DECIMO EPISODIO

Nessuno aveva immaginato che la guerra sarebbe durata sette anni, ma così avvenne.

Come ogni guerra, conobbe alti e bassi. Ci fu un periodo di cinque mesi durante il quale non cadde neppure una bomba, e qualcuno osò sperare che il conflitto fosse terminato. Poi venne colpita Dallas, e gli scambi di convenevoli ricominciarono. Per quattro volte immense flotte di missili s'inarcarono dall'una all'altra zona del pianeta, possenti affondi destinati a por fine alle ostilità una volta per tutte. Senza riuscirvi. I contendenti si perdevano per strada man mano che giungevano al punto in cui non era rimasto in vita più nessuno in grado di dirigere gli attacchi. Ma un agguerrito gruppo d'una venticinquina di nazioni s'erano trincerate così solidamente che avrebbero di sicuro potuto continuare a combattere per un paio di secoli.

Un buon settanta per cento delle armi fecero cilecca in un modo o nell'altro. In centinaia di città caddero bombe che rimasero inesplose, peraltro seminando il loro carico di plutonio e preannunciando alla popolazione che un'altra bomba avrebbe presto fatto seguito. Articoli di condanna vennero scritti contro l'ingordigia dei fabbricanti di materiale bellico, i quali s'erano ingrassati sui contratti governativi pensando che, tanto, nessuno si sarebbe mai accorto che le bombe erano difettose. I presidenti delle ditte appaltatrici furono linciati; e il linciaggio divenne una moda diffusa a livello planetario, un sistema come un altro per distrarsi dall'assillo della guerra. I Generali vennero scorticati vivi, i diplomatici sbudellati e squartati, i primi ministri gettati nell'olio bollente, ma parve non servire a nulla. Quelli che contavano, continuavano a starsene ben rintanati nei loro rifugi cinque miglia sottoterra.

Furon compiuti tentativi di pacificazione. Ma le conferenze si concludevano di solito con la vaporizzazione della città ospite. Ne buscò Ginevra, poi toccò a Helsinki, a Giakarta, a Sapporo, a Juneau. Andò a finire che i negoziatori venivano trucidati a vista non appena tentavano di entrare in una città.

Dopo sette anni la guerra non faceva più notizia nei telegiornali della sera. L'intera struttura dell'informazione pubblica era andata distrutta." I satelliti venivano utilizzati a tempo pieno dai militari per lo scambio di messaggi cifrati, e a ogni modo nessuno disponeva d'un televisore funzionante in grado di ricevere qualche programma. A quel punto era stato utilizzato circa un centesimo dell'intero arsenale nucleare terrestre, mentre un altro ventesimo era stato annientato prima dell'uso. Ne avanzava ancora un bel po'.

Di gente, invece, in giro non ce n'era ormai più tanta.

Tre anni erano trascorsi dall'ultimo raccolto d'una qualche consistenza. I pochi sopravvissuti di superficie frugavano fra le macerie alla ricerca di cibo in scatola, andavano a caccia, e si mangiavano l'un l'altro. Ma c'era rimasta poca selvaggina, sia animale che umana.

Sin dall'inizio della guerra erano spuntati messia al ritmo di tre o quattro all'ora. Quasi tutti avevano proclamato di saper come arrestare il conflitto, ma nessuno l'aveva fatto. Quasi tutti erano morti, adesso, e ben presto la Terra intera lo sarebbe stata.

Per sette anni gli Avamposti c'erano andati coi piedi di piombo. Pronte a dichiararsi neutrali all'inizio della guerra, le città lunari e marziane e le colonie orbitali ambivano solo a starsene chiotte mentre laggiù sulla Terra la civiltà andava in malora. Esisteva disparità d'opinioni circa la possibilità delle tre nazioni selenite di sopravvivere senza aiuti terrestri. Allo scoppio delle ostilità vivevano sulla Luna quasi un milione di abitanti. I Marziani, d'altra parte, calcolavano di poter tirare avanti per vent'anni, non di più.

