INTERMEZZO MUSICALE

Poco tempo dopo l'arrivo di Conal su Gea, un'astronave chiamata Xenophobe uscì dalla sua orbita intorno a Saturno e fece rotta verso la Terra ad accelerazione massima.

La partenza della Xenophobe non aveva nulla a che vedere con Conal. Quella nave, e altre simili a essa, erano rimaste in orbita attorno a Saturno per quasi un secolo. La prima di tali unità era stata posseduta e gestita dalle Nazioni Unite. Quando quell'organismo era scomparso, il possesso era passato al Consiglio d'Europa, e in seguito ad altre organizzazioni pacifiste.

Nessuna delle succitate navi era mai stata menzionata in alcuno dei trattati e protocolli intercorsi fra Gea e varie nazioni e private società terrestri. Quando Gea era entrata a far parte delle N.U. in qualità di membro con pieno diritto di voto, aveva diplomaticamente ritenuto opportuno fingere d'ignorare la loro esistenza. La funzione di quelle navi era un segreto di Pulcinella: ciascuna di esse trasportava ordigni nucleari sufficienti a vaporizzare Gea. Trattato o non trattato, Gea, singola entità senziente, possedeva una massa superiore a quella di tutte le forme di vita terrestri messe insieme; era parso quindi saggio, alle generazioni successive, mettersi in condizione di distruggerla se mai ella avesse fatto mostra d'imprevisti poteri.

— La verità è — Gea aveva confessato una volta a Cirocco — che non posso andar di corpo, ma perché dovrei dirlo a loro?

— E poi chi ti crederebbe? — aveva replicato Cirocco. Lei pensava che Gea fosse segretamente compiaciuta di suscitare tanto interesse, una tale inaudita dimpstrazione di unanimità da parte delle eternamente litigiose genti del pianeta Terra.

Ma il conflitto stava per entrare nel suo secondo anno, ed il carico della Xenophobe sarebbe potuto tornar più utile a casa, invece di venir sprecato nello spazio.

Gea notò quella partenza.

Non si può certo dire che un essere in foggia di ruota del diametro di 1.300 chilometri sia, in una qualunque delle accezioni umane del termine, capace di sorridere. Ma da qualche parte, lungo il pulsante raggio di luce scarlatta che rappresentava il nucleo cosciente di Gea, ella sorrideva!

Mezzo decariv più tardi, il Festival Cinematografico Itinerante Pandemonio incominciò a programmare, ottenendo il tutto esaurito, un doppio spettacolo: Il trionfo della volontà, di Leni Riefenstahl, e Il Dottor Stranamore, di Stanley Kubrick.


Su Gea il trascorrere del tempo veniva scandito in riv.

Un riv corrispondeva al tempo impiegato da Gea per compiere una rotazione sul proprio asse: sessantuno minuti, tre secondi e qualche decimo. Il riv era sovente definito "Ora di Gea". L'uso di prefissi derivati dal sistema metrico decimale consentiva poi d'individuare qualunque altro lasso di tempo. Il chiloriv, detto Mese di Gea, aveva una durata di quarantadue giorni.

Due chiloriv dopo la partenza da Saturno della Xenophobe (abbattuta nei pressi dell'orbita lunare dai Vermi Comunisti), ebbero inizio i voli benedetti. Per la prima volta, Gea sfoderava "imprevisti poteri".

Era noto che Gea consisteva in una singola entità senziente, un esemplare ormai vecchio della specie, frutto d'ingegneria genetica, detta dei Titani. Essa aveva cinque sorelle più giovani in orbita attorno a Urano, e una figlia ancora immatura in attesa di scaturire dal cuore di Giapeto, una delle lune di Saturno. Rare dichiarazioni rilasciate dalle sorelle di Gea, gravitanti in zona uraniana, avevano contribuito a chiarire definitivamente il metodo riproduttivo dei Titani, le caratteristiche delle loro uova, i sistemi con cui queste venivano lanciate e propagate nello spazio.

Si sapeva inoltre che Gea, decrepito Titano, era solita utilizzare creature da lei plasmate le quali non costituivano individui provvisti di volontà autonoma, bensì, piuttosto, estensioni della stessa Gea, proprio come un dito o una mano possono essere considerati propaggini di un essere umano. Tali creature venivano definite "strumenti di Gea". Per molti anni uno di quegli strumenti era stato esibito ai visitatori come se si trattasse di Gea in persona. Quando Cirocco aveva ucciso quel particolare strumento, Gea si era affrettata a costruirne un altro.

Il fatto che strumenti e semi potessero essere mescolati non fu una sorpresa per Cirocco. Dopo novant'anni trascorsi accanto alla folle Dea, ben poco riusciva ormai a stupirla.

L'organismo risultante da quella fusione assomigliava moltissimo a una nave spaziale. Gea lanciò un gran numero di quei semi senzienti, manovrabili e immensamente capaci, non appena si rese conto che la Xenophobe era stata distrutta e che nessun'altra unità del genere ne avrebbe verosimilmente preso il posto. Tutti i semi fecero rotta per la Terra. Nel corso delle prime ondate, il novantacinque per cento di quei vascelli vennero distrutti ancor prima di raggiungere l'atmosfera. Il secondo anno di guerra era un periodo di grande nervosismo, nel quale innanzitutto si sparava, e dopo non ci si prendeva nemmeno il disturbo di far domande.

Ma pian piano il vero scopo di quei semi venne compreso. Ciascuno di essi si dirigeva verso il luogo di un massacro nucleare, atterrava, e incominciava a proclamare a gran voce che la salvezza era a portata di mano. I semi parlavano, diffondevano musica intesa a risollevare gli animi delle avvilite creature in fuga dall'olocausto, promettevano cure mediche, aria incontaminata, cibo, acqua, e sconfinati orizzonti fra le ospitali braccia di Gea.

Le radiotelereti mondiali ripresero la notizia, e soprannominarono i semi "voli benedetti". All'inizio era rischioso salirvi a bordo, dato che molti ne venivano abbattuti nel tentativo di lasciare la Terra. Ma di rado i superstiti esitavano. Quella gente aveva veduto orrori al cui confronto anche l'inferno sarebbe parso un'amena località di villeggiatura estiva. Dopo un poco i contendenti presero a ignorare i voli dei semi di Gea. Avevano questioni ben più importanti cui badare, come ad esempio quanti milioni di persone trucidare nel corso della settimana.

Ciascun seme poteva trasportare un centinaio di persone. A ogni atterraggio scoppiavano spaventosi tumulti. I bambini venivano spesso abbandonati, poiché gli adulti, usciti ormai dall'alveo del vivere civile, scaraventavano via i propri figli pur di avere la possibilità d'imbarcarsi.

Nessun radiotelegiornale accennava a tali fatti, ma in compenso il viaggio verso Saturno si rivelava un'esperienza portentosa. Non v'era lesione tanto grave da non poter essere risanata. Gli orrori della guerra biologica venivano tutti curati. Ciascuno aveva cibo e bevande in abbondanza. Rinasceva la speranza, durante i voli benedetti.


