dottoressa Penninger.

Oscar mise da parte il suo pezzo di carne incredibilmente piccante e allargò le braccia. «Avevo bisogno di alcune risposte. L’ho studiata attentamente durante tutte quelle lunghe riunioni della commissione e sono giunto ad apprezzarla veramente. Lei è l’unico membro di quel consiglio che riesce a non divagare.»

La donna esaminò il prato inaridito ai suoi piedi. «Sono riunioni incredibilmente noiose, non le pare?»

«Be’, sì, questo è vero.» Oscar le rivolse un sorriso scherzoso. «Esclusi i presenti.»

«Sono riunioni sgradevoli. Veramente sgradevoli. Orribili. Io detesto l’amministrazione. Detesto tutto quello che ha a che fare con l’amministrazione.» Sollevò lo sguardo, il suo strano volto irrigidito dal disgusto. «Io me ne sto lì seduta ad ascoltarli discutere con voce monotona e sento che la mia vita scorre via.»

«Mmm-hmm!» Oscar riempì velocemente due tazze da un thermos. «Ecco, godiamoci questa pseudo-limonata da competizione sportiva.» Avvicinò un telo ripiegato vicino al bidone in cui ardeva il fuoco, stando attento a non bruciarsi. Si sedette.

La dottoressa Penninger lo imitò con un movimento goffo. «Non riesco più a pensare correttamente. Non mi lasciano pensare. Cerco di rimanere sveglia durante quelle riunioni, ma è assolutamente impossibile. Non mi lasceranno portare a compimento un bel niente.» Sorseggiò prudentemente la brodaglia gialla nella sua tazza biodegradabile, poi posò la tazza sul prato. «Il Signore sa se ci ho provato.»

«Ma perché l’hanno coinvolta nell’amministrazione del laboratorio?»

«Oh,» gemette lei «c’era un posto vuoto nel consiglio. Il tizio a capo della divisione Strumenti dovette rassegnare le dimissioni, dopo il crollo del senatore Dougal… Il consiglio fece esplicitamente il mio nome per via di quella sciocchezza del premio Nobel e la krew del dipartimento di neurologia mi disse che dovevo accettare il posto. Abbiamo bisogno dell’equipaggiamento da laboratorio. Ci erogano fondi con il contagocce, non comprendono affatto le nostre esigenze. Anzi, non vogliono neppure capirci.»

«In un certo senso, tutto questo non mi sorprende. Ho notato che la contabilità al Collaboratorio non rispetta i criteri federali. Sembra che ci siano state delle irregolarità nei rifornimenti.»

«Oh, ma questo non è che la metà di quello che succede.»

«Davvero?»

«Già.»

Oscar si sporse in avanti sul suo telone ripiegato. «Cosa vuol dire ‘la metà di quello che succede?’»

«Non posso dirglielo» rispose Greta, cingendo le ginocchia con le braccia e assumendo un’aria triste. «Perché non so la ragione per cui vuole saperlo. O cosa farebbe se venisse a conoscenza di queste informazioni.»

«D’accordo» replicò Oscar, raddrizzandosi. «La sua risposta è ragionevole. Lei cerca di essere prudente, come del resto richiedono le circostanze. Sono sicuro che mi comporterei proprio come lei, se fossi nella sua posizione.» Si alzò.

I tubi idraulici erano fatti di un polivinile laminato del colore delle alghe essiccate. Erano stati progettati e fabbricati a Boston proprio per essere inseriti in quella struttura e presentavano la stessa complessità di un puzzle cinese che solo una subroutine dedicata era in grado di comprendere pienamente.

«Ha davvero talento con la malta, ma questi tubi richiedono un lavoro molto serio» la avvertì Oscar. «Non la biasimerei se lei adesso mollasse tutto e se ne andasse.»

«Oh, non c’è problema. Non devo essere in laboratorio prima delle sette.»

«Non dorme mai?»

«No, non dormo molto. Forse tre ore a notte.»

«Che strano… neppure io dormo molto.» Si inginocchiò accanto alla cassa con le forniture idrauliche. La donna gli passò prontamente un paio di forbici che si trovavano lì vicino, porgendogliele dalla parte dell’impugnatura.

«Grazie.» Oscar tagliò in tre punti i nastri da imballaggio di plastica nera. «Sono contento che lei sia venuta qui stanotte. Lavorare da solo a un progetto di gruppo come questo significa praticamente perdere tempo. Ma per me è terapeutico.» Sollevò con forza il coperchio della cassa e lo gettò di lato. «Sa, ho sempre avuto una vita professionale piuttosto difficoltosa.»

«Non è quello che si direbbe consultando il suo curriculum.» Per riscaldarsi, Greta si stringeva le braccia al petto. Il berretto di lana le era scivolato sulla fronte.

