Secondo spettacolo

Sono sempre stato un individuo indipendente, anche quando ho avuto dei soci

Sam Goldwin

UNO

Gli zombi si trovavano rinchiusi all'interno di recinti separati, una lunga fila in cui ciascuno distava circa venti metri dai vicini.

Cirocco avrebbe preferito evitarla, quella domanda, ma sapeva di non poterne fare a meno.

— Erano… già morti, questi?

— No, Capitano — rispose Valiha.

— Che stavano facendo?

Valiha glielo disse, e Cirocco si sentì un po' meglio. La schiavitù era un male antico, dal quale forse l'umanità non sarebbe mai riuscita a liberarsi completamente.

Eppure, l'osservazione di Valiha circa la possibilità di lèggere a quegl'individui l'elenco dei loro diritti e sottoporli a regolari processi, l'angustiava. E ciò perché su Gea simili cose non esistevano, e senza un qualche genere di norme l'animale umano pareva capace di qualunque cosa… compreso ammazzare undici persone scelte a caso. Cirocco non era certo tanto sciocca da affliggersi per loro, tuttavia non ne poteva proprio più di uccidere e di ordinare uccisioni. Sentiva che sarebbe potuto divenire troppo facile, e lei non aveva alcuna voglia di giocare a far la dea.

Aspirava unicamente ad essere lasciata in pace. Desiderava rimanere responsabile di se stessa, e nessun altro. Bramava un isolamento assoluto, almeno vent'anni di solitudine per dare una rispianata alla sua anima solcata da mille cicatrici e cercare di lavarne via il peccato. Non le piaceva più l'odore di quell'essere chiamato Cirocco Jones.

L'impulso di gettarsi dall'aereo, per seguire Chris verso quella che sarebbe stata morte certa, l'aveva sopraffatta. Nova, Robin e Conal erano riusciti a stento a trattenerla.

Non aveva ancora deciso se si era trattato di un empito suicida, oppure se la sua collera s'era gonfiata al punto di farla sentire in grado di affrontare Gea in un corpo a corpo. Aveva provato rabbia e disperazione pressoché in eguai misura. Sarebbe stato così bello lasciar perdere tutto quanto…

Ma adesso aveva un'altra battaglia da combattere.

Forse sarebbe stata l'ultima.

Gli zombi ciondolavano qua e là senza meta. Cirocco combatté la nausea che rischiava di sommergerla, e la vinse, ma non prima che Valiha se ne accorgesse.

— Non dovresti sentirti responsabile — cantò la titanide. — Tale impresa non fu compito tuo.

— Lo so.

— Non è questo il tuo mondo. Non è neppure il nostro, però noi non proviamo rimorso nel liberarlo d'animali siffatti.

— Lo so, Valiha. Lo so. Ma ti prego, non parlarmi più di ciò — venne in risposta il canto di Cirocco.

Era pur vero che quegli uomini avevano meritato la morte. Ma, con primitiva ed illogica certezza, Cirocco sentiva che nessuno avrebbe meritato una sorte come quella. Aveva creduto che le bombe volanti fossero la peggior cosa mai creata… finché Gea non aveva concepito gli zombi. E d'un tratto le bombe volanti s'eran ridotte al rango di vivaci gattini.

— Di che state parlando? — domandò Nova. Cirocco le diede un'occhiata. La ragazza appariva un poco pallida, ma tutto sommato reggeva bene. E comunque non ci sarebbe stato da biasimarla: gli zombi non erano facili da sopportare.

— Solo una chiacchierata… sulla pena di morte. Ma non preoccuparti. Non sei obbligata a rimanere, lo sai.

— Voglio vederli morire. Un'affermazione che non sorprese

Cirocco. Nova aveva dimostrato attitudine al combattimento, ma scarsa propensione per il sangue, e Cirocco la approvava. Gli zombi, però, erano tutto un altro paio di maniche. Ignorava le motivazioni di Nova, sebbene sospettasse che avessero qualcosa a che fare con l'incancellabile visione di una creatura che pesantemente incedendo le si avvicinava inesorabile e si rifiutava di morire… Quanto a lei, Cirocco era dell'opinione che uccidere uno zombi rappresentasse un autentico atto di umana carità.

— Coraggio, incominciamo — ordinò. — Portate il primo nella stanza.

Rocky e Cornamusa legarono una corda alla sabbia e la trascinarono, lungo un rudimentale sentiero, fino a una struttura somigliante a un garage, costruita circa un chilometro più in là. Aveva qualche finestra, una scaletta a pioli per salire sul tetto, e una botola lassù in cima. Inoltre era sufficientemente a tenuta d'aria. Vi fecero entrare la gabbia e sigillarono la porta. Cornamusa saggiò il vento e lo dichiarò entro limiti accettabili.

Il problema consisteva nello scoprire cosa avesse ucciso gli zombi con tale sbalorditiva efficacia. Pareva improbabile che gl'ingredienti del filtro d'amore di Nova si rendessero tutti necessari.

Gl'interrogativi in gioco erano moltissimi. Cirocco si augurava che ad alcuni di essi non fosse necessario dare una risposta, ma sapeva, per amara esperienza, che Gea inseriva spesso trappole ed inganni in cose che a prima vista apparivano straordinariamente positive.

Nella ricetta c'era del sangue. Doveva essere di un tipo particolare? C'erano peli pubici. I capelli di Nova avrebbero funzionato altrettanto bene? E i peli pubici dovevano per forza essere biondi, o se ne poteva usare di un colore qualunque?

Poteva anche darsi che la questione stesse in termini peggiori. Certe volte Gea programmava le sue trovate con anni di anticipo. Nova, ad esempio, figlia di Chris e Robin, ma in virtù di un connubio decisamente non convenzionale pianificato da Gea, poteva esser frutto di un suo astuto progetto a lunga scadenza. Magari sarebbe risultato che soltanto il sangue di Nova e i peli del pube di Nova erano efficaci contro gli zombi…

Non aveva ancora trovato il tempo di dirglielo, alla ragazza.

La prima parte era facile. Cirocco montò per la scaletta, aprì la botola sul tetto e gettò dentro una dosata quantità di benzoino. Poi ridiscese, e tutti si affollarono alle finestre.

Lo zombi parve non essersi accorto di nulla.

— Vabbe' — disse Cirocco. — Date aria, che poi proviamo col cubèbe.

DUE

Immerso nell'acqua fino al petto, Conal osservava Robin diguazzare con molto più entusiasmo che eleganza. Sogghignò. Ossignore, quanto si dava da fare quella lì. Se solo si fosse un poco rilassata, si fosse lasciata andare tranquillamente, avesse smesso di cercar di stabilire nuovi record di velocità e lasciato semplicemente che il suo piccolo corpo vigoroso prendesse il sopravvento…

Aveva incominciato a impartirle lezioni poco dopo il loro ritorno. Robin aveva dichiarato che non intendeva ritrovarsi mai più nei pasticci per il fatto di non saper nuotare, e Conal s'era visto nominare istruttore.

A lui non dispiaceva. Pur essendo un discreto nuotatore, come insegnante non valeva nulla, però poteva starsene in acqua e farle vedere come si faceva, e riacchiapparla quando incominciava ad andar sotto, e insomma sembrava che non gli si chiedesse di più.

Mosse lo sguardo oltre Robin, laggiù dove l'acqua scendeva profonda e correva rapida, e scorse Nova evoluire con l'agile disinvoltura di una foca. Gli sarebbe piaciuto poterne trarre motivo di orgoglio, ma sta il fatto che esiste gente nata per il nuoto, e lei rientrava a pieno diritto in tale categoria. Era buffo che avesse dovuto giungere a diciott'anni per scoprirlo, ma adesso come nuotatrice era già due volte migliore di quanto potesse mai diventare lui.

Purtroppo non sembrava in grado di trasmettere a sua madre neanche un poco di quell'abilità. Conal vide Robin dibattersi un'altra volta, e si mosse per raggiungerla. Le fu accanto in poche bracciate e la trovò che galleggiava supina, ansando.

— Tutto a posto — gli disse. — Almeno il morto mi riesce di farlo bene.

— Comunque stai migliorando.

— Non hai bisogno di raccontarmi balle, Conal. Lo so già da me che non imparerò mai a nuotare in maniera decente.

La riportò verso riva, finché non toccarono entrambi. Nova passò loro accanto come un fulmine, si arrampicò sulla stretta lingua di spiaggia e rimase lì in piedi tutta gocciolante, flessuosa e scintillante, a scrollarsi l'acqua dai corti capelli biondi. Si chinò a raccogliere un asciugamano e se lo strofinò vigorosamente sulla testa.

— Ci vediamo a casa — disse, e s'incamminò lungo la spiaggia.

Conal distolse lo sguardo da Nova portandolo su Robin, e vide che lei lo fissava.

— È proprio un gran tocco di figliola, vero? — gli fece in tono pacato.

— Veramente stavo guardando…

— Via, non fare il timido. Sarò anche sua madre, ma so apprezzare una bella ragazza, quando la vedo.

— La cosa curiosa — ammise Conal — è che non la osservavo mica come donna… Cioè, non da un punto di vista sessuale. Ho nuotato insieme a voi due quasi ogni giorno, lo sai, e quindi mi sono abituato a vederla. È davvero una creatura incredibilmente vivace e piena di salute. Verrebbe da dire che… risplende, in un certo senso.

Robin lo squadrava con aria scettica, e allora Conal decise di comportarsi come lei si aspettava, fingendosi imbarazzato e scotendo la testa come se fosse stato colto a dire una bugia. Ma il fatto curioso rimaneva, ed era assolutamente vero. Nova poteva anche stare a trafficargli intorno nuda tutto il giorno senza suscitargli un solo pensiero a sfondo sessuale. Esistono sogni realizzabili proprio come esistono sogni impossibili, e Nova apparteneva incontrovertibilmente, e per sempre, alla seconda categoria. Doloroso doverlo ammettere, ma così stavano le cose. Di conseguenza, loro due erano adesso cautamente impegnati a farsi strada verso una condizione di reciproco rispetto, timorosi ancora d'impegnarsi in un rapporto di vera amicizia, e percorrere quel cammino rappresentava per Conal un'esperienza assai appagante.

Tra l'altro, non gl'impediva affatto di apprezzare la stupenda bellezza di lei. Non era possibile che il mondo fosse poi tutto così infame, se accoglieva una simile creatura.

…Ma rimase alquanto colpito nel suo amor proprio, tutto intento com'era a gloriarsi di tanta nobiltà, allorché, improvvisamente e inesplicabilmente, si rese conto a disagio d'essere divenuto pienamente consapevole della presenza di Robin, come donna.

Be', pensò, era tutta colpa sua. Non avrebbe dovuto tirare in ballo quell'argomento.

Raggiunsero sciaguattando la riva, e si asciugarono coi soffici teli bianchi che avevano portato da Tuxedo Junction. Conal continuò a lanciarle occhiate furtive. Robin sedette sopra una grande roccia levigata e si asciugò accuratamente in mezzo alle dita dei piedi, meticolosa come un gatto.

Non dimostrava certo quarant'anni. Diciamo piuttosto… sulla trentina, valutò Conal, ma iniziata da poco. Comunque l'età è una cosa strana. Si può avere ventott'anni ed essere un aggeggio pallido, goffo e trasandato. Oppure averne cinquantacinque, ma con un addome sodo e piatto, e il colorito vivo della salute e le rughe del sorriso attorno agli occhi.

Prendiamo i suoi capelli. Rasati alti e con effetto innaturale attorno a un orecchio, quello che stava al centro del bizzarro disegno pentagonale. A vederli la prima volta facevano decisamente un brutto effetto, ma poi, col passare del tempo, si finiva in un modo o nell'altro per trovarli adatti a lei.

Oppure i serpenti. Roba da scoraggiare l'intraprendenza di qualunque spasimante, quei serpenti avvoltolati attorno ad una gamba e un braccio, un sol groviglio corposo a festone sotto i seni e le teste protese a confrontarsi. Ma dopo averli veduti un po' di volte, divenivano semplicemente parte di Robin. Oltre ad essere, di per sé, una bella idea ben realizzata.

— Ce l'hai un testamento? — le domandò, strofinandosi energicamente i capelli.

— Un testamento? Ah, vuoi dire per quando muoio. Ma non servirebbe mica a granché, quassù. Niente leggi, niente tribunali… o qualunque altra cosa abbiano sulla Terra.

— Credo di no. Ma quando muori, quelli bisognerebbe conservarli.

Alzò la testa a sorridergli.

— Ti piacciono i serpenti, eh? Be', ti dirò, penso che non me ne importerà proprio nulla di venire scuoiata e conciata, quando sarà tutto finito. — Si alzò in piedi, e gli si mise di fronte. — Toccali, Conal.

— Ma… cosa…

— Devi solo toccarli. Per favore.

Gli porse la mano, e lui la prese.

Con esitazione, domandandosi se gli stesse giocando un qualche scherzo, sfiorò con un dito l'estremità del serpente. Le si avvolgeva tre volte attorno al mignolo, e lui seguì le spire con la punta del dito. S'ingrandiva un poco nel traversarle il dorso della mano, poi compiva altri tre giri attorno all'avambraccio. Conal percorse delicatamente l'intera traccia di quel dispiegarsi spiraliforme. Ancora tre volte intorno al braccio. Lei si volse, e Conal le passò la mano sulla spalla, quindi giù in mezzo alle scapole, poi Robin sollevò il braccio nudo, quello privo di tatuaggi, e prese a ruotare sotto il tocco della sua mano sino a ritrovarglisi di fronte, e lui continuò a tracciare il suo sentiero con la punta del dito superiormente al petto, discese tra le due mammelle, curvò al di sotto… e alla fine disserrò il palmo della mano e glielo richiuse a coppa sopra il seno. Il respiro di Robin andava, veniva, profondo e regolare.

— Adesso l'altro, disse.

Conal pose allora un ginocchio a terra e le toccò il piede. La coda del serpente nasceva dal dito più piccolo. Il disegno percorreva sinuoso la parte superiore del piede, si avviticchiava alla caviglia e s'attorceva due volte al polpaccio. Egli lo seguì accuratamente, lentamente, avvertendo, sotto la pelle perfettamente liscia, la solida e vigile presenza dei muscoli. L'altra gamba, notò, recava una peluria sottile.

Il serpente s'inturgidiva attorno alla coscia. Conal ne percorse fedelmente ogni centimetro, girandole attorno quando il tracciato s'inoltrava fuori vista. Poi lei ruotò ancora su sé stessa, e la mano di Conal le percorse il fianco, attraversò la natica, risalì su per la schiena. Robin sollevò il braccio, lui protese la mano passandovi sotto e, da dietro, la pose anch'essa a coppa sull'altro seno. La tenne lì un momento, poi la ritrasse.

Lei si volse e gli sorrise mestamente. Poi gli prese una mano, intrecciò le sue dita a quelle di lui, e camminarono fianco a fianco lungo la spiaggia. Per lunghi minuti egli si sentì singolarmente pago del silenzio che li univa. Ma quella sensazione non poteva durare all'infinito.

— Perché? — domandò infine.

— È una domanda che mi son posta anch'io. Chissà che tu non abbia trovato una risposta migliore della mia…

— È… era una specie di gioco sessuale? — E bravo Conal, si disse, sei proprio il campione della delicatezza. Forza, ragazze, portateli tutti al vecchio Conal, i vostri piccoli problemi. Ci penserà lui a pesticciarci in mezzo coi suoi bei scarponi chiodati…

— Può darsi. Ma forse è una cosa un po' più complicata. Credo che avevo solo voglia di essere toccata. Deliberatamente. Quando m'insegni a nuotare mi tocchi, sì, ma non è la stessa cosa… eppure mi mette tutta in agitazione, dal piacere che ne provo.

Conal ci pensò un poco su.

— Se ti va posso massaggiarti la schiena. Ci so fare, sai.

Gli sorrise. Aveva gli occhi lucidi di lacrime, ma non dava affatto l'impressione che stesse per mettersi a piangere. Che strano.

— Che ne dici? A me piacerebbe.

Tornò ad avvolgerli il silenzio. Conal scorse i gradini che salendo conducevano a Tuxedo Junction, e gli dispiacque che ci fossero già arrivati. Magari la spiaggia fosse stata più lunga. Gli piaceva, stringerle la mano.

— Sono stata… molto infelice, per gran parte della mia vita — disse Robin in tono sommesso. Le diede un'occhiata. Lei si guardava i piedi nudi incedere lentamente, accarezzati dalla sabbia.

— Ormai sono due anni che non faccio l'amore. Quand'ero ragazza cambiavo amante una volta alla settimana, come tutte quelle della mia età. Ma nessuna riusciva a sopportarmi a lungo. Dopo il ritorno da Gea cercai una donna con cui vivere la mia vita. Ne trovai tre, e la più paziente durò un anno. Così decisi che proprio non ero tagliata per il legame di coppia. Negli ultimi cinque anni ho fatto l'amore non perché mi sembrasse bello… anzi, mi pareva orribile, una volta finita la parte più movimentata… ma solo perché a non farlo stavo ancora peggio. Alla fine comunque ci ho rinunciato, e sono andata avanti facendo completamente a meno del sesso.

— Dev'essere… tremendo — commentò Conal.

Erano giunti ai piedi degli scalini. Conal fece l'atto d'incominciare a salire, ma Robin lo fermò tenendolo per la mano. Lui si girò.

— Tremendo? — Una lacrima le solcò la guancia, e lei se l'asciugò con la mano libera. — Non è che il sesso mi manchi poi così tanto. Quello che mi manca è qualcuno che mi tocchi, che mi stringa a sé, qualcuno da tenere fra le braccia. Non c'è più nessuno che mi tocca… da quando Adam se n'è andato.

Continuò a guardarlo a testa in su, e Conal si sentì preda di un'ansia mai più provata sin dall'epoca delle sue prime esperienze ai pesi. Non che lui fosse un tipo impacciato, con le donne, ma questa qui, e sua figlia, erano diverse, e non solo per il fatto che fossero lesbiche.

Robin gli strinse forte la mano, e allora lui pensò: ma guarda un po' che diavolo, la circondò con un braccio e chinò leggermente la testa per baciarla. Vide schiudersi le sue labbra, ma poi Robin scansò il viso e allora Conal fece per lasciarla, ma a quel punto anche lei l'aveva abbracciato, cosicché lui le appoggiò le mani sulla schiena in quello che sperò apparisse un atteggiamento paterno, e Robin prese a muovere i fianchi contro di lui, lentamente, e gli stampò sul collo l'asciutta pressione delle sue labbra. Tutto sommato, l'intera manovra possedeva il garbo che avrebbero potuto metterci due ragazzini di dieci anni intenti a pagar pegno in un gioco tra amici, ma, quando la sistemazione fu compiuta, loro due si trovarono saldamente serrati l'un contro l'altra dalle ginocchia fin su alle spalle, e Conal poté sentire le lacrime di Robin gocciolargli sul petto. Lei lo teneva stretto, e lui le strofinava dolcemente il volto sulla testa senza smettere di accarezzare in lungo e in largo, con entrambe le mani, le morbide ondulazioni della sua schiena.

Diverse volte cercò gentilmente di separarsene, ma lei non volle lasciarlo andare. Dopo un poco lui smise di provare, e incominciò a nutrire certe capricciose fantasie. Quelle si limitavano a girargli per la mente, ma il resto di lui era arrivato già molto più avanti, creandogli costernazione e imbarazzo.

Alla fine lei si asciugò le lacrime e si scansò un poco da lui, continuando a poggiargli lievemente le mani sui fianchi.

— Hmm… Robin, non so se lo sai che…

— Lo so — gli confermò, dando un'qcchiata giù fra loro due. — Non c'è bisogno che ti scusi per lui. Lo so che quel tuo amico là conduce una sua vita propria, e che basta un tocco a eccitarlo. E che è capace di reagire anche a dispetto di quelli che possono essere i tuoi sentimenti.

— Oh, be'… ti dirò, invece io e lui di solito ci si trova perfettamente d'accordo.

Lei rise, e lo riabbracciò, poi alzò la testa e lo guardò con espressione seria.

— Lo sai, vero, che non potrebbe funzionare.

— Già, lo so.

— Siamo troppo diversi. Io sono troppo vecchia.

— Non è vero che sei troppo vecchia.

— Dammi retta, è così. Forse non dovresti farmelo, quel massaggio alla schiena. Potrebb'essere troppo difficile, per te.

— Sì, forse non dovrei.

Gli rivolse uno sguardo malinconico, poi prese a salire le scale. Si bloccò, rimase un attimo assolutamente immobile, quindi tornò indietro fermandosi sul primo scalino. In quel modo erano alti uguali. Gli pose le mani sulle guance e lo baciò. La sua lingua guizzò dintorno a titillargli le labbra. Infine si ritrasse, e pian piano allontanò le mani dal suo volto.

— Starò nella mia stanza per circa un'ora — gli disse. — Se sei furbo, credo proprio che te ne rimarrai quaggiù. Si volse, e mentre si allontanava su per la scala Conal stette lì a guardare i serpenti giostrarle sulla schiena nuda sinché non la perse di vista. Poi si girò e sedette sui gradini.

Trascorse dieci esasperanti minuti senza far altro che alzarsi e risedersi in preda a un turbine d'indecisione. A prescindere da tutto, non poteva tornare a casa in quelle condizioni. Ragionamento, ecco quello che gli ci voleva.

Era una situazione che richiedeva di essere affrontata con molta calma. Robin aveva ragione in pieno. Non avrebbe mai potuto funzionare. E una volta sola sarebbe stato da sciocchi, l'aveva detto lei stessa. Una sola volta non le sarebbe bastata, ma era tutto quello che lui poteva darle. Nient'altro che un esperimento, e inesorabilmente destinato a finir male.

Guardò di nuovo su per la scala. Aveva ancora chiara in mente l'immagine di quel ben carrozzato didietro.

— Bah!… — sospirò — Ne è passato, di tempo, dall'ultima volta che qualcuno mi ha accusato di fare il furbo. — Poi chinò il capo ad osservarsi il basso ventre.

— Tu lo sapevi fin dall'inizio, eh?

TRE

Valiha sedeva sulla cima della collina sovrastante Tuxedo Junction, accanto alla grande zona bruciata che s'allargava sul terreno. Già la vegetazione rispuntava tra le ceneri, germogliando ad avvolgere il biancore delle ossa. Fra poco quel luogo sarebbe stato difficile da distinguere.

C'erano diversi teschi umani. Uno molto più piccolo degli altri.

Le mani di Valiha erano indaffarate. Aveva iniziato con una larga tavola di legno stagionato e un assortimento di attrezzi da intaglio. L'oggetto era quasi terminato, adesso, ma lei ne aveva coscienza solo marginalmente. Le sue mani lavoravano senza bisogno di essere guidate dalla volontà. La sua mente era lontana. I titanidi non dormivano mai, tranne che nella primissima infanzia, ma entravano in una condizione di ridotta consapevolezza per periodi di due o tre riv. Era il temponirico, un arco di tempo durante il quale la mente era capace di vagabondare in regioni ampie e remote, nel passato, e in luoghi nei quali non avrebbe veramente voluto andare.

Valiha rivisse il suo tempo con Chris. Percepì di nuovo la sua amarezza, l'aliena brama di possesso così profondamente radicata nel suo animo che avrebbe voluto negarle di condividere il suo corpo con gli altri ch'ella amava, e il terribile, interminabile tempo dell'addio, quando la sua meravigliosa pazzia s'era trasformata in una follia bacata, e infine la lenta, faticosa riacquisizione di un sentimento di fiducia non disgiunto dalla definitiva consapevolezza che, probabilmente, ciò che un giorno era stato non sarebbe tornato mai più. Ed una volta ancora saggiò il suo profondo amore per lui, immutato ed immutabile.

Pensò a Bellinzona. Gli umani erano impegnati a sterilizzare il loro pianeta d'origine. A tale scopo facevano uso di armi che andavano oltre la sua comprensione, armi che avrebbero potuto ridurre Iperione a una lastra di vetro scintillante. Valiha accarezzò un pensiero che in piena veglia non avrebbe mai concepito. Se avesse posseduto una di quelle armi, l'avrebbe usata per sterilizzare Bellinzona. Molte degne persone avrebbero perso la vita, e ciò sarebbe stato un fatto doloroso. Ma i benefici di siffatta impresa ne avrebbero senza dubbio soverchiato i lati negativi. La ruota era la sua casa. Quei visitatori erano un cancro che corrodeva il cuore della ruota. Esistevano, certo, umani vòlti al bene. Ma pareva che riunirne a sufficienza in un sol luogo significasse dar vita a un'entità malvagia.

Continuando su tale linea di pensiero, giunse alla conclusione che i popoli della Terra dovevano aver compiuto la medesima riflessione. "Non è una buona cosa, quella che sto compiendo, ma gli esiti positivi prevarranno sul male necessario a conseguirli. Certo, è un peccato che debbano in ciò perire anche degli innocenti…"

Valiha abbandonò a malincuore ogni idea di sterilizzare Bellinzona. Avrebbe dovuto proseguire lungo la via che lei e gli altri titanidi avevano imboccato ormai da molti chiloriv: combattere il cancro cellula dopo cellula.

Sull'onda di tale pensiero, Valiha passò dal temponirico al tempo reale, e constatò di aver portato a termine quanto progettato. Lo sollevò tenendolo in luce, e lo esaminò con cura.

Non era la prima volta che realizzava uno di quegli oggetti. Eppure non avrebbe saputo attribuirgli un nome. I titanidi non usavano dar sepoltura ai loro morti: si limitavano a gettarli nelle acque del fiume Ofione, e lasciavano che i flutti se li portassero via. Essi non innalzavano monumenti né ponevano lapidi.

I titanidi non avevano altro dio all'infuori di Gea. Non l'amavano, ma credere in lei non costituiva un articolo di fede. Gea era reale almeno quanto la sifilide.

I titanidi non credevano nell'aldilà. Gea aveva detto loro che una cosa del genere non esiste, ed essi non avevano motivo di dubitare delle sue parole. Di conseguenza, non erano stati neppure indotti a sviluppare alcun afferente cerimoniale.

Ma Valiha sapeva che per gli umani era diverso. A Bellinzona aveva assistito a riti di sepoltura. Nella concretezza che la permeava, non avrebbe mai osato affermare che quelle manifestazioni cultuali fossero affatto prive di utilità. E adesso aveva lì tredici corpi, tutti anonimi, e si trovava nell'assoluta impossibilità di congetturare a quale delle innumerevoli e contraddittorie religioni terrestri avesse potuto appartenere ciascuno di loro. Come si sarebbe regolato un animo coscienzioso?

La risposta di Valiha consisteva in quel lavoro d'intaglio. Esso conteneva tredici diversi elementi, una sorta di libera associazione scaturita dall'incompleta comprensione che lei aveva degli idoli umani. Ce n'era uno con una croce e una corona di spine. C'erano una falce e martello, una mezzaluna, una stella di David, un mandala. C'era anche un'immagine di Topolino, e poi uno schermo televisivo con l'occhio della CBS, una svastica, una mano umana, una piramide, una campana, e la parola SONY. Proprio su in cima si dispiegava il simbolo più mistico di tutti, quello che si trovava tracciato sul Ringmaster: lo stemma della NASA.

Le parve un lavoro ben riuscito. L'occhio televisivo, campeggiante nel centro della piramide, le fece venire in mente un altro simbolo che sarebbe potuto andar bene: la lettera S traversata da due barre verticali.

Si strinse nelle spalle, si alzò in piedi, e mise in posizione sul terreno l'estremità appuntita della targa. Usando lo zoccolo anteriore sinistro a mo' di martello, la conficcò stabilmente al suolo. Calciò i teschi fino a raggrupparli attorno alla targa, poi alzò gli occhi al cielo. No, quel sistema non poteva andar bene. Lassù c'era Gea, e parlare a Gea era fiato sprecato. Valiha volse dunque lo sguardo attorno a sé, sul mondo che amava.

— Chiunque o qualunque cosa tu possa essere — cantò — vorrai forse stringere al tuo petto le anime di questi umani defunti. Nulla io so di loro, fuor che uno era assai giovane. Gli altri furono, per qualche tempo, zombi al servizio di Luther, malvagia creatura non più umana. Qualunque cosa essi possano aver commesso in vita, certo all'inizio furono, al pari di noi tutti, innocenti, quindi non essere troppo severo, con loro. È stata colpa tua l'averli fatti umani, giocando loro di certo un brutto tiro. Se ci sei, laggiù da qualche parte, dovresti vergognarti di te stesso.

Non si era aspettata una risposta, e non la ottenne.

Inginocchiatasi, raccolse i suoi utensili lavoralegno e li ripose nella sacca. Disperse con gli zoccoli i trucioli rimasti a terra, e diede un'ultima occhiata in giro a quel luogo pieno di pace. Ancora una volta si chiese perché mai l'avesse fatto.

Era sul punto d'intraprendere la via del ritorno verso Tuxedo Junction, allorché scorse Rocky venirle incontro risalendo il sentiero, e lo attese. Riflettendo, si rese conto di essere arrivata, nel corso del temponirico, a una decisione circa la sua proposta.

Egli la raggiunse, e osservò senza dir nulla il suo lavoro d'intaglio. Mantenne gravemente il silenzio per qualche minuto, come aveva visto fare agli umani nei cimiteri, poi fronteggiò Valiha.

— Son trascorsi i mille riv — cantò Rocky.

Un chiloriv, pensò Valiha. Quarantadue giorni terrestri, da quando Adam e Chris erano stati imprigionati a Pandemonio.

— La mia decisione è presa — cantò Valiha. — Ho concluso che non esiste momento opportuno per portare nel mondo nuova vita.

Lui abbassò gli occhi, poi li rialzò con un barlume di speranza. Lei gli sorrise, e gli baciò le labbra.

— Un tempo adatto non verrà mai, così farlo ugualmente è un atto che mi attrae. E farlo proprio adesso, senza l'approvazione di Gea, mi piace ancor di più. Possa la sua vita essere lunga e laboriosa.

— Gli umani — cantò Rocky — usano talvolta queste medesime parole a mo' di malaugurio.

— Lo so. Dicon anche "in bocc'al lupo" per augurar buona fortuna. Ma io non credo a benedizioni e maledizioni, né posso immaginar che si desideri una vita breve e tediosa.

— Gli umani sono pazzi, ben si sa.

— Non parlare degli umani. Parl'a me con il tuo corpo.

Lei s'avanzò tra le sue braccia, e si strinsero forte l'un l'altra, e incominciarono a baciarsi. Furono interrotti dallo scocciolìo degli utensili che si agitavano nella sacca di Valiha. Risero, e lei li ripose da parte, e ripresero a baciarsi.

Era la prima fase del rapporto frontale. Sebbene non cerimonioso come il rapporto posteriore, esso prevedeva comunque un ampio rituale. Per riscaldarsi si sarebbero montati vicendevolmente, e avrebbero ripetuto tale operazione tre o quattro volte ancora nel corso del più impegnativo amoreggiamento successivo.

Si prospettavano loro cinque riv decisamente interessanti.

QUATTRO

Cirocco sedeva nel folto della foresta, a venti chilometri da Tuxedo Junction. Già da cinque riv aveva acceso un piccolo fuoco, che continuava ancora ad ardere vivacemente. I ciocchi non parevano consumati.

Miracolo.

Un chiloriv. Mille ore, da quando Adam era stato rapito.

— Cos'avete imparato?

Alzando lo sguardo scorse il volto di Gaby di là dalle fiamme danzanti. Si rilassò, lasciando defluire la tensione che le aveva irrigidito le spalle.

— Abbiamo imparato a fare un gas velenoso che uccide gli zombi — rispose. — Ma ormai è da tanto che ci siamo arrivati.

Era risultato che andava bene qualunque tipo di sangue, anche quello titanide. Ma doveva essere usato pelo pubico, e unicamente di provenienza umana. Per fortuna ne serviva poco.

Un unico pelo bastava per quasi mezzo chilo di pozione. Inoltre avevano scoperto che l'omissione anche di uno solo degli ingredienti utilizzati da Nova per la sua mistura avrebbe reso inattiva tutta la miscela.

Alcuni titanidi s'erano messi al lavoro per approntarne decine di litri.

— Che altro avete imparato?

Cirocco ci rifletté.

— Ho amici che tengono sotto osservazione Pandemonio da distanza di sicurezza. Mi hanno informato di un recente spostamento alla base degli altipiani meridionali. Nova e Robin hanno imparato a nuotare. E stanno insegnando a Conal certe tecniche di lotta che lui non conosceva. Io invece insegno loro a pilotare.

Sospirò, e si passò una mano sulla fronte.

— So che Chris e Adam sono vivi e stanno bene. So che Robin si sta facendo strane idee su Conal. So che i sentimenti di Nova nei miei confronti non sono cambiati. Ha tentato di seguirmi fin qui. Sta diventando brava a pedinarmi. So pure che incomincia a considerare l'idea che vale la pena di essere in amicizia coi titanidi. Quanto a Conal, ormai l'ha più o meno accettato… E poi so che avrei bisogno di farmi un goccetto, un bisogno come non mi càpita da vent'anni.

Gaby tese un braccio attraverso le fiamme. La sua mano parve prender fuoco, e Cirocco indietreggiò da lei con un ànsito convulso. Guardò fissamente quel volto indistinto, e colse la perplessità di Gaby.

— Oh… — disse Gaby ritraendo la mano. — Mi sa che devi esserci rimasta proprio male… Non l'avevo visto, il fuoco.

Non aveva visto il fuoco, pensò Cirocco, e un'immagine balzò ad invaderle la mente. Era qualcosa cui non aveva mai assistito coi suoi occhi, ma che da vent'anni non cessava d'incontrare in sogno. Gaby, con un lato del viso e gran parte del corpo anneriti, carbonizzati, incrinati, frantumati…

— Non hai veduto il fuoco… — mormorò Cirocco scotendo la testa.

— Evita di porre troppe domande — l'ammonì Gaby.

— E come posso farne a meno, Gaby. Ciò che vedo non si accorda a nulla di quello in cui credo. Tu sei come… lo spirito misterioso e sibillino di una fiaba. Parli per enigmi. Non mi è mai riuscito di capire per quale ragione in quei racconti gli spiriti non dicano apertamente le cose come stanno. Perché tutti quei minacciosi avvertimenti, e le mezze verità, e le allusioni, su cose che sono così terribilmente importanti?

— Cirocco, mio unico amore… nessuno più di me vorrebbe poterti aiutare. Se mi fosse consentito, ti dir rei difilato tutto quel che so dalla a alla zeta, chiaro e tondo come una relazione della NASA. Ma non posso. E ciò per un'ottima ragione… ma non chiedermi quale.

— Neppure un accenno?

Lo sguardo di Gaby s'era fatto remoto.

— Domanda, su, ma in fretta.

— Ehm… Gea ti sorveglia?

— No. Gea mi aspetta.

Cristo, pensò Cirocco. Può voler dire tutto o niente, ma non perdiamo tempo in recriminazioni.

— Lei lo sa che tu… vieni da me?

— No. Sbrigati, non posso continuare a lungo.

— C'è modo di…

— Sconfiggerla? Sì. Scarta le soluzioni più ovvie. Tu devi…

S'interruppe, e incominciò a svanire. Ma chiuse gli occhi stringendo forte le palpebre, e serrò i pugni contro le tempie, e la sua immagine cominciò a riprendere corpo. Cirocco sentì che i capelli tagliati corti le si rizzavano sulla nuca.

— Meglio se non fai domande. Non troppe, almeno. Da quando ha preso Adam, la sua attenzione è quasi sempre rivolta a lui.

Gaby si stropicciò gli occhi con le nocche, ammiccò, poi si appoggiò all'indietro sulle braccia e distese le gambe.

Solo allora Cirocco si accorse che il fuoco era spento. Non solo spento, ma esaurito e freddo da un bel pezzo, ridotto a null'altro che un grigio mucchietto di avanzi sbriciolati. Gaby mosse i calcagni in mezzo a quelle ceneri.