In numero ben superiore agl'insediamenti planetari c'erano poi le colonie O'Neil. Ne esistevano centinaia, con popolazioni comprese fra cinquemila e centomila abitanti. Si trovavano principalmente in L4 e L5, punti di stabilità gravitazionale situati a sessanta gradi da una parte e dall'altra della Luna. Raggruppamenti considerevoli erano inoltre presenti in L1 e L2, nonostante le perturbazioni che tendevano a spostare le strutture dai punti di librazione; per mezzo di un piccolo propulsore, anche le colonie di maggiori dimensioni potevano rimanere stabili con minimo dispendio d'energia.

Mentre il conflitto si trascinava lentamente avanti, tali propulsori si rivelarono utili anche a qualcos'altro. Con calma, senza far tanto chiasso, alcune delle colonie O'Neil presero a trasformarsi in veicoli spaziali. Quelle più recenti disponevano già di motori più che adeguati. Altre c'impiegarono un po' di tempo e dovettero intraprendere orbite a lungo raggio, ma ebbe però inizio una migrazione estesa a tutte le colonie che ritenevano di poter sopravvivere senza la Terra.

Esistevano un sacco di posti dove andare, ma nessuno che fosse un granché. Una delle colonie cercò di porsi in orbita attorno a Mercurio, dove c'è abbondanza di energia gratuita. Tant'è che ne fece indigestione. Alcune entrarono in orbita attorno a Venere o in orbita troiana circumsolare insieme a Venere. Molte altre si spinsero all'esterno sino ai paraggi di Marte, o andarono a collocarsi nei punti troiani dell'orbita terrestre. Il problema consisteva nell'allontanarsi dalla Terra quanto bastava a divenire bersagli non meritevoli di attenzione e difficili da colpire, rimanendo al tempo stesso abbastanza vicini al Sole per sopravvivere.

Pochissimi ardimentosi optarono per il grande balzo. Trasformarono le loro case in astronavi, e fecero rotta per lo spazio esterno.


Conal venne a conoscenza di questi eventi da profughi giunti durante il settimo anno di guerra. Inevitabilmente gli balenò un'immagine: vide la Terra come un globo annerito, ridotto a brandelli, avvolto dalle fiamme. E, sullo sfondo dell'apocalisse, precipitosi branchi di minuscoli animaletti in fuga disordinata.

— Come topi che abbandonano una nave che affonda — disse a Cirocco.

— E cos'altro ti aspetti che facciano, dei topi? — replicò lei. — Che colino coraggiosamente a picco? Il topo è forse l'animale più astuto che ci sia, e anche il più resistente. I topi non debbono un cavolo di niente, alla nave, e lo stesso vale per quella gente delle L5.

— Non c'è mica bisogno di arrabbiarsi.

— E invece continuerò ad arrabbiarmi finché tu continuerai a pensare che sia una buona idea dare retta a degli psicopatici. Chiunque in questo momento è in grado di allontanarsi dalla Terra e non lo fa, è come se dicesse che è giusto andare a letto con un cane idrofobo. Quegli L5 sono gente con la testa a posto che scappa dal manicomio. E forse dalla tomba.


Quando aveva tempo, a Conal piaceva gironzolare vicino al Portale appena fuori di Bellinzona. in missione di salute pubblica.