«Oh, allora devo supporre che lei abbia fatto qualche ricerca su di me.»

«Sono molto curiosa.» La donna fece una pausa.

«Non ha importanza, è una cosa molto diffusa al giorno d’oggi. Sono stato una celebrità fin da quando ero bambino. Su di me esiste molto materiale, ci sono abituato.» Sorrise con una certa amarezza. «Comunque, non può certo godere appieno della mia deliziosa personalità con qualche ricerca casuale via rete.»

«Se fossero state casuali, adesso non sarei qui.»

Sorpreso, Oscar sollevò lo sguardo. Lei ricambiò lo sguardo con audacia. Era venuta lì apposta. Greta aveva un suo programma; l’aveva trascritto su un foglio di carta millimetrata, in anticipo.

«Lei sa perché io sono qui fuori, nel cuore della notte, dottoressa Penninger? Perché la mia fidanzata mi ha appena lasciato.»

La donna rifletté su quelle parole. Nella sua testa iniziarono a muoversi degli ingranaggi, tanto velocemente che Oscar poté quasi sentire il loro ronzio. «Ma davvero» commentò infine Greta. «È un vero peccato.»

«Ha lasciato la nostra casa a Boston, mi ha mollato. È partita per l’Olanda.»

Sotto l’orlo del berretto di lana, Greta inarcò le sopracciglia. «La sua fidanzata ha disertato per gli olandesi?»

«No, non è così! Ha avuto un incarico lì, è una giornalista politica. Ma è andata via in ogni caso.» Fissò i tubi idraulici. «È stato un brutto colpo, mi ha scosso profondamente.»

La vista di tutte quelle attrezzature da carpentiere e di quelle tubature, così complicate e luccicanti, nel materiale di imballaggio di paglia, provocò in Oscar un improvviso, violento conato di autentica nausea sartriana. Si alzò. «Sa una cosa? È stata tutta colpa mia. Lo ammetto. L’ho trascurata. Avevamo due carriere separate… Lei amava molto quei circoli di intellettuali alla moda della costa orientale, siamo stati una bella coppia finché abbiamo avuto degli interessi comuni…» Si fermò e misurò la reazione della donna. «Ma forse non dovrei opprimerla con queste faccende.»

«Perché no? Posso capire quello che mi sta dicendo. A volte le storie semplicemente non funzionano. Una storia d’amore tra due scienziati… Ci sono poche probabilità che funzioni.» Scosse il capo.

«So che lei non è sposata. Frequenta qualcuno?»

«Niente di stabile. Sono una maniaca del lavoro.»

A Oscar quella notizia parve incoraggiante. Provava una sorta di istintiva complicità nei confronti di tutti coloro che erano ossessivamente ambiziosi. «Mi dica una cosa, Greta. Le sembro una persona inquietante?» Si toccò il petto. «Sono uno che incute timore? Sia sincera.»

«Vuole davvero che sia sincera?»

«Sì.»

«Le persone mi dicono sempre che sono troppo sincera.»

«Non si preoccupi, so incassare bene.»

Greta sollevò il mento. «Sì, lei incute davvero paura. Sono tutti molto sospettosi nei suoi confronti. Nessuno sa cosa vuole veramente da noi, o cosa sta facendo nel nostro laboratorio. Ci aspettiamo tutti il peggio.»

Oscar annuì saggiamente. «Vede, è un problema di percezione. Io vengo ad assistere alle vostre riunioni di consiglio e mi porto dietro un piccolo entourage: ecco che iniziano le chiacchiere. Ma in realtà, io non dovrei incutere affatto paura — perché non sono una persona particolarmente importante. Sono soltanto un membro dello staff del Senato.»

«Sono stata a qualche udienza del Senato. E ho sentito parlare di altre a cui non ho assistito. Le udienze del Senato possono anche essere molto dure.»

Oscar si avvicinò un po’ di più. «D’accordo — sicuro, ogni tanto può capitare che a Washington vengano fatte delle domande scottanti. Ma non sono io a farle. Io mi limito a scrivere rapporti informativi.»

La dottoressa parve tutt’altro che persuasa. «Che ne pensa di quel grosso scandalo dell’aeronautica in Louisiana? Non mi dirà che lei non c’entra nulla?»

«Cosa, quello? Ma si tratta semplicemente di politica! La gente sostiene che io influenzo il senatore, ma è esattamente l’opposto, glielo assicuro. Prima di incontrare Alcott Bambakias, ero soltanto un attivista del consiglio comunale. Il senatore è la mente, l’uomo che ha delle idee e un messaggio da trasmettere, lo ero solo l’organizzatore tecnico della sua campagna.»

«Hmmm. Conosco un sacco di tecnici, però non ne conosco molti che siano multimilionari come lei.»

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