L'interno di Gea era diviso in dodici regioni. Sei di esse godevano in permanenza della luce del giorno, mentre le altre sei erano immerse in un'eterna notte. Fra tali regioni esistevano strette fasce di luce declinante o nascente (a seconda della direzione di marcia o dello stato d'animo) dette zone crepuscolari.

La zona compresa fra Giapeto e Dione conteneva una vasto lago di forma irregolare, circondato da montagne, noto col nome di Moira. Moira vuol dire Fato o Destino.

Il litorale di Moira era frastagliato e scosceso. Esso comprendeva a sud numerose penisole, che a loro volta delimitavano baie strette e profonde. Le penisole erano in gran parte anonime, ma ogni baia aveva un nome. C'erano la Baia dell'Inganno, la Baia dell'Avidità, la Baia del Dolore, la Baia dell'Ambiguità, e poi le Baie dell'Indifferenza, della Fame, della Malattia, dell'Ostilità e dell'Ingiustizia. Un elenco interminabile e sconfortante. Si trattava nondimeno di una nomenclatura lucidamente adottata dai primi cartografi, i quali si erano messi all'opera armati di una serie di nomi tratti dalla mitologia greca. Tutte le baie erano state battezzate rifacendosi ai figli della Notte, madre di Moira. Moira era la più anziana; Inganno, Avidità, Dolore ecc. costituivano la tenebrosa progenie cadetta.

La più orientale del gruppo era nota come Baia della Menta Piperita, denominazione facile a spiegarsi: nessuno voleva vivere in un luogo chiamato Baia dell'Omicidio, e allora la Maga gli aveva cambiato nome.

Sulla Baia esisteva un solo insediamento: Bellinzona. Era un posto disordinato, rumoroso e sudicio. Per metà si avvinghiava alle rocce pressoché verticali della penisola orientale, e per il resto si estendeva sull'acqua in un proliferare di banchine e pontoni. Le isole di Bellinzona erano artificiali, e poggiavano su piloni o su scabre sporgenze di roccia emergenti dalle acque cupe.

La città cui Bellinzona assomigliava di più, con la sua umanità cosmopolita e l'infinito numero d'imbarcazioni, era Hong Kong. Le barche stavano legate ai moli oppure ad altre barche, in file talvolta di venti o trenta, erano fatte di legno e si presentavano in tutte le fogge possibili e immaginabili: gondole e giunche, chiatte e sambuchi, pescherecci, sandolini, sampan.

Quando Rocky vi si recò, Bellinzona esisteva solo da tre anni, ma possedeva già una lunga esperienza di delitti e corruzione: un gigantesco sfregio ferocemente inferto al volto della Baia della Menta Piperita.

Era una città umana, e gli umani che essa accoglieva innumerevolmente variavano al pari delle loro barche, rappresentando ogni razza e nazionalità. A Bellinzona non esistevano polizia né vigili del fuoco né scuole né tribunali né tasse. C'erano un sacco di armi, ma niente munizioni. Ciò nonostante, il tasso di omicidi era astronomico.

Poche razze native di Gea frequentavano la città. Essa era troppo umida per i fantasmi della sabbia e troppo fumosa per gli aerostati. I Fabbri Ferrai di Febe mantenevano su una delle isole un'enclave per poter più agevolmente procedere all'acquisto di bambini umani, che utilizzavano come incubatrici e riserva alimentare per le loro covate nelle prime fasi di sviluppo. Di tanto in tanto una sottomarina veniva a nutrirsi a spese della città, staccandone grandi pezzi e ingoiandoli tutti interi, ma in linea di massima il sistema di scarico delle acque luride teneva lontani quei leviatani senzienti. I titanidi venivano a commerciare, ma trovavano la città deprimente.

La maggior parte degli abitanti di Bellinzona erano d'accordo con i titanidi. C'erano invece quelli che trovavano affascinante quel luogo rude, aggressivo, pieno di vita, "Feroce come un lupo che, a fauci spalancate, si getta sulla preda, infido come un selvaggio…". Ma, a differenza dell'antica Chicago, Bellinzona non aveva allevamenti di maiali, né fabbriche di utensili, né silos pieni di grano. Il cibo veniva dal lago, dalla manna, oppure dai pozzi profondi cui si attingeva il latte di Gea. I principali prodotti della città consistevano in chiazze marrone scuro nell'acqua e pennacchi di fumo nell'aria; c'era sempre qualche parte di Bellinzona che bruciava. Nel dedalo delle sue umide stradine si potevano comprare lacci da strangolatore, veleni, schiavi. Sulle bancarelle dei macellai si trovava apertamente in vendita carne umana.

Era come se tutte le miserie della Terra martoriata fossero state portate in quel luogo, distillate, concentrate, e lasciate imputridire.

Il che corrispondeva esattamente ai piani di Gea.


Il 97.761.615 riv del ventisettesimo gigariv, Mellotron (Trio Lidio Doppiodiesis) Rock'n'Roll discese dalla sua barcalonga mettendo piede sull'estremità del Molo Diciassette, alla periferia di Bellinzona.

Di quel titanide, Ci rocco Jones aveva affermato una volta che «è la dimostrazione vivente di come un sistema studiato per semplificare le cose possa divenire incontrollabile.» La sua osservazione nasceva dal fatto che il vero nome di ogni titanide consisteva in un canto che diceva molto circa il suo possessore, ma non poteva venir traslitterato in alcun idioma terrestre. Poiché non era mai esistito essere umano che avesse imparato a cantare in titanide senza l'aiuto di Gea, era parso logico ai titanidi adottare nomi in inglese, tra i linguaggi umani il preferito su Gea.

Il sistema risultava funzionale… per un titanide. L'ultimo nome era quello dell'accordo di appartenenza. Gli accordi corrispondevano a clan, o associazioni, o stirpi, o razze. Pochi esseri umani comprendevano la natura degli accordi, sebbene molti fossero in grado di riconoscere il particolare manto che li distingueva, simile al tartan degli scozzesi o alle cravatte dei differenti college. Il secondo nome, quello entro parentesi, indicava quale delle ventinove possibili varianti era stata impiegata per generare il titanide, che poteva possedere da uno a quattro genitori. Il nome iniziale evidenziava il terzo elemento importante nell'esistenza di ogni titanide: la musica. Tutti loro sceglievano, come nomi di battesimo, degli strumenti musicali.

Ma con Mellotron quel metodo aveva subito una battuta d'arresto. La Maga aveva deciso che il suo nome era davvero troppo stravagante per poter essere usato: l'aveva quindi soprannominato Rocky, e la designazione gli era rimasta. Fu un bel colpo per Cirocco, che era stata afflitta da quel nomignolo per oltre un secolo. Dopo averlo affibbiato al titanide, poté verificare che nessuno la chiamava più Rocky, non foss'altro che per evitare equivoci.