Il Portale era proprio quel che suggeriva il suo nome: il punto d'ingresso di tutti i miserabili rifiuti umani che approdavano in massa alle sponde di Gea. Sulla superficie esterna di Gea il solito raccoglitore tentacoluto era preposto al recupero dei semi di ritorno O delle non rare astronavi umane in cerca d'asilo. La gente veniva quindi trasbordata all'equivalente locale di Ellis Island, nel profondo delle viscere di Gea, dove veniva passata in rassegna. Le procedure d'immigrazione, un tempo lunghe e complesse, erano adesso di un'estrema semplicità: i santi a sinistra, i mortali a destra. Profeti, sacerdoti, predicatori, pastori, sciamani, guru, stregoni, dervisci, monaci, rabbini, mullah, ayatollah, parroci, negromanti, abati, patriarchi e vescovi venivano tutti quanti condotti direttamente alla presenza di Gea. Gli altri, assieme a quel poco che potevano portarsi addosso, erano caricati dentro apposite capsule e, dopo un breve tragitto attraverso il sistema circolatorio di Gea, pervenivano a una valvola a sfintere che venti alla volta li spremeva fuori scodellandoli in una piccola grotta che Cirocco chiamava "il bucodiculo del mondo".

Poiché tutti i profughi sbucavano nel medesimo posto, il Portale faceva da polo di attrazione per un'eterogenea gamma di predatori inclini a sfruttare la debolezza e l'ignoranza. Simili a mezzani di sentinella all'autostazione di una grande città, quegl'individui facevano la posta agl'immigranti in possesso di qualunque cosa palesasse un probabile valore commerciale. Talvolta si trattava dei loro miseri beni materiali. Altre volte i predatori non si accontentavano di così poco.

Era uno strano gioco, quello cui si dedicava Conal. L'aveva giocato molto spesso, sebbene Cirocco affermasse che era un pazzo a comportarsi così, e avrebbe continuato anche se si fosse accorto che lei diceva sul serio. Ma sapeva come stavano in realtà le cose, e Cornamusa gliel'aveva confermato.

— È una follia proficua — aveva dichiarato il titanide. — Assai vicina alla nostra visione delle cose. — Ai titanidi non importava d'impegnarsi in una causa persa, e non si preoccupavano di non poter schiacciare tutto il male del mondo. Se vedevano la possibilità di far del bene senza rimetterci la pelle, lo facevano, e Conal era proprio come loro.

Il che non vuol dire che affrontasse la cosa avventatamente. Alcuni dei fannulloni affezionati frequentatori del Portale circolavano in bande, e non vedevano affatto di buon occhio chi osava ficcare il naso nelle loro attività. Conal era quindi solito restarsene quieto in disparte, aspettando l'occasione di mettersi furtivamente alle calcagna del cacciatore allorché costui sgomberava per andare a rintanarsi con la sua preda in un luogo scuro e appartato. Quando l'occasione veniva, quando gli riusciva di pedinare uno sciacallo del Portale sino a coglierlo di sorpresa, Conal lo uccideva. Assassini, ladri, mercanti di schiavi o commercianti di bambini, per Conal non faceva differenza. Non c'erano prigioni a Bellinzona, non esisteva una condizione intermedia fra la vita e la morte.

Più spesso gli toccava stare a guardare mentre quegli schifosi picchiavano e derubavano la gente lasciandola a terra nuda e sanguinante. Poi raccattava la vittima, e la portava a uno di quegli inesperti ciarlatani che a Bellinzona fungevano da ospedali.

Quel giorno sembrava promettere bene. Dando un'occhiata in giro, individuò un gruppo di quattro Vigilanti che impugnavano randelli irti di chiodi arrugginiti. C'erano anche tre Libere Femmine armate di archi, ben piazzate in disparte su un rilievo del terreno. Molto probabilmente non avrebbe avuto bisogno d'intervenire. La sola presenza di quei difensori aveva tenuto lontani molti criminali.

I proventi dei furti, al Portale, erano in continua diminuzione. Sempre più gente arrivava senza nemmeno uno straccio indosso, un'espressione vacua dipinta sul volto: i cadaveri ambulanti del Cimitero Terra. Molti di loro s'erano trovati a un passo dalla morte, al momento del salvataggio, e su alcuni pesavano anni di orribili sofferenze. Gea curava i loro corpi, ma non poteva o non voleva far nulla per le loro menti.