— Se non fosse per la sua follia, Gea sarebbe invulnerabile. Non potresti far nulla contro di lei. Ma essendo pazza, corre dei rischi. Essendo pazza, affronta la realtà come fosse un gioco. Agisce in base a regole codificate. E l'insieme di queste regole lo deduce dai suoi vecchi film, dalla televisione, dalle fiabe e dai miti. La cosa più importante da capire è che Gea non fa la parte del buono. Lei lo sa, e preferisce così. Questo non ti suggerisce nulla?

Cirocco era sicura di sì, ma era stata così intenta ad ascoltare che quella domanda la colse di sorpresa. Aggrottò la fronte, si morse le labbra, e rispose augurandosi di non fare la figura della sciocca.

— …i buoni vincono sempre.

— Esatto. La qual cosa non significa che sarete voi a vincere, perché in base alle sue regole non è ancora stabilito che siate voi i buoni. E se perderete, dovranno trascorrere almeno vent'anni prima che possa rendersi disponibile un altro sfidante.

— Stai parlando di Adam? — domandò Cirocco.

— Sì. È lui il prossimo candidato al ruolo di eroe. Per il momento Gea lo tiene ad aspettare fra le quinte, pronta a esibirlo per mettervi in difficoltà. Ma il compito del ragazzo sarebbe tremendamente difficile. Gea intende indurlo ad amarla, quindi lui dovrebbe innanzitutto sconfiggere questo affetto, prima di potersi mettere a combattere contro Gea. È per tale motivo che Chris è stato lasciato in vita. Dovrà fungere da coscienza del ragazzo. Ma Gea lo ucciderà quando Adam avrà sei o sette anni. Anche questo fa parte del gioco.

Rimasero un poco in silenzio, mentre Cirocco digeriva il tutto. Provava un desiderio profondo di urlare il suo rifiuto di quel gioco sporco, ma lo ringoiò. Rammentava quel che lei stessa aveva detto a Conal. Ti aspettavi un combattimento leale?

— Finora l'hai presa per il verso sbagliato. Ti sono stati dati poteri di cui sembri non volerti rendere conto. Le capacità fisiche le accetti abbastanza facilmente, ma ne esistono altre che sono più forti.

Gaby prese a elencare sulle dita.

— Possiedi molti più alleati di quanti ne abbia Gea. Ve ne sono di evidenti, ma anche di occulti. Qualcuno verrà in tuo aiuto quando meno te l'aspetti. Hai una spia nel campo nemico. Serviti di Spione, e abbi fiducia in quello che ti può rivelare. Disponi di un angelo custode, per così dire. — Gaby sorrise, e agitò un pollice puntandoselo al petto. — Me. Farò tutto ciò ch'è in mio potere per far pendere la bilancia dalla tua parte. Ti dirò tutto quello che potrò… ma non aspettarti preavvisi in tempo reale. Conta su di me per un approfondimento delle questioni basilari. Fai conto ch'io sia una talpa.

Gaby diede a Cirocco il tempo di assimilare anche questi concetti.

— Ricorda, è meglio aspettare di esser certi di quello che si vuol fare, piuttosto che buttarsi avanti allo sbaraglio. E adesso, se tu volessi… toccarmi… — Gaby diede un colpo di tosse e distolse lo sguardo, e Cirocco si rese conto che era vicina alle lacrime. Fece l'atto di alzarsi.

— No, no, rimani lì. Niente sesso, niente del genere. Però se ci tocchiamo posso mantenere il contatto con te un attimino più a lungo. Spòstati solo un poco avanti.

Cirocco obbedì, portando i piedi nudi nella cenere accanto a quelli dell'amica. Gaby sedette col mento sulle ginocchia, e si strinsero le mani, e lei iniziò il suo racconto, mentre Cirocco ascoltava.

CINQUE

Robin guardò Conal alzarsi, aprire la porta e uscire. Piuttosto brusco l'amico, pensò, ma in fondo lei non gli aveva domandato nient'altro. Si erano reciprocamente usati, ciascuno per il proprio scopo. Comunque, avrebbe potuto almeno salutarla.

Ma fu subito di ritorno, portando la vecchia giacca che indossava quando l'avevano incontrato a Bellinzona, e che dopo il rapimento di Adam aveva di giorno in giorno usato sempre meno. Rovistò dentro una delle tasche e ne estrasse un lungo sigaro panciuto, del genere di quelli che un tempo aveva fumato di continuo, mentre ora li cercava raramente. A pensarci bene, aveva davvero fatto un sacco di cambiamenti dall'epoca in cui lei lo aveva conosciuto.

— Potrei averne uno anch'io? — gli domandò.

Conal, che aveva afferrato il suo sigaro fra i denti, le rifilò un'occhiata di traverso. Comunque ne tirò fuori un altro dalla tasca e glielo gettò.

— Mi sa che non ti piacerà — opinò, poi si mise a sedere sul letto, lasciandosi andare contro i giganteschi cuscini ammucchiati alla spalliera.

— Hanno un buon odore — spiegò Robin. — Il loro profumo m'è sempre piaciuto.

— Annusarli è una cosa, e fumarli un'altra. — Spuntò il suo con un morso, e lei fece altrettanto, poi accese un fiammifero e con calma si dedicò alla lunga operazione di innesco del sigaro. Azzurrognole nubi di fumo aromatico si dipanarono in aria.

— Qualunque cosa ti venga in mente di fare, non inalarlo — l'avvertì, e le porse un fiammifero.

Robin succhiò dall'estremità mozzata, e pochi secondi dopo era già in preda a un accesso di tosse. Conal le tolse il sigaro e la prese a pacche sulla schiena finché non le tornò il respiro, poi spense il colpevole schiacciandolo in un portacenere.

— Fa proprio schifo, eh? — le disse.

— Magari posso tirare giusto qualche boccata dal tuo.

— Tutto quel che vuoi, Robin. Tu hai pagato, e tu comandi.

— Davvero?

Si volse a guardarla dritto in volto, e lei fu sorpresa di constatare quanto apparisse nervoso e contrito.

— Senti, mi dispiace di non essere riuscito a far meglio. Ho tentato, parola, ma dopo un poco, capirai, non c'è molto che uno possa…

— Ma di cosa stai parlando? Sei stato bravissimo.

Gli occhi di Conal si ridussero a due fessure.

— Tu però non sei venuta.

— Conal, Conal… — Si girò, gli appoggiò un braccio sul petto e una gamba sull'inguine, e gli si rannicchiò addosso spingendo vivacemente la testa nell'incavo del suo collo. Poi gli parlò all'orecchio.

— Non me l'aspettavo mica, sai. Ripensaci. Non ti è sembrato che me la sia goduta anch'io?

— Sì — ammise Conal.

— E allora vuol dire che sei stato bravo. Non ho mai pensato di poter avere un orgasmo. Sinceramente continuo a non capire come sia possibile, in quel modo lì. La forma dei corpi è tutta sbagliata. È un tipo di rapporto che non sembra destinato a soddisfare la femmina.

— Eppure ci riesce — replicò lui. — Credimi sulla parola. Devi solo farci l'abitudine, ecco tutto. E io devo imparare…

La voce gli venne meno, e i loro occhi si cercarono. Conal strinse le spalle con aria di rassegnazione, e si riappoggiò ai guanciali. Robin fece lo stesso.

Era una giornata afosa. I loro corpi luccicavano di sudore. Robin si sentiva meravigliosamente. Avvertiva in sé una tiepida indolenza che faceva cantare le sue membra. Da quanto tempo non provava una sensazione come quella! Intrecciò le mani dietro la testa e diede un'occhiata in giù al proprio corpo, poi a quello di Conal.

Accostando un piede a toccare uno dei suoi, li confrontò. Tanto differenti, eppure la medesima struttura fondamentale. Lo stesso per le gambe. Poi la zona genitale, così completamente diversa. Lei con la sua sistemazione compatta ed ordinata, lui… con le sue vistose, esuberanti, morbide convessità esterne, sonnecchianti ora là soddisfatte e stremate e inumidite dall'intimo contatto col grembo dell'amante.

Non le era mai sembrato brutto, neppure in erezione. Pareva talmente vulnerabile… e lo era davvero, come aveva imparato tanto tempo prima in occasione di una sfortunata esperienza con Chris.

Provò a immaginare di piazzare la propria testa al posto di quella di Conal. Che impressione le avrebbe fatto guardarsi e vedere tutto quell'apparato? Per quanto si sforzasse, non andava oltre la paura che, secondo lei, Conal doveva continuamente provare. Si figurava di dover camminare tutta rannicchiata, perennemente in allarme nell'attesa di un'aggressione, miseramente indifesa. Quello era un tipo di nudità che lei non avrebbe mai sperimentato. E ringraziò la Grande Madre di aver avuto la fortuna di nascere donna.

— Lo sai che cosa m'è piaciuto? — gli chiese d'un tratto.

— Cosa?

— Il tuo pene così piccolo. Quando sono stata con Chris mi son trovata a disagio, perché lui ce l'ha tanto più grosso del tuo, ma la prima volta che…

Accortasi che Conal pareva in preda a un tremito convulso, Robin si girò a guardarlo. Aveva la faccia tutta contorta, sembrava che facesse fatica a respirare, poi anche lui la guardò, provò a dire qualcosa, e scoppiò a ridere.

Era una di quelle risate piuttosto difficili da controllare, e contagiosa, ma fino a un certo punto. Per un poco Robin rise insieme a lui, ma ben presto provò quella caratteristica sensazione d'incertezza che deriva dal fatto di non avere, in realtà, afferrato lo scherzo, e dal conseguente timore di poterne essere l'oggetto. Finalmente, in preda al singhiozzo, si calmò anche lui.

— Ho detto qualcosa di sbagliato? — gli domandò glaciale.

— Robin, non posso far altro che ringraziarti. Voleva essere un complimento, e lo accetto volentieri.

— Temo proprio di non aver capito, Conal.

Lui sospirò. — Be', non posso darti torto. Mi sa che ti dovrò spiegare… — Volse gli occhi al cielo. — Oh, Grande Madre, dammi tu la forza!

Quell'espressione così inattesa la fece ridere.

— O questa come t'è venuta in mente?

— Non lo so. Ma credo d'averla sentita a iosa da Nova tutte le volte che andava a battere il muso in qualche piccola novità d'usi e costumi. E ho avuto l'impressione che Costei fosse la sola a poter comprendere.

Robin attese paziente che lui si asciugasse gli occhi e trattenesse il respiro nel tentativo di sconfiggere il singhiozzo.

— È una cosa stupida, Robin, ti avverto. È una di quelle cose che o ci ridi o ci piangi. Mica tanti anni fa l'avrei presa come un insulto. Graziadìo sono un pochino cresciuto, da allora.

Dunque gliela spiegò, e aveva ragione, si trattava proprio di una cosa idiota. Robin non era di sicuro un'esperta in materia, ma comunque capì subito che quella bischerata poteva assumere un'estrema importanza per un uomo. Gli domandò se fosse un fatto collegato alla vulnerabilità maschile, e se un uomo traesse una qualche sensazione di sicurezza dal possedere un grosso pene. Ma Conal disse che la logica non c'entrava affatto. Poi fu lui a domandarle se nella Congrega esistesse qualcosa di corrispondente, ma a Robin non venne in mente nulla del genere. Allora le spiegò che sulla Terra le dimensioni del seno giocavano spesso un ruolo essenziale per l'amor proprio di una donna.

— Nella Congrega no — disse Robin. E aggiunse: — Ascolta, mi spiace davvero per quello…

— Ma va' là, te l'ho detto, l'avevo capito che era un complimento sincero. Solo, mi ha demoralizzato che… lo sai.

Sì, lo sapeva, e il fatto la rattristava.

— È un'altra dimostrazione del perché fra noi non potrebbe funzionare, Conal.

Lui si fece serio, la fissò, e a malincuore annuì.

— Credo che tu abbia ragione.

Lo abbracciò, egli la ricambiò, e fu bello sentirsi tenere così stretta stretta.

— Ti voglio ringraziare per… per la compagnia — gli disse.

— Piacere tutto mio, signora, mi duole dirlo.

Lei rise, ma sapeva che Conal era davvero turbato per non essere riuscito a portarla all'orgasmo.

— Voglio che tu sappia che mi piaci tantissimo, Conal.

— Anche tu mi piaci, Robin.

Conal si ridistese supino. Continuò a tirare boccate dal suo sigaro, e Robin osservò le azzurrognole volute di fumo levarsi verso il soffitto. Passò pigramente un piccolo piede nudo su e giù per una gamba di lui. Conal mosse a sua volta la gamba fino a toccare col suo il piede di lei, e con le dita ruzzarono ingenuamente un poco tutt'e due come ragazzi, ridendo piano, poi ristettero di nuovo silenziosi.

Conal gettò il sigaro dalla finestra, si alzò su un gomito, e si chinò a deporle un bacio su un capezzolo. Le fece un gran sorriso.

— Allora, pronta a un nuovo giro?

— Pensavo che ormai non me lo avresti chiesto più.

SEI

Nova aveva odiato a lungo il fatto di trovarsi su Gea. Ma abbastanza di recente si era verificata, nel suo atteggiamento, una svolta sostanziale, e adesso lei si divertiva più che a un Sabba Nero.

Tutto era incominciato col nuoto. Nuotare le dava un piacere voluttuoso che non aveva mai immaginato possibile. Era meglio di tutti gli altri sport messi insieme; davvero non c'era confronto.

Sarebbe stato spaventoso aver vissuto senza mai imparare a nuotare.

Poi c'era il volo. Aveva volato a vela, su alla Congrega, ma non era la stessa cosa. Misurarsi con la selvaggia potenza e l'infinita duttilità delle Libellule era un'esperienza deliziosa. Ci aveva preso gusto molto in fretta, sebbene dubitasse di poter mai diventare brava come Conal.

E infine, diletto altrettanto insostituibile, veniva il cavalcare i titanidi.

All'inizio parevano fiacchi e monotoni come ascensori. Standoci a cavalcioni ci si accorgeva a malapena del movimento, tanto la loro andatura era uniforme e senza scosse. E anche se trottavano abbastanza di buon passo, non si poteva certo parlare di velocità.

La cosa importante, aveva scoperto Nova, era trovare il titanide giusto.

E adesso infatti se ne stava avvinghiata all'ampio dorso di una certa Virginale (Quartetto Mixolidio) Mazurca, una femmina di due anni, e correva più veloce del vento. Era stato semplicissimo, in realtà. Siccome tutti i titanidi avevano più o meno le stesse dimensioni, Nova aveva erroneamente creduto che fossero tutti adulti. Era stata una grossa sorpresa scoprire che Virginale aveva solo due anni, e un piacere accorgersi che in lei allignava ancora una vena di sventataggine. Ora che Cirocco Jones, dopo il rapimento di Adam, stava quasi sempre via, Nova trascorreva ogni momento libero — quando non era in acqua o a lezione di volo — sulla schiena di Virginale. Andandosene in giro assieme, avevano visitato gran parte del territorio di Dione a sud del fiume Ofione.

Stavano procedendo lungo il bordo della foresta, nella fascia in cui gli alberi si diradavano e il terreno saliva dolcemente verso i torreggianti bastioni degli altipiani meridionali. Nova indossava i suoi indumenti da cavallerizza, che Conal aveva definito costume alla Robin Hood. Erano di morbida pelle verde e la rivestivano completamente, lasciandole scoperto solo il viso. Comprendevano tra l'altro un paio di stivali marrone e guanti dello stesso materiale, e un tricorno verde adorno d'una penna bianca.

Virginale scavalcò volteggiando un tronco caduto e per un attimo Nova si trovò senza peso, reggendosi saldamente in groppa con i talloni stretti sui fianchi della titanide e le mani afferrate alle braccia che quella protendeva all'indietro. Toccarono il suolo, e Nova balzò in piedi rimanendo agilmente eretta sul dorso sussultante, guardando di sopra la spalla di Virginale mentre scendevano giù per l'argine scosceso che portava ad uno dei quattro affluenti del fiume Briareo. Era un'esperienza esaltante: una caduta governata, con gli zoccoli della titanide che percuotevano la ripa solo a tratti evocando un fragoroso corteggio di piccole rocce, zolle di terra, ciottoli, rimbalzanti tutt'intorno a loro ma incapaci di tener dietro al tuffo a capofitto di Virginale. Freddo e aspro il vento della corsa sferzava i capelli di Nova.

Giunta in fondò all'erta Virginale rallentò, mentre i suoi zoccoli irrompevano violentemente nell'acqua. Si levò una tempesta di spruzzi, poi risuonò soltanto il lento clop clop degli zoccoli sulla sponda rocciosa.

— Ora basta, aureamìa — ansimò Virginale. Nova le diede una pacca sulla spalla e balzò giù all'asciutto. Non l'avrebbe ammesso tanto facilmente, ma anche lei aveva bisogno di una sosta. Mantenersi in groppa alla titanide era faticoso quasi quanto correre.

E non avrebbe avuto alcuna possibilità di riuscirci, senza un continuo aiuto da parte di Virginale. Almeno una dozzina di volte al miglio si era sentita scivolar via dal dorso nudo della titanide, ma era stata sempre ritrainata immediatamente al suo posto dalla stretta di una mano energica, oppure aveva avvertito sotto di sé il dorso di lei muoversi quanto bastava a restituirle un sia pur precario equilibrio. I titanidi esercitavano un controllo quasi sovrannaturale su quel che portavano in groppa. Nova sospettava che Virginale potesse correre al galoppo con una dozzina di bicchieri colmi di vino sulla schiena senza versarne una sola goccia.

Si lasciò cadere sopra una grande roccia piatta, si distese supina, e rimase ad osservare il cielo giallo.

Non era mica un posto tanto balordo, dopo tutto. Certo, proprio a sinistra di quel lembo di cielo s'inabissava misteriosamente l'immensità del raggio di Dione, ma c'era troppa foschia per vederlo bene. A Nova andava benissimo così.

Guardò la titanide, che scioltisi i capelli s'era genuflessa nel mezzo del gelido torrente. Virginale tuffò la testa, poi di scatto risollevò il tronco, leggiadramente tracciando un denso arco di acqua cristallina. Aveva capelli brunolucenti striati di verde smeraldo, lunghi più di un metro. Sfrecciarono a schiaffeggiarle sonoramente il dorso, poi Virginale scosse energicamente la testa, suscitando un liquido rovescio che andò ruscellandole giù pei fianchi. Il respiro le si addensava in nuvolette di vapore. Nova pensò ch'era bellissima.

Virginale rientrava nel genere dei titanidi villosi. Fatta eccezione per le palme delle mani e per il viso, tutto il suo corpo appariva rivestito di un manto affine a quello dei cavalli, zebrato in bande verdi e brune, che solo nella zona del cranio le si allungava similmente ad una chioma umana. Il volto era unicamente bruno. Rimanendo immobile sul limitare della foresta, Virginale sarebbe risultata pressoché invisibile.

Le sue conoscenze sulle creature selvatiche, Nova le aveva perlopiù acquisite guardando documentari naturalistici e visitando il piccolo zoo della Congrega. Aveva anche visto dei film in cui c'erano umani che cavalcavano, comprese certe storie di fanciulle che andavano pazze per quegli animali. Nello zoo della Congrega c'erano cinque cavalli. A Nova non avevano mai detto granché, ma adesso si chiedeva se quella mancanza d'entusiamo non fosse derivata solo dal fatto che a nessuno era consentito montarli.

Quel pensiero le diede fastidio. Stava facendo progressi nel considerare i titanidi come esseri umani… o come gente, avrebbe detto Conal, e le risultava sempre più difficile riduxli al rango di ottusi animali. Ma sospettava che, se fosse nata sulla Terra, sarebbe stata una cavallerizza appassionata. E osservare Virginale che si rinfrescava là in mezzo all'acqua, le rammentava inevitabilmente quei documentari sulla natura. Quand'era a corto di fiato, Virginale sbuffava come un cavallo, divaricando le sue ampie narici. Mentre Nova la stava a guardare, Virginale mise in atto uno di quei sorprendenti giochetti in puro stile titanide. Inalò acqua attraverso il naso — non meno di otto o dieci litri — volgendosi quindi a spruzzarsela violentemente sulla groppa.

Si udirono tre flebili note musicali, e Nova vide Virginale infilare una mano nella sacca — altro oggetto completamente alieno — e trarne fuori qualcosa che veniva chiamato seme radio. La titanide gli rivolse un breve canto, poi rimase in ascolto. Nova sentì l'oggetto cantare una risposta. Virginale trotterellò fuori dall'acqua e si scrollò come avrebbe fatto un cane.

— Chi era, Cirocco? — domandò Nova.

— Sì. Voleva sapere dov'eravamo.

— Qualcosa che non va?

— Non si è espressa in tal senso. Gradirebbe sapere se vorresti accompagnarla in un breve viaggio.

— Accompagnarla… dov'è che deve andare?

— Non l'ha detto. Nova balzò in piedi.

— Non importa. Grande Madre! Dille di sì. Dille che arrivo subito.

— Passa lei a prenderti — rivelò Virginale, e di nuovo cantò al seme.


Cirocco giunse in pochi minuti, sulle ali di un quasi invisibile Libellula Uno. L'esile velivolo manovrava con la fulminea vivacità di un colibrì. Cirocco lo portò ad atterrare su un fazzoletto di terreno pianeggiante lungo dieci metri, fermandolo col muso che sfiorava un masso grande come una casa. Balzò a terra, sollevò l'aereo e lo rigirò su se stesso nel tempo che Nova e Virginale impiegarono a raggiungerla.

— Salve, retrofiglia di Munyekera — salutò cerimoniosamente Virginale, poi guardò Nova,'le sorrise in punta di labbra e portò due dita al sopracciglio. — Come va, Nova?

— Salve, Capitano — cantò Virginale. Era l'unico frammento di canto titanide che Nova avesse imparato a riconoscere. Lei non disse nulla. Come al solito, al vedere Cirocco, nei primi istanti la bocca le si era inaridita al punto da non riuscire a spiccicar parola.

La Maga, pensò Nova. Altro che Capitano. Ci voleva Maga per definirla esattamente.

I vestiti che indossava le stavano a pennello. Nova aveva avuto poche occasioni di vederla così abbigliata. Portava pantaloni e camicetta di colore nero, e un cappello pure nero a larghe falde. Era aumentata di peso, rispetto a quando Nova l'aveva incontrata la prima volta, e per un qualche motivo quegl'indumenti tendevano ad accentuare la differenza. Anche in questo pareva che la Maga non potesse comportarsi come avrebbe fatto una donna qualsiasi. S'era armoniosamente rimpolpata in tutto il corpo, ma particolarmente nel seno. Dovevano entrarci quelle misteriose, periodiche scomparse nel cuore della foresta. Finora lei e Robin c'erano andate tre volte, tornando ogni volta più giovani, più floride e, per quanto riguardava Cirocco, anche con qualche chilo in più. Riusciva persino a diventare ancor più bella.

— Avrei da fare questa piccola spedizione — disse Cirocco con l'aria di sentirsi un po' a disagio. — Non è affatto necessario che tu venga, posso farcela da me. Ma non ci sono grossi pericoli, e ho pensato che potrebbe interessarti.

Nova si sentiva venir meno. Chiedimi di camminare sul fuoco, mia diletta. Chiedimi di strapparmi il cuore e regalarlo a te. Chiedimi di nuotare intorno al mondo, di correre più veloce di un titanide, di combattere a mani nude contro uno zombi. Chiedimi di far tutte queste cose, ed io con gioia le compirò per te, o morirò nel tentativo. E adesso invece tu vieni a domandarmi se potrei essere interessata a recarmi in qualche luogo insieme a te…

Sforzandosi di simulare indifferenza, fece una spallucciata alla perché-no e rispose: — Ma sì, Cirocco.

— Bene. — Cirocco aprì il portello dell'aereo, e Nova vide che l'unico sedile era stato rimosso. L'interno dell'abitacolo appariva completamente spoglio. — Toccherà viaggiare un po' allo stretto, ma ho voluto prendere l'aereo più piccolo che abbiamo. Non credo che sarà poi così spiacevole, anche se in pratica dovrai sederti sulle mie ginocchia.

Troverò il modo di sopportarlo, pensò Nova.

L'aereo era vuoto, a parte due alacadute strettamente arrotolati in fondo alla carlinga. Cirocco ne porse uno a Nova, e li indossarono entrambe.

— A un certo punto dovremo buttarci — spiegò Cirocco, e chinandosi entrò in cabina. A forza di contorcimenti andò a rincantucciarsi il più possibile di fianco, e Nova s'inzeppò a bordo anche lei. Trafficarono per qualche istante in un goffo intreccio di gomiti, poi trovarono il modo di sedersi tutt'e due.

— Pensi di farcela a ripartire da qui? — le domandò Cirocco.

— Credo di sì.

— Ricordati che siamo piuttosto pesanti.

Nova era già impegnata a elaborare sul computer un calcolo approssimativo. Non sarebbe stato molto meglio rinunziare e cedere il comando a Cirocco, in modo da evitare di rompersi il collo tutt'e due? Cercò di non pensarci.

Richiuso il portello diede un'occhiata in giro, per sincerarsi che Virginale fosse a distanza di sicurezza. La salutò agitando la mano, e ne venne ricambiata.

— Sgombrare la pista! — gridò, sentendosi un po' ridicola. Ma in aviazione le regole valgono sempre e per chiunque, come Conal le aveva ribadito in termini mortificanti il primo giorno di lezione… spalleggiato dal gelido sguardo di Cirocco.

Dedicò al concetto un attimo di riflessione, poi trasse un respiro profondo e diede potenza.

L'aereo fece un balzo in avanti, raggiunse il margine del tratto pianeggiante… e incominciò ad abbassarsi lentamente. Nova manovrò i comandi, ingolfò il minuscolo propulsore, e in linea di massima giunse sull'orlo di una crisi di nervi durante quei dieci lunghissimi secondi nel corso dei quali l'aereo parve fermamente deciso a schiantarsi contro le cime di certi alberi.

Si limitarono tuttavia a rasentarle, dopo di che Nova azzardò un'occhiata a Cirocco. Pareva che la Maga non si fosse minimamente interessata a quegli alberi, intenta com'era a guardare attraverso il tettuccio trasparente in cerca di qualcosa. Nova si sentì particolarmente orgogliosa, poiché era chiaro che Cirocco non aveva dubitato che lei potesse farcela. Provò anche una leggera delusione: un "ben fatto" di approvazione le sarebbe giunto assai gradito. Poi comprese che la lode era implicita nella fiducia.

— Sali a trenta chilometri e dirigiti a nordest — ordinò Cirocco.

— Nessuna rotta specifica?

— Ti sarò più precisa quando l'avrò trovato.

— Chi?

— Finefischio. È da qualche parte sulle zone occidentali di Giapeto.

Un aerostato! Nova provò un soprassalto d'eccitazione, seguito da un'ondata di perplessità. A quel che ne sapeva, un aerostato non avrebbe certo gradito la vicinanza di un aereo a reazione.

— Ha importanza la rapidità di salita?

— Di carburante ne abbiamo in abbondanza. Puoi anche spingere al massimo, se vuoi.

Nova calcolò una velocità di ascesa rapida ma senza sprechi, eseguendo manualmente invece di affidare l'intera operazione al computer, in quanto voleva impratichirsi nella procedura d'emergenza. Cirocco osservò, e non fece commenti.

— Navigano sempre tanto in alto? — domandò Nova quando la Libellula si fu stabilizzata alla quota prescelta. Cirocco era intenta a guardar fuori, verso il basso.

— Quasi mai. È che voglio essere sicura di avvicinarlo da sopra. Perché non controlli dalla tua parte e vedi se ti riesce d'individuarlo? Non dovrebb'essere troppo difficile. In fondo è solo un po' più grande della Pennsylvania.

Ovviamente era un'esagerazione, comunque Nova rimase delusa quando finalmente giunsero a localizzarlo. Le era già capitato di vedere numerosi aerostati da una certa distanza — in Dione non si avvicinavano mai troppo al terreno — ma Finefischio non le pareva altrettanto grande.

Poi notò le indicazioni numeriche sullo schermo del radar, e si rese conto che quella creatura non distava solo due o tre chilometri, ma si trovava ben venticinque chilometri sotto di loro.

— Spegni il radar — le ordinò Cirocco. — Gli fa male alle orecchie. — Nova obbedì, poi vide che Cirocco si controllava lo zainetto, il cinturone attrezzato e gli attacchi dell'alacadute, e fece altrettanto.

— Ora ascoltami. Programma 'sto trabiccolo in modo che ritorni alla caverna di Tuxedo Junction. Assicurati che non si avvicini mai a meno di venti chilometri da Finefischio. E poi mettilo in rotta a una quota di due o trecento metri, non di più. — La fissò. — Non mi chiedi perché?

— Non so se posso.

— Stai tranquilla, cocca. Qui non siamo mica sotto disciplina militare. Il motivo per cui voglio che si tenga basso è che mi aspetto ancora che sbuchino fuori altre bombe volanti. Non l'hanno ancora fatto, ma è solo questione di tempo. E non voglio far correre troppi rischi all'aereo quando è privo di difesa.

— Capisco. — Nova lanciò in giro occhiate nervose. Fino a quel momento non aveva pensato alle bombe volanti. Ricordava bene la straordinaria prestazione di Conal durante il loro attacco, e sapeva che le aveva salvato la vita. Dubitava di poter giungere mai a manovrare un aereo con tanta abilità.

Prese dunque a programmare il pilota automatico, mentre Cirocco attendeva tranquilla. Ben presto s'impantanò. Scosse la testa, e cancellò un risultato inaccettabile.

— Ho paura che per me sia troppo complicato — ammise. — Mi dispiace.

— Non ti preoccupare. Guarda, dov'è che hai sbagliato. — Le dita di Cirocco volarono sui tasti, fermandosi quel tanto che bastava a far sì che Nova vedesse e capisse. — Una delle cose più importanti da imparare, è quando riconoscere che si ha bisogno d'imparare di più.

Nova la guardò, e vide che Cirocco sorrideva.

— Che fine avremmo fatto tutt'e due — disse Cirocco — se tu non avessi saputo che ci trovavamo di fronte ad una situazione di decollo piuttosto rognosa? — Per una frazione di secondo il suo sorriso si mutò in un ghigno, ma l'attimo dopo era già tornata ad occuparsi del computer. Nova comprese che, ancora una volta, la Maga aveva prevenuto da lungi ogni sua mossa. E dire che l'avrebbe potuto giurare, che Cirocco non aveva prestato attenzione al decollo né si era accorta del suo nervosismo…

— Molto bene — riprese Cirocco attivando il programma. — Esci prima tu. Bùttati subito e apri non appena sei a distanza di sicurezza dall'aereo, poi seguimi. Se vedi qualche bomba volante, taglia i cavi e prosegui in caduta libera finché te la senti. Nello zaino c'è un alacadute di riserva. Domande?

Nova ne aveva una dozzina, ma ne fece solo una.

— Pensi che le incontreremo?

— No. Però non posso escluderlo in assoluto.

Aprirono il portello, e Nova si gettò. Il tempo di orientarsi, poi tirò la funicella di spiegamento. Udì il familiare schiocco vibrante del tessuto, il sibilo dei cavi, quindi subì un brusco strattone. Guardò in su…

Per un attimo terrificante ebbe l'impressione che l'alacadute fosse stato strappato via. Si era aspettata la tradizionale calotta multicolore, e invece la sovrastava una sorta di ragnatela impalpabile e quasi invisibile.

Be', logico, così li si sarebbe potuti scorgere più difficilmente.

Individuò Cirocco, che tenendo entrambe le mani sui cavi dondolava traslando alla sua destra e perdeva rapidamente quota. Con qualche strattone alle sue funi Nova le si mise dietro a perpendicolo. Seguimi, aveva detto la Maga. Ovunque, pensò Nova.

Per diversi minuti passò il tempo a scrutare attentamente il cielo limpido in cerca delle caratteristiche scie di condensa delle bombe volanti. Avvistò due volte la Libellula abbandonata. La prima volta si spaventò, la seconda non ci fece neanche caso. Continuò tranquillamente a seguire Cirocco godendosi la magnificenza dello scenario dintorno, niente di meglio per aumentare il piacere di quel librarsi nell'immensità.

Poi Cirocco prese a roteare follemente, oscillando avanti e indietro all'estremità dei cavi. Dapprima Nova non si preoccupò, ma siccome quella bizzarra esibizione non accennava a diminuire, incominciò a chiedersi se non ci fosse qualcosa che non andava. E finì per spaventarsi sul serio allorché Cirocco iniziò a precipitare in un vertiginoso tuffo. Per riuscire a starle dietro dovette impegnarsi al massimo, ma prima che si trovasse anche lei a scendere in picchiata, Cirocco aumentò le oscillazioni fin quasi a rovesciarsi. La gran volta era difficile da fare, con un alacadute. E la Maga non c'era riuscita completamente. Nova non arrivò comunque a capire cosa fosse accaduto finché l'altra non scoppiò a ridere.

— Ma non s'era detto che mi dovevi seguire? — gridò Cirocco continuando a ridere. — Ma non eri tu la Campionessina della Congrega o roba del genere?

Ah, è così?

Nova tirò i cavi con entrambe le mani, e sfrecciò davanti a Cirocco talmente vicina da udirne l'ansito sbigottito. Precipitò sempre più veloce, oscillando da un lato all'altro e accumulando slancio finché, con uno scatto violento, s'inarcò descrivendo una curva e per un attimo si librò a testa in giù, mentre l'alacadute si ripiegava sotto di lei. Cadde a capofitto evitando abilmente d'impigliarsi nei cavi allentati, si fermò con un sobbalzo quando la calotta con uno schiocco lacerante si ridispiegò abbracciando l'aria, e concluse l'evoluzione ritornando in planata, il tutto con un'eleganza ed una precisione mai raggiunte in gara. Rivedeva, con gli occhi della memoria, una fila di 10 accendersi sul tabellone del punteggio.

Cirocco le si pose cautamente a lato, abbastanza distante per evitare che i loro alacadute si ostacolassero, e le puntò addosso uno sguardo stizzito che però non le riuscì di mantenere. Scoppiò nuovamente a ridere.

— Mi arrendo alla più brava — dichiarò. — M'hai fatto prendere una bella strizza, lassù, signorina.

— Ma tu avevi spaventato me! — replicò Nova.

— Già, me l'immaginavo. Quindi sarebbe stato meglio che non l'avessi fatto.

— Ma non mi è mica dispiaciuto.

— Nova, mi rendo perfettamente conto di aver l'aria d'una vecchia strega inacidita e senza cuore. Ma ultimamente di tempo per divagarmi me ne avanza davvero poco. E poi c'è il fatto che ho sei volte la tua età, e non venirmi a dire che non ti hanno raccontato la tragica storia della mia vita… però la sai una cosa? A conti fatti, mettendo sulla bilancia il buono e il cattivo, ho avuto un'esistenza meravigliosa. Gli ultimi trent'anni sono stati difficili, e la situazione promette di peggiorare. Ma non avrei sopportato nessun altro genere di vita. Il brutto è quando… be', come ora. Quando voglio uscire un po' dal personaggio, agli altri sembra sempre fuori luogo, e questo mi addolora. Gli ultimi trent'anni, pensò Nova.

Fu una lunga planata. Si divertirono con qualche altro giochetto, ma nulla di così spinto come i giri della morte. E intanto Finefischio continuava a ingigantire sotto di loro.

Quasi un secolo prima, quando Cirocco e il suo equipaggio l'avevano veduto per la prima volta, Finefischio era stato appena più lungo di un chilometro dal muso alla coda. Lo Hindenburg, la più grande aeronave mai costruita sulla Terra, aveva avuto dimensioni leggermente inferiori ad un quarto di quelle possedute da Finefischio.

Da allora, egli era considerevolmente cresciuto.

Adesso aveva una lunghezza di due chilometri. E siccome anche le altre sue dimensioni si erano accresciute in proporzione, attualmente era otto volte più grande. Conteneva quasi quindici milioni di metri cubi di idrogeno.

— Nessuno sa come mai è cresciuto tanto — disse Cirocco a Nova mentre si apprestavano ad atterrare sull'immenso dorso. — Di solito gli aerostati non crescono così alla svelta. Lui ha circa sessantamila anni. I suoi coetanei sembrano crescere solo di pochi centimetri all'anno. E Vecchio Scout, che ha per lo meno ventimila anni più di Finefischio, è lungo solò un chilometro e mezzo all'incirca.