Rocky il titanide ormeggiò la sua barca a un palo, diede un'occhiata attorno, poi alzò lo sguardo al cielo. Avrebbe potuto essere tardo pomeriggio. Sul lago Moira andava avanti così da tre milioni di anni terrestri, e Rocky non si aspettava che le cose potessero cambiare. C'erano le nubi che scendevano dal raggio di Dione, trecento chilometri più su, mentre verso occidente fiotti di luce solare gialla come burro si riversavano attraverso la volta arcuata sovrastante Iperione.

Rocky annusò l'aria e si pentì immediatamente di averlo fatto, comunque annusò ancora, con circospezione, cercando d'individuare il sentore di carne guasta tipico dei Preti o l'odore ancora più sgradevole emanato dagli Zombi.

La città aveva un'aria sonnacchiosa. Giacendo in quella perenne condizione di evanescente crepuscolo, Bellinzona non conosceva ore di punta o momenti di stanca. La gente agiva quando ne aveva voglia, oppure quando proprio non poteva farne più a meno. Tuttavia esisteva un andamento ciclico nella tendenza all'azione. C'erano periodi in cui la violenza aleggiava nell'aria, pronta a esplodere, e periodi in cui la bestia, torpida e satolla, si raggomitolava su se stessa, acquattandosi in un sonno inquieto.

Rocky si avvicinò a un vecchio umano di sesso maschile che stava arrostendo al fuoco delle teste di pesce dentro un secchio rugginoso.

— Ehi, vecchio — lo apostrofò in inglese. Poi gli lanciò una bustina di cocaina, che l'umano acchiappò al volo, fiutò, e intascò.

— Sorvegliami la barca finché non torno — gli disse — e te ne darò un'altra come quella.

Poi si volse, e partì scalpitando lungo il molo su quattro zoccoli adamantini.


Il titanide procedeva guardingo, ma non eccessivamente impensierito. Agli umani era stato necessario molto tempo per imparare la lezione, ma ormai l'avevano imparata bene. Quando le munizioni erano finite, i titanidi avevano smesso di essere cortesi.

In realtà non lo erano mai stati, ma avevano valutato realisticamente la situazione. Non ha senso mettersi a discutere con un umano armato. Per quasi un secolo la maggior parte degli umani di Gea erano stati armati. Adesso di proiettili non ce n'erano più, e Rocky poteva trotterellare sulle banchine di Bellinzoha quasi senza alcun timore.

Egli pesava più di cinque umani messi insieme, ed era più forte di dieci di loro. Inoltre era almeno due volte più veloce. Se assalito da umani sarebbe stato in grado di decapitarli a furia di calci e di strappargli le membra a mani nude, e non avrebbe esitato a farlo. Se cinquanta di loro si fossero coallzzati per sopraffarlo, avrebbe potuto sottrarsi fuggendo. E se nient'altro avesse funzionato, poteva sempre ricorrere alla calibro 38, più preziosa dell'oro, che attendeva carica nella borsa ventrale. Ma Rocky intendeva restituirla intatta al Capitano Jones.

Era uno spettacolo formidabile, quel titanide al trotto attraverso la città crepuscolare. Svettante sui tre metri, pareva raggiungere quasi un metro di larghezza. Di foggia centauroide, presentava nell'insieme una struttura più armoniosa rispetto al classico modello greco, e nei particolari ne differiva totalmente. Non esisteva una linea di congiunzione fra la parte umana e quella equina. L'intero corpo era liscio e privo di peli, a parte abbondanti cascate di nero crine scaturenti dalla testa e dalla zona caudale, e un cespuglio di vello pubico fra le zampe anteriori. La sua pelle aveva il biancore della calce fresca. Non indossava vestiti, ma era adorno di gioielli e tinteggiato di grandi chiazze colorate. La cosa più sorprendente, agli occhi di un umano che non avesse mai veduto un titanide, consisteva nel fatto che quell'essere sembrava una femmina. Si trattava di una falsa impressione: tutti i titanidi possedevano grandi mammelle coniche, lunghe ciglia e una larga bocca sensuale, e a nessuno cresceva la barba. Il metro e mezzo superiore di un titanide sarebbe stato immediatamente identificato come donna in qualunque cultura terrestre. Ma nei titanidi il sesso era determinato dagli organi riproduttivi presenti fra le zampe anteriori. Rocky era un maschio che poteva generare figli.

Egli procedeva lungo gli angusti pontili in mezzo alle file interminabili di natanti, superando gruppetti di umani che non esitavano a fargli largo. Le sue grandi narici palpitanti fiutarono numerose presenze… carne arrostita, escrementi umani, un Fabbro Ferraio in lontananza, pesce fresco, sudore umano… ma neanche un Prete. Giunse gradualmente a viuzze più frequentate, e poi alle grandi arterie galleggianti di Bellinzona. Caracollò scalpitando sopra ponti talmente arcuati da esser quasi semicerchi: era facile superarli, nel quarto di g che imponeva Gea.

Si fermò a un incrocio appena fuori dal Quartiere delle Libere Femmine. Si guardò attorno, consapevole del drappello di sette LiFem appostate sulla linea d'interdizione, ma disinteressato a loro esattamente come quelle erano indifferenti alla sua presenza. Poteva entrare nel Quartiere, se lo desiderava: era solo contro i maschi umani che le sentinelle montavano la guardia.

Stazionavano nei pressi alcuni altri umani, e l'unica ad attrarre la sua attenzione fu una femmina che Rocky giudicò sui diciannove-vent'anni, quantunque gli risultasse difficile stimare l'età di un'umana fra la pubertà e la menopausa. Se ne stava seduta sull'estremità di un palo col mento fra le mani, e indossava un paio di basse scarpette nere dalla punta smussata, provviste di nastri che le si avvolgevano attorno ai polpacci.

Alzò gli occhi a guardarlo, ed egli seppe all'istante che altri umani l'avrebbero considerata pazza. Comprese inoltre che non v'era violenza, in lei. La follia non gli dava alcun fastidio; dopo tutto si trattava solo di un concetto umano. Anzi, la mescolanza di pazzia e non violenza produceva gli umani che Rocky ammirava di più. Be', naturalmente Cirocco Jones era un caso a sé…

Le sorrise, ed ella reclinò la testa da una parte.

Poi si sollevò sulle punte. Mentre le sue braccia si dispiegavano innalzandosi, ella subì una metamorfosi. Incominciò a danzare.

Rocky conosceva la sua storia. Ce n'erano a migliaia come lei: miserabili senza casa, senza amici, senza nulla. Anche i mendicanti di Calcutta avevano posseduto almeno qualche lembo di marciapiede su cui stendersi a dormire, così Rocky aveva sentito dire. Ma Calcutta non era che un ricordo. E assai spesso gli abitanti di Bellinzona possedevano ancor meno. Molti di loro, neanche dormivano più.