Il gruppo odierno appariva diverso. Per una buona metà non solo erano vestiti, ma portavano zaini e valigie traboccanti di oggetti personali. Conal poté udire un mormorio levarsi dal mucchio degli sciacalli. L'arco di una Libera Femmina schioccò, e nella gola di un uomo apparve infissa l'asta di una freccia; a Bellinzona equivaleva a un garbato avvertimento. I Vigilanti si diedero a menar botte da orbi con le loro mazze, ma ben presto furono costretti sulla difensiva. Conal prese ad arretrare lentamente. Non aveva la minima intenzione di rischiare la pelle in un tumulto.

Proprio nel momento in cui si apprestava a ritirarsi, gli cadde l'occhio su una coppia particolarmente interessante. Una donna di bassa statura, sulla trentina, con in volto un qualche genere di decorazione e fra le braccia un fagottino, procedeva accanto a una stupenda ragazza certamente sul metro e ottanta. Entrambe indossavano lucide e imbottite tute di sinseta: indumenti spaziali. Quella alta portava la maggior parte del bagaglio, e quella bassa aveva sulle spalle un grande zaino di sinseta.

A Conal sfuggì un gemito. Era come vedere un galeone spagnolo carico di tesori approdare a un covo di pirati. Quelle non avevano idea di ciò che le attendeva.

Avvenne rapidamente. Una sagoma minuta saettò fuori dalla folla, mollò un pugno in pieno viso alla donna bassa e le strappò il fagotto. Conal si accorse che c'era dentro un bambino. La madre fece per inseguire l'uomo, ma venne repentinamente attorniata dal resto della banda, che si sarebbe incaricata di depredare le due donne mentre il primo aggressore fuggiva col bottino più importante.

Non poteva far nulla per aiutarle, assalite com'erano da almeno sei uomini, ma si sarebbe gettato in caccia di quello che aveva il bambino, perché di tutte le cose che potevano accadere su Gea egli pensava che la peggiore fosse venir venduti ai Fabbri Ferrai. Era già in corsa dietro il fuggiasco, quando udì levarsi le prime urla. Pur a malincuore, si volse a guardare.

Pareva la furia di un uragano. Le due donne avevano coltelli in entrambe le mani, e altri coltelli pronti a essere estratti dagli stivali, e roteavano all'impazzata urlando a pieni polmoni, trafiggendo e squarciando. Uno degli assalitori fu ferito sette volte, prima d'avere il tempo di accasciarsi e incominciare a morire. Un altro cercò di tamponarsi la gola mentre già una seconda lama gli frugava nei visceri. Ne giacquero a terra quattro, poi cinque, mentre altri avanzavano a pugnali sguainati.

In realtà le due donne non avevano scampo. Era la più straordinaria dimostrazione di assoluta, furibonda volontà di combattere cui egli avesse mai assistito, però non vedeva come da sole esse potessero far fronte a quell'orda sanguinaria. Avrebbero trascinato con sé all'inferno una bella guardia d'onore, ma comunque sarebbero morte. Il minimo che lui poteva fare era salvare il figlio del guerriero più anziano.

E scoprì d'essersi quasi soffermato troppo, ammaliato dal fascino torbido di quella carneficina. Il rapitore in fuga s'approssimava già al maggior ponte d'ingresso a Bellinzona, quand'egli riuscì infine a districarsi dalla calca giungendo in terreno aperto.

Alla fine del ponte aveva un centinaio di metri di svantaggio. Il fuggitivo era piccolo e veloce e sgusciava agilmente in mezzo alla folla, ma poi volle troppo giocare d'astuzia. Sapendo quanto dia nell'occhio un uomo in corsa, rallentò, guardandosi alle spalle per constatare se qualcuno l'inseguiva. Se avesse continuato a correre per un altro minuto, molto probabilmente Conal lo avrebbe perso, e, d'altra parte, se Conal avesse continuato a correre per un altro secondo si sarebbe fatto individuare. Ma quello era il gioco di Conal, e quando l'uomo si volse a guardare non vide traccia d'inseguitori.