Cirocco le fornì altre informazioni, e Nova ascoltò attentamente, ma le sole parole non avrebbero mai potuto rendere giustizia a Finefischio. Bisognava vederlo, per crederci. Nova aveva pensato che atterrare sulla schiena di un aerostato fosse una manovra rischiosa, e invece pareva che l'operazione avrebbe comportato più o meno le stesse difficoltà cui va incontro una zanzara per deporsi sopra un elefante.

Prese contatto dolcemente, frenò l'abbrivio in pochi rapidi passi mentre con destrezza ammainava l'alacadute, ed era sul punto d'incominciare a ripiegarlo, quando si sentì toccare una spalla da Cirocco.

— Taglia i cavi — le disse — Per scendere useremo un altro sistema.

— Non ho il coltello — obiettò Nova.

Cirocco parve sorpresa, e scosse la testa.

— Si vede che sto invecchiando — commentò, squadrandola da capo a piedi. Nova non riuscì a comprendere quale fosse il problema. Cirocco recise lei le corde tramite un coltello dalla lama bianca. Dandogli un'occhiata da vicino, Nova si accorse che era stato realizzato con un osso affilato, tutto ricoperto d'intricate incisioni in stile titanide.

— Porti niente sotto i vestiti? — domandò Cirocco.

— Soltanto i calzoncini di cotone — rispose Nova.

— A me interessa il metallo. È non solo scortese, ma anche estremamente pericoloso portare a bordo di un aerostato oggetti di metallo. E qualunque altra cosa possa produrre scintille.

Gli stivali di Nova avevano occhielli metallici per il passaggio delle stringhe, ma dopo un rapido esame Cirocco li dichiarò accettabili. Nova provò un senso di sollievo: quegli stivali erano un regalo di Virginale.

Poi Cirocco s'inginocchiò e incominciò a tastare la robusta cute dell'aerostato. Nova le andò dietro. Sapeva che non ci sarebbe stato niente di male a rivolgerle qualche domanda, ma nonostante l'assaggio di Maga giocherellona che aveva avuto durante la discesa, il suo sentimento predominante nei confronti di Cirocco continuava ad essere la paura, e la sua reazione l'obbedienza.

Si guardò attorno. Non era difficile avere l'impressione di trovarsi sopra un liscio vassoio argenteo. Sapeva che quella superficie andava curvando verso il basso, ma avrebbe potuto percorrere un lungo tratto in qualunque direzione prima che ciò divenisse un problema.

Finalmente Cirocco parve aver trovato il punto che cercava. Premette l'estremità acuminata del coltello d'osso contro la pelle dell'aerostato e praticò un bucherellino. Nova la vide porre una mano sopra il foro e udì un suono sibilante che presto si spense. Cirocco parve soddisfatta, e con grande stupore di Nova usò il coltello per fare un grande taglio a X sul dorso di Finefischio. Poi spinse i lembi dentro l'incisione, e tutt'e due guardarono giù nell'apertura.

Sprofondava nell'oscurità. Su tutti i lati dell'angusto budello si vedevano le pareti protuberare verso l'interno, trattenute da quella che pareva una rete da pesca. Nova capì che erano sacche di gas, e che Cirocco aveva individuato uno spazio vuoto fra di esse.

— Che sarebbe successo se avessi forato una sacca? — domandò.

— Finefischio ne ha più di un migliaio. Se ne potrebbero bucare anche trecento tutte insieme, senza causargli sensibile danno. E poi, se il primo forellino che ho fatto avesse danneggiato una sacca, l'incisione si sarebbe rimarginata in una decina di secondi. — Calò una gamba dentro l'apertura, trovò un punto d'appoggio, e guardò in su facendo a Nova un gran sorriso.

— Tu stammi dietro, d'accordo?

— Ma questo buco?

— Fra cinque minuti si sarà già richiuso. Lui non se ne accorgerà neanche, garantito.

Nova era alquanto dubbiosa, ma non per questo meno intenzionata a seguire Cirocco. Non appena la Maga fu scomparsa all'interno, cominciò a calarsi giù anche lei, scivolò, ma si riprese subito aggrappandosi alla rete che la circondava da ogni parte.

— Rimanda in su i lembi — le giunse dal basso la voce di Cirocco. — Così faranno prima a rimarginarsi.

Nova obbedì, e il buio l'avvolse.

— Adesso devi solo scendere. Se vedi qualcosa di strano, non ti preoccupare. Qui dentro non c'è nulla di pericoloso.


La discesa durò a lungo. Inizialmente l'oscurità parve assoluta, a Nova, poi gli occhi le si abituarono, e riacquisì una leggera capacità visiva.

Aggrapparsi con le dita era assai più facile che far presa con gli stivali, però risultava anche piuttosto faticoso. Di tanto in tanto i suoi piedi incontravano qualche cavo un po' più largo sul quale appoggiarsi, ma in genere c'era solo quella rete sottile. Se non fosse stato per la ridotta gravità, forse non ce l'avrebbe fatta.

Trascorsi dieci minuti scorse una luce sotto di sé. Si fermò, e vide Cirocco estrarre dallo zaino un piccolo globo luminoso di colore arancio. Lo porse a Nova, e un altro se lo fissò al polso. Era una qualche forma di bioluminescenza, e bastava a rischiarare le immediate vicinanze.

All'inizio andò meglio. Almeno poteva vedere dove mettere le mani e i piedi. Ma dopo un poco, imprevedibilmente, incominciò ad avvertire più forte l'oppressione claustrofobica che già un poco la solleticava. Le pareva di sperimentare uno di quegl'incubi in cui le pareti si richiudono addosso al malcapitato sognatore, solo che qui era tutto reale. Le pareti, qui, s'incurvavano davvero.

Poi le venne di pensare sul serio a quello che stava facendo. Le cose che afferrava e alle quali si aggrappava non erano cavi, non erano reti; erano i muscoli vivi di un essere gigantesco. Poteva sentirne le contrazioni, quando ci faceva forza. Risultavano asciutti al tatto, sempresialodata la Grande Madre con tutti i suoi piccoli dèmoni, ma rimaneva comunque una cosa raccapricciante.

Superarono diversi passaggi laterali. Alcuni non erano più larghi del suo braccio, ma altri, non molti, apparivano abbastanza ampi da poterci camminare dentro. Giù in fondo ai più grandi s'intravvedeva un luccichio di occhi.

— Cherubini — spiegò Cirocco dopo il primo avvistamento. — Stanno agli Angeli come a noi le scimmie. Fanno il nido negli aerostati più grandi.

Altri abitanti ospitava il leviatano dei cieli. Creaturine similtopi continuavano a sgusciar loro fra i piedi, e una volta Cirocco sostò mentre qualcosa di più grande le si toglieva precipitosamente dinnanzi. Nova neanche lo vide, e ne fece volentieri a meno.

— Sei sicura che non gl'importa di noi qui dentro? — domandò ad un certo punto.

— Più siamo e più ci divertiamo — sentenziò Cirocco. — Se non ci avesse voluto, a quest'ora ce ne saremmo già accorte. Non dovrebbe far altro che sigillare il passaggio e riempirlo d'idrogeno. Comunque non ti preoccupare. Gli aerostati possiedono un loro personale ecosistema interno. Esistono almeno un centinaio di specie animali diverse che non potrebbero vivere altrove. E oltre a quelle, gli aerostati prendono continuamente a bordo viaggiatori di passaggio.

Incrociarono infine un condotto notevolmente più ampio, e Cirocco vi entrò. Aveva un diametro di circa venti metri, e sembrava estendersi all'infinito in entrambe le direzioni.

— Central Park — annunziò Cirocco. E in effetti si vedevano organismi similalberi, esangui e scheletrici, promanare dalle pareti. Non gradivano la luce, e se ne ritraevano. Cirocco s'incamminò senza esitazioni. — Andiamo. È solo un miglio, più o meno.

Bizzarra, quella passeggiata di un miglio. Si trovavano sulla sommità di una sacca, e l'imbracatura a rete s'intrecciava molto più spessa, quasi solida, sotto i loro piedi. E procedevano a balzi. Pareva d'incedere sopra un mare di cuscini.

Dopo un bel pezzo il corridoio si allargò, illuminandosi. Giunsero in un grande ambiente informe. Il pavimento declinava a mutarsi in una membrana trasparente, interamente percorsa da una trama incrociata di cavi sottilissimi e prominente per via della pressione interna. Come in qualunque altra zona dell'aerostato, anche lì faceva fresco.

— Salone B-24 — disse Cirocco, e si mise a scrutare le cataste di tessuti colorati che s'ammucchiavano in giro. Nova avanzò fin quasi alla finestra gigantesca. Capiva di trovarsi nel muso della creatura, in posizione leggermente decentrata verso il lato inferiore. Di lì si godeva la visuale che avrebbe avuto l'addetto allo sgancio in un antico bombardiere, ed era qualcosa di grandioso. Lontano, laggiù, la terra sfilava in un lento e maestoso fluire che durava da sessantamila anni.

Urtò con lo stivale qualcosa di solido in una pila di stoffe. Abbassò lo sguardo, e rimase senza fiato. Era un piede umano: scuro, avvizzito, attaccato ad una gamba macilenta. Le dita si agitavano. Poi rialzò gli occhi e vide il volto di un uomo vecchio, molto vecchio, completamente calvo, marrone come mogano, robusti denti bianchi in un sorriso compiaciuto.

— Mi chiamo Calvin, cara — disse il vecchio. — E tu sei la cosa più graziosa che abbia visto da un bel pezzo in qua.


Di quel Calvin non le riuscì mai di vedere granché. Se ne andava in giro trafficando di continuo, ma era sempre talmente infagottato in matasse di tessuto che soltanto il capo gli rimaneva scoperto.

— Problemi veri ce n'è solo uno, con questa vita — dichiarò a un certo punto. — L'unico problema vero è starsene un po' al calduccio. Il vecchio Finefischio, a lui gli piace andare dove c'è freddo. Allora, Rocky, che fa di bello Agosto?

Cirocco gli spiegò che Agosto era morta ormai da tanto, tanto tempo. Nova lo osservò, e non avrebbe saputo dire se il vecchio avesse capito davvero. Lui andò avanti a chiedere di altri, anch'essi tutti morti. E ogni volta scoteva il capo con aria mesta. Solo in una circostanza Cirocco parve turbata, e fu quando lui le chiese di Gaby.

— Lei… lei sta bene, Calvin. Sta veramente bene.

— Questa sì ch'è una bella notizia.

Il che sonava proprio una stupidaggine, in base a quello che Nova sapeva sul conto di Gaby.

Infine si rese conto che Calvin era vecchio quasi quanto Cirocco. E i suoi anni li dimostrava tutti. Ciononostante sembrava abbastanza sveglio di mente, e in discreta forma fisica, e sereno. L'unico suo vero sintomo di senilità, in fondo, era quella manìa di chiedere notizie su persone defunte.

Incespicando attraverso il gelido antro andò a rovistare dentro certi canestri di paglia, e ne tirò fuori scodelle di legno, coltelli d'osso e un tagliere. Cirocco sedette accanto a Nova e le parlò sottovoce.

— Non devi credere che sia pazzo. Solo che non afferra il concetto della morte, e credo che non abbia alcun senso del tempo. Sono novantacinque anni che vive quassù, ed è l'uomo più felice che abbia mai conosciuto.

— Ecco qua! — chiocciò Calvin soddisfatto, e recando un grande recipiente di legno tornò al ripiano vicino a cui Cirocco e Nova sedevano a gambe incrociate, e sul quale egli aveva già imbandito ciotole d'insalata ed altre verdure crude, nonché una smisurata caraffa d'una bevanda ch'egli chiamava idromele.

— Proprio tutto pronto — disse, poi diede un'occhiata a Nova. — Meglio che ti copri un poco, signorina, calda stai più comoda.

Nova in effetti era tutta infreddolita, ma guatava con diffidenza quei mucchi di cenci. Da una delle cataste aveva veduto sgattaiolare fuori alcune di quelle creaturine cieche e nude simili a topi. Però la stoffa non puzzava di sudiciume.

— È l'aerostato che emana questi affari — le spiegò Cirocco, prendendo ad avvilupparla in una cascata di pieghe policrome. — Col freddo si sta bene vestiti pesanti. Vai tranquilla, è roba pulita. Tutto è pulito, qui dentro.

— Sempre pulito sì, in un aerostato — ridacchiò Calvin. Servendosi di un mestolo di legno era intento a travasare dentro le ciotole una specie di minestrone denso e ricco. — Assaggia questo… Nova, hai detto che ti chiami? Bel nome, mi piace. Nuovo e radioso, e anche tu guarda lì che splendore che sei. Ti presento il mio gazpacho ricetta speciale. Fatto solo coi migliori ingredienti originali tuttogea. — Accompagnando il gesto con un'altra risatina porse a Nova la scodella. — Tempi andati, scendevo giù 'na volt'all'anno per un pasto caldo. Poi m'accorsi ch'era un pezzo che non lo facevo, e non m'era mancato per niente.

— A me mi sa che invece scendevi due volte, vecchio scemo — lo contraddisse Cirocco. Lui ci si fece una bella risata.

— Oh, via, Rocky. Non è possibile, che dici? — Parve restare un attimo meditabondo, incominciò a contare sulle dita, ma s'infrenò quasi subito. Nova si sforzava di non ridere, temendo che si offendesse. Era proprio un tipo simpatico, anche se un po' stordito.

— Ora tu non te ne stare troppo a preoccupare, mia cara — le disse. — Trattalo col dovuto rispetto, comunque. A me non me ne importa di scaldarmi il mangiare, però non mi dispiace nemmeno di averlo focoso, non so se mi spiego.

Nova, purtroppo, non capì. Annusò, l'odore le piacque, e così infornò una bella cucchiaiata. Era a base di pomodoro e sedano, ed era gustoso e piccante e freddo. Ne mandò giù un'altra sorsata… e fu allora che accusò l'effetto della prima. Inghiottì, boccheggiò, mentre sentiva quell'intruglio spingerle ondate incandescenti per le cavità nasali e arderle furibondo dietro i bulbi oculari. Allungò precipitosamente una mano ad afferrare il bicchiere ricolmo d'idromele, e ingurgitò fino all'ultima goccia. Andava giù ch'era una meraviglia. Sapeva di miele.

Anche il gazpacho era buono, purché sorbito con cautela. Se ne stettero lì assieme seduti a mangiare, e fu un pasto eccellente, seppure un poco rumoroso. Tutti quei vegetali crudi crocchiavano gagliardamente sotto i denti, e loro tre parevano altrettanti conigli alla greppia. Nova sospettava che a seguitare con quella dieta dopo un poco avrebbe sentito la mancanza della carne, però bisognava riconoscere che Calvin ci sapeva fare davvero, con la sua cucina vegetariana nemica dei fornelli.

E poi quell'idromele era favoloso. Non solo spegneva gli ardori dei cibi più piccanti, ma le mandava per tutto il corpo un senso di calore, scioglieva la tensione delle membra e del cervello, e ammorbidiva piacevolmente ai suoi occhi i contorni delle cose…


— Nova, è ora di alzarsi.

— Che… — Balzò subito a sedere. Le faceva male la testa, e stentò alquanto nel mettere a fuoco Cirocco. — Che ore sono?

— Qualche ora dopo — le sorrise Cirocco. — Mia cara, ho l'impressione che tu ti sia sbronzata un pochettino.

— Davvero? — Stava quasi per confessare a Cirocco che era la prima volta, ma rifletté che avrebbe fatto la figura della poppante, e quindi sostituì l'ammissione con una risata. Un attimo dopo temette di dover dare di stomaco, poi il malessere passò.

— Be', e adesso che facciamo?

— È semplice — rispose Cirocco. — Prima aspettiamo che ti passi un po' la sbornia, poi torniamo a Tuxedo Junction. Sono pronta a partire.

SETTE

I titanidi avevano sgobbato otto riv a preparare il banchetto. C'era un intero sorrisone arrosto, e anguille e pesci cotti, gelatinizzati, rinfilati nelle loro pelli e ingegnosamente inglobati in blocchi di appetitosa gelatina trasparente. Il comparto frutta era degnamente rappresentato da una torreggiante struttura in foggia d'albero di Natale, traboccante di cento diverse specie di bacche, meloni, pomi e agrumi, rivestito con verdi foglie di zucchero filato e internamente illuminato da una miriade di fotosfere. C'erano dieci tipi di pàté, sette qualità di pane, tre zuppiere di minestra, malferme pagode di cotolette di sorrisone, artistici pasticcini dai gusci sottili come bolle di sapone… roba da capogiro. Cirocco non vedeva una simile profusione dall'ultimo Festival Rosso, vent'anni prima.

C'era abbastanza cibo per un centinaio di umani o venti titanidi. Con solo nove persone per far piazza pulita di tutto.

Cirocco spizzicò un po' qua e un po' là, e si sedette, masticando lentamente, ad osservare il resto della compagnia. Peccato, davvero, che non avesse un poco più di fame. Era tutto molto buono.

Sapeva di essere la più fortunata delle donne. Molto, molto tempo prima, quando ancora avrebbe potuto preoccuparsi del proprio peso, non aveva mai avuto bisogno di farlo. Poteva mangiare quanto le pareva senza aumentare di un solo grammo. Da quand'era divenuta Maga, la sua massa aveva oscillato da un minimo di quaranta chili — dopo un digiuno di sessanta giorni — a un massimo di settantacinque. Si trattava, in gran parte, di una questione di scelte deliberate. Il suo organismo non era legato all'osservanza di rigidi parametri metabolici.

Attualmente si trovava all'estremità superiore della gamma. Tre visite alla fontana della giovinezza in meno di un chiloriv costituivano un'assiduità senza precedenti. Le si era formato su tutto il corpo uno strato uniforme di grasso, e le sue mammelle, le natiche, le cosce, s'erano fatte voluttuose. Sorrise dentro di sé, tornando con la memoria alla quindicenne Cirocco Jones che alta e allampanata, piatta come un uscio, avrebbe ucciso, pur di sfoggiare seni come quelli. A trent'anni li aveva considerati un fastidio non grave e peraltro necessario. Sarebbero tornati utili, negli estenuanti giorni a venire. E, alla fine, nulla sarebbe rimasto di quel loro incontenibile rigoglio.

Nel frattempo, Conal si stava comportando in modo ancora più spavaldo del solito.

Sedeva alla sinistra di Cirocco, e si godeva la festa. Al suo fianco c'era Robin. Non la smettevano di porgersi reciprocamente bocconcini ora di questo ora di quel cibo. Dato che nessuno poteva abbuffarsi d'ogni cosa, appariva naturale suggerirsi a vicenda qualche particolare leccornia, ma Cirocco sospettava che fra quei due ci fosse ben altro. Di certo se ne sarebbero lo stesso stati lì a ridacchiare scioccamente come bambocci anche se, invece di quel bendidìo, avessero avuto da offrirsi stantìe razioni militari.

Dovrei sentirmi sbalordita, no?, si disse Cirocco.

Le venne da pensare che quella storia sarebbe andata a finir male, che probabilmente non sarebbe nemmeno dovuta incominciare… Ma poi si rimproverò. Quello era un atteggiamento da pusillanimi. A prendere la vita in quel modo, i rimpianti per tutte le cose non fatte e lasciate intentate avrebbero inanellato un interminabile rosario da snocciolare tristemente negli anni della vecchiaia. Rese quindi onore in silenzio al loro coraggio e gli augurò ogni bene.

Quei due scemarelli pensavano che nessuno si fosse accorto della loro relazione clandestina. In Iperione c'erano probabilmente dei titanidi che la ignoravano, ma non certo qui in Dione. Cirocco vedeva Valiha, Rocky e Serpentone — un trio di cui nessuno degli altri umani era ancora a conoscenza — osservarli con affettuosa comprensione. Cornamusa sapeva, ma come sempre non palesava in alcun modo la sua opinione. Virginale sapeva, ma nonostante la sua crescente amicizia con Nova non ne avrebbe mai parlato, soprattutto perché la giovane titanide si rendeva ben conto della modestia delle proprie nozioni circa le costumanze umane, e non si sarebbe di sicuro esposta al rischio di recare pur involontariamente un dolore alla ragazza.

Dei nove componenti il gruppo ne rimaneva uno. Nova, appunto. Cirocco riteneva che stesse facendo notevoli progressi, ma era ancora troppo impregnata di giovanile egocentrismo per accorgersi di qualcosa che sua madre si preoccupava di nasconderle. Continuava quindi a essere beatamente ignara del peccato di Robin.

Perché di peccato si trattava. Cirocco si domandava se Robin se ne fosse già resa conto, e come avrebbe reagito allorché il peso della colpa le fosse piombato addosso. Si augurava di poterle prestare un po' d'aiuto. Nutriva un sentimento di tenero affetto verso quella piccola strega.

Volse uno sguardo dattorno alla tavola ad abbracciare la sua eterogenea brigata. Voleva bene a tutti. Per un attimo si sentì prossima alle lacrime, ma riuscì a ringoiarle. Non era quello il momento. Si costrinse a sorridere, ed accettò con un'osservazione garbata il pasticcino che le veniva offerto. Serpentone arrossì di piacere. Ma Cirocco si accorse che Cornamusa la teneva d'occhio.

E fu per lei una sorpresa allorché al termine dello splendido convito, mentre i commensali ruttavano discretamente e si davano pacche soddisfatte sulla trippa, Cornamusa si schiarì la gola e attese che tutti facessero silenzio.

— Capitano — esordì in inglese. — Siamo rimasti assai soddisfatti, quando tu non hai avanzato obiezioni all'approntamento di quest'incontro conviviale. Come tu ben sai. è nostra consuetudine organizzare tal genere di festini soltanto in occasioni di notevole importanza per tutti noi.

— Siete rimasti soddisfatti, Cornamusa? — domandò Cirocco. Si rendeva conto di non avere affatto compreso qual fosse il vero significato dell'intervento di Cornamusa, e ciò la turbava. Dando un'occhiata agli altri titanidi, li vide intenti ad osservare gravemente i loro piatti vuoti. Virginale gettava rapidi sguardi verso il fondo della tavola, dove un posto e un coperto venivano approntati e attendevano, inutilizzati, ad ogni pasto, dal giorno in cui Chris era sceso a Pandemonio. — A nome di chi parli, amico mio?

— Parlo a nome dei titanidi qui presenti, e per conto di molte centinaia che non son potuti intervenire. Sono stato delegato a formulare questa… — Cirocco sentì aumentare la propria perplessità, mentre Cornamusa pareva annaspare in cerca dell'espressione giusta. Poi comprese che il motivo di quell'esitazione non era un semplice intoppo terminologico.

— È "lagnanza", la parola che stai cercando?

— Essa si colloca nelle sue immediate vicinanze — confermò Cornamusa, scotendo la testa con aria dispiaciuta. La guardò, supplichevole. E per un attimo quell'essere le apparve totalmente estraneo, per un attimo fu come se in lui s'incarnasse il primo titanide che ella avesse mai veduto… e non solo perché, di quel titanide, Cornamusa era in effetti diretto discendente. Avrebbe potuto essere scambiato per una donna dall'aspetto assolutamente sbalorditivo: la gran massa di chiome nerolucenti, i larghi zigomi prominenti, le lunghe ciglia, l'ampia bocca, le guance paffute e vellutate come quelle di un bambino…

Abbandonando la sua fantasticheria Cirocco tornò al presente, a quella realtà che sembrava volerla eludere.

— Continua, dunque — gli disse.

— È semplice. Vogliamo sapere in qual modo ti vai adoperando per ottenere il ritorno del fanciullo.

— E voi, cos'è che state facendo?

— Sono state compiute indagini. Sono state saggiate le difese di Pandemonio. Una ricognizione aerea tramite aerostato ci ha fornito la mappa della fortezza. A Titantown sono stati studiati alcuni piani d'intervento.

— Che genere di piani?

— Un attacco in grande stile. Un assedio. Per ciascuno di essi esistono svariate possibilità.

— Avete già qualcosa in fase di realizzazione?

— No, Capitano. — Cornamusa sospirò, fissando Cirocco dritto in volto. — Il bimbo deve essere recuperato. Perdonami, se puoi, ma debbo dirtelo. Tu rappresenti il nostro passato. Lui, il nostro futuro. Non possiamo consentire a Gea di tenerlo per sé.

Senza infrangere il silenzio dilagante, Cirocco li fissò a uno a uno. Nessuno dei titanidi ardì ricambiare quello sguardo. Quando i suoi occhi incontrarono quelli di Robin, Conal e Nova, essi li distolsero immediatamente.

— Conal — disse infine — e tu ce l'hai un progetto?

— Avevo appunto intenzione di discuterne assieme a te — fece lui con aria di scusa. — Pensavo a un'incursione, solamente noi due, entrare e uscire con azione fulminea. Non credo che un attacco frontale funzionerebbe.

Cirocco volse di nuovo intorno lo sguardo.

— Ci sono altre proposte? Vediamo di metterle tutte sul tappeto, in modo da poterle confrontare.

— Attirala fuori — disse Nova.

— Cioè?

— Usa te stessa come esca. Inducila a uscire per combattere con te. Tendile una trappola. Una grande buca, o… non so, qualcosa del genere. Ora non è che abbia pensato ai particolari. Insomma, una specie di agguato, diciamo.

Fissò Nova con accresciuto rispetto. Era una trovata infame, ovviamente, ma in qualche modo le appariva migliore delle altre.

— Finora siamo a quota quattro idee — riassunse Cirocco. — C'è n'è ancora?

I titanidi non ne avevano. Comunque Cirocco era sinceramente sbalordita che fra tante possibili scelte fossero riusciti ad individuarne un paio. I titanidi possedevano molti talenti, ma erano negati per la tattica. Il loro cervello pareva incapace di afferrarne i princìpi basilari.

Si alzò.

— Va bene. Cornamusa, non c'è bisogno che ti scusi. È colpa mia, non avrei dovuto tenervi tutti all'oscuro di quel che andavo preparando. La vostra è una reazione comprensibile, tu e tutti gli altri titanidi siete ansiosi di recuperare il bambino, e mi vedete con le mani in mano. Sono quasi sempre via, parlo pochissimo… Ma avete ragione, è Adam il vostro futuro, e sono io la prima ad essergliene grata e a preoccuparmi per lui. Durante l'ultimo chiloriv non ho praticamente pensato ad altro. Contavo di esporvi i miei progetti stasera, però mi avete preceduto. Il primo punto è. Gea. Nessuno di voi la capisce. Dunque, fate conto di avermi proposto quattro sceneggiature. Quattro film. — Alzò le dita a enumerarli. — Cornamusa, hai parlato di attacco frontale. Definiamolo un film sulla Seconda Guerra Mondiale. Poi c'è l'assedio. Potrebb'essere un film epico ambientato al tempo degli antichi romani. Conal, la tua idea è quella di un film di cappa e spada. L'idea di Nova, invece, ricorda un western. Io ho pensato anche ad altre possibilità. C'è il film di mostri, che Gea gradirebbe particolarmente, in cui noi cerchiamo di bruciarla o di arrostirla con l'elettricità. C'è il film tipo evasione dal carcere, in cui noi veniamo imprigionati e organizziamo la fuga. C'è l'attacco aereo, che probabilmente rientrerebbe in un film sul Vietnam. Dovete tenere ben presente che Gea ha già previsto queste e numerose altre possibilità. Il mio piano prenderà spunto da molte di esse, ma per sconfiggere Gea dobbiamo assolutamente muoverci fuori dall'ambito dei film di genere.

Li guardò in volto uno per uno, e non fu sorpresa di vederli tutti in preda allo stupore. Probabilmente dovevano crederla uscita di senno, con tutti quei discorsi sui film.

— Non sono impazzita — disse in tono pacato. — Sto solo cercando di pensare nel modo in cui pensa Gea. Lei ha una vera e propria manìa per i film che vanno più o meno dal 1930 al 1990. Ha dato a se stessa l'aspetto di una famosa attrice morta nel 1962. I film li vuole vivere, nutre una fanatica ammirazione per i divi del cinema, e la maggior parte di quelli che ha scelto a protagonisti del suo grandioso spettacolo stanno seduti adesso intorno a questo tavolo. Per avere qui alcuni di voi non si è fermata di fronte a nessun ostacolo. E qualcuno dei presenti si può dire che lei l'abbia costruito, in un certo senso, proprio come gli onnipotenti produttori delle antiche case cinematografiche confezionavano immagini da appiccicare addosso ai loro divi. Per interpretare la parte principale ha scelto me. Ma questa è una grande produzione, con molti personaggi importanti e uno stanziamento di miliardi. Anche Gea può commettere errori. La morte di Gaby, ad esempio. Gaby avrebbe dovuto esser viva, a questo punto, nel ruolo di mia fedele assistente. Anche con Chris ha sbagliato. Doveva fare da primattore al mio fianco. Ci sarebbe dovuta essere una storia d'amore, tra me e Chris, ma si è messa di mezzo Valiha. Il loro amore non era stato previsto. Gea però è un regista accorto. Tiene sempre pronto di riserva un intreccio secondario, dispone sempre di sostituti per ovviare immediatamente alla defezione di qualche attore. Il suo reparto sceneggiatura può fornire in ogni momento qualche variante, suggerire qualche sistema per rimescolare le carte e far andare avanti la trama. Un buon esempio di questa capacità sei tu, Conal.

Conal, che sino a quel momento aveva ascoltato con aria affascinata, trasalì colto di sorpresa.

— Sei un discendente di Eugene Springfield, uno dei personaggi originari, quello che Gea scelse per fare la parte del cattivo. Nel prosieguo della vicenda, ciò avrà senza dubbio la sua importanza. Ho la quasi assoluta convinzione, e Spione me ne dà conferma, che tu fosti manovrato per indurti a venire qui.

— È impossibile — obiettò l'interessato. — Io venni qui per ucciderti, e… — S'interruppe, e arrossì. Come Cirocco ben sapeva, capitava assai di rado che egli accennasse al loro primo incontro.

— Vedi, Conal, a te parve una scelta volontaria — riprese lei in tono gentile. — E lo fu. Non si può certo dire che Gea fosse direttamente penetrata nel tuo cervello per condizionarti, quand'eri laggiù in Canada. Però possedeva la casa editrice responsabile di quel ridicolo fumetto che ti portasti dietro. Poté quindi travisare la vicenda, assicurarsi che tu venissi a sapere del tuo antenato, e probabilmente anche spingerti verso il culturismo. Il resto andò da sé. Quanto a te, Robin, sai già qualcosa del modo in cui sei stata manipolata.

— Lo puoi ben dire — confermò Robin in tono amaro.

— Vorrei non dovertelo dire, accidenti, ma… c'è di peggio, oltre quel che già sai, ed è qualcosa che dispiacerà a tutti. Lei era già entrata nella tua vita ancor prima che tu nascessi. Il tuo popolo non ha dimenticato l'Urlatrice, vero?

Robin parve perplessa, ma annuì.

— Fu lei a condurci nello spazio. Era una grande meteorite. La Congrega risiedeva in Australia, a quel tempo. Arrivò l'Urlatrice, e oltre il cinquanta per cento della comunità venne sterminato. Ma era caduta su territorio nostro, ed era piena di oro e uranio facilmente estraibili. Ci rese abbastanza ricche da consentirci di trasferire la Congrega in orbita…

I suoi occhi si spalancarono, ricolmi di orrore.

— L'Urlatrice colpì l'Australia nel 2036 — intervenne Cirocco. — Io ero qui già da undici anni. Fu Gea a mandarla, non c'è dubbio.

— È pazzesco — commentò Nova.

— Certo che lo è, ma non nel senso che intendi tu, se lo ritieni un fatto impossibile.

— Ma Gea era sotto continua sorveglianza, e…

— …e lanciava uova nello spazio ininterrottamente, al ritmo di uno ogni dieci riv. L'astronave di vigilanza ne seguiva la rotta entro la portata dei propri strumenti, calcolando se potessero andare a colpire la Terra. Nessuna di esse venne mai considerata una minaccia, e comunque ce n'erano troppe per riuscire a controllarle tutte.

— Davvero un tiro straordinariamente preciso — osservò Cornamusa in tono dubbioso.

— Gea fa tutto con grande accuratezza. Già una volta, in precedenza, aveva colpito la Terra… allo scopo di prendere la mira, per così dire. Accadde nel 1908, e toccò alla Siberia. Quello caduto in Australia era partito nove anni prima, e parve giungere da molto lontano, come fosse un asteroide di lungo periodo. Durante la fase finale di avvicinamento venne manovrato direttamente. Ma ogni traccia di materia organica andò distrutta durante l'attraversamento dell'atmosfera e nell'impatto al suolo, così che non rimase alcuna prova evidente della sua provenienza geana.

Robin stava scuotendo la testa, non in segno di negazione, bensì d'incredulità.

— Ma perché l'avrebbe fatto?

Cirocco si lasciò sfuggire una smorfia.

— Perché è una domanda difficile, trattandosi di Gea. Quando scrissi il mio libro su Gea, uno dei recensori criticò aspramente l'analisi che avevo dedicato a lei. Costui non riusciva ad accettare il fatto che un essere così potente dedicasse il suo tempo a cose tanto insignificanti. Se una ragione c'è, consiste nel divertimento che ne ricava. Probabilmente aveva sentito parlare della vostra comunità. E pensò che sarebbe stato un gran bello scherzo farvi cascare sul capo una ricchezza immensa a venticinquemila miglia all'ora. Ma il suo interesse per la Congrega non finì lì. Tramite una mezza dozzina di società fittizie, lei possedeva, sulla Terra, il centro dove la Congrega acquistava lo sperma. Quindi non ebbe difficoltà a generarvi piccole e robuste… e provvide anche ad infilare qua e là qualche gene difettoso, in modo che presto o tardi una di voi si sarebbe fatta viva qui da lei in cerca di una cura. Di te era molto soddisfatta, Robin. Le hai fatto fare un sacco di risate. Niente, a confronto dello spasso da scompisciarsi che si è procurata occupandosi di me, ma comunque un'esperienza abbastanza divertente.

Robin si nascose il viso fra le mani. Nova le toccò una spalla, ma sua madre scosse la testa e si rimise a sedere composta. I suoi occhi scintillavano di collera.

— Nova — continuò Cirocco, — tu l'hai già capito in che modo Gea si è divertita con te, e con Adam. Tu e Robin avete entrambe dovuto subire il grande capovolgimento, secondo il collaudato copione "dalle stelle alle stalle".

Volse lo sguardo sui titanidi.

— Lo sapete tutti quanti come siete stati usati. Ciascuno di voi esiste in séguito ad una mia precisa scelta. I vostri genitori dovettero venire da me e pregarmi di dar loro qualcosa che avrebbe dovuto spettargli di diritto. Voi, e tutto il vostro popolo, siete stati talmente oppressi che vi ci è voluto un chiloriv per trovare il coraggio di rivolgermi un blando rimprovero… e io, d'altra parte, m'ero così abituata alla vostra acquiescenza che la novità mi ha sconvolto. Sono convinta che la vostra intera razza stia subendo una soffocante repressione. Credo che voi possiate essere di gran lunga migliori degli umani praticamente sotto ogni aspetto, ma se non riusciremo a sconfiggere Gea, il vostro momento non verrà mai.

Li fissò di nuovo in volto a uno a uno, senza fretta. Li vide tutti addolorati, furibondi… e risoluti.

— Dà l'impressione di essere… infallibile — osservò Virginale. — Insomma, si era proposta di portare qui Chris e Conal e Robin, e infatti eccoli qui tutti e tre. Aveva pianificato la nascita di Nova e quella di Adam. Tutto ciò che si era prefissa di fare l'ha fatto.

Cirocco scosse il capo.