Quanti anni poteva avere avuto costei, all'inizio della guerra? Quindici? Sedici? Comunque era sopravvissuta, gli spazzini di Gea l'avevano raccolta, e alla fine era giunta quassù, privata non solo d'ogni suo possesso materiale, e della sua cultura, e di chiunque avesse mai contato per lei, ma persino della sua mente.

Eppure era ricca, quella creatura. Qualcuno, molto tempo prima, senza dubbio sulla Terra, le aveva insegnato a danzare. Ella possedeva ancora la danza, e le scarpette da ballo. E aveva la sua follia, che su Gea valeva qualcosa. Significava protezione: brutte cose accadevano spesso a chi tormentava un pazzo.

Rocky sapeva che gli umani erano insensibili all'armonia del mondo. I pochi umani abbastanza vicini per assistere all'evento, anche se si fossero accorti di quella danza, non avrebbero mai udito i suoni che ella creava per lui. Per Rocky era come se la Filarmonica di Titantown si stesse in quello stesso momento esibendo sullo sfondo dei balzi e dei volteggi della folle ballerina. Gea era un ambiente ideale per la danza. La sua ridotta gravità consentiva interminabili evoluzioni a mezz'aria, e faceva apparire l'incedere in punta di piedi come la naturale andatura degli umani… ammesso che fosse possibile attribuire loro un'andatura naturale. La danza umana era una fonte inesauribile di vertiginoso entusiasmo, per Rocky. Che essi potessero camminare era già un miracolo, ma addirittura danzare…

Nel silenzio più assoluto lei ricreava La Sylphide lì sopra le assi di quell'immondo pontile, piroettando leggera a due passi dalla pattumiera dell'umanità.

Concluse con una riverenza, poi gli sorrise. Rocky frugò nella sua borsa e ne trasse un altro pacchettino di cocaina, pensando che era una ricompensa modesta anche solo per quel sorriso. Lei lo prese e s'inchinò ancora. D'impulso, egli si cercò fra le chiome spiccandone un fiore bianco, uno dei tanti che vi si annidavano intrecciati, e glielo porse. Lei lo ricambiò stavolta con un sorriso ancor più dolce, che andò a mutarsi in pianto.

Grazie, padrone, mille grazie - gli disse, e corse via.

— E a me non me l'hai portato un fiore, scimmione?

Volgendosi, Rocky si trovò di fronte un esemplare basso e muscoloso di maschio umano, o "maschio canadese", come costui amava definirsi. Il titanide conosceva Conal da tre anni, e lo giudicava magnificamente pazzo.

— Non credevo che venivi qui a cercare umani per…

— Non dire "chiavare", Conal, o ti butto giù qualche dente.

— E cosa dovrei dire? Che grande affare avreste concluso?

— Insensibile come sei alla bellezza, non potresti assolutamente capire. Ti basti sapere che il tuo arrivo è stato come una cacata dentro un vaso Ming.

— Be', io ci provo. — Si tolse il mantello foderato di lana che portava sulle spalle, diede uno sguardo in giro, tirò un'ultima boccata dal mozzicone del sigaro e lo buttò nell'acqua sudicia. Conal non si separava mai dal suo mantello. Rocky pensava che quell'indumento gli desse un odoreinteressante.

— Visto gnente? — chiese infine Conal, senza perder d'occhio le sette sorelle appostate a guardia del Quartiere. Anche loro lo stavano osservando, armi rilassate ma pronte all'uso.

— No. Non conosco la città, però mi sembra tutto tranquillo.

— Pure a me. Speravo che il tuo naso aveva annusato qualcosa che a me non mi era saltato all'occhio. Ma però ci ho l'impressione ch'è un pezzo che non vengono qui.

— Se fossero venuti, me ne sarei accorto — confermò Rocky.

— Allora credo che potete andare avanti. — Aggrottò le sopracciglia, poi guardò in su verso Rocky. — A meno che non decidi di dissuaderla.

— Non posso, e non voglio — replicò Rocky. — C'è in giro qualcosa di tremendamente brutto. Bisogna agire subito.

— Già, però…

— Non è poi così pericoloso, Conal. Non le farò alcun male.

— Diavolo d'un cane, sarà proprio meglio, te lo dico io!


Cirocco e Conal avevano passato un po' di tempo a contrattare, quel primo giorno. Ne erano trascorsi, di anni, ma Conal se lo ricordava bene. Lui le aveva offerto la propria sottomissione vita natural durante. Cirocco aveva argomentato che era troppo: sarebbe stata una crudele e inaudita punizione. La sua controproposta suggeriva due miriariv. Un po' alla volta Conal era sceso a venti. La Maga aveva rilanciato con tre.

Alla fine si erano messi d'accordo su cinque. Quello che Cirocco non sapeva, era che Conal aveva avuto allora, e nutriva ancora, l'inflessibile determinazione di mantenere la sua iniziale promessa. Le sarebbe stato fedele servitore sino alla morte.

Egli l'amava con tutta l'anima.

Ciò non vuol dire che non avesse mai conosciuto esitazioni e momenti neri. Gli era capitato che standosene seduto al buio, da solo, talune barriere mentali erano cadute, e aveva incominciato a provare un certo risentimento, ad accarezzare l'idea che lei l'aveva trattato davvero male, che gli aveva inflitto un calvario non del tutto meritato. Quante penose interminabili "notti" aveva consumato insonne, nell'eterno crepuscolo di Gea, sentendo la ribellione crescergli dentro e sperimentando un terrore assoluto… Perché talvolta non poteva fare a meno di pensare che, in profondissime inaccessibili regioni del suo cuore, egli doveva odiarla, e questo era un concetto spaventoso, poiché mai egli aveva conosciuto una persona così meravigliosa. La vita stessa, gli aveva donato. Ed egli sapeva ora, cosa ignorata allora, che un gesto come quello, lui, non l'avrebbe mai compiuto. Lui gli avrebbe sparato, invece, a quello stupido impiccione, a quell'idiota coi suoi fumetti. Anche adesso gli avrebbe sparato, se gli fosse capitato d'incontrare un simile imbecille. Un bel buco tondo proprio in mezzo alla fronte, bang!, com'era giusto e inevitabile.

I primi chiloriv erano stati duri. Si chiedeva ancora come avesse fatto a superarli. Sostanzialmente. Cirocco non aveva tempo di starsi a preoccupare per lui, e Conal era rimasto confinato in quella inaccessibile caverna. Di tempo per riflettere ne aveva in abbondanza, e così, intanto che guariva, diede un'occhiata a se stesso per la prima volta in vita sua. Ma non in uno specchio; non esistevano specchi, nella grotta, e per un po' tale circostanza lo fece ammattire, avvezzo com'era a contemplarsi per ammirare il rigoglio possente dei propri muscoli… e anche perché avrebbe voluto verificare sino a che punto era rimasto sfigurato. Alla fine, incominciò a guardare in altre direzioni. Prese a usare lo specchio della trascorsa esperienza, e ciò che vide non gli piacque.