Nemmeno la seconda volta che si guardò alle spalle notò nulla, e così pure la terza volta. Il suo quarto controllo diede il medesimo risultato, e per un'ottima ragione: Conal, stavolta, era davanti a lui.

Non ci voleva molto a capire dove si stesse dirigendo il rapitore: sapevano tutti dove aveva sede l'ufficio commerciale dei Fabbri Ferrai. Tenersi un neonato rapito più a lungo dello stretto necessario era insensato; la maggior parte degli umani non vedevano affatto di buon occhio il commercio di bambini. Quindi Conal si appostò s'una stretta banchina e rimase in attesa.

L'uomo comparve muovendosi in fretta, ancora attento a eventuali inseguitori. Conal immaginava che avesse udito le urla, e ne fosse rimasto turbato. Il rapitore agì come Conal si aspettava, tenne cioè sollevato il bimbo davanti a sé avventandosi su Conal con un coltello nella destra. Conal gli afferrò il polso e lo spezzò; l'uomo cacciò un urlo e il coltello gli cadde. Con l'altra mano Conal lo aggirò pugnalandolo alla schiena. Quello lasciò andare il bambino e Conal lo afferrò, poi estrasse l'arma e lasciò che l'avversario si accasciasse sul pontile di legno.

Diede un'occhiata al bimbo per sincerarsi che stesse bene, poi si accovacciò accanto al rapitore.

Un uomo? D'accordo, lì a Bellinzona bastavano tredici o quattordici anni per fare un uomo, ma Conal si sentì ugualmente a disagio. Quello aveva ancora l'aspetto di un ragazzo. Giapponese, pensò Conal. Cosa non infrequente, d'altronde. La popolazione umana di Gea stava all'incirca in proporzione con quella terrestre, il che significava che c'erano in giro parecchie più pelli marroni, nere e gialle di quante non fossero le pelli bianche.

Il ragazzo soffriva molto, balbettava qualcosa nella sua lingua natìa, e dava l'idea che gli ci sarebbe voluto un po' a morire. Conal gli mostrò il pugnale, sollevando le sopracciglia in quello che sperava costituisse un universale cenno interrogativo. Il ragazzo annuì con decisione. Conal gl'infilò il pugnale fra le costole, dritto in mezzo al cuore, e il ragazzo morì all'istante.

Nettò l'arma e la ripose.

— Il grande eroe — borbottò. Che mondo di merda, se non potevi eliminare uno schifoso parassita uccisore di bambini e provarne almeno un poco di soddisfazione. Come al solito. Cirocco s'era già recisamente pronunziata in merito. Mica poi ne trovavi così tante di cose da fare, in questa vita, che in un modo o nell'altro non ti lasciassero l'amaro in bocca.


Ora sorgeva il problema di cosa fare del bambino. Gli venivano in mente parecchie soluzioni. Esistevano ordini religiosi e certe altre organizzazioni che accoglievano gli orfani. Tra queste, la più potente era la comunità delle Libere Femmine… che secondo lui erano anche le più adatte a prendersi cura di un neonato nel modo giusto.

Il bimbo risultava infagottato in una specie di custodia da viaggio in versione spaziale, e non appariva subito evidente come disfare la confezione. Finalmente ci riuscì. Sbirciato che ebbe nel punto giusto, scosse la testa. Come non detto: le Libere Femmine non l'avrebbero voluto di certo, quel signorino. Poi chi veniva in graduatoria?

Gli balenò un'idea curiosa. Era impossibile, ovviamente, ma se tante volte…?

Fu così che riprese la via per il Portale.


C'erano ancora, ed erano ancora vive. A meno di qualche fatto nuovo, comunque, non lo sarebbero rimaste per molto.