— Può sembrare, ma non è. Vi ho già accennato alcune cose che non è riuscita a realizzare. Potete star sicuri che anche altri suoi progetti sono andati a finir male, e se non ne sappiamo nulla è solo perché nessuno di essi è mai venuto a galla. Per un centinaio d'anni Gea ha continuato a diffondere su tutta la Terra una… be', chiamatela una richiesta d'ingaggio. Ha organizzato ambasciate, ha agito senza mezzi termini — ad esempio colpendo il pianeta con un asteroide — o semplicemente in modo spregevole, ad esempio assoldando uno scrittore per trasformare Gene in un eroe sulle pagine del fumetto di Conal. Alcune delle sue iniziative non hanno avuto esito, e nessuno ne è stato attirato fin quassù. Ma ormai Gea l'ha messa insieme, la sua compagnia di attori. Non è da escludere che possiamo incontrarne altri, ma io personalmente ne dubito. So che vi sembrerà spaventoso, ma non c'è modo di sottrarsi a questo ruolo. Tutti gli altri abitanti della Grande Ruota sono semplici comparse o avventizi, nella visione di Gea. Quasi tutti i personaggi principali sono riuniti in questa stanza. Noi nove. Poi ci sono Chris e Adam. Finefischio e Calvin. Spione. E… due, forse altri tre di cui vi parlerò più avanti.

— Spione? — domandò Robin con aria disgustata.

— Sì. La sua è una parte di rilievo. Schieràti contro di noi abbiamo Gea e tutta la potenza di Pandemonio. Anche là ci sono attori importanti. Uno dovrebb'essere Luther, e poi Kali. Ignoro l'identità degli altri. Quel che è certo, è che alla fine arriveremo alla resa dei conti… e le cineprese entreranno in azione.

— Cosa vuoi che facciamo, Capitano? — domandò Conal.

— Innanzitutto… — tese entrambe le braccia ad afferrare la mano di Conal da una parte, quella di Valiha dall'altra. — Voglio vincolare le nostre vite, il nostro destino, il nostro sacro onore. Il mio scopo è il ritorno di Adam, e la morte di Gea.

— Uno per tutti, tutti per uno — aggiunse Conal, poi assunse un'aria imbarazzata. Cirocco gli strinse forte la mano, e lo vide a sua volta prendere quella di Robin.

— Qual è la posizione di Chris nei confronti della nostra promessa? — domandò Valiha. — Dobbiamo considerare anche lui vincolato da questo impegno?

— Chris partecipa a pieno diritto alla nostra assunzione di responsabilità. Egli rischia la vita proprio come noi. Lo salveremo, se ci sarà possibile, ma se dovrà morire, morirà, esattamente come il resto del nostro gruppo.

E si presero tutti per mano formando una catena ininterrotta, con l'eccezione di Nova e Serpentone che, da una parte, non avevano altro che il posto vuoto di Chris. Cirocco li osservò uno alla volta, di ciascuno soppesando capacità e debolezze. Nessuno di loro distolse lo sguardo. Era un buon gruppo. Il compito che si assumevano era quasi impossibile, ma non esisteva nessun altro che lei avrebbe preferito tenere al suo fianco.

— Debbo ancora dirvi un paio di cose, poi potremo dedicarci a concertare il nostro piano. Ho visto Chris, e gli ho parlato brevemente. È incolume, e così pure Adam.

Attese che i mormorii si fossero acquietati.

— Ora non posso aggiungere altro. In séguito, forse. La seconda cosa che ho da dirvi, è già un po' che la rimando. In effetti non c'entra molto con quello che dobbiamo fare, ma è bene che ne siate lo stesso a conoscenza. Ho la certezza quasi assoluta che sia stata Gea a scatenare la Guerra. E anche se non è stata lei, ha però contribuito in modo determinante a far sì che il conflitto si trascinasse avanti per sette anni.

Cadde il silenzio che si era aspettato. I presenti erano sconvolti, naturalmente, ma, osservando i loro visi, Cirocco ottenne conferma di aver correttamente valutato la situazione: parecchia gente, già da tempo, si era avvicinata a intuire la verità. Cornamusa stava annuendo tristemente. Robin era immobile, scura in volto. Per un attimo Cirocco pensò che Virginale fosse sul punto di cedere alla nausea.

— Quattordici miliardi di persone — disse Virginale.

— Qualcosa del genere.

— Massacrate — disse Serpentone.

— Sì. In un modo o nell'altro. — Cirocco aggrottò le sopracciglia. — Ma per quanto grande sia l'odio che nutro nei suoi confronti, non me la sento di addossarle tutta la colpa. La razza umana non ha mai imparato a convivere assieme alla Bomba. Prima o poi doveva accadere.

— È stata Gea a sganciare la prima bomba? — chiese Conal. — Quella sull'Australia?

— No. Non avrebbe osato. Ma secondo il mio… informatore, è probabile che abbia organizzato l'incidente. Una volta, tanto tempo fa, mi capitò di assistere al frenetico pasto di un branco di squali. Ecco che cos'ha fatto Gea. Ha visto quell'immensa vasca strapiena di squali affamati, a milioni. Allora ha gettato un po' di sangue nell'acqua. E così gli squali si sono sbranati l'un l'altro. Erano già pronti a farlo. Gea si è limitata a provocarli. Più tardi, dopo che l'ultima astronave di sorveglianza in orbita là fuori attorno a Saturno venne richiamata, ogni volta che la Guerra dava segno di star diminuendo d'intensità Gea lasciava cadere una delle sue bombe nel luogo adatto, in modo da rinfocolare le ostilità. Quindi lei, personalmente, di terrestri ne ha sterminati solo qualche centinaio di milioni…

— Ma ora non stai parlando delle uova — intervenne Robin. — Vere bombe atomiche, dici? Non sapevo che Gea le avesse.

— E perché mai non avrebbe dovuto averle? Con un secolo di tempo per procurarsele, e chissà quanta gente disposta a vendergliele… Ma non ha avuto bisogno di comprarle. Può farsele da sé. Per molto tempo Gea è stata vulnerabile. Una bomba a fusione di grande potenza potrebbe distruggere il suo mondo. Era piuttosto improbabile che lei se ne restasse ad aspettare con le mani in mano. E aveva tutto l'interesse che scoppiasse una guerra. Ormai i contendenti sono arrivati a un punto tale che non hanno più alcuna speranza di riuscire a colpirla… e non è che non ci abbiano già provato. Almeno un paio di dozzine di missili sono stati lanciati in questa direzione, ma nessuno di essi è mai arrivato a superare l'orbita di Marte. Gea non ha alcuna difficoltà a manovrarseli come vuole.

Ciò detto, tacque, si appoggiò comoda allo schienale della sedia, e rimase in attesa delle domande. Per un bel pezzo nessuno fiatò. Alla fine Nova rialzò la testa.

— Cirocco, ma tu come fai a sapere tutte queste cose?

— Ottima domanda, bambina. — Cirocco indugiò a soffregarsi lentamente il labbro superiore, e scrutò Nova attraverso le palpebre socchiuse finché la ragazza, a disagio, fu costretta ad abbassare lo sguardo.

— Ancora non ve lo posso dire. Bisognerà che mi crediate sulla parola.

— Oh, ma io non intendevo mica…

— Hai tutto il diritto di meravigliarti. Ma per ora non posso far altro che chiedervi di ricordare il nostro impegno solenne, e di avere fiducia in me. Prometto che vi rivelerò ogni cosa, prima di esigere che mettiate a repentaglio la vostra vita.

E questo vale anche per me, Gaby, pensò. Il suo timore più grande era che, alla fine, Gaby potesse apparire solamente a lei.

— Puoi illustrarci i tuoi progetti? — domandò Cornamusa.

— Sì, questo posso farlo. E vi avverto che sarà una faccenda complicata e noiosa. Suggerisco dunque di riempire i bicchieri, di mettersi comodi, e di portare in tavola formaggio e crackers, caso mai a qualcuno fosse avanzato un posticino libero. Ci vorrà un bel po', e sarà la cosa più assurda e pazzesca che abbiate mai sentito in vita vostra.

In effetti andò per le lunghe. In capo a cinque riv stavano ancora discutendo questo o quel punto del grande schema d'azione, ma nelle sue linee essenziali il piano era stato compreso e accettato da tutti.

A quell'ora Nova dormiva abbandonata nella sua sedia, e Cirocco la invidiava. Personalmente, non prevedeva di poter dormire per almeno un chiloriv.

OTTO

Cirocco si alzò da tavola e salì la scalinata principale della grande casa sino al terzo piano, che di rado veniva utilizzato. Lassù c'era una stanza che molto tempo prima Chris aveva riservato a lei. Chissà in base a quale impulso aveva deciso di definirla "la Stanza di Cirocco". Faceva strane cose, a quell'epoca, come costruire in memoria di Robin il tempietto rivestito di rame.

La stanza aveva un nudo pavimento in legno e pareti bianche e una finestra munita di un avvolgibile scuro. Il solo mobilio presente consisteva in un disadorno letto in ferro dipinto di bianco, con un bel materasso alto e rigonfio, imbottito di piume. Era sempre rifatto accuratamente, con candide lenzuola di bucato ed un guanciale, e risultava talmente sollevato da terra che si vedeva la rete sotto il materasso, e più giù il pavimento. Unica nota di colore in tutta la camera, la maniglia in ottone della porta.

Era una stanza dove nulla poteva nascondersi, o venire nascosto. Un luogo straordinariamente adatto per starsene quieti a pensare. Con l'avvolgibile chiuso, non c'erano distrazioni.

La luce che entrava dalla finestra ricordava a Cirocco l'atmosfera del primo mattino. Le riportava alla memoria i corsi notturni all'università, dopo i quali tornava al suo alloggio in una luce come quella. Con la medesima piacevole stanchezza, con lo stesso fermento d'idee che continuavano ad agitarsi avanti e indietro vorticandole nella mente.

Ma non era mattino, ovviamente. Era un eterno pomeriggio.

Cirocco c'era abituata.

Le mancavano certe piccole cose, però. La coglieva, a volte, un desiderio struggente di riveder le stelle. Una stella cadente, magari, per esprimere un desiderio.

Si mise a sedere sul bordo del letto. Cos'è che desideri, Cirocco? Niente stelle cadenti, ma perché non lo esprimi lo stesso, il tuo desiderio, ora che nessuno ti guarda?

Ecco, sarebbe bello poter avere qualcuno col quale condividere la vita…

Si sentì un'ingrata non appena formulato quel pensiero. Aveva i suoi amici, i migliori del mondo. Era sempre stata fortunata, con le amicizie. Non era sola, dunque, a portare quel fardello.

Esisteva però un particolare genere di compagnia che a lei era mancato. Molte volte aveva pensato che fosse arrivata finalmente l'occasione giusta, si era illusa di avere incontrato l'uomo adatto… Ma cos'è questa cosa che chiamano amore? Forse lei non lo sapeva ancora. Era vissuta abbastanza a lungo da essere rimasta a corto di dita per contare tutti i suoi quasi-amori. Il primo, quando aveva quattordici anni. E poi quel ragazzo all'università… come si chiamava?

Riflettendoci si domandò se non fosse stata quella, la sua ultima vera occasione. In séguito, nel ruolo di Capitano, nella posizione di candidata al comando, non c'era più stato spazio per l'amore. Una quantità di amanti, sì, nel senso fisico del termine, ma innamorarsi sul serio avrebbe ostacolato la sua carriera. Poi, una volta assunto il ruolo di Maga… c'era sempre stato qualcosa che aveva continuato a mettersi di mezzo.

Era stata persino disposta a fare uno strappo alla regola. Visto che l'uomo ideale non si faceva vivo, perché non ripiegare su una donna ideale? Pensare che c'era andata così vicino, con Gaby… Sì, con lei avrebbe potuto funzionare. E poi quei cari titanidi. Aveva generato due figli, con loro. Uno alla maniera titanide, con il concorso di una retromadre. E uno alla maniera umana, portandolo nel suo stesso seno. Da tanto tempo non pensava più a lui. Era tornato sulla Terra, e non le aveva mai scritto. Adesso era morto.

Benissimo, Cirocco, basta così con questo desiderio. La faccenda dei tre desideri non funziona, con le stelle — a parte il fatto che di stelle in vista qui in giro non ce n'è — ma per te vogliamo fare un'eccezione, e concedertene due al prezzo di uno.

Si rendeva ben conto che anche il solo fatto di avere un amante l'avrebbe aiutata un poco.

Niente di più facile, tra l'altro.

Si asciugò una lacrima che le scendeva lungo la guancia. C'erano cinque titanidi, là fuori. Ciascuno di loro sarebbe stato volentieri suo amante… persino nel modo frontale, che loro non prendevano certo alla leggera. Ma erano decine d'anni che non faceva più l'amore con un titanide. Non le pareva giusto. Tutto quel che avrebbe dovuto fare sarebbe stato andare giù da loro e rivolgere una semplice domanda. Potevano dirle di no?

Conal…

Scivolò ginocchioni sul pavimento, e lì rimase. Il suo volto era tutto rigato di lacrime, adesso.

Conal era, e sempre era stato, a sua completa disposizione. Anche con lui, sarebbe bastato chiedere. Ma lei non avrebbe mai, mai potuto portarselo a letto. Le era sufficiente pensare a quello che gli aveva fatto, per sentire la nausea salirle in gola. Nessun uomo era mai stato privato della propria dignità com'era capitato a lui. Diventarne l'amante dopo un fatto del genere costituiva una stravaganza talmente grossolana e innaturale che neppure poteva immaginarla.

Robin… una creatura così dolce che Cirocco stentava a crederci. Che razza di coriacea, irascibile, indisponente, velenosa cagna era stata vent'anni prima! Qualunque persona sana di mente avrebbe detto che sarebbe stato meglio affogarla appena nata. E probabilmente proprio per questo a Cirocco era piaciuta tanto. Ma con Robin non era mai scoccata quella particolare scintilla d'attrazione, nulla comunque da paragonarsi al sentimento che l'aveva unita a Gaby. Meglio così, d'altronde. Robin avrebbe già avuto abbastanza problemi con Conal, senza che ci si mettesse anche quella vecchiaccia di una Maga a romperle le scatole.

Pose le mani sulle fresche, lucide, levigate assi del pavimento, poi si chinò sino a poggiarvi una guancia. Si accorse di avere gli occhi offuscati. Tirò su col naso e se lo stropicciò, si asciugò il pianto, spinse uno sguardo assente lungo il pavimento sino al filo di luce che trapelava sotto la porta. Non si vedeva un granello di polvere. Avvertiva il penetrante profumo di limone della cera da legno. Si rilassò, ma poi le spalle incominciarono a tremarle.

Nova…

Oh, dìo, no, non voleva essere l'amante di Nova. Voleva essere Nova. Avere diciottenni, ed essere giovane, e ignara, e incontaminata, e innocente, e innamorata. Innamorata di una vecchia strega stanca. Le avrebbe dato sofferenza, quell'amore destinato a finir male. Ma che… dolce sofferenza doveva nascere dall'esser giovani e avere il cuore infranto per la prima volta.

Singhiozzava forte, adesso, senza poi far troppo chiasso, ma incapace di dominarsi.

E pensò a Nova che lucida e levigata come una foca fendeva l'acquazzurra, rivide l'alta figura inelegantemente appesa alle funi del suo paracadute oscillare in folle crescendo e poi librarsi come un angelo senz'ali, ricordò l'affamata ragazza occhilucenti risalvento fare onore al banchetto titanide, immaginò la fanciulla che sola sola nella sua stanza mescolava la pozione destinata a portarle l'amore.

Si abbandonò completamente all'émpito delle sue lacrime. Giacque prona sul pavimento fresco e pianse per ciò ch'era stato, per ciò che era, per ciò che sarebbe venuto.

Un angolino della sua mente continuava a mormorarle che faceva meglio a sfogarsi ora.

Non ce ne sarebbero state molte, dopo, di occasioni.


Conal aveva l'impressione di essere rimasto a chiacchierare con Robin per ore intere.

La conversazione si era spostata dal progetto di Cirocco — che a Conal sembrava ancora un pochino irreale — ad altri argomenti. Parlare con Robin gli risultava facile, ultimamente.

Gli parve che lei cominciasse a mostrarsi insonnolita, e si rese conto di esserlo lui pure. Nova continuava a dormire raggomitolata nella sua seggiolona. Ma tutti i titanidi avevano sgombrato il campo senza che lui s'avvedesse di nulla. D'accordo, i titanidi riuscivano certo a muoversi in silenzio, ma questo era assurdo. Erano stati in cinque, attorno a quel tavolo, e non li aveva visti andare via?

Notò che Robin gli stava sorridendo.

— Ma dov'eravamo con la testa? — gli disse, e sbadigliò. Poi si sporse a dargli un bacio sulla guancia. — Sono pronta per il letto.

— Anch'io. Ciao a dopo.

Quando Robin se ne fu andata, rimase un poco lì a sedere in mezzo ai miseri resti del gran banchetto. Quindi si alzò anche lui e si diresse verso le scale.

Nel centro della stanza accanto c'era Virginale, immobile come una statua. Teneva le orecchie tese avanti e verso l'alto, e fissava con tremenda intensità un certo punto del soffitto. Conal stava per dire qualcosa, ma accortasi della sua presenza Virginale gli sorrise brevemente e uscì. Conal si strinse nelle spalle e salì al secondo piano.

Lì trovò Valiha e Cornamusa, altrettanto immobili, anche loro a orecchie ritte. E avevano un'aria sofferente.

Non si accorsero di lui finché non fu giunto loro accanto, poi gli diedero un'occhiata di sfuggita, e senza neppure salutarlo presero a muoversi lentamente verso le scale che lui aveva appena salito.

Ma che diavolo stavano combinando?

Lasciò perdere con una scrollata di spalle, ed entrò nella sua stanza. Poi ci ripensò, riaprì la porta e sporse fuori la testa. Rieccoli là tutti e due in posizione di ascolto. E per le scale c'era Rocky, e anche lui tendeva le orecchie guardando in alto.

Conal osservò attentamente il soffitto cui i titanidi parevano tanto interessati, ma non vide un bel niente.

Stavano forse ascoltando qualcosa su al terzo piano? Ma c'erano solo stanze vuote. E comunque non si sentiva nulla.

Poi, sommessamente, Rocky incominciò a cantare. Dopo un po' Cornamusa e Valiha si unirono a lui, quindi fu la volta di Serpentone e Virginale, comparsi in punta di piedi. Era una polifonia vocale melodiosamente sussurrata, e per Conal non aveva più senso d'ogni altro loro canto.

Sbadigliò, e richiuse la porta.

NOVE

Per cinque miriariv, mentre Pandemonio continuava i suoi interminabili vagabondaggi, in Iperione era proseguita senza soste l'edificazione dell'area permanente.

Imprenditori di primo piano erano stati i Fabbri Ferrai. Avevano predisposto l'intera zona, situata attorno al cavo verticale centromeridionale. Avevano costruito una strada fino alle grandi foreste che ammantavano le regioni sudoccidentali di Rea. Avevano scavalcato con arditi ponti il placido fiume Euterpe e il rapinoso Tersicore. Duecento chilometri quadrati di boscose colline s'erano visti completamente denudati, ed il legname era stato trasportato su autocarri a Pandemonio per esservi ripulito, segato, fresato, tagliato, accatastato, incastrato, inchiodato, scartavetrato e sagomato da cinquemila corporazioni di falegnami. Era stata impiantata una linea ferroviaria che moveva dalle miniere, fonderie e fucine di Febe attraverso miglia e miglia di terreno accidentato, valicando i monti Asteria e superando con un immenso ponte il letto stesso del possente Ofione nella zona crepuscolare ad occidente di Rea, e interminabili treni merci trasportavano la metallica ossatura di Pandemonio percorrendo gli estranei nastri d'acciaio. A ovest era stato sbarrato il fiume Calliope. Il lago creato dalla diga aveva adesso una lunghezza di venti miglia, e le sue acque tonavano attraverso turbine e generatori da cui l'energia elettrica veniva incanalata lungo cavi sospesi a tralicci risolutamente progredienti attraverso quello ch'era stato terreno di pascolo delle mandrie titanidi.

Nel corso dell'ultimo miriariv, quando l'opera di allestimento era giunta alla fase culminante, Gea aveva dirottato da Bellinzona un numero crescente di profughi umani per usarli come manodopera a Pandemonio. In certi momenti la forza lavoro aveva raggiunto le settantamila unità. Era un'occupazione gravosa, ma il vitto risultava adeguato. I lavoratori che reclamavano o morivano finivano trasformati in zombi, quindi le agitazioni operaie non costituivano assolutamente un problema.

Sarebbe divenuto il capolavoro di Gea.

Al momento della cattura di Adam, l'approntamento dell'area permanente era quasi terminato. Quando Gea vide l'ampiezza dei danni subiti dalle strutture del suo spettacolo itinerante, ordinò l'ultimo spostamento, sebbene rimanessero da compiere lavori per circa un chiloriv.

Il cavo centromeridionale aveva un diametro di cinque chilometri e un'altezza di cento chilometri, nel punto in cui attraversava la volta di Iperione e svaniva nella luce. Cinquecento chilometri oltre quel punto, il cavo raggiungeva il mozzo di Gea, dove insieme a molti altri andava a formare un colossale intreccio costituente l'ancoraggio su cui la struttura toroidale periferica faceva perno nella sua perenne rotazione. Il sistema di cavi era inoltre collegato all'intelaiatura di Gea, nelle profondità del bordo esterno, ed esplicava una funzione di controbilanciamento nei confronti della forza centrifuga che, altrimenti, avrebbe mandato in pezzi l'intera ruota. Quei cavi svolgevano il loro compito ormai da tre milioni di anni, e incominciavano a mostrare qualche segno di stanchezza.

Ogni cavo era composto di centoquarantaquattro trèfoli intrecciati, ciascuno dei quali aveva un diametro di circa duecento metri. Nel corso degli eoni i trèfoli si erano allungati e deformati, secondo un fenomeno definito — ma non da Gea, che ne aveva un concetto rudimentale — cedimento millenario. Di conseguenza, la base dei cavi verticali non era più una compatta colonna di cinque chilometri di diametro, bensì uno slanciato cono di trèfoli disuniti dell'estensione di circa sette chilometri. Fra i trèfoli si aprivano dunque ampi varchi, e risultava possibile procedere direttamente attraverso il cavo inoltrandosi in quella foresta di funi gigantesche, nel folto della quale pareva di trovarsi all'interno di una tenebrosa città composta di torreggianti grattacieli cilindrici senza finestre e senza sommità.

A parte il generalizzato cedimento, diversi trèfoli si erano spezzati. Esistevano su Gea centootto cavi, per un totale di 15.552 trèfoli. Di questi se ne potevano vedere troncati duecento, facenti parte dello strato esterno. Non c'era cavo, su Gea, che non presentasse almeno una lesione di quel genere, con la parte superiore del trèfolo arricciata a discostarsi dal corpo centrale come l'estremità d'una scheggia di legno spiccata dal tronco di un albero, e la parte inferiore abbandonata sul terreno, distesa per tratti che potevano essere di un chilometro come di settanta, a seconda dell'altezza alla quale s'era verificata la lacerazione.

Unica eccezione, il cavo centromeridionale d'Iperione. Mentre altri cavi avevano due, tre, o persino cinque strappi, quello che sorgeva dal centro di Nuovo Pandemonio era intatto, e levigatamente s'innalzava in prospettiva mozzafiato.

Gea picchiettò con mano distratta sul trèfolo accanto al quale aveva sostato, diede un'ultima occhiata verso l'alto, e discese nel cuore del suo regno. Solo lei sapeva dei trèfoli spezzati all'interno dei cavi, quelli che mai vedevano la luce. Erano quattrocento. Seicento componenti in avaria su un totale di oltre quindicimila, equivalevano a una quota di circa il quattro per cento. Non male, in un arco di tre milioni d'anni, pensò Gea. Poteva tollerare, correndo qualche rischio, fino ad un venti per cento. A quel punto avrebbe necessariamente dovuto incominciare a rallentare la velocità di rotazione. Ma naturalmente esistevano altri pericoli. Il cavo più debole era quello centrale di Oceano. Se in esso avessero ceduto diversi altri trèfoli, l'intero cavo si sarebbe potuto schiantare a causa dell'insostenibile aumento di tensione. Oceano sarebbe sprofondato; riversandosi nella depressione da entrambi i lati senza poterne più defluire, il fiume Ofione avrebbe formato un mare profondo; dal conseguente squilibrio sarebbe nata un'oscillazione che a sua volta avrebbe indebolito altri trèfoli…

Ma Gea non aveva alcuna voglia di starsi a preoccupare. Da molte migliaia di anni il suo motto era: Domani Si Vedrà.

Ella raggiunse dunque le aree di Nuovo Pandemonio ancora in costruzione, dove rimase un poco ad osservare falegnami e Fabbri Ferrai al lavoro su un teatro di posa più grande di qualunque altro mai costruito sulla Terra. Quindi volse un ampio sguardo d'insieme sullo Studio.

Nuovo Pandemonio si estendeva lungo un anello di due chilometri che cingeva l'area di sette chilometri occupata dalla base del cavo. Ne risultava una superficie di circa venticinque chilometri quadrati, corrispondenti a quasi dieci miglia quadrate.

A circondare completamente il terreno sul quale sorgeva lo Studio, era stato posto un muro di trenta chilometri di circonferenza, alto trenta metri. Sulla carta, per lo meno. Gran parte del muro appariva completo, ma alcune sezioni giungevano appena a due o tre metri. Esso era fatto di pietra basaltica estratta dagli altipiani meridionali, distanti quaranta chilometri, e trasportata a Pandemonio tramite un secondo tracciato ferroviario di fattura fabbroferraia. Ricordava, a grandi linee, l'impianto strutturale della Grande Muraglia cinese, pur risultando più alto e più largo. Lungo il bordo interno, inoltre, era arricchito da una linea a monorotaia.

All'esterno del muro si stendeva un fossato pullulante di squali.

Il corpo murario era interrotto ad intervalli regolari da dodici ingressi, che lo facevano assomigliare al quadrante di un orologio. Si trattava di portali ad arco alti venti metri — quanto bastava per consentire l'accesso a Gea senza costringerla a chinare la testa — collegati tramite ponti levatoi a solide strade sopraelevate. Ai lati di ogni ingresso, subito all'interno del muro, sorgevano due templi, uno di fronte all'altro, presidiati ciascuno da un Prete e dai suoi accoliti. Gea aveva studiato con grande cura l'ubicazione di quei templi, nella convinzione che un certo grado di ostilità fra i suoi discepoli favorisse sia l'instaurarsi di una migliore disciplina, sia il verificarsi d'interessanti ed impreviste circostanze. Cruente, per lo più.

Difatti l'Ingresso Universal, situato ad ore dodici e quindi il più settentrionale dei portali di Nuovo Pandemonio, era sorvegliato da Brigham Young e i suoi Ladruncoli sul lato est, e da Joe Smith e la sua Banda dei Daniti sul lato ovest. Brigham e Joe si detestavano nella maniera più assoluta, come conviensi ai capi di fazioni rivali allignanti nell'àmbito del medesimo sistema dottrinario.

Circa un miglio più in là, in posizione ore una, si collocava l'Ingresso Goldwin, presso il quale la gigantesca cappella disadorna di Luther, affollata dai suoi dodici Apostoli e da innumerevoli pastori, fronteggiava il Vaticano della Papessa Giovanna pullulante di Kardinali, Arcivescovi, Vescovi, statue, cuori sanguinanti, madonne, rosari e altro cattolicume. Luther entrava in ebollizione, quando una volta all'ettoriv veniva tenuta la grande tombola, e sputava ogni volta che gli capitava di passare davanti alla bancarella che faceva buoni affari col mercimonio delle indulgenze.

A ore due c'era l'Ingresso Paramount, dove Kali con i suoi Thug, e Krishna coi suoi Arancioni, interminabilmente tramavano furtivi intrighi l'un contro l'altra.

Alle tre si trovava l'Ingresso RKO Radio, dove Blessed Foster e Padre Brown provvedevano ad incarnare violentemente ciascuno il proprio romanzesco personaggio.

Alle quattro c'era l'Ingresso Columbia, ove Marybaker aveva la sua sala di lettura ed Elron manovrava i suoi engrammometri.

A fianco dell'Ingresso First National, l'Ayatollah ed Erasmo X conducevano, da differenti moschee, un'incessante jihad.

L'Ingresso Fox era relativamente tranquillo, dal momento che Gautama e Siddhartha solo raramente facevano ricorso alla violenza, e in genere contro se stessi. Da quelle parti il maggior diversivo lo forniva un Prete impiccione di nome Gandhi, che passava il tempo a tentare d'intrufolarsi nei templi facendosi strada a spallate.

E così via, attorno all'immenso orologio di Nuovo Pandemonio. L'Ingresso Warner era l'arena in cui Shinto e Sony combattevano l'eterno conflitto fra il vecchio e il nuovo. L'Ingresso MGM echeggiava delle continue riunioni evangeliche di Billy Sunday e Aimee Semple McPherson. L'Ingresso Keystone era sorvegliato da Confucio e Tze-Tung, il Disney dal Guru Mary e da Babbo Natale, e lo United Artists da San Torquemada e San Valentino.

Esistevano poi altri Preti, di seconda categoria, le cui sacre sedi trovavano posto lungi dai portali. Mumbo Jumbo del Congo, nero di rabbia, si aggirava sussiegosamente per lo Studio brontolando contro certe discriminazioni, peraltro poste in essere da Gea del tutto intenzionalmente. Wicca, Mensa, Trotsky e I.C. si lamentavano dell'eccessivo risalto dato alla tradizione, mentre il Mahdi e molti altri avevano da ridire a proposito del prevalente indirizzo procristiano rilevabile nell'intero mitosistema di Nuovo Pandemonio.

Nessuno di costoro, tuttavia, osava manifestare direttamente a Gea le proprie lagnanze. E tutti loro provavano una profonda e sincera devozione nei confronti del Bambino.

Partiva, da ciascun ingresso, una via pavimentata d'oro.

Tale per lo meno figurava nelle specifiche tecniche del progetto originale. In pratica, però, Gea non conteneva né poteva fabbricare abbastanza oro per tutte quelle strade, con la conseguenza che undici di esse erano state pavimentate per cinquanta metri con mattoni d'oro puro, per il successivo chilometro con mattoni placcati d'oro, e per il resto con mattoni dipinti d'un'aurea vernice che già si stava desquamando.

Soltanto la via dell'Ingresso Universal era d'oro puro da un capo all'altro. E proprio in fondo ad essa si trovava Tara, il Taj Mahal/Piantagione-casa/palazzo che ospitava Adam, il Bambino.

Davvero una via lastricata di mattoni gialli, pensava Gea, percorrendo a grandi passi la sua Strada Maestra a Ventiquattro Carati.

A destra e a sinistra sfilavano i teatri di posa, i baraccamenti, le sale-mensa, i depositi di materiale scenico, i camerini, i magazzini di apparecchiature, le autorimesse, gli uffici direttivi, i laboratori di sviluppo, le sale di montaggio, le sale di proiezione, gli allevamenti di simbionti e fotofauni che davano vita al più grande studio cinematografico che mai si fosse visto. E oltre a questo, pensava Gea gongolando, ce ne sono altri undici. Accanto allo studio vero e proprio sorgevano le ricostruzioni d'insediamenti urbani — Manhattan 1930, Manhattan 1980, Parigi, Teheran, Tokyo, Clavius, Westwood, Londra, Dodge City 1870 — e procedendo ancora s'incontravano i terreni per grandi esterni con le loro mandrie di buoi, le greggi di pecore, i branchi di bufali, le torme di elefanti, le voliere di uccelli esotici, i serragli di scimmie, i battelli fluviali, le navi da guerra, gli indiani, i generatori di nebbia… una sterminata congerie dilagante sino al confine con gli studi limitrofi: Goldwin e United Artists.

Gea sostò, facendosi da parte per lasciare che un autocarro carico di cocaina le transitasse accanto scoppiettando. Era guidato da uno zombi. La creatura al volante, probabilmente, non si era neppure accorta che il pilastro che aveva aggirato era una gamba della sua dea; il tetto del veicolo superava di poco la caviglia di Gea. L'automezzo svoltò entrando nel deposito della cocaina, che al momento risultava quasi pieno. Gea aggrottò la fronte. I Fabbri Ferrai, pur essendo bravissimi in parecchie cose, non se l'erano mai cavata bene coi motori a combustione interna. Preferivano di gran lunga il vapore.

Giunse all'Ingresso Universal. La saracinesca era alzata, il ponte levatoio abbassato. Brigham se ne stava piazzato da una parte della strada, Joe dall'altra, e si guatavano in cagnesco. Ma, non appena la dea incombette su di loro, tanto i due Preti quanto le rispettive squadracce di Mormoni e Normanni posero tregua all'intestina controversia, interrompendo immediatamente il reciproco scambio di contumelie.

Ignorando il ronzìo dei panaflexi, Gea scrutò attentamente la scena. Sebbene lo Studio non fosse stato ancora portato a termine, la cerimonia odierna avrebbe concluso la parte per lei più importante. Undici dei dodici Ingressi avevano già ricevuto la loro consacrazione. Oggi, con quest'ultimo rito, il cerchio si sarebbe chiuso. L'attività cinematografica vera e propria avrebbe presto avuto inizio.

Lo sventurato tizio che aveva ammesso di essere uno scrittore se ne stava immobile, avvinto in auree catene. Gea prese posto sullo scranno… che sotto il dolce peso scricchiolò in modo preoccupante, portando diversi macchinisti a un passo dall'arresto cardiaco. Uno di quei seggioloni s'era sfasciato, una volta…

— Incominciamo — tuonò la dea.

Brigham squarciò la gola allo scrittore. Il cadavere venne issato su un palo, ed il sangue fu lasciato colare sul grande globo rotante che sovrastava l'Ingresso Universal.


Chris assisté alla cerimonia affacciato a una finestra dei piani alti di Tara. Da quella distanza risultava impossibile capire esattamente cosa stesse accadendo.

Unica certezza: di qualunque cosa si trattasse, era senza dubbio una pratica sanguinaria, oscena, demenziale, un gratuito gesto di spregio nei confronti della vita.

Si volse, tornando a discendere le scale.

Quando si era lanciato dall'aereo, ormai quasi due chiloriv prima, Chris aveva messo in conto che potessero accadergli diverse cose, nessuna delle quali prometteva di essere piacevole.

Ciò che gli era realmente capitato non poteva, in effetti, definirsi piacevole, ma neppure aveva confermato le sue aspettative.

Dapprima se n'era andato girovagando liberamente in mezzo al caos di Pandemonio, stando alla larga dall'infuriare degli incendi, sperando contro ogni speranza di riuscire a trovare Adam per fuggirsene insieme a lui verso la campagna circostante. Ma non ce l'aveva fatta. Era stato invece catturato da umani e zombi, e da altri esseri che parevano non appartenere ad alcuna delle prime due categorie. Un po' ne aveva ammazzati, ma poi quelli l'avevano malmenato, immobilizzato, e quindi ancora picchiato fino a fargli perdere i sensi.

Era seguito un periodo indefinibile. Rinchiuso in un grande capanno privo di finestre, alimentato irregolarmente, con un secchio a disposizione per farci dentro i suoi bisogni… e un'infinità di tempo per abituarsi all'idea che quanto gli restava da campare l'avrebbe ormai dovuto vivere a quel modo lì.

E invece, a un certo punto, l'avevano lasciato libero in quel posto, quell'immensa, incredibile, indaffaratissima gabbia di matti chiamata Nuovo Pandemonio, era stato condotto al suo alloggio a Tara, e l'avevano fatto incontrare con Adam. Lo chiamavano tutti "il Bambino", con un tono di voce che delineava chiaramente l'iniziale maiuscola. Appariva illeso, e sembrava crescere sano e robusto.

Chris non era sicuro che Adam l'avesse riconosciuto, ma il piccolo si mostrava comunque ben disposto a giocare insieme a lui. Aveva un patrimonio in giocattoli. Stupendi, ingegnosi balocchi fatti coi migliori materiali ed assolutamente innocui, privi di spigoli aguzzi e senza nulla che si potesse ingoiare. Adam aveva inoltre due bambinaie, era circondato da un'infinità di servitori e, comprese ben presto Chris, adesso disponeva anche… di Chris. Che evidentemente era destinato a divenire, lì a Tara, parte integrante dell'arredamento domestico.

Dopo un poco, Gea si era recata a fargli visita. Chris preferiva non ripensarci. Si credeva un tipo coraggioso, però starsene quieto accanto alla mole di quell'essere mostruoso ascoltandone le provocatorie argomentazioni aveva messo a dura prova la sua saldezza d'animo. Lei lo dominava allo stesso modo in cui un umano potrebbe dominare un barboncino.