Vediamo un po': che cosa possedeva, lui? A conti fatti, risultò disporre di un fisico vigoroso (al momento piuttosto malridotto) e… della sua parola. Nient'altro.

Intelligenza? Lasciamo perdere. Fascino? Rassegnati, Conal. Eloquenza, purezza, rettitudine, ritegno, onestà, gratitudine, simpatia? Be'…

— Sei forte — si disse — ma non in questo momento, e poi, devi ammetterlo, lei ti può battere quando vuole. Possedevi una qualche bellezza, almeno così dicevano le ragazze, ma non puoi mica attribuirtene il merito, è stata tua madre a farti così. Anche la salute, avevi, ma non è il caso di farci affidamento adesso, che ti reggi in piedi a malapena.

Cosa rimaneva? L'onore. Punto e basta.

Era tutta da ridere. «Una questione d'onore» aveva detto Cirocco, pochi istanti prima che il titanide lo colpisse alle spalle. E allora, alla fin fine, che diavolo era l'onore?

Conal non aveva mai sentito parlare del Marchese di Queensbury, ma conosceva ugualmente le regole del comportamento cavalieresco. Mai sparare a un uomo nella schiena. La tortura è contraria alla Convenzione di Ginevra. Prima tirare sempre un colpo di avvertimento in aria. Illustrare all'avversario le proprie intenzioni. Concedere all'antagonista una sia pur minima possibilità di reazione.

Tutti princìpi che andavano benissimo, in una competizione. I giochi, infatti, sono governati da regole.

— A volte devi fartele da te, le tue regole — gli aveva spiegato Cirocco diverso tempo dopo. Ma, a quel punto, Conal l'aveva già capito da solo.

Voleva forse dire che le regole non esistevano per niente? No. Voleva solo dire che bisognava decidere con quali regole si poteva convivere, e con quali regole si poteva sopravvivere, perché era di sopravvivenza che parlava Cirocco, e si trattava di un argomento che lei conosceva meglio di chiunque altro nella storia dell'umanità.

— Prima devi decidere quanto t'importa di restare vivo — gli aveva detto — e dopo scoprirai che cosa devi fare per riuscirci.

Non esistevano regole, coi nemici. L'onore non c'entrava nulla. Il miglior modo per uccidere un nemico era tirargli da lontano, senza preavviso, nella schiena. Se si presentava la necessità di torturare il nemico, bisognava strappargli le budella. Se c'era da mentire, si mentiva. Senza scrupoli di sorta. È così che si fa, con i nemici.

L'onore vale unicamente fra amici.

Per Conal era un concetto difficile da mandar giù. Lui non l'aveva mai avuto, un amico, e Cirocco non pareva molto promettente come punto di partenza… anzi, aveva tutta l'aria di poter aspirare a essere il peggior nemico ch'egli avesse mai avuto. Nessuno era mai giunto a procurargli neppure la millesima parte delle sofferenze inflittegli da lei.

Ma, gira e rigira, finiva sempre per ricascare su quel brevissimo elenco. La sua parola. Aveva dato la sua parola. Nudo, indifeso, a un passo dalla morte, soltanto quella gli era rimasta da dare, ma l'aveva data onestamente. O almeno così credeva. Il problema era che il pensiero di uccidere Jones continuava a ossessionarlo.

Per qualche tempo non gli parve che valesse la pena di sopravvivere. E rimaneva in piedi lunghe ore sull'orlo del precipizio, pronto a saltar giù, maledicendosi per l'abietta umiliazione di cui si era macchiato.


La prima volta che tornò a trovarlo, dopo un'assenza di oltre un ettoriv, la fece partecipe delle proprie meditazioni. Lei non ne rise.

— Credo anch'io che la parola di una persona valga qualcosa — assentì. — La mia ha un certo valore, per me. e quindi non la do alla leggera.

— Però mentiresti a un nemico, vero?

— Solamente lo stretto necessario. Egli rimase a pensarci su.

— Te l'avevo già accennato — continuò lei — ma vale la pena di ripeterlo. Un giuramento prestato sotto costrizione non è vincolante. Io, per lo meno, non lo riterrei tale. Un giuramento estorto non è affatto un giuramento.

— Dunque non ti aspetti che io tenga fede al mio, è così?

— A dire il vero, no. Non vedo motivo per cui dovresti.

— Ma allora perché l'hai accettato?

— Per due motivi. Io credo di poter prevenire le tue mosse, all'occorrenza, e ucciderti. E Cornamusa crede che manterrai la parola data.

— La manterrà — confermò Cornamusa.


Conal non sapeva per qual motivo il titanide fosse tanto fiducioso. Ben presto lo lasciarono di nuovo solo, ed ebbe altro tempo da dedicare alla riflessione, ma si ritrovò a percorrere i medesimi sentieri mentali che già conosceva. Un giuramento prestato sotto costrizione… ma era la sua Parola.

E, alla fine, seppe di non avere altra scelta. Doveva saltare, o mantenere la sua parola. Partendo da quei rimasugli di dignità, forse sarebbe riuscito a costruire un uomo capace di guadagnarsi il rispetto della Maga.

Conal e Rocky entrarono nel quartiere delle Libere Femmine.

Ciascuna delle sette sentinelle volle esaminare attentamente il lasciapassare di Conal, e anche dopo il controllo apparvero chiaramente riluttanti a consentirgli l'ingresso. Da quando, due anni prima, era stato istituito il quartiere, nessun maschio umano che fosse andato più di cinquanta metri oltre quella barriera era vissuto abbastanza a lungo per raccontarlo. Ma le Libere Femmine, per loro stessa natura, erano l'unica comunità umana che riconoscesse l'autorità della Maga. Cirocco Jones era una dea, per loro, un essere sovrannaturale, una figura leggendaria divenuta realtà. Lei faceva, alle Libere Femmine, più o meno lo stesso effetto che avrebbe esercitato, su un gruppo di fanatici sherlockiani, un autentico Holmes in carne e ossa: qualunque cosa chiedesse, la otteneva. Se voleva che a quell'uomo fosse dato accesso al quartiere, così doveva essere.

Oltrepassato il posto di guardia, s'incontrava un camminamento d'un centinaio di metri noto come la Zona della Morte. C'erano ponti levatoi, casematte corazzate con feritoie per il lancio di frecce, calderoni pieni d'olii infiammabili; il tutto predisposto allo scopo di ostacolare un eventuale assalto quanto bastava a radunare un reparto di amazzoni.

Una donna era ad attenderli. Portava i suoi quarantacinque anni con una serenità che molti si auguravano, ma pochi raggiungevano. Aveva lunghi capelli bianchi. Secondo l'usanza delle Libere Femmine all'interno del loro territorio, non indossava nulla dalla vita in su. Dove un tempo era stata la mammella destra, s'incurvava ora una levigata cicatrice bluastra, estesa dallo sterno alla settima costola.

— Qualche problema? — chiese la donna.

— Salute a te, Trini — disse Conal.

— Nessun problema — le assicurò il titanide. — Lei dov'è?