Una masnada d'un centinaio tra i più feroci e abietti individui che Bellinzona potesse offrire s'era attestata in semicerchio a cinquanta metri dalla parete rocciosa contro cui erano intrappolate le due donne. La zona in mezzo appariva disseminata di cadaveri. Conal smise di contare arrivato a venticinque, ma ce n'erano molti di più. Si fermò alle spalle dell'assembramento, cercando di ricostruire l'accaduto. La soluzione stava nei corpi distesi a terra. La maggior parte di quelli vicini alle due donne presentavano mortali ferite da coltello. Ma i più distanti avevano ferite che s'erano viste assai di rado, su Gea: fori rotondi, della grandezza più o meno d'un decino. La sua congettura trovò conferma allorché uno degli assedianti scagliò una lancia, e una delle donne replicò sparandogli nello stomaco. Conal si buttò a terra. La moltitudine arretrò un poco, ma poi riprese inesorabilmente ad avvicinarsi. Troppo forte era la tentazione.

Situazione di stallo. Nessuno fra gli attaccanti sapeva quante munizioni rimanessero alle due donne. Se avessero attaccato in massa, l'urto di quella folla tumultuosa avrebbe potuto sopraffarle, ma gli sciacalli non erano capaci di organizzarsi.

Riflettendo, colse l'ironia della circostanza. Era chiaro che quelle due disponevano di un numero limitato di proiettili, altrimenti avrebbero semplicemente sparato a chiunque gli capitava a tiro. D'altra parte nessuno, in quella marmaglia, voleva buscarsi una pallottola solo per consentire a qualcun altro di mettere le mani sull'agognata preda. Alla fine, questione di minuti o di ore, le donne sarebbero rimaste a corto di munizioni ridivenendo vulnerabili, ma a quel punto non sarebbe più valsa la pena di aggredirle.

Conal diede un'altra occhiata a quella alta. Diciassett'anni, pensò. Forse diciotto. Lunghi capelli biondi, selvaggi occhi azzurri. Era molto bella, come aveva già notato. Ma c'era qualcos'altro, in lei, qualcosa che aveva in comune con la donna più anziana… sua madre? Tutto, nel suo aspetto, diceva che sarebbe morta senza arrendersi, combattendo, e che mai si sarebbe fatta prendere viva. Conal provava rispetto per un simile atteggiamento. Aveva imparato a sue spese cosa significava essere preso vivo, e neppure a lui sarebbe mai più accaduto.

Venne scagliata un'altra lancia, e la ragazza rispose con la sua pistola. Il proiettile traversò il petto di quello che aveva lanciato, andandosi a conficcare nel cuore dell'uomo che gli stava dietro. Bel colpo, pensò Conal.

Si domandò che fine avessero fatto le Libere Femmine, e subito dopo le individuò. Si trovavano anche loro addossate alla parete, ma una era morta, e un'altra gravemente ferita. La terza se ne stava accovacciata accanto alle compagne, freccia incoccata, un'espressione di terrore incisa sul volto. I due gruppi distavano una ventina di metri, e le nuove venute non manifestavano alcuna intenzione di unirsi all'arciere. Ma insomma, chi diavolo erano quelle due? A quanto pareva non si fidavano di nessuno. Non ricordava d'aver più incontrato gente tanto sospettosa dai tempi… be' da quando aveva fatto la conoscenza di Cirocco Jones. Salvarle non sarebbe stato per nulla facile.

Sino a quel momento, a dire il vero, non si era nemmeno reso conto di avere l'intenzione di salvarle. Dedicò qualche minuto al tentativo di convinpersi a non farne nulla. Considerata lucidamente, aveva proprio l'aria d'esser l'azione più sconsiderata in cui si fosse imbarcato dal giorno in cui aveva fatto baldanzosamente ingresso in un bar per andare a raccontare alla più pericolosa donna vivente che aveva intenzione di ammazzarla.