— Siediti — gli aveva ordinato, e Chris aveva obbedito. Era come star seduto ai piedi della Sfinge.

— La tua amica Cirocco è stata proprio birichina — aveva dichiarato Gea. — Non ho ancora finito l'inventario, ma sembra verosimile che siano andate completamente distrutte tre o quattrocento pellicole. Intendo dire che si trattava di materiale di cui avevo solo una copia. Ed è improbabile che sulla Terra ne esistano altre. Qual è la tua opinione in merito?

Gli ci era voluto più coraggio del previsto anche per riuscire ad articolare una risposta.

— Credo che i film non abbiano nessun valore, paragonati alla vita umana, e poi…

— Umana, hai detto? — aveva commentato Gea accennando un sorriso.

— Hai capito benissimo quello che intendo. Umana e titanide.

— E come la mettiamo coi Fabbri Ferrai? Sono intelligenti anche loro, certo ne converrai. E le balene, e i delfini? E che mi dici dei cani e dei gatti, e delle mucche, e dei maiali, e dei polli? Ti pare che la vita sia poi così sacra?

Chris non aveva saputo cosa rispondere.

— Mi sto trastullando con te, ovviamente. Ti dirò comunque che non ho mai trovato nessun pregio particolare nella vita, intelligente o meno. Esiste, sì, ma è assurdo pensare che abbia diritto di esistere. E il modo in cui viene a cessare, alla fin fine, non importa un bel nulla. Naturalmente non mi aspetto che tu sia d'accordo con me.

— Meglio così. Infatti non sono d'accordo.

— Ottimo. È la divergenza d'opinioni che rende la vita, in un certo senso, interessante. Personalmente, trovo tuttavia che l'arte sia l'unica cosa degna di attenzione. L'arte soltanto è capace di vivere in eterno. Ci si può chiedere, a ragione, se essa rimanga arte anche in assenza di occhi che la guardino e orecchie che l'ascoltino, ma è una di quelle domande che non ammettono risposta, non credi? Un libro, una pittura, un brano musicale, possono davvero vivere per sempre, laddove la vita di cui tu parli può solo percorrere in un continuo vacillamento le sue tappe obbligate, mangiando e defecando finché non finisce il carburante. Così com'è, la vita è davvero piuttosto disgustosa, parola mia. Si dà il caso, tra l'altro, che mi piacciano i film. E credo che Cirocco abbia commesso proprio un grave delitto, distruggendo quelle quattrocento pellicole. Allora, ripeto la domanda, tu cosa ne pensi?

— Io? Stesse a me, distruggerei ogni dipinto, ogni film, ogni registrazione ed ogni libro mai esistiti, se ciò servisse a preservare anche una sola vita umana o titanide.

Gea l'aveva squadrato aggrottando la fronte.

— Non si può escludere che entrambe le nostre posizioni siano da ritenersi improntate a dottrinaria intransigenza.

— La tua di sicuro.

— Non tieni una specie di museo, là a Tuxedo Junction?

— È un lusso di cui potrei benissimo fare a meno. Non voglio negare che un certo passato meriti di essere conservato, ed è triste vedere l'arte, anche quella scadente, scomparire per sempre dal mondo. Distruggere espressioni artistiche è un errore che non approvo assolutamente, ma Cirocco non avrebbe mai fatto quel che ha fatto se non l'avesse ritenuto utile a salvare vite umane. Quindi non credo proprio che abbia commesso un delitto.

Gea era rimasta un po' in silenzio a rifletterci, e alla fine gli aveva sorriso e subito si era levata in piedi, facendolo trasalire bruscamente.

— Bene — aveva concluso. — Vedo che siamo dunque piazzati con perfetta simmetria. Tu da una parte, io dall'altra. Sarà molto interessante scoprire cosa ne penserà Adam.

— Che vuoi dire?

Gea era scoppiata a ridere.

— Hai mai sentito parlare di Jiminy Cricket?


Non ancora, a quel momento. In séguito aveva veduto il film, ed era giunto a comprendere meglio il proprio ruolo. L'aveva veduto quattro volte, in effetti. Era uno dei preferiti di Adam.

Lo schema delle loro giornate ben presto divenne evidente.

Chris rimase a Tara. Poteva trascorrere con Adam tutto il tempo che gli pareva, eccettuato un riv per ciascuno dei periodi di veglia del Bambino. Durante tale intervallo Adam veniva lasciato solo, a parte la compagnia del televisore acceso.

C'era almeno un apparecchio in ogni stanza di Tara. In alcune ce n'erano anche tre o quattro. E non potevano essere spenti. Proponevano tutti quanti contemporaneamente il medesimo programma, cosicché pur girellando da una stanza all'altra Adam poteva continuare a guardare senza interruzione.

Non che gliene importasse molto, ancora. Il suo arco di attenzione arrivava a superare di poco il minuto, in genere, sebbene di fronte a programmi che suscitavano davvero il suo interesse potesse restarsene tranquillamente seduto anche per cinque o dieci minuti di séguito, uscendosene a momenti in beate risatine per motivi che pareva conoscere solo lui. Nei periodi in cui Chris non poteva stargli accanto né provare a distoglierlo dal televisore, a volte Adam giocherellava coi suoi balocchi, e altre volte trascorreva gran parte del riv davanti allo schermo. Spesso se ne andava a dormire.

All'inizio Chris non ci fece molto caso. In effetti si accorgeva della TV solo come di un continuo, rumoroso fastidio.

A un certo punto, però, si rese conto che doveva essere in atto un qualche genere di sondaggio. Le cose che al Bambino piacevano di più — gradimento misurato in rpm, ovvero risatine per minuto — incominciarono a fare più spesso la loro apparizione. C'erano un sacco di cartoni animati di provenienza Walt Disney e Warner Brothers, un mucchio di animazioni computerizzate giapponesi degli anni Novanta e fine secolo, e qualche vecchio spettacolo televisivo. Ogni tanto capitava qualche western, oppure certi film di kung-fu che Adam sembrava gradire per il fatto che erano così beceroni.

Chris non poté proprio trattenersi dal ridere, quando sugli schermi fece la sua comparsa quel primo, oscuro film della 20th Century Fox. S'intitolava A Ticket to Tomahawk, e Gea vi recitava in una particina. Si mise a guardarlo mentre Adam schiacciava un pisolino: non gli rimaneva praticamente nulla da fare, in quella sua prigione dorata, quando non doveva star dietro al Bambino. Era un insignificante, stupido western. Poi riconobbe Gea in un gruppo di personaggi secondari.

Non era davvero Gea, naturalmente, ma solo un'attrice che le assomigliava moltissimo. Chris scorse i titoli di coda nel tentativo d'individuare il nome di quella donna morta da tanto tempo, ma non ci riuscì.

Non passò molto, però, che nuovamente gli avvenne di scorgere Gea in un film intitolato Eva contro Eva. Stavolta aveva una parte più importante, e Chris pervenne ad accertare che l'attrice si chiamava Marilyn Monroe. Chissà, si domandò, se era stata un'interprete famosa.

Presto decise per il sì, man mano che i suoi film prendevano ad apparire con regolarità nella programmazione di Tara TV. Adam, d'altro canto, si limitò ad ignorare la circostanza. Eva contro Eva totalizzò un bello zero, al risatometro, e in pratica il Bambino quasi non lo degnò di un'occhiata. Giungla d'asfalto non se la cavò granché meglio. E neppure Gli uomini preferiscono le bionde.

Poi cominciarono ad andare in onda documentari sulla vita e la morte di Marilyn Monroe. Ce n'era una quantità incredibile. E in gran parte attribuivano all'attrice delle doti che Chris, in verità, non riusciva minimamente a scorgere. Non metteva in dubbio che nel ventesimo secolo, all'epoca in cui i documentari erano stati realizzati, costei potesse avere richiamato ai botteghini folle di spettatori entusiasti, ma ora come ora quasi nessuno di quei film gli diceva un bel nulla.

Alla fine, però, avvenne qualcosa che riuscì ugualmente a destare il suo interesse. Durante uno di quei pallosi documentari, Adam alzò la testa dai suoi giocattoli, sorrise, indicò con un ditino lo schermo televisivo e disse:

— Gèe. — Poi si girò a guardare Chris, indicò di nuovo, e confermò: — Gìaa.

Chris cominciò a sentirsi inquieto.


Gea non andava mai a Tara.

Per l'esattezza, non vi entrava mai, sebbene quel luogo fosse stato costruito in proporzione alla sua mostruosa corporatura. Tutte le porte erano abbastanza larghe e alte da consentirle un agevole passaggio, mentre le scale e i pavimenti del secondo piano erano stati rinforzati in modo da reggere il suo peso.

Però non trascurava certo di passare a far visita. Solo che, arrivando, aveva cura di restarsene a distanza, mentre Adam veniva portato su un balcone del secondo piano. A Chris il senso di questa manovra appariva chiaro. Un essere tanto gigantesco avrebbe potuto spaventare il Bambino. Gea faceva quindi in modo che Adam si abituasse a lei per gradi, avvicinandoglisi ogni giorno un po' di più.

Quando passava da quelle parti recava sempre qualcosa d'interessante. Una volta si trattò di fuochi d'artificio, che Gea lanciò in aria a piene mani. Non fecero troppo rumore, ma in compenso furono davvero spettacolari. Un'altra volta arrivò con una mandria di elefanti ammaestrati. Gea li fece saltare attraverso il cerchio e camminare sulla corda. Poi si drappeggiò sulle spalle uno di quei bestioni dall'aria inquieta, se ne mise altri due in bilico sulle palme delle mani e li sollevò destramente in aria. Chris di solito rimaneva impressionato, e Adam non la finiva più con le sue gioiose risatine. Gea si esibiva in un fluente cicaleccio infantile, chiamava Adam per nome, gli diceva che gli voleva tanto bene, e nominava se stessa il più spesso possibile. E ogni volta gli portava un favoloso regalo.

— Gèe, gèe, gèe — strillava Adam.

— Gèe-ah — lo correggeva di rimando Gea.

Ormai Adam aveva quasi quindici mesi. Il suo vocabolario si stava sviluppando. Tra poco non avrebbe più sbagliato ad articolare Gea.

Marilyn Monroe aveva partecipato a circa trenta film. Al momento dell'inaugurazione dell'Ingresso Universal, Chris li aveva già visti tutti almeno una volta. Ed era appunto la questione dei film che andava ora rimuginando, mentre riscendeva le scale che l'avevano portato al terzo piano. Sempre più spesso, ormai, Adam interrompeva i suoi giochi per indicare il televisore, ridere, e pronunziare il nome della sua titanica nonnina.

Era quasi arrivato al piano terra, allorché trasalì al suono di un'improvvisa e violenta detonazione, cui ne fece immediatamente séguito una seconda. Gli bastò un attimo per riconoscere il tipico fragore dell'onda d'urto supersonica.

Fece dietrofront e corse al balcone del secondo piano.

Due Libellule di media grandezza si libravano alte nel cielo. Stavano rallentando, virando, tornando indietro dopo quel primo impressionante passaggio sopra Nuovo Pandemonio. Chris avvertiva confusamente, d'intorno, un gran fermento di grida, di corse precipitose… Gli aerei volavano troppo in quota perché gli fosse possibile stabilire chi c'era a bordo, o anche solo di quante persone si trattava.

Cirocco, pensò. Miodìo, Cirocco, non sarai mica così folle, non penserai mica che serva a qualcosa bombardare anche qui…

Rimase a guardare a bocc'aperta mentre le due Libellule, procedendo adesso abbastanza lentamente, inanellavano un'intricata serie di virate e giravolte. Davano l'idea di accingersi a qualche manovra preordinata.

Ma il cuore quasi gli si fermò quando entrambi gli aerei incominciarono ad emettere una spessa stria di fumo. Cosa poteva essergli accaduto?

Uno dei due cabrò in una traiettoria obliqua che andò a culminare in un repentina, strettissima virata discendente in speculare picchiata di consimile inclinazione, mentre l'altro interveniva a tagliare trasversalmente quella cuspide verso metà altezza. Poi cessarono tutti e due l'emissione di fumo, tornando ad essere due minuscole zanzare a malapena visibili che giostravano rimettendosi in formazione.

E Chris si rese conto che, manovrando di concerto, avevano tracciato nel cielo limpido la lettera A.

Eccoli ora impennarsi a piombo e riprendere l'emissione. Stavolta tracciarono dapprima due linee parallele, quindi virarono bruscamente aggiungendo due semicerchi alla metà superiore dei segmenti verticali. PP. APP. Ma che diavolo?…

Nuova contemporanea virata mozzafiato, ed altre due tracce discendenti andarono ad integrarsi nel disegno.

ARR.

— Chris — bisbigliò qualcuno. Poco ci mancò che gli venisse un colpo. Poi si volse, e riuscì a stento a trattenere un urlo quando si vide accanto, così vicina da poterla toccare, Cirocco.

— Cirocco… — esalò in un sussurro, e si ritrovò fra le sue braccia, il che suonava un modo assurdo di descrivere la cosa, pensò Chris, grand'e grosso com'era a torreggiare su di lei. Ma il flusso di forza che li univa scorreva tutto in un sol senso, e lui aveva il suo daffare a ricacciar giù le lacrime.

Cirocco lo trasse nell'ombra all'interno dell'edificio.

— Non ti preoccupare — gli disse a bassa voce, rapida accennando col mento verso il cielo. — Nient'altro che un passatempo divertente… con una battuta finale. A Gea piacerà da matti.

— Ma cosa…

— Ho poco tempo — l'interruppe Cirocco. — Non è per niente facile arrivare fin qui. Puoi starmi ad ascoltare due minuti?

Chris tenne a freno le innumerevoli domande che gli urgevano alle labbra, ed annuì.

— Volevo… — incominciò, poi subito tacque, e per un attimo distolse lo sguardo. Chris ebbe modo di notare due cose: che anche lei era molto vicina a piangere, e che portava indosso uno stravagante abito esotico. Ma non era il momento di perdersi in supposizioni.

— Adam come sta? — gli chiese.

— Sta bene.

— Raccontami com'è andata.

E Chris raccontò, più rapido e conciso che poté. Lei annuì di tanto in tanto, un paio di volte si accigliò, e a un certo punto prese un'aria disgustata. Ma alla fine fece un cenno di assenso.

— È più o meno come aveva detto Gaby… e per favore, ora non starmi a chiedere nulla di lei.

— Lungi da me l'idea. Ormai gli spettri non mi fanno più effetto.

— Meglio così. Capisci cos'è che devi fare, allora?

— Più o meno. Ma… non so se sarò all'altezza. Quella lì è molto più astuta di quanto credevo.

— Chris, io ti dico che puoi farcela — replicò Cirocco, e nella sua voce vibrava una certezza assoluta. — Quanto a noi, faremo del nostro meglio per tirarvi fuori di qui. Come ti ho spiegato l'altra volta, l'essenza profonda del Bambino per ora non è in pericolo, e ci vorrà del tempo prima che la situazione cambi. Ma, Chris… non sarà un periodo breve, te ne rendi conto?

— Credo di sì. E… hmm… non avresti mica idea di quanto…?

— Non meno di un anno. Forse anche due.

Lui cercò, per quanto poté, di non far trasparire il proprio sgomento, ma sapeva che lei glielo leggeva chiaramente in volto. Cirocco non fece commenti. Chris trasse un respiro profondo, e si sforzò di sorridere.

— Tutto quello che decidi tu, per me va bene.

— Chris questa non è una decisione mia. Questo è l'unico modo in cui possiamo agire. Non posso dirti molto. Se Gea sospettasse che sai, riuscirebbe a estorcerti ogni briciolo d'informazione.

— Sì, capisco. Però… — Si passò una mano sulla fronte, quindi la fissò dritto negli occhi. — Cirocco, perché non te lo porti via ora? Perché non lo prendi con te e poi scappi via come il vento?

— Chris, mio caro vecchio amico, se potessi farlo, lo farei. E ti lascerei qui alle dolcissime cure di Gea… e probabilmente morirei di vergogna non appena avessi portato in salvo il Bambino. Eppure lo farei. Ma tu lo sai che salverò anche te, se potrò…

— E se non potrai, accetterò il mio destino.

Ancora lo strinse forte, e lo baciò sul mento, che più su di quello ormai non gli arrivava. Chris si sentiva come stordito, ma era bello starsene così abbracciato a lei.

— Gea è… Chris, non so come fare a spiegartelo esattamente, ma il fatto è che la sua volontà è concentrata su Adam. L'ultima volta mi sono lasciata vedere dal Bambino, e Gea lo sa che son venuta qui e stavolta è stato molto più difficile riuscire a entrare. Non potrò più tornare a trovarti. E se ora prendessi Adam e mi dessi alla fuga, otterrei solo di farci catturare entrambi. Credimi, Chris, ne sono sicura. Te la senti di accettare questa situazione?

— L'accetterò, se debbo farlo.

— È tutto quello che ti chiedo. Il tuo compito consiste nel rimanere in buoni rapporti con Gea, per quanto la cosa possa apparirti ripugnante. E dovrai stare molto attento. Perché a un certo punto potresti anche scoprire di sentirti attratto da lei… No, no, non dirmi ch'è impossibile. Un tempo è capitato anche a me di trovarla simpatica. Tutto quel che devi fare è rimanere te stesso, e volere bene al tuo Bambino, e… accidenti, Chris, abbi fiducia in me.

— Ho fiducia, Cirocco.

Un velo di sofferenza era sceso ad appannarle lo sguardo. Un ultimo bacio, e se ne andò. Ma in che strano modo… Indietreggiò nell'ombra, sostò il tempo di un respiro in un punto dal quale non avrebbe potuto allontanarsi senza che lui la vedesse… e un attimo dopo non c'era più.

DIECI

— Strega del Sud, Strega del Sud, qui Strega del Nord. Il capo di quella T pareva fatto da un balbuziente, caro mio.

Conal si rivolse al suo microfono mentre fendeva l'aria in una virata a quattro g.

— Fatti gli affari tuoi, ragazzina. Le lettere facili le hai prese quasi tutte tu. Spinse a fondo la cloche, diede un'occhiata rapidissima a destra e a sinistra in direzione delle grandi sagome senza spessore delle lettere già tracciate, e tornò a premere il pulsante del fumogeno. Discese in picchiata, tenendo d'occhio l'ideale linea di base della parola ormai quasi completa, e nel transitarvi disattivò all'istante l'emissione, virando quindi bruscamente verso destra.

S'erano esercitati per una settimana, incominciando con tentativi che visti giù da terra parevano cinese, aveva giurato Cirocco, e via via progredendo in direzione di una sempre maggiore leggibilità. Ora come ora, Conal avrebbe potuto scommettere di riuscirci anche ad occhi chiusi.

Era una cosa pazzesca, naturalmente, ma non più d'altre cose che avevano già dovuto fare. Stavano vivendo, a quanto pareva, su un nuovo e ignoto piano d'esistenza che rendeva ogni azione non più sufficiente in sé e per sé, e imponeva, di volta in volta, anche la scelta di un ben preciso stile esecutivo. Certe cose andavano fatte con fredda premeditazione, ad esempio, mentre altre richiedevano di adottare un atteggiamento che si sarebbe potuto definire di ostentazione.

La scrittura aerea, in particolare, la si sarebbe potuta ottenere assolutamente perfetta, senza la minima sbavatura, e senza bisogno di estenuanti esercitazioni, semplicemente programmando ogni manovra sui piloti automatici delle Libellule. Ma Cirocco aveva posto il veto.

Non che Conal avesse da ridire, tutt'altro. Gli piaceva un mondo vergare sfide nei limpidi cieli di Gea.

— Strega del Nord — gridò nel microfono. — E quella secondo te sarebbe una I?

— Sfido chiunque a far di meglio — replicò Nova.

— Smettetela, ragazzi — giunse loro la voce di Robin, che li controllava dal suo privilegiato punto di osservazione situato molto più in alto. — E passate alla seconda riga.


Cirocco abbandonò l'aurea via a poca distanza dal punto in cui essa diveniva davvero di oro puro, e scivolò furtivamente tra due svettanti edifici. Trovò una nicchia al coperto da sguardi indiscreti e si tolse rapida il costume.

Quando aveva varcato l'"Ingresso Columbia" abbigliata da principessa indiana, era riuscita a spacciarsi per una comparsa che si presentava in cerca di lavoro nel western che stavano attualmente girando in quello studio. Giungere fino a Tara non era tanto stata una questione di travestimento, quanto di pura e semplice faccia tosta, coadiuvata da uno dei suoi talenti. Non sapeva in qual modo ci riuscisse, e a rifletterci troppo rischiava di vanificare ogni efficacia, comunque l'effetto era ciò che lei definiva "farsi piccina". Col risultato che la gente le dava un'occhiata e subito volgeva gli occhi da un'altra parte, sentendo che non valeva affatto la pena di stare a guardarla. Il trucco aveva egregiamente funzionato per tutto il tempo che le ci era voluto ad arrivare da Chris. E sulla via del ritorno non le era servito granché, finora, dal momento che stavano tutti col naso all'aria intenti ad osservare l'alfabetico sfumacchiar delle Libellule.

Ma l'uscita doveva avvenire da un'altra parte, e richiedeva un diverso genere di sfacciataggine.

Indossò pantaloni neri, stivali, camicetta e cappello, abbigliamento assai simile a quello che portava il giorno che Conal le si era presentato innanzi per la prima volta. Si allacciò al collo la corta mantellina nera, s'infilò una piccola automatica dentro il bordo superiore d'uno stivale e una grossa rivoltella alla cintura.

— Magari potrei mettermi addosso anche un'insegna al neon — borbottò fra sé. — Tanto, più di così non potrei dare nell'occhio.

Si soffermò un istante a regolare il ritmo del proprio respiro. Poi, d'impulso — quel genere d'impulso cui aveva imparato a dar retta — aprì i tre bottoni in alto della camicetta e gonfiò il petto. Così avrebbero avuto qualcos'altro, da occhieggiare, invece d'indugiare pericolosamente sulla sua fin troppo riconoscibile fisionomia. Riguadagnò infine senza esitazioni il lastricato, dirigendosi a lunghi passi baldanzosi verso la sentinella dell'Ingresso MGM.

Per attirarne l'attenzione, intento com'era a godersi quello spettacolo aereo, dovette dargli di gomito.

— A-R-R-E? E che vorrà… — stava elucubrando quello.

— Ma perché a quest'ingresso ci avranno messo un analfabeta? — ringhiò Cirocco. L'uomo s'irrigidì di scatto, serrandosi al petto in gesto protettivo il suo taccuino. Lei gli tese una mano guantata di nero, vuota.

— Sono il primo vicepresidente agli approvvigionamenti — disse. — Ecco il mio documento d'identificazione. Gea mi ha ordinato di occuparmi di quell'aggeggio immediatamente. Ricacciò l'inesistente carta d'identità nel taschino della camicetta, mentre lo sguardo dell'uomo seguiva l'intera traiettoria di quella mano finendo per inchiodarsi al centro dello scollò. Rimirò a bocca aperta la profonda insenatura, e annuì.

— Come hai detto?

— Ehm… vada pure, signore!

— E le misure di sicurezza? E la registrazione che dovresti tenere di chiunque entra ed esce da questa porta? Potrebbero anche passare di qui abbaiando tutti i cerberi dell'inferno e tu gli offriresti dei biscotti per cani! Non mi chiedi nemmeno il mio nome?

— Oh!… I-i-il s-suo n-n-nome… signore?

— Guinness. — Sbirciò di sopra la spalla dell'uomo mentre quello prendeva appunto sul taccuino. — E cerca almeno di scriverlo bene. G-U-I-N-N-E-S-S. Alec Guinness. Gea lo vorrà sapere.

Cirocco girò sui talloni, varcò con decisione il portale e traversò il ponte levatoio senza guardare né a destra né a sinistra.

La sentinella impiegò un quarto d'ora a ritornare completamente in sé. E a quel punto Cirocco era già lontana mille miglia.


Gea aveva capito tutto fin da quel primo AR.

Giganteggiava monolitica all'Ingresso Universal, i titanici piedi saldamente piantati su tant'oro quanto mai ce n'era stato nei forzieri di Fort Knox, le mani ai fianchi, e sorrideva.


A R R.

A R R E N.


Incominciò a ridere. A quel punto anche alcuni dei presenti, vecchie volpi che avevano assistito pure loro a un sacco di film — più di quanti, in genere, ci tenessero a ricordarne — subodoravano ormai la conclusione. Per un paio di minuti, da parte di molti, s'era temuto il peggio. Occhiate nervose avevano fatto costantemente la spola fra il faccione di Gea e l'invito che s'andava componendo alto nel cielo. Poi, seggeavuole, l'olimpica risata della dea finalmente eruppe, e fu il segnale che diede la stura a un'oceanica esplosione d'ilarità.

Allorché il messaggio si stagliò completo, la A iniziale era ormai divenuta quasi illeggibile, ma ciò non guastava il divertimento.

ARRENDITI
GEA

— Dobbiamo andare a consultare il Mago! — ululò Gea. — Lui saprà consigliarci!

Ancora più forte scrosciò lo sguaiato cachinno degli astanti.

È tempo di organizzare un nuovo festival, pensò Gea. Jones doveva essere proprio ridotta alla disperazione, per fare una simile cretinata. Ma non lo sapeva che era la Malvagia Strega dell'Ovest a scrivere nel cielo? Possibile che malvagia non significasse niente, per lei? C'erano ben precise regole da rispettare, in quella contesa, e i simboli avevano la massima importanza.

La sua colossale risata s'era andata riducendo a un altalenante chiocciolio di soffocate risatine. Le grandi lettere, lassù, si disperdevano nel vento, svaporando in drappeggi d'impalpabile foschia. Le due Libellule vennero raggiunte da un terzo aereo che Gea aveva individuato fin dall'inizio. A bordo, molto probabilmente, c'era Jones, tenutasi cautamente fuori campo a godersi lo spettacolo mentre i suoi scagnozzi si accollavano a loro rischio tutta la parte rognosa. In fin dei conti non c'era neanche tanto gusto, a combattere in quel modo, pensò.

E provò un'inattesa fitta di delusione.

Liquidò quella sensazione con un'alzata di spalle. I tre aerei volavano adesso in formazione, percorrendo l'enorme circonferenza di Nuovo Pandemonio. E continuavano ad emettere scie di fumo.

Sì, un bel festival di film fantastici, pensò Gea. Quali titoli non erano stati programmati, ultimamente? Dunque, vediamo un po', c'era quel…

S'interruppe, levando al cielo uno sguardo sospettoso.

— No! — urlò, spiccando la corsa. — No, cagna che sei! Questo non era previsto! — Calpestò uno zombi riverso al suolo, scivolò, e per un pelo non cadde. Vide accasciarsi un altro zombi.

Due minuti dopo, tutti gli zombi di Pandemonio erano morti.


— All you need is love… — disse Robin, poi fischiettò la stessa frase, e poi ancora la cantò.

— Che roba è? — giunse via radio la domanda di Conal.

— Solo una canzone che intoniamo noi streghe. — E riprese a fischiettare, mentre virava inclinando un'ultima volta il suo aereo a sorvolare lo strano scenario sottostante.

— Madre — fece Nova in tono irritato.

— Mia cara, sarà l'ora che la pianti d'essere imbarazzata circa l'origine del nostro ammazzazombi, non credi?

— Sì, Madre. — Si udì la radio di Nova disattivarsi con uno scatto.

— Al mio segnale virare a sinistra — disse Conal. — Siamo sull'ingresso MGM. Quello con sopra il grande leone di pietra.

— Roger — confermò Robin, che continuava a canterellare a bocca chiusa. Ridiede un'altra occhiata giù verso Nuovo Pandemonio.

Avevano avuto, di quell'insediamento, la descrizione fatta da Cirocco, cosicché lo schema planimetrico generale era loro noto prima di giungere in loco. Ma vederlo di persona era decisamente tutta un'altra cosa. Robin aveva ribollito di nervosismo per l'intera durata della folle esibizione, volteggiando ad alta quota, col suo radar più potente all'erta e l'armamento pesante pronto a far fronte a un eventuale attacco da parte delle bombe volanti, e con una dozzina di piani d'emergenza che turbinosi le si accavallavano in mente… piani che erano stati impietosamente inculcati in tutti loro dall'inflessibile Generale Jones.

Sogghignò, poi rise apertamente. Quella situazione solleticava irresistibilmente lo spiritello burlone che le sonnecchiava dentro.

— Gea come la prenderà, secondo voi? — domandò agli altri. — Chissà se se lo immagina che le abbiamo appena rovesciato in capo tre tonnellate di elisir d'amore?

— Parla Robin della Congrega? — s'inserì una voce.

Seguì un attimo di assoluto silenzio, sottolineato dal gemito acuto del reattore.

— Robin, che cavolo stai blaterando sulle mie frequenze?

— Oggesù — ansimò Conal. — Ma non è…

— Strega del Sud, attieniti agli accordi radio. Credo che dovremmo…

— Ma cara la mia streghetta, io lo so già benissimo che quello è Conal — reintervenne Gea. — E so pure che sull'altro aereo c'è Nova, la tua diletta figlia. Quello che non capisco, son tutte queste ciance su un certo elisir d'amore…

Robin tenne la rotta in silenzio. Aveva le palme delle mani madide di sudore.

— Ah, be' — sospirò Gea. — Vedo che ora ti metti a fare la ritrosa. Ma non c'è alcun bisogno di attuare il piano X-98, o qualunque altra fesseria stavi per dire. Non ho intenzione di farvi inseguire. Nessuna bomba volante ostacolerà il vostro ritorno a Dione. — Nuova pausa di silenzio. — Son curiosa, però. Come mai Cirocco Jones non ha partecipato a questa piccola scampagnata? Forse perché gliene mancava il fegato? Eh, sì, lei ha un vero talento per far combattere agli altri le sue battaglie. Non dirmi che non ci avevi fatto caso. Te lo ricordi, no, il suo spettacolare ingresso al gran galoppo, laggiù a Tuxedo Junction, mentre i miei amici stavano liberando il tuo caro figliolino da quel posto orribile in cui l'avevi portato? Aveste tutti quanti il tempo d'ammirare il suo eroico tentativo… che guarda caso, duole dirlo, tardò appena quel tanto da impedirle di venire sul serio alle mani con quel povero zombi. Vai a capire dov'era stata… Non gliel'hai mai chiesto da dove sbucava fuori?

Robin guardò a destra e a sinistra, con le mani fe' cenno a Nova e Conal di tacere, e li vide entrambi annuire.

— Noiosa anzichenò direi, finora, come conversazione — proseguì Gea. — In fondo volevo solo domandarti come t'erano andate le cose, nel frattempo. È un bel pezzo che non ci si vede. E sai com'è, quando t'ho vista arrivare avevo sperato che avresti fatto un salto a trovarmi.

— Credo proprio di non averne avuto il tempo — rispose Robin.

— Oh, brava, così va molto meglio. Però dovresti trovarlo, sai, un momentino. È tanto, che Chris chiede di te…

Robin fu costretta a mordersi il labbro inferiore. Non aveva nulla da replicare, a una simile provocazione. Quel gioco stupido era durato anche troppo a lungo.

— Dimmi un po' — riprese Gea dopo una ponderata pausa. — Hai mai sentito parlare delle Convenzioni di Ginevra sull'uso delle armi?

— Vagamente — rispose Robin.

— E non lo sapevi che l'uso dei gas venefici è considerato immorale? Vedi, te lo chiedo perché son sicura che Cirocco deve avervi riempito la testa con un sacco di scemenze sui buoni e sui cattivi. Come se certe categorie esistessero davvero. Ma anche se fosse, allora rispondimi a questa domanda. Ti pare giusto che i buoni non debbano rispettare le norme di guerra internazionali?

Robin aggrottò per un attimo la fronte, poi scrollò il capo, chiedendosi se in effetti non potesse essere pericoloso rimanere ad ascoltare Gea. Forse quella era capace di gettar loro addosso un maleficio anche per radio, inducendoli a qualche follia…

Ma Cirocco non aveva mai accennato a niente del genere.

— Sei una vecchia gallina rimbecillita, Gea — le disse.

— Peste e corna…

— …non farebbero il minimo effetto a quella tua brutta pellaccia. Ma le parole ti arrivano dritte fin dentro le budella, vero? Cirocco me l'aveva detto. E quanto all'uso dei gas, hai controllato la tua popolazione umana? Gliel'hai data un'occhiata agli elefanti e ai cammelli e ai cavalli?

— Mi pare che stiano tutti bene — ammise Gea in tono dubbioso.

— Esatto. Non prenderla come un'offesa personale, Gea, vecchia cagna. Si dà il caso che abbiamo trovato il modo di sterminare una calamità pubblica che una volta chiamavamo necròfidi. E allora ce ne andiamo in giro a rendere un servizio alla collettività. E Pandemonio, guarda un po', figurava pure lui nel programma d'irrorazione. Voglio augurarmi che la cosa non ti sia stata di troppo incomodo…

— No, non troppo, ma… come sarebbe a dire una volta? Perché, adesso come li chiamate?

Aha! Dritta dentro ci sei cascata, brutta schifosa!

— Adesso li chiamiamo i vermi solitari di Gea. Spero che tu abbia un gabinetto abbastanza grande.

Robin udì la risata di Nova. E parve che quest'ultima battuta avesse definitivamente mandato Gea fuori dei gangheri. Dapprima giunse loro un urlo incoerente, penetrante, tanto che Robin dovette abbassare il volume, e pareva che non dovesse finire mai, finché non andò a trasformarsi in un diluvio d'imprecazioni oscene, orribili minacce, invettive pressoché incoerenti. Durante un'incerta tregua intervenne Nova…

— Ragazzi, ma quella è un fenomeno! Che ne dite, magari a cose fatte potremmo metterla a esibirsi in qualche luna park, eh?

— Macché — disse Conal. — Non pagherebbe nessuno per andarla a vedere. Lo sanno già tutti com'è fatta la merda.

Breve pausa di silenzio.

— Giovanotto — si udì poi la gelida voce di Gea — un giorno ti farò pentire d'esser nato. Nova, è stata un'osservazione scortese, a dir poco, ma credo di poter comprendere. Dev'essere dura, per te. Dimmi, che effetto ti fa sapere che quell'orribile individuo si fotte tua madre?

Il labile intervallo di quiete che subentrò stavolta aveva un sapore affatto differente. Robin sentì che lo stomaco le si raggricciava.

— Madre, che cosa…

— Nova, osserva il silenzio radio. E ricorda quel che ti ho detto circa la propaganda. Gea, la conversazione è finita.

Non le sembrò, tuttavia, d'avere avuto l'ultima parola. Propaganda era un gran bel termine con cui riempirsi la bocca, ma ciò non significava che le sarebbe riuscito di continuare a mentire a Nova.


Gea posò il suo ricetrans e rimase a osservare i tre aerei che svanivano a occidente, mentre un senso di amarezza profonda la pervadeva.

Sebbene le componenti logica ed emotiva del suo cervello non funzionassero più a dovere come un tempo — circostanza a lei ben nota, e della quale aveva smesso da un pezzo di preoccuparsi — le sue facoltà di non mediata elaborazione numerica s'erano mantenute integre. Sapeva quanti zombi fossero andati perduti. Circa il quaranta per cento della manodopera impiegata a Pandemonio era consistita in nonmorti… ora doppiamente morti. Il che era già un pasticcio, senza poi considerare che dal punto di vista del rendimento sul lavoro uno zombi valeva quanto cinque umani vivi, forse anche sei. Gli zombi erano più forti, e non avevano bisogno di dormire e nemmeno di fermarsi ogni tanto a riposare. Potevano nutrirsi di sozzure che un maiale si sarebbe strozzato solo a guardarle. Benché non fossero in grado di manovrare aggeggi complessi tipo un registratore a nastro, se la cavavano però egregiamente come idraulici, elettricisti, macchinisti, falegnami… insomma, in tutta quella gamma di attività specializzate che risultano essenziali alla realizzazione di un film. Con un minimo di attenzione li si poteva far durare sei o sette chiloriv. Erano convenienti anche in punto di morte: quando uno zombi sentiva avvicinarsi la fine, l'ultimo suo atto consisteva nello scavarsi una fossa e distendercisi dentro.