— Da questa parte. — Abbandonando la banchina, Trini scese sul ponte di una chiatta. I due la seguirono sino a un'altra imbarcazione un po' meno imponente, e attraverso una passerella traballante giunsero a una terza barca.

Fu un tragitto affascinante, per Rocky, che si era sempre domandato che aspetto avessero i nidi degli umani. Quasi tutti piuttosto lerci, concluse. E con minime concessioni all'intimità, oltretutto. Certe barche erano davvero piccole. Incontrarono minuscole scialuppe a fondo piatto protette da tende di stoffa, e altre a cielo aperto. Tutte quante straripavano di femmine umane d'ogni età. Vide donne distese a dormire su pagliericci piazzati il più possibile lontano da quell'improvvisata pubblica via, e altre donne intente a fornelli e bambini.

Giunsero infine a un natante di maggiori dimensioni, provvisto di un ponte ben saldo. Si trovava alla periferia del quartiere, vicinissimo alle acque aperte della Baia Piperita. In coperta s'innalzava una grande tenda. Trini ne tenne scostato un lembo per far entrare Conal e Rocky.

All'interno, in uno spazio che ne avrebbe potuti contenere cinque comodamente, erano presenti sei titanidi. Con l'arrivo di Rocky salirono a sette. A parte Conal, il solo altro umano presente, all'estremità opposta della tenda, era Cirocco Jones, ammantata di coltri, semidistesa in quella che avrebbe potuto sembrare una bassissima poltrona da barbiere. Tale positura situava la sua testa a una trentina di centimetri dal ponte, dove andava ad adagiarsi fra le gialle zampe anteriori conserte a grembo di Valiha (Assolo Eolio) Madrigale. La titanide era impegnata a guidare pian piano un rasoio a lama aperta sul cuoio capelluto di Cirocco, dando gli ultimi tocchi a una rasatura che lasciava nuda la testa della Maga dalla sommità in avanti.

Lei sollevò il capo, inducendo Valiha a tubarle un ammonimento. Rocky notò che la sua testa oscillava, che i suoi occhi non erano bene a fuoco, e che stentava ad articolare le parole: ma c'era da spettarselo.

— Bene — disse Cirocco. — Adesso possiamo incominciare. Taglia quando sei pronto, doc.


Conal conosceva tutti i titanidi presenti, tranne un paio. C'erano Rocky e Valiha, e poi ovviamente Cornamusa, e Serpentone, il figlio di Valiha. A parte gli organi sessuali anteriori, Valiha e Serpentone apparivano identici come gemelli, sebbene Valiha avesse vent'anni e Serpentone soltanto quindici. Conal era stato a lungo incapace di distinguerli. Rivolse un gesto di saluto a Viola (Duetto Ipolidio) Toccata, che conosceva appena, e venne presentato a Celesta e Chiarina, entrambe dell'accordo Salmo, che gli accennarono con fare austero.

Poi vide Rocky avanzare e inginocchiarsi di fianco al Capitano. Serpentone gli porse una valigetta nera, che Rocky aprì estraendone uno stetoscopio. Mentre lui se lo aggiustava sulle orecchie, Cirocco afferrò l'altra estremità applicandosela sulla testa nuda. Poi si picchiettò in capo con le nocche.

— Dong… dong… dong… — intonò Cirocco cupamente, e si mise a ridere.

— Molto divertente, capitano — commentò Rocky, porgendo bisturi e trapani di balenante acciaio a Serpentone, incaricato della sterilizzazione. Conal si avvicinò e andò a sedersi accanto a Rocky. Cirocco allungò una mano ad afferrargli una delle sue, stringendola forte.

— Sono contenta che sei venuto, Conal — gli disse, e parve trovarci qualcosa di buffo, perché si mise di nuovo a ridere. Lui capì che l'avevano narcotizzata. Una delle sorelle Salmo aveva scostato giù in fondo le coperte scoprendole i piedi, e ci stava conficcando degli spilli che faceva vorticare tra pollice e indice.

— Ohi — disse Cirocco con voce atona. — Ohi. Ahi.

— Ti fa male?

— Nnonnò. 'n sento un tubo. — E prese a ridacchiare.

Conal, madido di sudore, guardò Rocky chinarsi su di lei, scansarle la coperta dal petto e porle l'orecchio sulla zona cardiaca. Auscultò in diversi punti, spostandosi alla fine anche sul cranio. Ripeté l'operazione con lo stetoscopio, anche se non dava l'impressione di aver molta fiducia nello strumento.

— Non vi pare che qui dentro ci sia un caldo spaventoso? — chiese Conal.

— Togliti il mantello — gli suggerì Rocky senza guardarlo.

Conal obbedì, e si accorse che, semmai, dentro la tenda faceva freddo. O per lo meno sentì il sudore appiccicarglisi addosso.

— Dimmi, doc — chiese Cirocco. — Quando avrai finito, sarò capace di suonare il piano?

— Naturalmente — rispose Rocky.

— Ma è favoloso! Perché vedi, io…

— …il pianoforte non l'ho mai suonato — concluse Rocky. — Questa è vecchia come il cucco, Capitano.

Ma Conal non riuscì a trattenersi. Lui quella battuta non l'aveva mai sentita, e si mise a ridere.

— Che diavolo ti piglia? — ruggì Cirocco cercando di alzarsi. — Sono qui che sto per morire e tu ti ci diverti, vero? Ma io ti… — Conal non fece in tempo a sentire quali fossero le sue intenzioni, perché Rocky si diede subito a calmarla. La collera se ne andò rapida com'era venuta, e Cirocco tornò a sorridere. — Ehi, doc, dopo sarò capace di suonare il piano?

Rocky le spalmò sulla fronte un unguento purpureo. Tre titanidi incominciarono a cantare piano. Conal sapeva ch'era un canto tranquillizzante, ma su di lui non fece effetto. Cirocco, invece, si rilassò visibilmente. Con ogni probabilità funzionava solo se si capivano le parole.

— Ti consiglio di aspettare fuori, Conal — disse Rocky senza sollevare il capo.

— Ma che mi vieni a raccontare? Qui sono e qui rimango. Qualcuno ci vuole, per controllare se lavori bene.

— Credo proprio che dovresti uscire — insisté Rocky guardandolo in faccia.

— Sciocchezze. Posso farcela benissimo.

— D'accordo.

Rocky impugnò un bisturi, e rapidamente, destramente, incise una grande "C" rovesciata dalla sommità della testa di Cirocco giù giù fino a un pelo dalle sopracciglia. Poi, con dita rese purpuree dalla soluzione disinfettante, ribaltò verso sinistra il lembo di pelle, mettendo allo scoperto l'insanguinato cranio sottostante.


— Portatelo fuori — disse Rocky. — Si riprenderà in pochi minuti.