Chinò gli occhi a guardare in faccia il marmocchietto.

— Che diavolo ci troverai tanto da ridere, signorino? — gli chiese Conal. Quindi si volse, tornando di corsa a traversare il ponte.


— Un centinaio, hai detto? — Il titanide chiamato Serpentone sollevò un sopracciglio con aria dubbiosa.

— Accidenti, Serpentone, ma che volevi, che mi mettessi a contarli uno per uno? Ce n'è circa un centinaio, forse centoventi.

— Vuoi descrivermi ancora la più piccola?

— Ha la faccia pitturata. Una maschera davvero spaventosa. Quell'altra…

— Sono tatuaggi — interloquì Serpentone.

— Vuoi dire che non vengono più via? E tu come fai a saperlo?

— Ha un terzo occhio disegnato sulla fronte, vero?

— Be'… già, credo di sì. Con tutto quell'arruffìo di capelli che sì agitavano di qua e di là… Erano occupate, che ti credi, a cercar di guardare in sei direzioni alla volta… Ma a te chi te l'ha detto?

— La conosco.

— Allora vieni?

— Sì, penso proprio che verrò. — Si guardò attorno per il vasto magazzino che serviva ai titanidi come base commerciale, e chiamò con un'occhiata due suoi simili. — Anzi, credo che una troika andrà anche meglio.


Parevano i quattro Cavalieri dell'Apocalisse meno uno, tonanti al galoppo sul ponte di legno. Conal, avvinghiato al dorso di Serpentone, avrebbe voluto avere una tromba. Largo alla cavalleria, arrivano i nostri, perdìo! Quelli che stavano alla retroguardia della teppaglia rimasero un istante a contemplare a bocca aperta quell'apparizione, poi tagliarono frettolosamente la corda come iene in fuga da una carogna, sciamando in ogni possibile direzione. Molti si gettarono nelle acque putride del lago.

In gran numero, però, non ebbero tempo di darsela a gambe. I titanidi, disarmati, si gettarono risolutamente nella mischia, dandosi senza tanti complimenti a spaccar teste.

Conal aveva temuto che le donne potessero accogliere quell'intervento a pistolettate, ma evidentemente la loro indole sospettosa teneva i titanidi fuori del mucchio. Rimasero a osservare la scena, pronte a cogliere l'occasione di aprirsi un varco sottraendosi al vicolo cieco della parete rocciosa. Poi Serpentone con una sgroppata sollevò Conal, sbalzandolo oltre la barriera di gente ancora assiepata.

Conal atterrò in piedi e fece di tutto per rimanerci, incespicando precipitosamente, ostentando il bambino a braccia tese perché a quelle non venisse la tentazione di sparargli. Era stato via per quasi un riv, e nel frattempo le donne avevano dovuto subire dalla marmaglia anche una sassaiola. Intoppò dunque su un grosso pezzo di roccia vagabonda, cadde, e arrancò carponi oltre la barricata di fortuna che quelle avevano eretto coi loro bagagli per rannicchiarvisi dietro.

Guardando in su si trovò faccia a faccia con l'amazzone bionda. Diciannove anni, concluse. Una traccia di sangue essiccato le rigava il volto in basso a sinistra. Provò un impeto di collera, e il desiderio repentino di uccidere il bastardo che aveva osato. Urgevano questioni più impellenti, tuttavia, come ad esempio la pistola che lei gli puntava alla tempia. Le porse quindi il bimbo, sfoderando nel contempo il suo sorriso più accattivante.

— Ciao. Io sono Conal, e credo che questo ti appartenga.

Altro aforisma tra i prediletti di Cirocco: Mai Aspettarsi Gratitudine. Il di lei labbro superiore s'incurvò sdegnosamente, mentr'ella con uno scatto della testa accennava alla compagna più anziana.

— Non a me. È il suo.

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