Problemi, quanti problemi…

Le corporazioni di falegnami, così efficacemente utilizzate nell'àmbito del festival itinerante, s'erano dimostrate non abbastanza versatili per le necessità di Nuovo Pandemonio. Alcuni degli edifici che avevano innalzato cadevano già a pezzi. Avrebbe potuto cercare di sviluppare una nuova varietà di provetti falegnami… ma doveva riconoscere, seppure a malincuore, che le sue capacità di manipolazione genetica stavano rapidamente degenerando. Le rimaneva sempre da sperare che al prossimo parto, invece di altri cammelli e draghi, avrebbe dato alla luce qualcosa di più utile e in grado di riprodursi, ma sapeva bene di non poterci contare.

Ecco che cosa capitava, a essere mortali. Perché lei pure lo era. E non solo nel senso che di lì a centomila anni l'immensa ruota conosciuta come Gea avrebbe perduto le sue ultime risorse rigenerative e sarebbe morta; soggetto alle intrinseche fragilità della carne era anche il gigantesco clone Monroe in cui lei aveva scelto di concentrare tanta parte delle sue energie vitali.

Sospirò, poi si rianimò un pochino. Il buon cinema nasce dalle avversità, non certo da un'ininterrotta serie di successi. Bisognava che parlasse col reparto sceneggiature, dando ordine d'inserire questo nuovo smacco nel grandioso affresco epico della sua esistenza, vent'anni di lavorazione. Le ultime bobine avrebbero dovuto aspettare un bel pezzo, prima d'essere girate.

Nel frattempo, bisognava trovare una soluzione.

Ripensò ancora una volta ai titanidi. Iperione ne era pieno.

— Titanidi! — urlò Gea, facendo trasalire tutto Pandemonio nel raggio di mezzo chilometro.

Fra le sue tante creazioni, i titanidi si erano rivelati certo la più riottosa. Le erano sembrati una buona idea, a suo tempo. E rimanevano tuttora assai gradevoli a vedersi. Li aveva realizzati nei primi anni del '900 come una sorta di prototipo umano, ma poi s'era accorta di averli costruiti meglio del previsto. E continuavano a superare i parametri progettuali.

Quando, nei primi tempi della preparazione del luogo su cui sarebbe sorto lo Studio, la manodopera aveva incominciato a rappresentare un problema, Gea era naturalmente giunta alla determinazione di mettere all'opera anche i titanidi. Ad assumerli aveva inviato i Fabbri Ferrai, che però erano sempre tornati a mani vuote. Davvero sorprendente. Ma non lo sapevano che lei era Dio?

Quegl'indisciplinati quadrupedi erano difficili da catturare vivi, ma Gea era riuscita ugualmente ad acchiapparne qualcuno.

Che però non aveva svolto neanche un briciolo di lavoro. Non collaboravano nemmeno a torturarli. Tutti quelli che erano in grado di farlo, si suicidavano. E dire che, a sua conoscenza, mai si era verificato un suicidio titanide prima della costruzione dello Studio. Amavano troppo la vita.

Gea aveva interrogato in merito uno dei prigionieri.

— Meglio morti che schiavi — aveva spiegato quello.

Un gran bel sentimento, opinava Gea, ma non era stata certo lei ad instillarglielo. Maledizione, gli umani si adattavano alla schiavitù come bere un bicchier d'acqua. Perché mai i titanidi no?

Va bene, d'accordo. Se Gea aveva un pregio, era la duttilità. Visto che quelli non volevano sgobbare da vivi, allora li avrebbe fatti sgobbare da morti. Uno zombi titanide sarebbe stato capace di svolgere il lavoro di cento umani.

Ma le cose non erano andate così lisce. I cadaveri titanidi trasformati in zombi risultavano più deboli degli originali, mancavano di coordinazione e tendevano ad incurvarsi al centro come cavalli dal dorso insellato. Un'indagine tecnico-fisiologica le aveva mostrato che era tutta colpa della struttura scheletrica. Dal punto di vista tassonomico, i titanidi non erano vertebrati. Possedevano infatti una spina dorsale cartilaginea, dotata di flessibilità e robustezza assai superiori a quelle dell'alquanto precario impianto osseo formante la colonna vertebrale degli umani e degli angeli. Il problema sorgeva dal fatto che nei cadaveri la cartilagine si decomponeva, e i necrofidi se ne cibavano. Di conseguenza, i titanidi gliela facevano in barba anche da morti.

Gea avrebbe pensato che quello era proprio un fetente di mondo, se non si fosse ricordata che era stata lei a crearlo.

Qual miglior momento avrebbe potuto scegliere il messaggero proveniente dall'Ingresso MGM per presentarlesi dinnanzi, porgerle il taccuino e inginocchiarsi tremebondo ai suoi piedi, consapevole di come la dea solitamente reagisse alle cattive notizie?

Gea, una volta tanto, ebbe invece una reazione misurata. Prese il taccuino, occhieggiò il nome, sospirò, e con indifferenza lo scagliò via di piatto mandandolo a rimbalzare sui tetti di tre teatri di posa.

Quanto a riferimenti filmici, Cirocco Jones l'aveva surclassata. Per ben due volte in un sol giorno le aveva rivolto contro i suoi stessi miti prediletti.

— Minacciata dal Mago di Oz e beffata da Obi-wan… — mormorò.

Decisamente le ci voleva una pausa. Magari un nuovo festival, perché no? Vediamo… Film sul cinema! Pareva proprio un'ottima idea. Si guardò attorno in cerca del suo archivista, e lo vide timorosamente rimpiattato dietro l'angolo di un edificio. Gli fece segno di avvicinarsi.

— Sto andando in Sala Proiezione Uno — gli disse. — Portami Effetto Notte di Truffaut, tanto per cominciare.

L'archivista scribacchiò sulla sua agenda.

Party Selvaggio - borbottò Gea. — Scegli un paio di pellicole di Hitchcock. Due qualsiasi andranno bene. Il Viale del Tramonto. E poi… qual è quel film sul crollo del sistema hollywoodiano?

— Luci, Motore, Astione! — rispose pronto l'archivista.

— Esatto. Voglio tutto pronto fra dieci minuti.

Gea arrancò lungo l'aurea via, depressa come non lo era da secoli. Jones aveva fatto un buon lavoro, oggi.

Con parte della sua mente continuò a dedicarsi al problema della forza-lavoro. Bisognava che si approvvigionasse di altri profughi a Bellinzona. Il grosso guaio era che d'ora in avanti avrebbe dovuto praticamente coccolarla, la sua manodopera umana, perché quando gli moriva non avrebbe fatto altro che restarsene morta. Un brutt'affare davvero.

Si chiese anche come far cessare il ristagno demografico che affliggeva la città. I voli benedetti per la Terra continuavano, ma le astronavi avevano incominciato a tornare indietro con un sacco di posti vuoti.

Desiderò quasi di non averla mai iniziata, quella guerra.

UNDICI

Le origini della città di Bellinzona giacevano, come tanti altri aspetti della grande ruota, avvolte nel mistero.

I primi esploratori umani penetrati in Dione avevano rilevato la presenza di una estesa città di legno, completamente deserta. Essa riposava su robuste palificazioni affondate in profondità nelle rocce esistenti sotto la superficie del lago, e possedeva strade di recente costruzione estese fino alle colline rocciose che s'innalzavano ad attorniare la Baia della Menta Piperita. Verso sud, dopo un tratto di territorio relativamente pianeggiante, si saliva a un valico che dava accesso a una fitta foresta, dilagante a racchiudere l'intera zona. Vivevano, in quell'intrico vegetale, bestie selvagge e aggressive, ma sempre meno temibili delle sabbie mobili, delle febbri perniciose, delle piante velenose e carnivore. Non dava affatto l'idea d'essere un luogo in cui a qualcuno sarebbe piaciuto vivere.

Cirocco Jones aveva visitato quei luoghi molto prima degli "esploratori", ma non s'era minimamente presa il disturbo di rivelare a chicchessia l'esistenza della città fantasma, apparsa chissà come in un momento imprecisato del suo cinquantesimo anno da Maga. Anche lei ne era rimasta alquanto perplessa, essendo quello sfoggio urbanistico affatto privo di apparente utilità.

Appariva ideato in scala umana, a ogni modo. V'erano edifici d'imponenti dimensioni e fabbricati più piccoli. I vani delle porte non lesinavano in altezza, ma di solito i titanidi dovevano chinare il capo per poterli varcare.

Dopo lo scoppio della Guerra, all'inizio dell'ininterrotto flusso di profughi, Cirocco aveva per breve tempo nutrito in cuor suo l'illusione che Gea, nella consapevolezza che prima o poi un conflitto di proporzioni planetarie avrebbe finito per devastare completamente la Terra, si fosse voluta semplicemente fare promotrice dell'edificazione di un asilo sicuro. Ma l'influenza di Gea su Dione era minima, ed i suoi impulsi umanitari praticamente inesistenti. Qualcun altro aveva costruito il nucleo di Bellinzona, e con risultati di tutto rispetto. Il contributo di Gea era unicamente consistito, poi, nel procacciare la popolazione.

Cirocco sospettava che fossero stati i folletti, però non ne aveva alcuna prova. Non esisteva uno stile architettonico indubitabilmente attribuibile ai folletti. Tali creature avevano infatti innalzato strutture diversissime tra loro, che andavano dal Castello di Vetro alle Montagne dei Faraoni. Cirocco aveva spesso desiderato di potersi mettere in contatto con loro per rivolgergli alcune domande, ma neppure i titanidi avevano mai veduto un folletto.

Gli umani avevano ampliato il nucleo originario in una disordinata congerie di approssimative e precarie costruzioni. Le nuove banchine andavano in genere a basarsi su pontoni, e poi c'erano ovviamente le stipate flottiglie d'imbarcazioni. Comunque, nonostante imperassero ovunque incapacità ed incuria, alcuni dei più grandi edifici di Bellinzona potevano vantare un aspetto davvero imponente.

Per combattere Gea, Cirocco aveva bisogno di raccogliere un esercito. Bellinzona era l'unico luogo in grado di fornirle tanta gente, ma una disordinata turba di sbandati non avrebbe per nulla fatto al caso suo. Le serviva disciplina, e per ottenerla doveva trasformare quel bordello in un luogo civile, dargli una drastica ripulita… ed esercitarvi un ferreo, assoluto dominio.

Scelse dunque una grande, riccamente decorata costruzione della grandezza di un magazzino, che sorgeva sulla Palude dello Sconforto. Dal suo inquilino fisso, un uomo di nome Maleski proveniente da Chicago, l'edificio era stato battezzato la Borsa Merci. Cirocco aveva saputo diverse cose a proposito di quel Maleski, che a Bellinzona figurava come uno dei quattro o cinque capobanda più importanti. La situazione aveva un nonsoché d'irreale, ma decise che doveva semplicemente trattarsi di una di quelle strane cose che accadono nella vita. Stava semplicemente per scontrarsi con un gangster di Chicago in carne e ossa.

Allorché Cirocco e i cinque titanidi nerovestiti fecero discretamente irruzione nell'edificio, quasi tutti i presenti si trovavano raggruppati all'estremità opposta rispetto all'ingresso, e guardavano fuori dalle finestre fissando il cielo. Non si trattava di una coincidenza. Cirocco rimase immobile al centro della grande stanza, nella luce guizzante delle torce, aspettando che i padroni di casa si accorgessero della sua presenza.

Non ci volle molto. La sorpresa iniziale si mutò subito in costernazione. Non era possibile che qualcuno riuscisse ad entrare così, tranquillamente, dentro la Borsa Merci. Fuori, dopotutto, stava all'erta un munito corpo di guardia. Maleski ancora non lo sapeva, ma tutte le sue sentinelle erano morte.

Gl'individui presenti nella stanza sguainarono le spade e incominciarono a sparpagliarsi lungo le pareti. Alcuni di loro impugnarono anche delle torce.

— Ho sentito parlare di te — disse Maleski a un certo punto. — Non sei Cirocco Jones?

— Il Sindaco Jones — precisò Cirocco.

— Il Sindaco Jones… — ripeté Maleski. Uscì dal gruppo e venne avanti. Il suo sguardo corse alla pistola che lei portava infilata alla cintura, ma non parve rimanerne impensierito. — Ti confesso che la cosa mi giunge nuova. Qualcuno dei tuoi deve avere avuto da ridire con qualcuno dei miei, tempo fa. Sei qui per quella faccenda?

— No. Sono qui per requisire l'edificio. Proclamo da questo momento un'amnistia di dieci ore. Avrai bisogno di sfruttarne ogni minuto, quindi faresti bene a sgombrare immediatamente. Anche voialtri siete liberi di andarvene. Avete cinque minuti per fare fagotto.

Per un attimo parvero tutti troppo sbalorditi per replicare. Maleski si accigliò, quindi scoppiò a ridere.

— Ma tu sei matta. Questa è proprietà privata.

Stavolta fu Cirocco a ridere.

— Ma su quale pianeta credi di vivere, idiota? Cornamusa, sparagli nel ginocchio.

La pistola si era materializzata nella mano di Cornamusa nel momento stesso in cui Cirocco aveva detto "sparagli", e alla parola "ginocchio" il proiettile stava già uscendo dalla parte opposta della gamba di Maleski.

Mentre Maleski cadeva, e per alcuni secondi dopo che si fu accasciato al suolo, un frenetico tramestìo si propagò a tutto l'ambiente. Nessuno dei sopravvissuti fu poi in grado di ricostruire esattamente il susseguirsi degli eventi, a parte la circostanza che parecchi uomini si fecero avanti, e a ciascuno di loro apparve nel bel mezzo della fronte un foro netto, e stramazzarono, e non si mossero più. Gli altri, una ventina, ebbero invece il buonsenso di restarsene perfettamente immobili, con la sola eccezione di Maleski, che continuava ad ululare e a dimenarsi e a ordinare ai suoi ragazzi che ammazzassero quei maledetti figli di puttana. Ma ciascun titanide impugnava una pistola per mano, e molti di quelli che erano ancora in piedi godevano ottime viste frontali delle ampie bocche da fuoco. Poi, dopo un poco, anche Maleski la smise di lanciare imprecazioni, e si limitò a giacere sul pavimento respirando a fatica.

— Va bene — si decise infine a biascicare con voce rauca. — Va bene, hai vinto, ce ne andiamo. — E, con grande sforzo, incominciò a girarsi.

Era un tipo in gamba, non c'è che dire. Aveva un pugnale nascosto nella manica. Lo estrasse mentre si girava, e il suo braccio lo lanciò di scatto con la precisione che nasceva da una lunga pratica. L'arma saettò nell'aria… e Cirocco tese una mano e l'afferrò. La intercettò al volo, così, come se niente fosse, e rimase un attimo con quella punta acuminata ferma a quindici centimetri dalla gola inerme nella quale era destinata a sprofondare. A Maleski non rimase altro da fare che fissarla sbalordito mentre lei, con rapido movimento delle dita, capovolgeva il coltello, e lo impugnava per il lancio, e lo scagliava in un lampo spedendolo ad infilzarsi fino al manico nella rovina di carne straziata e frammenti ossei cui era ridotto il suo ginocchio. Maleski ricominciò ad urlare tutto il tormento che lo attanagliava. Un uomo che stava in piedi alla sua sinistra crollò a terra privo di sensi.

— Rocky — ordinò Cirocco — legagli un laccio intorno alla coscia e buttalo fuori. Voialtri, mettete giù le armi nel punto dove siete, e allontanatevi lentamente. Tutte le armi. Poi spogliatevi. Andate verso l'uscita tenendo in mano solo i pantaloni e dateli a Valiha, la titanide gialla. Se lei ci trova dentro un'arma qualsiasi, vi spezzerà il collo. In caso contrario, ve li potete rinfilare e cavarvi dai coglioni. Vi rimangono quattro minuti.

Ma non ce ne volle nemmeno uno. Erano tutti spasmodicamente ansiosi di tagliare la corda, e nessuno cercò di fare il furbo.

— Raccontate ai vostri amici quello ch'è successo qui! — gli gridò dietro mentre se ne andavano per lasciare il posto alla sua gente che già stava arrivando.

Della nuova combriccola facevano parte sia umani che titanidi. I quadrupedi erano al solito tranquilli e disinvolti, sicuri del fatto loro. Gran parte dei bipedi apparivano invece piuttosto inquieti, essendo stati reclutati solo poche ore prima. Fra di loro figuravano anche Libere Femmine e Vigilanti, nonché esponenti di altre comunità.

Fu piazzata una scrivania, e mentre gli addetti approntavano il parco-lampade Cirocco vi prese posto. Si sentiva sotto l'influsso di una certa reazione emotiva, dovuta sia allo scontro, sia a quello che era stata costretta a fare a Maleski… sia alla consapevolezza di essersela cavata per un pelo. Sapeva che quel trucchetto del coltello poteva riuscirle sei volte su dieci, ed era una percentuale assolutamente insoddisfacente. Non doveva più esporsi a un simile rischio.

Gran parte del suo nervosismo, comunque, consisteva in puro e semplice panico da palcoscenico. Non era qualcosa che si potesse superare con l'età, evidentemente. Ne aveva sofferto sin dall'infanzia.

Un paio di Vigilanti, che prima della guerra avevano lavorato nel campo delle comunicazioni di massa, stavano collegando dei cavi e sistemando un treppiede con sopra una piccola telecamera. Si accesero le luci, abbaglianti, costringendola a battere le palpebre. Le misero davanti un microfono.

— Tutta 'sta cianfrusaglia deve avere almeno cent'anni — brontolò uno dei tecnici.

— Mi basta che funzioni anche solo un'ora — gli disse Cirocco. Lui non parve ascoltarla, intento com'era a esaminarle il viso da varie angolazioni. Tese una mano cercando di toccarle la fronte, e lei si ritrasse, sorpresa e infastidita.

— Bisognerebbe davvero che ci mettesse qualcosa — le disse. — C'è un brutto riflesso.

— Metterci cosa?

— Un po' di trucco.

— Ma è proprio necessario?

— Signora Jones, l'ha detto lei che voleva la collaborazione di un esperto. Io le sto solo spiegando cosa farei se certe decisioni circa la trasmissione stessero a me.

Cirocco sospirò, e annuì. Uno dei titanidi fornì una specie di crema che al tecnico parve andar bene. Prese sulla punta delle dita un poco di quell'impasto untuoso e glielo spalmò sul viso.

— L'immagine è abbastanza buona — annunciò l'altro. — Ma il tubo non lo so quanto potrà andare avanti.

— E allora faremo meglio a muoverci — replicò il regista. Sollevò il microfono e ci parlò dentro. — Cittadini di Bellinzona — disse, e fu sommerso dal gemito lacerante dell'effetto Larsen. Il suo collega regolò un paio di manopole, lui provò di nuovo, e stavolta l'amplificazione risultò corretta. Cirocco poté udire le parole riecheggiare su per le colline.

— Cittadini di Bellinzona — ripeté il regista. — Cirocco Jones, il nuovo Sindaco della città, ha un importante annuncio da fare a tutti voi.

— L'immagine c'è! — esclamò una Libera Femmina che stava alla finestra e guardava in su.

Cirocco si schiarì la gola nervosamente, vinse la tentazione di schiudere le labbra in un sorriso radioso… impulso che senza dubbio riemergeva dai giorni remoti delle conferenze stampa alla NASA… e parlò.

— Cittadini di Bellinzona. Il mio nome è Cirocco Jones. Molti avranno già sentito parlare di me. Fui uno dei primi umani a entrare in contatto con Gea, e per un certo periodo lei mi scelse per essere la sua Maga. Venti anni fa venni rimossa dall'incarico. È importante che comprendiate che anche se Gea mi ha respinto, i titanidi mi sono rimasti assolutamente fedeli. E seguono, senza eccezioni, i miei ordini. In passato non ho mai tratto vero vantaggio da questa obbedienza. Ma lo farò adesso, e i risultati cambieranno la vostra vita. Da questo momento siete tutti, come ho già detto, Cittadini di Bellinzona. Vi domanderete cosa implica questo fatto. Essenzialmente, vuol dire che dovrete obbedire ai miei ordini. Ho già in progetto un regime democratico, più avanti, ma per ora farete meglio a comportarvi come vi dirò. Nella vostra città sono attualmente presenti alcune migliaia di titanidi, e ciascuno di loro è stato istruito circa le nuove regole. Considerateli come un corpo di polizia. Sottovalutare la loro forza o la loro sveltezza sarebbe un grave errore. Visto che dovrete incominciare a vivere secondo norme precise, sarà bene che qualcuna ve la mettiate in mente da subito. Poi, quando la cosa si sarà avviata, ne riceverete altre. Quindi, innanzitutto. L'omicidio non verrà più tollerato. Lo schiavismo è proibito. Tutti gli esseri umani che in questo momento si trovano in stato di schiavitù, sono liberi. Tutti gli umani che ritengono di possedere altri umani, faranno bene a liberarli immediatamente. Quest'obbligo riguarda anche tutte le situazioni in cui, per consuetudine, sia stato concesso privare della libertà altri umani. Se vi trovate in dubbio — se, per esempio, siete musulmani e pensate che la moglie sia una vostra proprietà — sarà opportuno che chiediate consiglio a un titanide. A tale scopo è in vigore un'amnistia di dieci ore. Non sarà più venduta carne umana. Ogni umano che abbia rapporti di qualunque genere con un Fabbro Ferraio verrà ucciso a vista. Non esiste proprietà privata. Potete continuare ad alloggiare dove avete alloggiato finora, ma non crediate di possedere nulla, a parte i panni che portate indosso. Per almeno quattro decariv, a nessun umano sarà consentito di detenere armi da taglio. Approfittate dell'amnistia per consegnare tali armi nelle mani di un qualunque titanide. Appena possibile restituirò agli umani i compiti di polizia. Nel frattempo, il possesso di una spada o di un coltello è considerato delitto capitale. Comprendo le difficoltà che ciò potrà causare a quelli di voi che usano i coltelli per scopi leciti, ma, lo ripeto, chiunque venga sorpreso con un'arma da taglio verrà giustiziato all'istante. Purtroppo non ho molti benefici da offrirvi… a breve termine. Ma spero che, in un arco di tempo più lungo, molti di voi finiranno per apprezzare i provvedimenti che sono costretta a prendere oggi. Soltanto gli sfruttatori, gli schiavisti, gli assassini, non torneranno più alla loro attuale posizione. Tutti gli altri otterranno sicurezza, e i vantaggi ìnsiti in una società umana organizzata. Ordino alle seguenti persone di presentarsi entro dieci ore all'edificio noto come la Borsa Merci. Chi non verrà, sarà ucciso nel corso dell'undicesima ora.

E Cirocco scandì una lista di venticinque nomi, compilata con l'aiuto di Conal, comprendente i capibanda, i ras, i mafiosi più potenti della città. Concluso il proclama, lo rilesse in francese, e poi di nuovo nel suo russo zoppicante. Quindi cedette il microfono a una Libera Femmina, che divulgò la dichiarazione in cinese. Un'altra dozzina di traduttori, fra umani e titanidi, attendevano il loro turno. Cirocco sperava, in quel modo, di raggiungere praticamente tutti i neo-cittadini di Bellinzona.

Quando poté finalmente ritrovarsi sola con se stessa, si sentì come prosciugata. Aveva lavorato sodo, su quel discorso, e a lungo, ma tutto sommato conservava l'impressione che non fosse venuto un granché. Le pareva che qua e là avrebbero dovuto essere espressi a chiare lettere concettoni tipo Vita, e Libertà, e la Ricicca della Felipietà. Ma, dopo averci riflettuto su un bel po', giunse alla conclusione che non c'era nulla cui lei credesse come ad un "Diritto" con la D maiuscola. Poteva un qualunque mortale accampare il Diritto alla Vita?

Eccola dunque ricaduta pari pari nel più schietto realismo. Atteggiamento, peraltro, che le era sempre stato di grande utilità, nel corso di una vita lunga e votata alla concretezza. "Così stanno le cose, poveri piccoli babbei. Mettetevi di mezzo, e verrete schiacciati". Comunque, anche movendo dalle migliori intenzioni, un principio del genere non le sonava poi tanto impeccabile… senza contare che lei rimaneva ben lungi dall'esser certa delle proprie motivazioni.


La vita, a Bellinzona, tutto poteva dirsi meno che noiosa. La morte violenta era in agguato ovunque e poteva colpire ad ogni istante, senza preavviso. Per quelli che disponevano di amicizie influenti, la situazione oscillava dal benessere, quando le cose andavano bene, all'inquietudine più nera, quando andavano male. Non si poteva mai sapere quando questo o quel Boss avrebbe finito per precipitare nella polvere, vanificando tutti gli accurati preparativi di chi aveva scommesso su di lui per procacciarsi un'esistenza tranquilla. Comunque era sempre meglio rischiare che rimanere confinati fra le masse anonime, per le quali Bellinzona rappresentava un genere d'inferno tutto particolare. Non solo versavano in costante pericolo di venire ridotte in schiavitù… ma, in gran parte, non avevano nulla da fare.

Restavano sempre le necessità primarie dettate dall'istinto di sopravvivenza, ovviamente, a tenere la gente occupata. Ma non era affatto come possedere un lavoro. Non era come coltivare il proprio campo, o magari anche i campi di un proprietario terriero. Nella maggior parte dei quartieri, la gente doveva obbedienza a un Boss, uno Shogun, un Possidente, un Capo… insomma qualche Pezzo Grosso locale. Per una donna le cose andavano anche peggio, a meno che non avesse la fortuna di venire arruolata fra le Libere Femmine. L'asservimento femminile, pratica estremamente diffusa, non consisteva semplicemente nel lavoro forzato che toccava agli uomini. Era schiavitù sessuale di vecchio stampo. Le donne venivano comprate e vendute dieci volte più degli uomini.

E quand'uno non era più utile a nient'altro, ecco che compariva il ceppo del macellaio.

A dire il vero le uccisioni per cibo si mantenevano a un livello relativamente basso. Capitavano, certo, ma con la manna e l'autorità dei vari signorotti questo genere di cose rimaneva abbastanza sotto controllo. La scarsità di carne, comunque, faceva sì che molti cadaveri destinati ai roghi pubblici fossero invece dirottati verso gli uncini, i coltelli e le casseruole.

La noia rappresentava davvero un grosso problema. Generava delinquenza, era alla radice di delitti assurdi e immotivati… come se Bellinzona avesse avuto bisogno di altre occasioni di violenza.

Bisognava riconoscere che Bellinzona era ormai matura per un cambiamento. Qualunque genere di cambiamento.

Così, quando l'aerostato giunse a galleggiare sulla città, tutta la baracca, cigolando, si fermò.

Gli abitanti di Bellinzona li avevano visti più volte, gli aerostati, ma sempre in lontananza. Lo sapevano che erano piuttosto grandi. Molti non avevano idea che fossero creature intelligenti. Quasi tutti però erano a conoscenza del fatto che gli aerostati non si avvicinavano mai alla città per via dei tanti fuochi accesi un po' dovunque.

Ma a Finefischio, evidentemente, non importava. Gironzolò sulla città come se fosse abituato a farlo tutti i giorni, e distese la sua ombra sterminata dalla Palude dello Sconforto dritto dritto fino ai Moli Estremi. Era quasi grande quanto l'intera Baia della Menta Piperita. Poi si limitò a restarsene lassù sospeso, oggetto di gran lunga il più gigantesco che chiunque in città avesse mai veduto. Le sue titaniche pinne caudali si muovevano languide, giusto quel tanto che bastava a mantenerlo in posizione sul centro di Bellinzona.

Già di per sé sarebbe stato sufficiente ad inchiodare tutta la gente a naso in su, ma poi sul fianco gli apparve un viso, e incominciò a dire le cose più sbalorditive.

DODICI

Venti riv dopo avere usurpato il potere, Cirocco già rimpiangeva di non avere lasciato Bellinzona abbandonata a se stessa. Lo sapeva fin dall'inizio che avrebbe dovuto affrontare un mucchio di discussioni, ma ciò non toglieva che tutte quelle beghe la infastidissero enormemente. Sospirò, e continuò ad ascoltare. L'ideale sarebbe stato, a questo punto, che coloro i quali sperava divenissero suoi alleati accettassero semplicemente la situazione, senza costringerla a drastiche prese di posizione tipo quella rivelatasi così utile nel caso di Maleski.

Di azioni dimostrative ne erano servite altre, ma se l'era aspettato. Dei venticinque in lista, diciotto adesso erano morti. Sette avevano preferito invece presentarsi, disarmati, a fare atto di sottomissione al nuovo Capo. Si rendeva conto, con estrema lucidità, di non potersi minimamente fidare di loro, ma era meglio lasciare che s'infrenassero a fondo nella loro stessa ingordigia, aspettare che tramassero i loro intrighi, e alla fine impiccarli con tutti i crismi di legge. Un modo elegante per restare nel giusto anche se sotto sotto c'era il trucco.

Quindi, in un certo senso, i cattivi non rappresentavano un vero problema. Erano i buoni, come al solito, che provocavano infiniti mal di testa.

— Non possiamo abbandonare, e non abbandoneremo, il nostro enclave indipendente — dichiarò Trini. — Tu è un pezzo che non càpiti da queste parti, Cirocco. E non lo sai com'era la situazione. Non. puoi capire quanto fosse brutto, per una donna — e lo è ancora! — cercare di vivere a Bellinzona. Alcune delle nostre donne dovettero subire… oh, Cirocco, ti verrebbe da piangere! Lo stupro non era niente, in confronto al resto. No, dobbiamo conservare la nostra autonomia.

— E noi non consegneremo le nostre armi — rincarò Stuart. Era, costui, l'uomo presentatosi in rappresentanza dei Vigilanti a séguito di una precisa richiesta di Cirocco, così come Trini si era fatta avanti in qualità di membro anziano delle Libere Femmine. — Hai parlato di legge e di ordine. Da sette anni, siamo praticamente il solo gruppo che si sforzi di garantire una parvenza di diritti civili a tutti gli umani di Gea. — E a questo punto lanciò uno sguardo di fuoco a Trini, che non esitò a restituirglielo. — Siamo sempre stati e rimaniamo disposti a proteggere anche quelli che non appartengono alla nostra organizzazione… compatibilmente, si capisce, con le disponibilità di volontari e di armi. Non pretendo che siamo riusciti a rendere sicure le pubbliche vie, ma il nostro intento era procurare un minimo di decenza.

Cirocco li fissò, prima uno, poi l'altra. Incredibile ma vero, avevano entrambi riassunto le rispettive posizioni in un paio di minuti, e probabilmente nessuno dei due ricordava di avere discusso e sbrodolato per dieci ore senza arrivare a dire un accidente di nulla più di quello che avevano appena detto.

Tacquero un momento, ad ogni modo, appuntando su Cirocco una coppia di sguardi ansiosi.

— Mi piacete entrambi — disse Cirocco in tono pacato. — E mi seccherebbe molto se uno di voi dovesse morire.

Non batterono ciglio, ma l'improvvisa vacuità del loro sguardo era abbastanza eloquente.

— Stuart, lo sappiamo tutt'e due che la mia politica di disarmo non potrà durare a lungo. Però mi si presenta una grossa occasione, e voglio sfruttarla fino in fondo. Le munizioni presenti a Bellinzona sono tutte sotto il mio controllo. Ma in giro c'è un mucchio di pistole. E io voglio requisirle, se necessario frugando casa per casa. La costruzione di armi da fuoco funzionanti va oltre le capacità tecniche di Bellinzona, e per un bel pezzo la situazione non cambierà. Ma nessuno v'impedirà di realizzare coltelli, spade, archi e frecce, randelli… e via dicendo. Intendo usare il breve periodo in cui tutti saranno disarmati per… per dare alla gente l'occasione di respirare liberamente. Certo, nei prossimi giorni molti umani moriranno, ma saranno i titanidi ad ucciderli. Se un umano ucciderà un altro umano, l'assassino verrà immediatamente e pubblicamente giustiziato. Voglio che la gente veda. Il mio scopo, qui, è ottenere un patto sociale funzionante, e debbo partire praticamente da zero. Dalla mia ho il vantaggio della forza, e la consapevolezza del fatto che gran parte di questa gente proviene da comunità che prima della guerra erano basate sull'osservanza delle leggi. Col giusto orientamento, non ci metteranno molto a rientrare in carreggiata.

— Stai cercando di trasformare questo posto in un paradiso, per caso? — sogghignò Stuart.

— Neanche per sogno. Mi faccio poche illusioni su quello che accadrà a Bellinzona. Sarà brutale e ingiusto. Ma già ora è meglio di com'era venti riv fa.

— Venti riv fa, però, io mi sentivo al sicuro — obiettò Trini.

— Ma solo perché vivevi in una specie di fortezza. Non ti biasimo, sai, al posto vostro avrei fatto anch'io la stessa cosa. Ma adesso ho bisogno di abbatterli, i muri, e d'altra parte non posso avere in giro per la città un esercito arrogante di Vigilanti spadaccini finché non li conoscerò un po' meglio. — Si rivolse a Trini.

— Ho da farti un paio di proposte. Dopo il disarmo, voglio un periodo di tempo, diciamo un miriariv, durante il quale solamente alla polizia sarà consentito portare spade e mazze. E solo le donne potranno portare pugnali.

— Questo non è giusto! — esclamò Stuart.

— Hai dannatamente ragione a pensarla così — proseguì Cirocco. — Però non era nemmeno giusto che la maggior parte delle donne che arrivavano qui a causa della guerra venissero tramortite e trascinate via da certe luride bestie su due gambe e vendute all'asta.

Trini appariva interessata, ma ancora dubbiosa.

— Qualche donna morirà — osservò Trini. — Non sono mica tante, quelle capaci di maneggiare un coltello.

— Quante donne sono morte, ieri, proprio perché il coltello non ce l'avevano? — replicò Cirocco.

Trini continuava a mostrare un'aria esitante. Cirocco si rivolse a Stuart.

— Quanto ai tuoi Vigilanti… trascorsa questa fase iniziale, avremo bisogno di una polizia composta di umani, ed ho intenzione di dare la preferenza ai Vigilanti.

— Armati di bastoni? — domandò lui.

— Non sottovalutare l'efficacia di un bel manganello sfollagente.

— Quindi i miei uomini dovranno andare in giro a fermare la gente e a perquisirla, giusto? E che succede se qualche testa calda tira fuori un coltello?

— Dipende da quant'è in gamba il tuo uomo. Certo, potrebbe benissimo rimetterci la pelle.

Lasciò a tutti e due il tempo di rifletterci. Provava, intensa, la tentazione di tagliar corto e spiattellargli senza mezzi termini il nòcciolo del discorso: non avete scelta. Ma già lo sapevano. Quindi era meglio dargli la possibilità di trovar da sé un punto di vista che consentisse loro di accettare di buon grado la situazione, almeno in parte.

— Dunque ci saranno leggi, e tribunali? — domandò Stuart.

— Sì, ma non subito. Ho già delineato le norme basilari contro lo schiavismo e l'omicidio. Per il momento saranno applicate sul luogo stesso del crimine, coi titanidi in veste di giudici. Tra non molto le trasformeremo in leggi vere e proprie, introducendo la formalità dell'arresto e una qualche forma di processo.

— Mi sentirei più tranquilla se ci fossero fin da ora, qualche legge vera e un tribunale.

Cirocco la fissò in silenzio. Evitò di accennare all'esistenza di una possibilità ancora più brutale, che per un certo periodo aveva preso in seria considerazione ed ancora esitava a rimuovere del tutto dal proprio orizzonte. Soluzione Conal, la definiva. Si basava sul fatto che i titanidi erano in grado di emettere verdetti nei quali lei nutriva una fiducia assoluta. Se loro dicevano che il tale o talaltro umano andava eliminato, Cirocco sapeva che avevano ragione. E non si poteva negare che una simile procedura avrebbe reso tutto più rapido e più facile.