Udì Celesta uscire con passo deciso recando il corpo inerte di Conal, così come poc'anzi aveva sentito Conal accasciarsi pesantemente al suolo, ma non distolse mai lo sguardo dal suo lavoro. Era certo che Conal sarebbe svenuto. Quell'uomo aveva praticamente continuato per dieci minuti a proclamare l'inevitabilità di tale esito. Qualunque guaritore titanide avrebbe rilevato i sintomi, sebbene essi fossero inaudibili per le orecchie umane.

Se esisteva un senso nel quale i titanidi detenevano un'assoluta superiorità, si trattava senza dubbio dell'udito.

Era stato un orecchio titanide a captare per primo gli strani rumori che provenivano dalla testa di Cirocco. Non erano suoni che si sarebbero potuti registrare su nastro magnetico… avrebbero anche potuto non essere affatto suoni nell'accezione umana del termine. Eppure diversi guaritori titanidi l'avevano percepito: un mormorto malvagio, un sussurro rivelatore. Lì dentro c'era qualcosa che non doveva esserci, e nessuno aveva la minima idea di cosa fosse.

Rocky aveva studiato l'anatomia umana. Si era parlato di affidare l'operazione a un dottore umano, ma alla fine Cirocco aveva respinto la proposta, preferendo mettersi nelle mani di un amico.

E adesso eccolo lì, sul punto di aprire il cranio dell'essere che occupava, nel suo mondo, una posizione assai simile al ruolo giocato da Gesù Cristo per la setta religiosa di origine terrestre nota come Cristiani.

Sperava che nessuno si accorgesse di quant'era terrorizzato.

— Finora come va? — chiese Cirocco. A Rocky parve che lei stesse meglio: molto più rilassata. Lo considerò un buon segno.

— Non saprei. C'è questo grande otto nero dentro un cerchio bianco…

Cirocco sogghignò. — Credevo che ci fosse scritto "Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate." — Chiuse gli occhi un momento, fece un respiro profondo. — Pensavo di poterlo sentire un poco anch'io — disse con voce tremante.

— Impossibile — replicò Rocky.

— Se lo dici tu. Potrei bere un goccio?

Valiha le mise una cannuccia fra le labbra, e Cirocco inghiottì un sorso d'acqua.

— È come pensavo — disse Rocky dopo avere auscultato attentamente. — Il problema si annida più in profondità.

— Non troppo, spero.

Mentre allungava una mano per prendere il trapano, Rocky si strinse nelle spalle, — In tal caso, sarebbe oltre le mie capacità. — Collegò il trapano a una piantabatteria e lo provò, ascoltandone il gemito acuto. Cirocco fece una smorfia.

— Parlami del rock and roll — gli disse.

Rocky posizionò la punta del trapano sul cranio di Cirocco, e azionò l'apparecchio.

— Il rock and roll nacque dalla fusione di numerose espressioni musicali presenti nella cultura umana dei primi anni Cinquanta. Il rhythm and blues, il jazz, i gospel, un pizzico di country… tutti elementi che incominciarono a riunirsi sotto varie denominazioni e diversi stili intorno al 1954. Nel nostro accordo siamo quasi tutti dell'opinione che la prima sintesi fu ottenuta da Chuck Berry, in una canzone che s'intitolava "Maybellene".

— "Why cancha be true?" — cantò Cirocco.

Rocky cambiò posizione alla punta del trapano, e fissò Cirocco con aria sospettosa.

— Vedo che ti sei documentata, eh? — la rimproverò.

— Ero solo curiosa circa il nome del tuo accordo.

— Non fu altro che una circoscrìtta fioritura, nella storia della musica, un abbellimento inessenziale — ammise Rocky. — Per un poco diede prova d'un vigore affascinante, ma il suo potenziale si esaurì ben presto. Cosa non rara, d'altronde, a quei tempi. Era difficile che un nuovo genere musicale durasse due anni, e quasi impossibile che arrivasse a dieci.

— Ma il rock and roll durò cinquant'anni, vero?

— Questione di punti di vista. — Rocky completò il secondo foro e iniziò il terzo. — Un tipo di musica detto "rock" tirò avanti per un bel pezzo, ma aveva perduto lo zeitgeist.

— Non usare 'sti paroloni con me. Sono solo uno stupido umano.

— Scusami. L'energia creativa venne incanalata in una produzione sempre più raffinata e decadente, sopraffatta da possibilità tecnologiche che essa non ebbe l'abilità di sfruttare né l'intelligenza di capire. Divenne dunque una cosa vuota con un bel guscio sfavillante, più interessata al procedimento formale che all'enunciazione sostanziale. L'accuratezza artigianale non fu mai il suo punto di forza, e ben presto venne totalmente dimenticata. Il valore di un artista finì per essere misurato in decibel e megadollari. Per carenza di ricambio si trascinò stancamente, morto ma non sepolto, fin quasi alla metà degli anni Novanta, poi cessò di essere considerato un genere impegnato.

— Parole severe, da parte di un tizio il cui ultimo nome è Rock'n'Roll.

Rocky aveva finito di praticare il quinto foro. Ne cominciò un altro.

— Niente affatto. È solo che non desidero divinizzare un cadavere, a differenza di quel che fanno certi studiosi. La musica barocca è ancora viva in quanto esiste chi la suona e ne trae godimento. In questo senso anche il rock and roll continua a vivere. Ma le possibilità del barocco vennero esaurite centinaia di anni fa. Al rock è accaduto lo stesso.

— E quand'è che è morto?

— Le opinioni divergono. Molti dicono nel 1970, quando McCartney fece causa ai Beatles. Altri arrivano al 1976. C'è chi per vari motivi preferisce il 1964.

— E secondo te?

— Fra il '64 e il '70. Più verso il '64.

Rocky disponeva adesso di una serie di otto fori. Passò a usare un seghetto per incidere la scatola cranica lungo il perimetro risultante. Lavorava in silenzio, e per un po' Cirocco non ebbe niente da dire. Si udiva solo il rumore dei denti che aggredivano l'osso, e da fuori il quieto sciabordìo dei flutti contro il fianco della barca.

— Ho letto certi critici che parlano assai bene di Elton John — disse Cirocco.

Rocky si limitò a sbuffare.

— Che te ne pare della nuova fioritura rock degli anni Ottanta?

— Spazzatura. Non sarà per caso che adesso mi tiri in ballo anche la discomusic, eh?

— No, quella te la risparmio.

— Ottimo. Non vorrei che mi scivolassero le dita.

Cirocco urlò.

Per un pelo la mano di Rocky non si lasciò sfuggire la sega circolare. Non gli era mai accaduto di udire un simile strazio in una voce umana. L'urlo diveniva sempre più forte e acuto, e Rocky avrebbe voluto morire. Che aveva fatto? Com'era possibile che stesse infliggendo al suo Capitano un tormento così grande?