Se poi fosse un atteggiamento sbagliato, vai un po' a capire. Cirocco credeva nell'esistenza del bene e del male, ma giusto e ingiusto erano tutto un altro paio di maniche. Trini aveva bisogno di far nascere ogni giudizio dal seno della legge perché un tale principio le era stato inculcato dentro profondamente. Anche Cirocco aveva ricevuto un'educazione in tal senso, e riteneva che alla fine sarebbe stato indispensabile adeguarsi a quel criterio, se gli umani dovevano vivere in comunità. Ma non lo considerava un assioma da idolatrare. E non dubitava minimamente che l'innata capacità titanide di percepire la malvagità umana potesse colpire nel segno assai più accuratamente, ad esempio, della sentenza che sarebbe stata capace di formulare una giuria di dodici umani.

Comunque era un metodo che non la convinceva. Di conseguenza aveva scelto la strada più difficile.

— Alla fine avremo sia leggi che tribunali — riprese Cirocco. — Probabilmente avremo anche gli avvocati, a tempo debito. Ma tutto questo dipende da voi.

Trini e Stuart si fissarono.

— Ti riferisci a noi due? — domandò Stuart. — Oppure a tutti i cittadini?

— A tutti quanti, ma in particolare a voi due. Se riuscirete per un poco ad andare d'accordo con me, vi troverete nella posizione ideale per assumere il comando, quando io mi toglierò di mezzo.

— Te ne andrai? — si stupì Trini. — E quando?

— Appena potrò. Non è che stia facendo tutto questo perché mi va. Lo sto facendo perché sono l'unica persona in grado di farlo, e poi… poi ci sono altri motivi che per ora non vi riguardano. Non l'ho mai avuta la fregola di governare, e penso proprio che sarà "tutto un séguito di brutte gatte da pelare."

Stuart se ne stava lì con aria sempre più assorta. Cirocco pensò che il suo primo giudizio su quell'uomo era indovinato. Costui bramava il potere. Chissà, prima della guerra, a che livello era arrivato, nella carriera governativa. Benché non gliel'avesse mai chiesto, era assolutamente certa che Stuart doveva avere ricoperto incarichi di governo.

Trini manifestava la medesima tendenza, seppure in forma diversa. Cirocco la conosceva ormai da vent'anni, e solo nel corso degli ultimi sette il suo "vizio segreto" era venuto a galla. Tutto considerato, comunque, l'aveva messo bene a frutto, nel ruolo di madre fondatrice e forza guida delle Libere Femmine. Fondamentalmente era una brava persona. Cirocco non aveva bisogno di un titanide per esserne certa.

Anche Stuart era tutto sommato un tipo a posto. Non che a Cirocco andassero veramente a genio né l'una né l'altro. Aveva infatti la sensazione che vi fosse qualcosa di sostanzialmente poco amabile nell'impulso a dominare grandi masse di persone, però riconosceva che siffatti individui potevano rendersi utili. E, all'occorrenza, non incontrava eccessive difficoltà a trattare con loro.

— Che genere di governo avresti in mente? — domandò Stuart in tono cauto. — Hai abolito la proprietà privata. Sei una comunista?

— Io sono, temporaneamente, un dittatore assoluto. Faccio le cose che ritengo indispensabili, nell'ordine dettatomi da un'approfondita riflessione. Ho abolito la proprietà privata in quanto Bellinzona non appartiene a nessuno. Finora i potenti hanno abitato negli edifici più grandi, mentre i poveri non avevano nemmeno di che vestirsi. Ciò è potuto accadere perché non c'erano leggi, qui, quando la gente è arrivata. La soluzione che ho voluto imporre consiste, primo, nell'abolire la schiavitù, e, secondo, nell'eliminare gli spropositati profitti che gl'individui più spietati avevano realizzato semplicemente perché erano dei gran figli di puttana. Ecco qui una delle gatte di cui dicevo. Ora come ora, io possiedo la città di Bellinzona. Ma in effetti non ne ho alcun bisogno, e non la voglio. Quindi ho intenzione di restituire gli edifici, gli alloggi, le barche alla gente… e desidero farlo in modo equo. Ci sono tante persone che hanno lavorato sodo. Hanno costruito le barche, per esempio. E io, in un colpo solo, le ho derubate di ogni cosa. Una delle operazioni per le quali conto sul vostro aiuto, sarà escogitare un qualche meccanismo di cernita per soddisfare le richieste di beni personali, di immobili, di abitazioni. Insomma… sì, diciamo pure che al momento sono una specie di comunista, ma prevedo che le cose cambieranno.

— Perché non lasciare tutto allo Stato? — domandò Trini.

— Anche questa sarà una scelta vostra. Personalmente vi consiglierei di evitarlo. Credo che sarete più popolari e dormirete sonni più tranquilli se cercherete di andare incontro alle istanze della popolazione evitando formule assolutistiche. Questo, comunque, potrebbe anche essere nient'altro che un mio personale preconcetto. Riconosco di avere una certa inclinazione per la proprietà privata e la democrazia, in fondo è lo stampo in cui mi sono formata. Ma non ignoro che esistono altre ideologie.

Osservò di nuovo Stuart e Trini soppesarsi con sguardi meditabondi. Aveva la netta sensazione che, se fosse riuscita a convincerli, molto probabilmente si sarebbero rivelati due collaboratori in gamba.

— Per il momento — riprese — mi serve una risposta precisa. Ve la sentite di lavorare con me, pur sapendo che le mie decisioni rimangono irrefutabili?

— Ma se non accetti le opinioni altrui, che te ne fai di noi?

— Per chiedervi consiglio quando devo decidere. Per ascoltare le vostre critiche nel caso riteniate che ho deciso male. Fermo restando che la decisione spetta a me.

— Ma abbiamo davvero scelta? — chiese Trini.

— Senza dubbio. Non ho intenzione di uccidervi. Se rifiuterai, ti lascerò andare, e farò venir qui un'altra Libera Femmina, e continuerò così finché non ne avrò trovata una che sia disposta a darmi una mano per reinserire la vostra comunità nel tessuto sociale della città. Prima o poi capiterà, lo sai.

— Sì, lo so. E potrei anche essere io, quella che cerchi.

Stuart levò lo sguardo verso Cirocco.

— La mia risposta? Certo che me la sento. Anzi, comincio subito col dirti che è un grave errore consentire ai titanidi di uccidere gli umani. Favorirà l'insorgere di pregiudizi razziali.

— È un rischio che sono disposta a correre. I titanidi sono perfettamente in grado di badare a se stessi. Se qui c'è qualcuno in pericolo, è la razza umana, non certo i titanidi. Se a conti fatti la questione non potrà risolversi pacificamente, loro non faranno altro che sterminarvi dal primo all'ultimo, uomini, donne e bambini.

Stuart apparve sbalordito, poi riprese un'aria assorta. Cirocco la trovò una reazione molto naturale. Nemmeno sette anni di Bellinzona erano riusciti ad intaccare l'antropocentrica convinzione di quell'uomo che, alla fine, gli umani avrebbero comunque trionfato su tutte le altre specie, proprio come avevano già fatto sulla Terra. Solo un momento prima egli era giunto alla consapevolezza che le cose sarebbero potute anche andare diversamente. Era un concetto che non gli piaceva.

E quante altre ne avrebbe fatte, da lì in avanti, di quelle scoperte sgradevoli…

TREDICI

A Rocky non andava a genio il mestiere di poliziotto. E non era il solo. Nessun titanide amava quel lavoro. Ma il Capitano aveva garantito, con gran sfoggio di solenni promesse, che così bisognava fare, se si voleva giungere a recuperare il Bambino, e quindi Rocky svolgeva con la massima diligenza il suo servizio di pattuglia.

Non poteva certo dire di essersi annoiato, in quel periodo.

Il primo giorno aveva partecipato all'assalto al quartier generale di un potente capintesta, operazione che aveva lasciato sul terreno trecento morti, compreso un titanide trafitto al capo da una freccia. Lui stesso aveva subito una non grave ma dolorosa ferita da strale nella parte posteriore del fianco sinistro, e trattava tuttora la relativa gamba con particolare riguardo.

Non era stata quella l'operazione più rognosa. Un altro signorotto aveva resistito per quasi cento riv. I titanidi avevano stretto d'assedio l'edificio in cui stava asserragliato, accendendo falò tutt'in giro per dare un po' di sudarella a chi stava dentro. Finalmente le truppe fedeli al boss avevano gettato a rotolare fuori della porta la testa del loro beneamato, e si erano arrese. Nel corso di quell'azione erano caduti tre titanidi.

Complessivamente, Rocky era a conoscenza della morte di una dozzina di titanidi. Le perdite umane si contavano a migliaia, concentrate soprattutto nei primi quaranta riv e con un'altra breve impennata allorché era entrato in vigore il disarmo generale. Ormai le bande erano state tutte disperse. Gli umani occhieggiavano Rocky con sospetto e paura, ma già da un pezzo nessuno aveva più tentato atti ostili nei suoi confronti.

Egli dunque percorreva senza fretta il giro di ronda, spada inguainata a picchiettargli contro la zampa anteriore sinistra, in cerca di turbative ed augurandosi di non trovarne. Di tanto in tanto gli capitava d'imbattersi in uno di quegli umani che Cirocco definiva pazzi, ma secondo Rocky era proprio gente con la testa bacata. Gli umani erano tutti pazzi, ben si sapeva, di solito però tale condizione assumeva i connotati d'una stimolante e piacevolissima stravaganza. In un limitato numero di casi, tuttavia, si manifestava qualcosa d'altro. Il termine umano per definire costoro era psicopatici, ma Rocky lo trovava insignificante. Erano quelli che a suo parere meritavano di venire uccisi a vista, gente nei cui confronti non aveva senso domandarsi se andasse eliminata, ma solo quando.

Ma il Capitano aveva detto che nessuno doveva essere ucciso a meno che non si facesse cogliere, per usare la sua espressione, "con le mani nel sacco" in flagrante delitto capitale.

E a Rocky, ora come ora, di sicuro andava benissimo così. Ne aveva vista abbastanza di gente ammazzata. Che gli umani se li schiacciassero pure da soli, i loro pidocchi.

Preferì dirottare il proprio pensiero verso argomenti più gradevoli. Allargò le labbra in un bel sorriso, facendo trasalire una donna umana che, dopo breve esitazione, gli sorrise di rimando. Rocky sollevò verso di lei, in segno di saluto, il suo ridicolo copricapo, poi si diede una grattatina sotto la camicia. Quei vestiti che gli toccava indossare gli davano una noia del diavolo. Persino il Capitano, ogni tanto, andava assecondato nella sua follia. Portate le uniformi, aveva detto, e Rocky obbediva, e non la smetteva di grattarsi.

Udì riverberarsi in mente gl'indistinti, oscuri pensieri di Tamburina, e di nuovo sorrise.

Tamburina era sua figlia. Piccola piccola, ancora. Valiha aveva tenuto un po' con sé l'uovo semifecondato aspettando il momento opportuno per abbordare la Maga. Cirocco aveva concesso l'autorizzazione, e così, un decariv prima dell'invasione di Bellinzona, era toccato a Serpentone attivare l'uovo nel grembo di Rocky. Ove adesso la nascitura s'annidava giunta al terzo decariv di vita. Null'altro ancora che una minuscola concentrazione di cellule proliferanti, con un cervellino grande come una noce direttamente derivato dall'uovo di Valiha. All'interno della struttura cristallina di quell'uovo erano presenti reticoli molecolari organizzati assai diversamente rispetto a quelli del cervello umano. V'era già, ad esempio, geneticamente instillata la capacità di cantare. Anche molte delle cose imparate da Valiha nel corso della sua esistenza si trovavano già immagazzinate in quel microcosmo, compresa la conoscenza della lingua inglese. C'erano ricordi della vita di Valiha e di tutte le sue antemadri, in una linea ininterrotta risalente fino alla prima antemadre dell'Accordo Madrigale, Violone. Rappresentati in minor misura erano anche gli antepadri e i retropadri, nell'unica forma d'immortalità che avesse senso per un titanide. Lungi da lui ogni atteggiamento sciovinista, a Rocky sembrava proprio che si trattasse di un sistema più dignitoso rispetto all'inverecondo marasma della genetica umana. Gli umani si evolvevano pagando l'orribile prezzo dell'anormalità fisica e mentale, soggetti alla fredda spietatezza del caso, attraverso un'infinita schiera d'infelici che senza averne alcuna colpa venivano urlanti al mondo del tutto privi d'ogni possibilità di sopravvivenza. Nel migliore dei casi, un essere umano consisteva in una serie di compromessi fra geni dominanti e geni recessivi. E l'unica memoria razziale impressa nelle ottuse menti dei neonati umani discendeva, a quanto era dato di capire, da fameliche bestie vissute sugli alberi prim'ancora che Gea avesse iniziato a girare.

Stava tutta lì, secondo Rocky, la spiegazione di quel cancro chiamato Bellinzona.

Ciascun titanide otteneva una solida, essenziale, concreta educazione dalla propria antemadre già durante lo stadio di uovo, molto prima di conseguire un sia pur minimo grado di autocoscienza. Infallibili meccanismi all'opera nelle strutture dell'uovo in mutazione filtravano lo sperma coinvolto nel rapporto frontale, traendone tutte le informazioni e peculiarità che avrebbero potuto tornare utili, eseguivano prove simulate, respingevano le caratteristiche indesiderabili, e poi si consolidavano in un agglomerato pronto allo sviluppo definitivo. L'uovo non prendeva il DNA alla rinfusa, il buono mescolato col cattivo, ma compiva una cernita, ne valutava il risultato e utilizzava i soli elementi in grado di fornire un esito ottimale.

Se il titanide in embrione acquisiva dall'antemadre la totalità delle sue nozioni pratiche e gran parte delle memorie razziali, era però dalla retromadre che derivava tutto il resto. E riteneva Rocky che proprio in ciò consistessero gli elementi più importanti… anche se, essendo appunto lui, nella fattispecie, a fungere da retromadre, non era da escludersi che la sua potesse essere un'opinione interessata.

Tamburina era viva, e cosciente, e in costante comunicazione con Rocky. Non si trattava di un contatto verbale, anche se Tamburina possedeva già un suo vocabolario, e neppure musicale, anche se la piccina trascorreva ore intere ad intonare gli strani canti del grembo. Man mano che la struttura cerebrale si sviluppava trasformandosi in qualcosa di assai simile al cervello umano, ma con un uovo cibernetico a farle da nucleo, Rocky pervadeva ogni successiva stratificazione col suo amore, il suo canto… la sua anima.

Sotto diversi aspetti la gravidanza rappresentava, per un titanide, la parte più bella dell'esistenza.

Rocky interruppe la comunicazione con sua figlia nell'istante stesso in cui percepì l'inconfondibile sentore della violenza. Era una sensazione che permeava l'aria, un mutamento d'atmosfera che gli era capitato d'avvertire spesso, negli ultimi tempi.

Guardando innanzi lungo la strada maestra ne individuò la scaturigine. Provò un senso di stanchezza, e si domandò come avessero fatto i poliziotti umani a cavarsela sul lavoro. Le situazioni erano tutte così prevedibili, eppure ciascuna di loro si presentava così pericolosamente diversa…

Estrasse dalla sacca ventrale l'arma di ordinanza e ne controllò il caricatore. Si trattava di un ordigno di genere completamente diverso rispetto a quello che aveva di malavoglia portato con sé il giorno, da cui tanti riv ormai lo separavano, in cui era venuto a Bellinzona per operare con il suo Capitano. Era un'arma del ventiduesimo secolo, questa, progettata e costruita tenendo conto delle particolari condizioni ambientali di Gea. Gran parte dei princìpi fondamentali rimanevano i medesimi, differivano però i materiali. La pistola di Rocky, infatti, non conteneva metallo. Aveva l'aspetto di un lungo, sottile cilindro di cartone unito a un'impugnatura. Attorno alla parte mediana della canna carboceramica aggettavano brevi alette che, al momento dello sparo, emettevano per un attimo un vivo bagliore rossastro. Nell'impugnatura, che risultava troppo piccola per la mano di Rocky, erano immagazzinati quaranta minuscoli razzi dalla punta di piombo. Il proiettile veniva spinto attraverso la canna con relativa lentezza, poi accelerava violentemente, infrangendo la barriera del suono entro un metro dalla bocca.

Era un'arma straordinaria. E Rocky la odiava con tutto il cuore. A partire dal modo in cui gli pesava nella sacca, sino agli esiti spaventosi della sua terribile precisione, era una cosa malvagia sott'ogni punto di vista. Egli si augurava di vedere il giorno in cui tutti quegli strumenti di morte sarebbero stati totalmente cancellati dalla faccia di Gea.

Così riflettendo, si approssimò alla gente urlante.

C'era un uomo che aveva afferrato una donna per una braccio e se la stava brutalmente trascinando appresso, mentre quella continuava a gridargli oscenità. Che egli non mancava di restituirle, insulto dopo insulto. Li seguiva un ragazzo in pianto. Un gruppetto di persone si era fermato ad osservare, evitando però d'interferire. A Rocky pareva di aver già assistito almeno una dozzina di volte, a scene del genere.

Mentre lui si avvicinava, l'uomo, che di certo non doveva essersi reso conto della sua presenza, smise di trascinare la donna e le appioppò un pugno. La colpì di nuovo, e poi ancora… e a questo punto si accorsero entrambi che vicinissimo a loro c'era un titanide con la pistola spianata.

— Lasciala immediatamente — ordinò Rocky.

— Senti, io non volevo mica…

Rocky gli diede in testa un colpetto leggero, scegliendo un punto dove sapeva che il trauma avrebbe causato le minori conseguenze, e l'uomo stramazzò. La donna, come Rocky aveva più o meno previsto, subito s'inginocchiò accanto all'uomo accasciato e scoppiò a piangere, cullandogli la testa fra le mani.

— Non portarmelo via! — singhiozzava. — È stata tutta colpa mia!

— Alzati — le ingiunse Rocky. E, siccome non obbediva, provvide lui a tirarla su. Il poco che portava indosso non bastava a nascondere un'arma. Rocky allungò indietro una mano a frugare nella bisaccia e ne tirò fuori un corto pugnale d'acciaio, del tipo che a Bellinzona era ben noto col nomignolo di "taglianoci".

— Non lo sai che devi sempre recare con te uno di questi? — le chiese.

— Non lo voglio. Non so che farmene di un coltello.

— Come preferisci. — Rocky lo rimise a posto. — Per il momento sei ancora in regola. Ma fra un ettoriv infrangerai la legge, a non girare armata. La punizione per la prima infrazione prevede un chiloriv in un campo di lavoro. Ti suggerisco di consultare, per i particolari, gli appositi comunicati affissi agli albi municipali, in quanto l'ignoranza non è accettabile come scusa. Se non sai lèggere, potrai rivolgerti ad un interprete che…

La donna gli si gettò addosso mulinando goffamente i pugni. Se l'era aspettato. Gli servivano testimoni, e voleva che la donna tentasse di malmenarlo, soprattutto perché non gli andava affatto l'idea di lasciarle quel bambino in lacrime. Aspettò che avesse sferrato qualche innocuo colpo, poi mise anche lei fuori combattimento.

— Aggressione nei confronti di un agente di polizia — disse a beneficio della piccola folla che si era assembrata, e nessuno ebbe nulla da eccepire. Il ragazzino s'era sciolto in un pianto ancora più dirotto. Doveva essere sugli otto anni, opinò Rocky, ma avrebbe potuto sbagliarsi. Valutare l'età dei giovani umani era sempre un problema, per i titanidi.

— È tua madre, questa donna? — chiese al ragazzo, che però era troppo sconvolto anche solo per udire la domanda. Rocky si rivolse di nuovo alla folla.

— Qualcuno di voi sa se questa è la madre del bambino?

Si fece avanti un uomo.

— Sì, è suo figlio, o almeno così dice lei.

Pareva probabile, in effetti, che fosse la madre naturale. Rocky ne era quasi certo, in quanto quella lì non sembrava affatto il tipo di donna che avrebbe adottato uno degl'infiniti trovatelli di Bellinzona.

— C'è qualcuno, in questa comunità, disposto ad assumersi la responsabilità del bambino? — Che presa in giro, pensò Rocky. Una comunità, proprio. Era la procedura prevista, d'altra parte, e Cirocco sosteneva che tra non molto le comunità avrebbero davvero incominciato a svilupparsi. — In caso negativo, lo porterò all'ospizio per trovatelli, dove si prenderanno cura di lui finché sua madre non tornerà dal campo di lavoro.

Incredibilmente, un altro uomo uscì dalla folla e venne avanti.

— Lo prendo io — dichiarò.

— Signore — iniziò a dire Rocky — in tal caso le sue responsabilità comportano…

— Lo so benissimo cosa comportano. Li ho letti tutti quanti, quei maledetti comunicati. Molto attentamente. Vattene pure via con questi due deficienti, che al moccioso un posto da dormire glielo trovo io.

C'era un'ombra di rabbia nelle parole dell'uomo, un vago tono di sfida. Gli umani sono perfettamente capaci di arrangiarsi da sé, proclamavano chiaramente fra le righe. Ma, seppure a denti stretti, contenevano anche una certa dose di rispetto. A Rocky andavano bene entrambe le soluzioni. In circostanze di quel genere gli era conferita l'autorità di prendere autonome ed immediate decisioni, e giudicò che il ragazzo se la sarebbe cavata benissimo, affidato a quell'uomo.

Legò quindi i prigionieri, se li sistemò saldamente sul dorso e partì alla volta della prigione. Strada facendo, Tamburina s'insinuò di nuovo nei suoi pensieri.

Madre, cosa ti addolora? La domanda di Tamburina fu ad un tempo assai più semplice e molto più complessa della sua trasposizione in lingua umana. "Madre", ad esempio, costituisce una grossolana e drastica semplificazione del termine titanide utilizzato da Tamburina. La domanda stessa, nel suo complesso, possedeva piuttosto la struttura di un'onda emotiva.

Fatti. Relazioni interpersonali e interrazziali. La vita.

Madre, debbo proprio nascere?

Amerai la vita, figlia mia. Quasi sempre.

QUATTORDICI

Sin dal giorno della presa di potere, Nova era stata indaffarata come potrebbe esserlo una strega con tre buchi nella tuta spaziale e solo due toppe per ripararli.

Cirocco pareva che non dormisse mai. E Nova c'era quasi arrivata anche lei, a quello stadio. Dall'invasione era ormai trascorso quasi mezzo chiloriv. Lei non aveva avuto granché da fare all'inizio, tranne tenere il conto dei morti e dei feriti. Man mano però che entravano in vigore le leggi e s'avviava il censimento generale, il suo carico di lavoro era andato costantemente aumentando. Bisognava contare non solo la gente, ma anche le abitazioni, ed era previsto pure un inventario di tutte le ex proprietà private.

Tutto il comparto elaborazione dati era stato affidato a Nova.

Ci vogliono i computer anche per fare una rivoluzione, aveva pensato la ragazza.

S'era ritrovata con la qualifica di Primo Burocrate, il che per lei non significava nulla, a parte il fatto che le impediva di andare in giro per le strade con una spada al fianco. Soluzione, questa, che la trovava del tutto consenziente. Ormai si azzuffava solo se non poteva proprio farne a meno, e a dire il vero stava diventando molto abile a tenersi alla larga da ogni occasione.

Lei e Conal, da questo punto di vista, avevano molto in comune.

Il pensiero di Conal le provocò un momentaneo malumore. Distolse lo sguardo dal monitor e si applicò a qualche semplice esercizio distensivo.

Subito dopo il ritorno da Pandemonio era avvenuto uno scontro inevitabile. Nova aveva preteso di sapere se le affermazioni di Gea erano davvero nient'altro che propaganda, e Robin, pur con riluttanza, s'era decisa a dirle la verità. Nova l'aveva conseguentemente informata che, da lì in avanti, non si considerava più figlia di Robin.

Sospirò, scansandosi i capelli che le ricadevano sugli occhi.

Nel corso delle interminabili riunioni tenutesi a Tuxedo Junction prima dell'invasione, era venuto fuori che Nova aveva il bernoccolo dei computer. Le vecchie macchine di Chris erano state quindi riesumate, spolverate, messe in funzione ed approntate in vista del gran giorno. Da quel momento, Nova aveva trascorso davvero poche ore lontana da monitor e tastiere.

Non aveva difficoltà ad ammettere con se stessa ch'era un modo decisamente interessante di assistere a una rivoluzione.

Fu lei la prima a rilevare una diminuzione delle esecuzioni sommarie. Fu lei, prima d'ogni altro, a sapere che il tasso di ammissione ai campi di lavoro stava calando. Fu Nova che consegnò alla Maga le prime valutazioni numeriche in ordine alla popolazione di Bellinzona.

Risultò che in città vivevano quasi mezzo milione di umani, circostanza che sorprese tutti eccetto Conal. Le macchine di Nova erano in grado di catalogarli in base a tutti i parametri possibili e immaginabili, dalla nazionalità all'età, dal sesso alla lingua, all'altezza, al peso, al colore degli occhi. Proprio un censimento coi fiocchi. Destinato a fornire le basi per il sistema generale d'identificazione che avrebbe visto la luce in un futuro ancora piuttosto nebuloso. Nova aveva, a propria disposizione, una squadra di cento informatori che foraggiavano incessantemente il suo cervellone. I risultati li sottoponeva a Cirocco e al Consiglio di Governo.

Tale Consiglio, al momento, governava più di nome che di fatto. Era Cirocco che continuava a guidare la città con ferrea mano dittatoriale, su ciò nessuno nutriva il benché minimo dubbio.

Non appena ne aveva saputo un po' di più, Nova era rimasta letteralmente affascinata dai peculiari connotati dell'economia di Bellinzona. Esisteva, in essa, un fattore cruciale che aveva provocato a Cirocco infinite preoccupazioni. Nova l'aveva chiamato Fattore Manna.

Sebbene Gea non esercitasse alcun potere su Dione, dominava però il Raggio sovrastante la regione. Allorché aveva deciso di riversare i profughi di guerra umani nella nuova città di Bellinzona, s'era a quanto pare anche preoccupata di conservare su di essi una qualche forma di controllo. Da qui l'invenzione della manna. Come può dedursi dal nome stesso, si trattava di un cibo che cadeva dal cielo. Cresceva su mille miliardi di piante abbarbicate lassù, nel tenebroso ventre del raggio di Dione, ed ogni pochi ettoriv scendeva a diffondersi sul territorio sottostante come da una cornucopia che riversasse i suoi doni. La manna giungeva sotto forma di sferoidi delle dimensioni di noci di cocco, fluttuanti all'estremità di piccoli paracadute. Nonostante l'adozione di tale accorgimento, era buona norma mettersi al riparo, quando pioveva manna.

Al pari delle noci di cocco, le unità di manna possedevano gusci piuttosto tenaci, resistenti all'impatto col suolo ma non duri al punto che non si riuscisse a spaccarli. All'interno di ciascun involucro era contenuta una fra tante varietà di polpa sostanziosa, rinvenibile in numerosi gusti e provvista di tutte le vitamine e sali minerali di cui un essere umano poteva necessitare per mantenersi in buona salute. La manna era in effetti un cibo a tal punto completo e nutriente, che coloro i quali ne facevano un uso esclusivo — in pratica gran parte della popolazione — si conservavano più sani di chi invece integrava la propria dieta con esotici e dispendiosi prodotti vegetali e animali di origine dioniana. Mangiando manna, i grassi perdevano chili sino a raggiungere un equilibrato peso-forma, e la gente affetta da carenze vitaminiche guariva in capo a pochi chiloriv. La manna ostacolava la carie dentaria, purificava il respiro, leniva i crampi mestruali, curava la calvizie. Ovviamente era un segno di distinzione sociale, a Bellinzona, il fatto di non avere mai mangiato quella roba.

La manna si conservava per due chiloriv. Chiunque non fosse totalmente inetto era in grado di metterne da parte a sufficienza per tirare avanti fino alla prossima distribuzione. Quei pochi che per incapacità o imprevidenza non facevano provvista, quando arrivava la fame erano bell'e pronti a ridursi in schiavitù.

Naturalmente, Gea dava e Gea prendeva. A Dione c'era un tempo tremendo. Non che facesse mai troppo freddo, ma ne faceva quasi sempre abbastanza da mantenere le rabbrividenti masse dei diseredati senzatetto in una condizione di perenne torpore. E poi pioveva a catinelle. Di conseguenza, un luogo ove ripararsi era considerato necessità primaria, qualcosa per cui valeva la pena d'impegnarsi duramente. Ma non era facile per nulla riuscire a procurarselo, in quanto i vari Padroni si tenevano stretto ogni centimetro ch'erano riusciti ad arraffare, e rivendevano a carissimo prezzo il diritto di dormire al coperto.

Comunque, a parte la ricerca d'asilo e la raccolta di manna più o meno una volta al chiloriv, non c'era molto da fare per sopravvivere a Bellinzona. Cirocco aveva definito quella situazione il non plus ultra in fatto di stato assistenziale.

Ma sapeva benissimo che, poco dopo la sua presa di potere, la manna avrebbe inevitabilmente cessato di piovere dal cielo. Non c'era tempo da perdere.

Il primo e fondamentale scopo della sua amministrazione era quindi consistito nel trovare i mezzi per nutrire la popolazione. Era un impegno che veniva prima d'ogni altro, un fine ancora più importante della legge e dell'ordine pubblico. E andava raggiunto ad ogni costo, perché non poteva esservi nulla di peggio che una città soggiogata… ma affamata.

Cirocco s'era sentita cogliere dallo sgomento, quando Nova le aveva mostrato le prime incontrovertibili stime demografiche. Aveva previsto di dover nutrire una città di non più di due o trecentomila abitanti, e invece…

Tuttavia non s'era persa di coraggio. Il lago Moira brulicava di pesci commestibili. Le zone pianeggianti che si stendevano all'estremità della Baia Piperita erano fertili. Le messi geane crescevano in fretta. La soluzione era a portata di mano, ma non con una popolazione libera di fare i propri comodi. Bisognava per forza ricorrere al lavoro coatto. Alcune delle leggi già in vigore erano state appunto ideate guardando a quello specifico problema. Riempire le prigioni era essenziale alla realizzazione dei suoi piani, in quanto lei non s'illudeva affatto di vedere legioni di volontari farsi avanti per spianare la giungla e dedicarsi ai raccolti. I delitti di sangue venivano dunque puniti all'istante tramite esecuzione capitale: una bocca in meno da sfamare. Gli altri crimini comportavano un lungo periodo di reclusione in un campo di lavoro. Cirocco era stata pronta a spingersi fin dove necessario. Avrebbe proclamato illecito penale persino lo starnutire in pubblico, se fosse stato indispensabile per riempire i campi. Per fortuna i cittadini di Bellinzona le erano venuti incontro, provvedendo a violare le disposizioni di legge già esistenti, e più che ragionevoli, in numero sufficiente a garantirle una forza-lavoro adeguata alla bisogna.

Così, quando la manna smise di cadere, Bellinzona era pronta.

QUINDICI

Senza neanche rendersi conto di come fosse accaduto, Valiha e Virginale si ritrovarono a far parte della schiera dei pescatori. Né l'una né l'altra, prima di allora, aveva mai preso un pesce con la rete.

Gli umani che s'intendevano d'imbarcazioni si erano messi, sotto l'ègida delle ordinanze municipali, al comando di tutti i battelli di Bellinzona che fossero in grado di salpare l'ancora. Durante l'ultimo decariv la flotta aveva incrociato al largo, Valiha e Virginale in testa. Loro compito precipuo era avvistare le sottomarine.

A Bellinzona avrebbe potuto esistere già da tempo un'industria del pesce, se non fosse stato per la circostanza che le imbarcazioni pilotate da umani che osavano avventurarsi ad oltre dieci chilometri dalle immediate vicinanze della città venivano senza indugio divorate. Le sottomarine avevano un appetito senza limiti, ed erano di bocca buona.

Ma il Capitano aveva stabilito con loro una sorta di trattato, e quell'accordo funzionava così bene che non solo i battelli non venivano più mangiati, ma la squadra peschereccia poteva adesso incontrarsi con le flottiglie di sottomarine e trovare le acque disseminate di branchi di pesci, rigurgitati ancora vivi dopo essere stati poco prima rastrellati dalle grandi fauci delle gigantesche creature.

Le sottomarine avevano un proprio canto. Valiha e Virginale lo intonavano facilmente, sebbene esso non facesse parte del loro repertorio nativo, e i leviatani emergevano dalle profondità per cedere gran parte delle loro prede alla città affamata.

Era un miracolo.

Che proprio ora si andava rinnovando. Ritta a prua di uno dei battelli più grandi della flotta, Valiha sciorinava il canto delle sottomarine, mentre a breve distanza l'enorme mole di una di quelle creature diguazzava appena sotto la superficie. Grandi spruzzi d'acqua zampillavano alti in direzione delle barche più piccole e delle reti che attendevano dispiegate in mezzo ad esse, un torrente di sbalorditi e disorientati pesci vanamente guizzanti che sfuggivano alle fauci della sottomarina solo per cacciarsi nella trappola tesa dagli umani.

Era uno spettacolo affascinante. Negli ultimi tempi i pescatori, al momento di ritrarre le reti, avevano incominciato ad intonare una loro versione del canto delle sottomarine. Valiha ascoltò con orecchio critico. Sebbene mancasse delle sfumature del canto titanide, quel modular di voci, al pari di tant'altre manifestazioni musicali degli umani, possedeva una sua semplice vitalità niente affatto spiacevole. Un giorno, forse, le sottomarine avrebbero reagito al solo canto umano. E sarebbe stato un bene, poiché Valiha non desiderava restare al comando della flotta per il resto della vita.

C'erano state acque agitate, le prime volte. Con un gruppetto di marinai esperti e un gran numero di poliziotti umani e una manciata di titanidi era stato possibile mettere in mare solo un carico di recalcitranti prigionieri. Le prime spedizioni avevano prodotto quasi nient'altro che vesciche e schiene a pezzi. Ma la polizia umana vegliava con zelo — magari anche un po' troppo, a parere di Valiha — e ben presto, per lo meno, s'erano messi tutti quanti al lavoro col massimo impegno. Poi aveva incominciato a nascere lo spirito di corpo. Mettendo radici pian piano, all'inizio. Attualmente, però, a Valiha capitava sempre più spesso di cogliere, fra i banchetti del brulicante mercato del pesce, dialoghi dai quali traspariva chiara la crescente coscienza di gruppo che quella gente andava acquisendo, unita, quel che più conta, alla sottile sensazione di essere migliori di quei fannulloni che restavano a terra. Adesso bastava assai meno polizia per tenerli sotto controllo. Quando la flotta salpava l'ancora, i marinai spiegavano le vele di buona lena, e allorché il pesce veniva avvistato si levavano grandi acclamazioni. C'erano cori che s'intonavano alla partenza e cori che scandivano il ritorno, oltre al marinaresco canto derivato dall'appello titanide alle sottomarine.

Ed era un bene che così fosse, si diceva Valiha. L'ultima pioggia di manna era giunta in ritardo di parecchi giorni, e una volta aperti gl'involucri il contenuto s'era rivelato troppo rancido per essere mangiato.

Bellinzona era ormai affidata a se stessa.

SEDICI

— Guadda Gea — disse Adam.

— Eh sì, è proprio lei — confermò Chris, col tono più disinvolto che gli riuscì di sfoderare. Adam lasciò andare i giocattoli e sedette davanti allo schermo televisivo.

Chris era già stato abbastanza in pensiero quando Gea si era limitata ad apparire nei vecchi film di Marilyn Monroe. Lui e Adam li avevano visti e rivisti tutti almeno una dozzina di volte, e ormai il piccolo se n'era assolutamente stufato.

Ma poi, circa un chiloriv dopo l'esibizione acrobatica che aveva tanto turbato Gea, era accaduto qualcosa di nuovo. Gea aveva fatto la sua comparsa in un cartone animato.

Avrebbe dovuto aspettarselo. Era un trucco abbastanza facile da realizzare, e non sarebbe finita lì. Ma Chris aveva fatto a meno della TV per oltre vent'anni, e di certe possibilità se n'era completamente dimenticato.

La prima volta era successo in un cartone animato di Betty Boop, tramite una semplice sostituzione d'immagine. In tutti i punti dell'originale in cui era apparsa Betty Boop, Gea l'aveva sostituita con un'animazione, stilizzata ma facilmente riconoscibile, avente le fattezze di Marilyn Monroe. La colonna sonora era rimasta inalterata.