Cirocco si sarebbe strappata la pelle dal volto, se non fosse stato per le forti braccia di Valiha. Mentre giaceva così immobilizzata, tutti i muscoli del suo corpo sporgevano simili a cavi tesi allo spasimo. Lottò nel tentativo di svincolarsi, intanto che il suo grido si spegneva per mancanza d'aria. Un silenzio assoluto che alle orecchie di Rocky suonò ancora più penoso. Cirocco prese a mordersi la lingua. Serpentone si avvicinò rapido cacciandole a forza un pezzo di legno tra i denti, ma il suo intervento interessò un solo lato della bocca, e la pressione continuò diseguale. Rocky udì il rumore della mandibola che si spezzava.

Poi tutto finì. Gli occhi di Cirocco si riaprirono, vagando qua e là circospetti come in cerca d'un qualche aggressore pronto al balzo. L'asticella di legno era quasi troncata in due.

— Che mi è successo? — domandò, impastando le parole. Rocky le tastò delicatamente la mascella, individuò la frattura, e decise di rimandarne a dopo la riduzione.

— Speravo che potessi dirmelo tu. — Si sporse per consentire a Serpentone di detergergli il sudore dal volto.

— Mi sembrava… sembravano tutti i mal di testa del mondo messi insieme. — Aveva un'aria perplessa. — Ma non me ne ricordo quasi più. Come se non fosse nemmeno accaduto.

— Tutto sommato ti è andata bene. Vuoi che prosegua?

— Che significa? Non possiamo fermarci a metà.

Rocky abbassò lo sguardo a esaminarsi la mano. che aveva smesso di tremare. Si domandava perché mai gli fosse saltato in testa di studiare l'anatomia umana. Se non fosse stato così maledettamente curioso, adesso, a fare quel lavoro, ci sarebbe stato qualcun altro.

— Sembrava proprio una specie d'avvertimento — fu tutto quello che riuscì a dire. Sebbene non l'avesse confidato a nessuno, in realtà aveva un'idea abbastanza precisa di quel che avrebbe trovato dentro il cranio di Cirocco.

— Apri — disse lei, e richiuse gli occhi.

Rocky obbedì. Concluse l'ultimo taglio, e asportò la porzione di osso. Sotto c'era la dura madre, proprio come affermava il Gray. Attraverso la membrana poteva scorgere i contorni del cervello. Nel mezzo, dentro la grande fenditura longitudinale situata fra i due lobi frontali, c'era un rigonfiamento che non avrebbe dovuto esserci. A forma di croce rovesciata, come una specie d'empio simbolo satanico…

Il marchio del Demonio, pensò Rocky.

Mentre osservava, la protuberanza si mosse.

Incise attorno a essa, sollevò le membrane dalla sottostante materia grigia, e si trovò faccia a faccia con un incubo. L'incubo, ammiccando, ricambiò il suo sguardo.

Era d'un bianco esangue, translucido, eccetto la testa. Assomigliava a un minuscolo serpente, ma aveva un paio di braccia che terminavano con due piccolissime mani artigliate. Il suo corpo si annidava all'interno della fenditura longitudinale, e possedeva una coda che scendeva in profondità fra gli emisferi.

Rocky colse tutto ciò nei primi secondi; ma ciò che continuava ad attrarre la sua attenzione era il viso della cosa. Aveva smisurati occhi mobilissimi e selvaggi, incastonati in un muso di lucertola. Vide muoversi la bocca, e fra le labbra guizzare una lingua.

— Rimetti a posto! — strillò la cosa, e prese a rintanarsi fra i lobi del cervello di Cirocco.

— Pinzette — disse Rocky. e gli furono collocate energicamente sul palmo. Afferrò il demone per il collo e lo tirò fuori. Ma la sua coda era più lunga del previsto, e rimaneva saldamente infilata nella fenditura.

— La luce! La luce! - squittiva la creatura; Rocky la teneva per il collo, quindi strinse più forte e la cosa incominciò a gorgogliare.

— Mi stai soffocando! — stridette.

Nulla avrebbe dato più soddisfazione a Rocky dello strappare a queir essere la sua testa ripugnante, ma temeva che ciò potesse in qualche modo danneggiare Cirocco. Chiese un altro strumento e lo usò per separare con somma cautela i due lobi cerebrali. Vide così che la coda del mostro profondava a infiggersi nel corpus callosum.

— Mamma — disse Cirocco, con voce strana. Poi si mise a piangere.

Che fare, che fare? Rocky non lo sapeva, ma una cosa gli era chiara: non poteva richiuderle il cranio prima di aver rimosso la creatura.

— Forbici — ordinò. Appena le ebbe in mano, le inserì fra i lobi più giù che poté, sin quando l'estremità della coda del demone non venne a situarsi in mezzo alle due lame. Esitò un istante.

— No, no, no!… — strillò la creatura accorgendosi di quel che stava accadendo.

Rocky tagliò.

La cosa cacciava urla terrificanti, ma Cirocco non batté ciglio. Rocky rimase un bel pezzo col fiato sospeso, infine riprese a respirare, e guardò. Vide, laggiù, il troncone di coda contorcersi e poi separarsi dal suo ancoraggio, la cui natura gli restava ignota. S'era staccato, a ogni modo, e Rocky fece quasi l'atto di afferrarlo con le pinzette prima di ricordarsi del suo prigioniero… che ormai tendeva piuttosto al paonazzo. Lo porse a Serpentone, che ficcò l'urlante oscenità in un barattolo di vetro e richiuse bene il coperchio. Rocky tolse di mezzo il moncone.

— Capitano, mi senti? — domandò.

— Gaby… — mormorò Cirocco. Poi riaprì gli occhi. — Sì, ti sento. Ho visto che l'hai preso.

— Davvero?

— Ma certo. Come, di preciso, non saprei. Però se n'è andato. Non c'è più nulla. Lo so.

— Oggi Gea sarà scontenta, in fede mia — cantò Valiha. — Abbiam preso la sua spia. — Sollevò il barattolo. Al suo interno la creatura si dimenava, succhiandosi l'estremità della coda amputata.

— Spiacente per l'accaduto — si scusò Conal sedendosi accanto a Rocky. Rivolse a Cirocco uno sguardo leggermente nauseato, ma aveva riacquisito padronanza di sé. — Sembra tutto a posto, no, Rocky? Hai trovato nulla?

Valiha gli mostrò il recipiente. Conal guardò.

— Qualcuno gli dia una mano — disse Rocky. — È ora di concludere.


Undici riv dopo che Rocky ebbe rimesso in sesto la testa di Cirocco, il Cinema Pandemonio diede inizio alla programmazione di un altro spettacolo doppio: Rock Around the Clock, con Bill Haley e i Comets, e Il cervello di Donovan.

Come al solito, nessuno sapeva per qual motivo Gea avesse scelto proprio quei film nella sua sterminata cineteca, ma numerosi presenti osservarono che lei non sembrava soddisfatta. Guardava appena lo schermo. Era inquieta e pensierosa. Divenne talmente agitata che a un certo punto calpestò involontariamente due panaflexi e un umano, ammazzandoli tutti e tre.

I cadaveri vennero prontamente divorati dai Preti.

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