Se ci riuscivano i computer terrestri, era logico che potesse farlo anche Gea.

Più tardi, lei cominciò ad apparire nei film che Chris sapeva essere i preferiti di Adam. E qui si trattava di trucchi molto più sofisticati, che comportavano una sostituzione dell'intero corpo, una perfetta simulazione del volto e persino l'impiego della stessa voce del clone Monroe/Gea. Risultava impossibile accorgersi della contraffazione. Era un gioco di prestigio cinematografico senza la minima sbavatura, uno sfoggio di effetti speciali all'ennesima potenza.

Fu un'esperienza visiva decisamente bizzarra vedere Marilyn Monroe nel ruolo di protagonista in Dalla Cina con furore: una figura formidabile, che sostituiva Bruce Lee in ogni piroetta, in ogni balzo, in ogni torva occhiata. Gli attori cinesi erano tutti doppiati, ma Gea/Lee parlava in presa diretta con perfetto sincronismo labiale. Lee, ovviamente, nei suoi film se n'era quasi sempre andato in giro senza camicia, e quindi Gea faceva altrettanto. E poi c'erano quelle scene d'amore…

Impossibile prevedere da dove Gea avrebbe deciso di sbucar fuori. Chris la vide nei panni di Biancaneve, Charlie Chaplin, Cary Grant, Indiana Jones… Apparve anche in vecchi film a episodi della RKO, che venivano proposti al ritmo di una puntata al giorno. La programmazione televisiva di Pandemonio si manifestava sempre più orientata alla violenza, e anche i film comici tendevano ormai nettamente verso la farsa grossolana.

Chris non poteva farci praticamente nulla. Almeno in parte se l'era aspettato, ma la situazione sfuggiva ugualmente al suo controllo. Gea continuava le sue visite ad intervalli regolari. Ogni volta si avvicinava un pochino di più, ma continuava a rimanere piuttosto distante. Non correva alcun rischio di spaventare il bambino.

La sola cosa che Chris poteva fare, era voler bene a suo figlio.

Il che, rifletteva, non era per nulla da sottovalutare. Sapeva con certezza che Adam lo ricambiava. Però sapeva anche quanto l'affetto di un bambino possa essere incostante. Un giorno o l'altro sarebbe venuta la resa dei conti. Su questo non poteva sussistere il minimo dubbio. Ma l'esito, quello sì, non era affatto scontato.

— Ciao, Gea — disse Adam salutando con la manina in direzione dello schermo.

— Ciao, Adam, bambino mio adorato — rispose Gea.

Chris alzò la testa di scatto. L'immagine di Gea si era fermata, volgendo le spalle all'azione che continuava a svolgersi dietro di lei. Ora guardava direttamente Adam, e sorrideva.

Adam non aveva ancora capito. Fece una risatina, e disse un'altra volta ciao.

— Che fa di bello, il mio Adam? — gli domandò Gea. Sullo sfondo c'era una scena di lotta. Qualcuno scagliò una sedia, Gea si chinò di colpo per evitarla, e quella le volò sopra la testa. — Ohilà! mi ha quasi presa!

Adam scoppiò a ridere forte.

— Pesa! — strillò. — Pesa!

— E invece non mi avranno! — proclamò Gea veemente, e con abile mossa si girò a parare l'assalto di un omaccione dal cappello nero. Lo colpì con una fulminea combinazione sinistro-destro-sinistro, e quello stramazzò. Gea si stropicciò sdegnosa l'un l'altra le palme, e rivolse al bambino un altro bel sorriso.

— Piace, al mio Adam?

— Mi piace, mi piace! — gridò lui fra le risate.

Che mi venga un accidente, pensò Chris, stupefatto.

DICIASSETTE

Serpentone caracollò fragorosamente lungo il campo, frammenti di zolle erbose che gli schizzavano da sotto gli zoccoli, le zampe anteriori che giostravano abilmente col pallone bianco e nero. Lo calciò alto di fianco, e Mandolino s'impennò sulle zampe posteriori per deviarlo di testa all'incirca in direzione di Zampogna, che lo mancò, assistendo impotente mentre Marimba della squadra dei Diesis lo passava a Clavicembalo, il quale partì in quarta verso la porta dei Bemolle. Serpentone rimase in vigile attesa sulla metà campo, e quando Balalaika riconquistò la sfera e la rifilò a Pianoforte, lui era in posizione giusta per coglierla al volo. Adesso il pallone era di nuovo tutto suo, e corse come il vento, quel Pelè del calcio a quattro zampe, puntando deciso verso il portiere dei Diesis, che cercò disperatamente d'indovinare le sue mosse, scartò a sinistra, poi a destra, quindi ancora a sinistra… per trovarsi infine dalla parte sbagliata allorché Serpentone alzò la palla di ginocchio, proiettò di scatto il capo in avanti… e mancò deliberatamente il tiro di testa. D'un balzo prodigioso il portiere si gettò di nuovo sulla sinistra…

…e guardò impotente Serpentone piroettare calciando di posteriore. Il pallone volò sibilando a insaccarsi nel bel mezzo della rete avversaria.

Bemolle in vantaggio per quattro a tre.

Erano ancora su quel risultato quando, a un solo centiriv dal termine, Mandolino segnò il suo primo gol in quella partita, rendendo incolmabile il vantaggio dei Bemolle. Serpentone e il resto della squadra corsero a congratularsi con Mandolino, che era ancora un principiante nel magnifico gioco del calcio. A Serpentone non passò neppure in mente di far notare che era stato lui, a segnare il punto della vittoria. A parte il fatto che aveva realizzato anche due delle altre reti. Egli era, senza alcun dubbio, il miglior calciatore di tutta Gea.

Soffiando come locomotive a vapore, grondanti sudore, i titanidi si abbandonarono a quel genere di scherzi pesanti che sono consueti dopo una partita assai combattuta. Serpentone divenne pian piano consapevole di un rumore estraneo, e per un attimo rimase sul chi vive: quel suono gli ricordava vividamente il giorno in cui era scoppiata la tremenda rivolta.

Ma poi vide che si trattava semplicemente d'un gruppetto di prigionieri assembratisi alla spicciolata sul bordo del campo, da dove gridavano e applaudivano.

Accadeva abbastanza spesso, negli ultimi tempi, che venissero ad osservare le partite dei titanidi. Oggi erano più numerosi della volta precedente. Serpentone si rese conto che, in effetti, il gruppo era andato infoltendosi giorno per giorno. A volte, dopo che i titanidi avevano finito di giocare, alcuni prigionieri entravano in campo anche loro per dare quattro calci alla palla.

Serpentone raccolse la sfera e la proiettò in un lancio alto e lungo. Andò a cadere in mezzo al gruppo dei prigionieri, tutti maschi, i quali si diedero a tiricchiarsela avanti e indietro nell'attesa che i titanidi sgombrassero il campo.

Chissà, pensò Serpentone, magari anche a loro sarebbe piaciuto formare delle squadre. Si diresse verso la linea laterale, e guardò gli umani correre a sparpagliarsi sul tappeto erboso. Si misero a giocare in venti o trenta, occupando solo una metà dello spropositato terreno a misura titanide e accettando di buon grado il disagio del fondo sconnesso.

Immerso nelle sue riflessioni, Serpentone se ne andò. Raggiunse gli altri titanidi sul versante occidentale della valle, si accovacciò ripiegando le zampe sotto il corpo, prese dalla sacca ventrale il blocco da disegno foderato in pelle e un carboncino, volse lo sguardo verso la circoscritta pianura, e s'immerse senza indugio in quella particolare condizione mentale che nulla aveva a che vedere con ciò che gli umani chiamano sonno, ma neppure equivaleva a un pieno stato di veglia.

Scrutò attentamente lo scenario che gli si parava dinnanzi. Laggiù alla sua destra, verso settentrione, si arcuava la Baia della Menta Piperita, con il lago Moira subito dopo. Rannicchiata sull'estremità sud, coperta dalla solita cappa di caligine, s'intravvedeva Bellinzona. Sulla verticale della città, tenendosi prudentemente a una quota di tre chilometri da quel pericoloso ricettacolo di fonti di calore, stazionava Finefischio.

Di fronte a Serpentone si stendeva per molti chilometri il tratto di territorio strappato alla giungla.

Ma lì non era come nelle giungle terrestri, dove il terreno, sorprendentemente, una volta ripulito si manifesta inconsistente e poco fertile. Il suolo di Gea obbediva a regole diverse. Le messi affondavano radici profonde, traendo vigore dal nutriente latte di Gea e dal calore endogeno. La fotosintesi giocava un ruolo marginale nel metabolismo delle piante che potevano essere coltivate alla fievole luce di Dione, e quindi nei campi se ne vedevano letteralmente di tutti i colori. Era come un immenso mosaico trapunto di messi. I terreni agricoli apparivano tutti di forma quadrata, fatta eccezione per quelli che seguivano il corso del fiume, i quali venivano sistemati a terrazze e allagati per coltivarvi varietà vegetali simili al riso. Sui confini dei quadrati correvano sentieri di terra lungo i quali gli umani trainavano carretti a mano, ricolmi di raccolto, fino alle banchine, ove le messi venivano imbarcate su grandi chiatte che discendevano il fiume raggiungendo la città. Sparse qua e là fra i campi si vedevano le ordinate file di tende ospitanti i lavoratori.

Cirocco preferiva definirli prigionieri. Serpentone riteneva che il termine schiavi sarebbe stato più adeguato, ma Cirocco insisteva a dire che c'era una differenza. Lui non aveva difficoltà a crederle. Il concetto di schiavitù risultava estraneo alla mente titanide, e quindi Serpentone era pronto ad ammettere che ci volesse un umano per cogliere certe sfumature.

Era, ancora una volta, una questione di gerarchie, altro concetto che i titanidi stentavano ad afferrare. Riconoscevano, sì, una certa autorità ai loro anziani, ed erano capaci di obbedienza al Capitano, ma qualunque ulteriore complicazione in fatto di rapporti fra superiori ed inferiori li confondeva tremendamente. I campi di lavoro, ad esempio, rispondevano all'autorità di un Guardiano, un ex Vigilante che a Serpentone non piaceva granché, ma tutto sommato non un cattivo soggetto. Costui era responsabile verso il Consiglio Municipale, per l'esattezza la Commissione alle Carceri. Il Consiglio era guidato da Cirocco Jones e dai suoi più stretti collaboratori: Robin, Nova, Conal.

Guardando in direzione opposta: il Guardiano comandava venti Capicampo, che a loro volta davano ordini a una dozzina circa di Sorveglianti, ciascuno dei quali si occupava di un certo numero di squadre di lavoro, ognuna controllata da un detenuto di fiducia.

Serpentone diede un'occhiata al blocco da disegno. L'aveva già sbirciato più volte, da quando era lì accovacciato, ma i suoi occhi non avevano inviato alcun messaggio al cervello. Stavolta constatò di aver tracciato un semplice schizzo in prospettiva della scena che aveva di fronte. Lo guardò con atteggiamento critico. Aveva lasciato fuori gli umani che percorrevano la strada. Poche linee esitanti adombravano le tende del campo più vicino. Serpentone si accigliò. Non era quello, ciò che la sua mente cercava. Strappò il foglio, lo accartocciò, lo gettò via. Poi volse di nuovo lo sguardo verso il campo.

Le tende erano in spessa tela di cànapa verde. Ciascuna ospitava dieci umani. Maschi e femmine trascorrevano le ore di sonno in ricoveri separati, tuttavia non veniva imposta l'astinenza sessuale. Sorveglianti e Capicampo venivano designati dal Guardiano, ma non sottoposti poi alla supervisione dei titanidi. Serpentone sapeva che in pratica si trattava di un errore. Certi Sorveglianti e Capicampo si dimostravano peggiori dei detenuti. Era stato possibile sorprenderne alcuni nell'atto di compiere brutalità a danno dei reclusi, dopo di che costoro si erano ritrovati a sgobbare in perizoma da prigionieri. Ma ormai la gente di quella risma stava bene attenta a esercitarla di nascosto, la sua crudeltà. I titanidi non potevano essere dappertutto.

Era un sistema poco funzionale, poco efficiente… ma il Capitano diceva che bisognava fare a quel modo lì.

Serpentone se n'era fatto un cruccio, i primi tempi, ma in séguito aveva approfondito la sua riflessione… ed eccolo là, il trabocchetto. Per quanto folle, era la tipica maniera in cui gli umani mandavano avanti i propri affari. Loro, a differenza dei titanidi, non erano in grado di percepire la menzogna e la malvagità, e avevano quindi dovuto elaborare quei caratteristici compromessi che in genere definivano "giustizia" o, con maggior precisione, "legge". Serpentone sapeva bene che la verità è un concetto relativo, un principio spesso impossibile da stabilire con esattezza, ma gli umani erano addirittura, nei suoi confronti, quasi completamente ciechi. La trappola, tanto più insidiosa quanto meno facile da individuare, consisteva nel fatto che se gli umani fossero giunti a fidare pienamente nella percezione titanide della Verità e del Male, avrebbero conseguito tutti i benefici di una società sana, mentre i titanidi sarebbero rimasti asserviti a quella umana esigenza.

La soluzione di Cirocco era molto più sensata: servirsi dei titanidi fin quando fosse stato indispensabile, non oltre. Essi avevano quindi ricoperto una molteplicità di ruoli, all'inizio, fungendo da poliziotti, giudici, giurie e carnefici, nell'intento d'inculcare nella popolazione la certezza che ogni atto malvagio sarebbe stato inevitabilmente punito.

Ma gli umani andavano poi divezzati da questo sistema, e ricondotti ai metodi propri della loro natura e della loro società. Il che, in effetti, stava progressivamente avvenendo. I tribunali si assumevano via via un carico sempre maggiore di procedimenti giudiziari, e se spesso commettevano inesattezze, be', questo era semplicemente il prezzo che gli umani dovevano pagare in cambio della libertà.

Serpentone chinò di nuovo lo sguardo verso il suo blocco da disegno. Vide raffigurate tre prigioniere femmine. Quella di centro era vecchia e stanca, con le mani irruvidite dai lavori di mietitura, i fianchi ravvolti in un lercio perizoma, ed il suo volto, scavato da rughe profonde, recava le vestigia di una bellezza portentosa. La più giovane del gruppo, che dal punto di vista umano avrebbe anche dovuto essere la più graziosa, era stata disegnata con la faccia di un mostro. Serpentone se la ricordava bene. Una creatura malvagia, che un giorno o l'altro sarebbe finita col cappio al collo. Guardando meglio, Serpentone si accorse di averle tracciato sul viso l'immagine di un patibolo. Strappò e accartocciò anche questo secondo foglio. Tornò a fissare la sua attenzione sul campo.

Al centro dell'area occupata dalla comunità s'innalzava la forca. Durante i primi giorni della conquista era stata utilizzata di frequente, ma ora lavorava molto meno. Dopo quell'unica, terribile sommossa, il corpo di guardia titanide aveva subito una progressiva diminuzione, e attualmente sarebbe appena bastato a formare sei squadre di calcio.

Sebbene vita da reclusi significasse impegno severo, era pur sempre meglio di quella che molti di loro avevano conosciuto a Bellinzona. Ai vecchi tempi il cibo non era mai stato un gran problema, ma adesso la manna non cadeva più, e i prigionieri di più fresca data parlavano di fame ed incertezza. Stava nascendo, è vero, un sistema economico, si stavano tracciando linee d'intervento sociale, c'era lavoro in quantità, ma la paga che uno poteva guadagnare gli bastava a malapena a sfamarsi per sé, senza contare che parecchie occupazioni erano più faticose e pericolose del lavoro nei campi. E poi c'erano i giorni che la flottiglia dei pescherecci faceva ritorno a reti vuote, o dai campi non arrivava nemmeno una chiatta, e tutti avevano fame.

Il vitto dei detenuti era ottimo e abbondante: il Guardiano aveva ordini assai precisi, in merito. La prigione era un posto sicuro. Quasi nessuno di quelli che c'erano finiti aveva interesse a cercare rogne.

I titanidi si limitavano quindi a pattugliare la terra di nessuno fra i campi e la città. Accadeva raramente che catturassero qualche fuggiasco, e ben poche cuccette risultavano vuote all'ora dell'appello.

Serpentone esaminò il suo nuovo disegno. Tre uomini pendevano dalle funi nel centro del campo. Due di loro erano stati individui malvagi, ricordò. Il terzo, invece, si era solo comportato da sciocco. Aveva ucciso un Sorvegliante di fronte a testimoni titanidi. Il Sorvegliante se l'era di certo meritato, ma la Legge era la Legge. Serpentone l'avrebbe lasciato vivere, quel poveraccio. Il giudice umano aveva deciso diversamente.

Strappò con rabbia anche questa pagina, e la gettò via. La sua mente continuava a girare intorno ad eventi che gli si erano conficcati nell'animo e il cui ricordo lo faceva patire. Era un luogo cattivo, quello, un luogo di sofferenza, un luogo umano nel quale nessun titanide avrebbe dovuto soffermarsi. I titanidi sapevano come comportarsi. Gli umani passavano invece la vita intera in una continua lotta per soggiogare la loro natura animalesca. Era indubbiamente possibile che in tutte quelle leggi, quelle prigioni, quelle forche, si concretizzasse la migliore soluzione che gli umani avrebbero mai trovato al paradosso della loro esistenza… ma quale tormento, per un titanide, esservi coinvolto!

Fissò le pupille nelle tenebrose profondità del raggio di Dione e cominciò a intonare un canto di mestizia, e lontananza, e acerbo desiderio per il Grande Albero che voleva dire casa. Altri intrecciarono alla sua le loro voci, mentre le mani di ciascuno continuavano spontaneamente a impegnarsi in semplici lavori. A lungo si levò quel canto.

Eppure, qualcosa di buono da compiere qui doveva esserci. Egli non si aspettava di cambiare il mondo. Non s'illudeva di mutare la natura umana… né l'avrebbe fatto, anche se avesse potuto. Gli umani avevano il loro destino. Il suo intento era modesto. Avrebbe semplicemente desiderato, nel suo passaggio breve di creatura viva, rendere il mondo un luogo appena un poco più decente. Non gli pareva poi di chieder troppo.

Infine, ancora una volta, chinò lo sguardo a considerare ciò che le sue dita avevano tracciato. Era il disegno di un umano sorridente. Che indossava calzoncini, scarpette, una maglietta a strisce. Tutto teso nello sforzo di calciare un pallone.

DICIOTTO

Robin prese posto alla destra dell'imponente seggio che coronava un'estremità dell'immenso tavolo del Consiglio, nella Sala Grande della Borsa Merci. Aprì la sua valigetta in pelle artisticamente lavorata — dono di Valiha e Virginale — e ne trasse un voluminoso fascio di carte che gettò sulla levigata superficie lignea. Quindi, volgendo attorno un'occhiata nervosa, tirò fuori un paio d'occhiali dalla montatura in filo metallico e li inforcò.

Si sentiva ancora piuttosto buffa, a portare quegli affari. Ai tempi della Congrega aveva periodicamente sofferto di un difetto visivo che, con l'avanzare dell'età, si era rivelato facilmente correggibile. Ma qui, senza più visite alla Fontana, gli occhi le stavano progressivamente peggiorando. E, Grande Madre, non c'era da meravigliarsene, dal momento che doveva passare le sue giornate immersa nell'esame d'infinite scartoffie.

Sapeva che quella situazione non avrebbe dovuto sorprenderla, eppure ancora non riusciva ad abituarcisi. Da tutti i punti di vista, tranne quello più importante, lei era Sindaco di Bellinzona. Sospettava che, se fosse nata cristiana, a quel punto già l'avrebbero fatta Papa.

Cirocco si era mostrata abbastanza ragionevole, quel giorno, sei chiloriv prima. Ragionevole, sì… ma fino a un certo punto. Oltre il quale aveva opposto una monolitica irremovibilità.

— Tu l'hai già fatta l'esperienza di guidare una grande comunità — le aveva spiegato Cirocco. — Io no. Per motivi che capirai più avanti, l'autorità ultima, a Bellinzona, bisogna che rimanga in mano mia. Però, vedrai, saranno moltissime le occasioni in cui farò affidamento su di te, e sul tuo giudizio. E so che ti dimostrerai all'altezza di questa impresa.

Be', era stata un'impresa per davvero. Ma ormai si stava ogni giorno di più riducendo a semplice routine: proprio il genere d'involuzione che maggiormente aveva detestato nel periodo in cui si era trovata al vertice della Congrega.

Passò una mano a lisciare il ripiano del tavolo, e sorrise. Era un mobile stupendo, costruito con il legno migliore, dal bordo interamente decorato con più leggiadri intagli di quelli che Robin riuscisse a contare. L'avevano fatto i titanidi, ovviamente, ed era il secondo tavolo che avesse tentato di adornare la Sala del Consiglio.

Il primo era stato rotondo. Cirocco gli aveva dato una sola occhiata, e aveva ordinato che lo riportassero via.

— Questo non è il castello di Camelot — aveva commentato. — Qui non si terranno incontri fra eguali. Voglio un tavolo grande, lungo, con una grande poltrona in fondo da questa parte.

Robin capiva che per i titanidi si era trattato di un errore molto naturale. L'umana visione delle cose non sempre corrispondeva a quella dei titanidi, ed essi erano del tutto alieni dal considerare il vantaggio psicologico che Cirocco si riprometteva di ottenere per il solo fatto di star seduta a capotavola.

E così avevano portato un grande scranno, sul quale, ogni tanto, Cirocco si andava effettivamente a sedere.

Ma sempre più spesso, negli ultimi tempi, quella monumentale poltrona rimaneva vuota, ed era Robin a condurre le sedute dal suo posto abituale, alla destra del trono.

Altra gente, ora, si stava accomodando. Nova scaraventò rumorosamente nel bel mezzo del tavolo un'enorme pila di carte, poi occupò il proprio seggio. Levò lo sguardo a gettare una rapida occhiata a sua madre, annuì, quindi si diede a prendere appunti a matita in margine ad alcuni fogli.

Robin sospirò. Si domandò quanto avrebbe continuato, Nova, ad insistere con quell'atteggiamento. Oh, certo, si rivolgeva ancóra a sua madre, ma solo per stretti motivi di lavoro e con freddo distacco. Non c'erano risate, né scherzi, e neppure vivaci proteste, ma solo una sorda aggressività paludata di rigido, controllato, esasperante linguaggio burocratico. Robin avrebbe dato nonsoché, per una di quelle belle bisticciate a suon di urla che faceva ai vecchi tempi con sua figlia.

Diede un'occhiata al trono tuttora vacante. Cirocco Jones, affiancata dai suoi due primi consiglieri. La Vecchia Cagna e le due Streghe, aveva udito qualcuno mormorare. Quasi nessuno, nel Consiglio, si era reso conto della spaccatura esistente fra madre e figlia.

Stuart prese posto alla destra di Robin. Lei gli rivolse un cenno del capo e sorrise cortesemente, anche se le costava un certo sforzo. Quel tipo non le piaceva, ma bisognava riconoscere che era abile, efficiente, astuto e perspicace, quando gli girava. Era anche tremendamente ambizioso. In un'altra situazione avrebbe fatto del suo meglio per pugnalare Robin alle spalle. Ora come ora si limitava ad attendere il momento opportuno, aspettando di vedere se Cirocco avrebbe davvero mantenuto la promessa di cedere il potere in capo ad un anno terrestre. In caso affermativo, sarebbe successo un putiferio.

Trini sedette accanto a Nova, che si sporse a baciare sulle labbra la Prima Amàzzone. Robin si agitò a disagio sulla sedia. Non è che Trini le piacesse più di Stuart. Anzi, forse meno. Non riusciva quasi a credere che loro due avessero potuto essere amanti, anche solo per poche ore, vent'anni prima. Ora lei e Nova parevano fare coppia fissa. Robin non sapeva quanto vi fosse di genuino, in quell'atteggiamento. A Nova, naturalmente, la cotta per Cirocco non era passata affatto. Robin aveva la certezza che quelle plateali manifestazioni di affetto potessero spiegarsi, almeno in parte, col fatto che la ragazza era acutamente consapevole di quanto irritassero sua madre.

Accigliata, Robin distolse lo sguardo. O nuovo mondo mirabile…

Le altre sedie si andavano riempiendo. Conal prese posto in disparte, qualche metro alle spalle dello scranno di Cirocco, originale posizione dalla quale poteva seguire i lavori continuando a fumare un sigaro dopo l'altro. Non avrebbe detto una parola, ma avrebbe ascoltato tutto. Quasi nessuno, nel Consiglio, aveva la minima idea di quale fosse il suo ruolo. Robin sapeva che quella particolare collocazione rientrava in un preciso espediente. Volendo, Conal era abilissimo a circondarsi di una feroce aura da criminale incallito. Se ne restava dunque lì in silenzio, torvo e minaccioso, avvolto in spesse volute di fumo.

Cirocco si stravaccò sul trono, si addossò all'imponente schienale scivolando in avanti col fondo dei pantaloni, e poggiò gli stivali sopra il tavolo. Stretto fra i denti teneva un sigaro spento.

— Forza, gente, incominciamo — disse.


— Allora, Conal, che ti dicono le tue budella? — gli domandò Cirocco.

— Le mie budella? — Ci pensò su. — Che va meglio, Capitano. Non tantissimo, ma un po' meglio.

— L'ultima volta non ci credevi, che avrebbe funzionato.

— Tutti possono sbagliare.

Cirocco lo esaminò con occhio clinico. Conal, imperturbabile, resse il peso di quello sguardo.

All'inizio si era sentito tagliato fuori. C'era un lavoro per tutti, a quanto pareva, ma non per Conal. Be' sì, certo, si diceva in giro che avrebbe preso lui il comando dell'aviazione, se e quando, e poi era toccato a lui organizzare gli uomini della Riserva Aerea di Bellinzona. Potevano indossare le loro belle uniformi, se volevano, ma niente aeroplani, ancora per un bel pezzo.

Insomma, aveva avuto l'impressione che lo tenessero in disparte, e la cosa lo aveva amareggiato. Ma poi, un poco alla volta, si era reso conto che se il compito di Robin consisteva nel far da Sindaco supplente durante i periodi in cui Cirocco vagava fuori città impegnata in misteriose missioni, era a lui, Conal, che spettava il far da occhi e orecchie al Capitano.

Le sue mansioni rimanevano imprecisate, il che gli tornava proprio a fagiolo. In pratica trascorreva molte ore andandosene in giro un po' dappertutto, in una varietà d'abbigliamenti. Nessuno, tranne i membri del Consiglio e qualche appartenente alle alte sfere della polizia, sapeva che egli avesse qualcosa a che fare col governo della città. Poteva andare e venire a suo piacimento, e ascoltava quello che diceva la gente. Poi riferiva tutto a Cirocco. Non disponeva dei grafici computerizzati di Nova, non aveva l'esperienza di Robin né si dilettava nella elaborazione di minuziose teorie… però conosceva le segrete cose della città.

— Che mi dici di quella porcata del mercato nero?

— Sono d'accordo con Robin.

— Stai cercando di prendermi in giro o che? Anch'io son d'accordo con lei, ma a te non chiedo teorie, Conal. Da te voglio sentirmi dire la realtà com'è ora.

Conal rimase un po' sorpreso, da quella reazione. Ma, osservando meglio, si rese conto che Cirocco doveva essere sottoposta ad una tensione notevolissima.

— Il mercato nero non è poi quel gran problema che vorrebbe Nova. Di roba, in giro, ce n'è poca, e i prezzi sono parecchio salati.

— Il che vuol dire — commentò Cirocco — che di merce ne sparisce una quantità minima, alle banchine, e ciò nonostante siamo a corto di viveri. Quindi la scarsità di cibo è un fatto reale.

— Non c'è nessuno che patisce la fame. Ma un mucchio di gente vorrebbe che la manna avesse continuato a cadere.

Cirocco stette un poco a rimuginarci.

— E il dollaro?

Conal scoppiò a ridere.

— La gente dice che con un dollaro ci si fa un buon filtro per il caffè. Usane cinque o dieci, mettili insieme, e coi rimasugli di caffè che ci sono rimasti appiccicati potranno anche valere qualcosa. E poi, arrotolati, sono pure buoni per sniffarci la coca.

— Carta straccia, in altri termini.

— È quella legge economica di cui parlava Nova, e che secondo Robin voleva dire che il denaro cattivo caccia via il denaro buono.

— No — obiettò Cirocco. — Il fatto è che le monete d'oro vanno a finire sotto i materassi e in fondo alle vecchie calze. La gente tiene di conto la robina di valore e spende la robaccia che crea inflazione.

— Come ti pare. Quanto al problema della scuola, non credo che la situazione sia brutta come l'hanno dipinta loro stasera. C'è in giro un certo risentimento, quest'è vero, ma qui la maggior parte della gente, ad ogni modo, lo stava già imparando da sé, l'inglese, per lo meno quel tanto che gli serviva per tirare avanti. A rompergli le palle, piuttosto, è il fatto di dover imparare a parlare in buon inglese…

— Tu che suggerisci?

— Di ridurre il livello dell'obbligo scolastico. Quando arrivano a saper leggere un manifesto elettorale, basta lezioni, e chi se ne frega se non sanno fare il piucchepperfetto. Mi rendo conto che una proposta del genere, venendo da un tizio ch'era mezzo analfabeta quand'è arrivato qui, e nemmeno ora non è che sia un granché come lettore, magari potrebbe…

— Falla finita, Conal. — Cirocco ci pensò su, mordicchiandosi una nocca. — Hai ragione. Agli adulti non di lingua inglese possiamo benissimo lasciargli il loro gergo misto, tanto si arrangiano lo stesso. Faranno meglio i loro figli. Non avrei dovuto insistere tanto.

— Nessuno è perfetto.

— Questo lo so già da me. Che altro hai scoperto?

— Molta gente preferisce il baratto. Direi che un sessanta per cento del commercio che si volge in città è sotto forma di baratto. Ora però c'è un'altra valuta che vien su alla svelta, ed è l'alcol. Per un bel pezzo c'è stata in giro quasi solo birra. Adesso veramente anche il vino si sta avviando a diventare sopportabile, ma il più delle volte non saprei dire da che diavolo l'abbiano spremuto… e preferisco non saperlo. Ma il fatto è che s'incomincia anche a vedere sempre più roba forte…

— Superalcolici distillati, eh? La cosa mi spaventa.

— Anche a me. Circola persino un po' di metanolo. Qualcuno già c'è diventato cieco.

Cirocco sospirò.

— Bisognerà tirar fuori un'altra legge?

— Proibire la distillazione casalinga? — Conal si accigliò, e scosse la testa. — Qui secondo me vale la tua regola aurea. Cercare di risolvere il problema col minimo di leggi. Invece di proibire il liquore buono… che, credi a me, qui a Bellinzona è una contraddizione in termini… limitiamoci a bandire i veleni.

— Non funzionerebbe. Non se l'alcol viene usato come moneta. Dato che passa avanti e indietro per tante mani, come diavolo facciamo a sapere da dove è venuto fuori?

— Questo è il problema — ammise Conal. — E poi c'è il fatto che le buone distillerie usano etichette facili da falsificare… e bisogna tener conto che ci sono quelli che lo annacquano…

— Direi proprio che come valuta non è un granché — commentò Cirocco. — Credo che la cosa migliore sarebbe promuovere una campagna di educazione pubblica. Non è che ne sappia molto, sul metanolo. Non è abbastanza facile da scoprire? Tu non sei capace di riconoscerlo all'odore?

— Non con assoluta sicurezza. Prima di tutto bisogna abituarsi al puzzo del liquore…

Tacquero, rimanendo per qualche tempo immersi nei loro pensieri. Conal sarebbe stato propenso a lasciar perdere. Era convinto che non servisse a nulla cercar di proteggere la gente da se stessa. La sua personale soluzione consisteva nel bere solo da bottiglie sigillate, e ricevute direttamente dalle mani di un distillatore di fiducia. Ecco, in fin dei conti sarebbe bastato che anche tutti gli altri si regolassero a quel modo, no? Però, tutto sommato, poteva anche darsi che una legge ci volesse davvero.

Era una situazione alla quale Conal reagiva in modo ambivalente. In passato non l'aveva mai amata, quella città, e doveva riconoscere che negli ultimi tempi le cose erano andate notevolmente migliorando. Ormai si poteva camminare per strada disarmati senza correre troppi rischi.

Adesso, però, ad ogni angolo si andava a battere il naso contro qualche obbligo o qualche divieto. Dopo sette anni vissuti lungi da qualunque ombra di legalità, non era per niente facile cambiare marcia all'improvviso e rimettersi mentalmente e praticamente al passo con la forma e la sostanza della legge.

Il che lo portava indirettamente a quella che era certo sarebbe stata la successiva domanda di Cirocco. Lei non lo deluse.

— E di me che si dice? Com'è il mio indice di gradimento secondo la scala Conal?

Lui allungò una mano e la fece oscillare di qua e di là.

— Non c'è malaccio. A un dieci o quindici per cento gli vai abbastanza a genio. Diciamo poi che sul trenta per cento ti sopportano, e con qualche birra in corpo sarebbero pure disposti ad ammettere che da quando sei arrivata tu le cose filano meglio. Tutti gli altri, però, non ti possono proprio vedere. O perché gli hai rotto le uova nel paniere, o perché pensano che non stai facendo abbastanza. C'è un mucchio di gente, là fuori, che si sentirebbe molto più tranquilla se qualcuno gli dicesse esattamente quel che deve fare dal momento che si sveglia fino all'ora che mammina li rimette a letto.

— Può anche darsi che si trovi il modo d'accontentarli… — mormorò Cirocco.

Conal aspettò che andasse avanti, ma Cirocco si limitò a quell'accenno. Allora lui diede una bella tirata al sigaro, e cercò di scegliere le parole con cura. — E poi, un'altra cosa. È una questione di… immagine, credo. Tu, per loro, sei solo una faccia sul fianco di un aerostato. Non dai l'idea d'essere vera per davvero.

— Sì, lo so, i miei cosiddetti esperti di pubbliche relazioni me l'han fatto capire in tutte le salse — sbottò lei con irritazione. — In televisione faccio semplicemente la figura d'una vecchia cagna arrogante.

— Non lo so s'una TV normale — precisò Conal. — Ma così come appari su quei grossi schermi addosso a Finefischio, alla gente non è che gli piaci molto, sai com'è. Ti vedono lassù in alto, sopra le loro teste. Non appartieni al popolo… e d'altra parte non sembri nemmeno abbastanza forte, se così si può dire, da ispirare quel genere di soggezione… o, non so, forse bisognerebbe chiamarlo rispetto… — S'interruppe, non riuscendo a dar voce precisa a quanto provava.

— Anche qui non fai altro che confermare le mie analisi. Da un lato appaio maestosa, imperturbabile, draconiana, e mi faccio odiare, mentre dall'altro risulto insufficiente come figura autoritaria.

— La gente non crede in te — disse Conal. — Piuttosto crede in Gea.

— E dire che Gea non l'hanno neanche mai vista.

— S'è per questo, la maggior parte non ha mai visto nemmeno te.

Cirocco si reimmerse nelle sue riflessioni. Conal era certo che lei stesse per giungere a una decisione che trovava antipatica, ma inevitabile. Attese, paziente, già sapendo che qualunque cosa Cirocco avesse stabilito, lui si sarebbe impegnato al massimo per far la propria parte come si deve.

— Molto bene — riprese infine lei, riappoggiando i piedi sul tavolo. — Ecco qua quel che faremo.

Conal ascoltò in silenzio. Di lì a poco, ghignava di gusto.

DICIANNOVE

Terminato l'incontro, Conal uscì nell'immutabile luce di Dione e svoltò a sinistra sul grande Viale Oppenheimer.

Bellinzona era una città che non dormiva mai. Ogni "giorno" ricorrevano tre ore di punta, che Finefischio annunciava di volta in volta emettendo un sonoro strombettìo. A quel segnale la gente si metteva in cammino per recarsi dal luogo di lavoro a casa, o viceversa. C'era chi aveva il compito di programmare razionalmente tutte le fasi dell'avvicendamento, cosicché un terzo circa della città se ne stava sempre relativamente tranquillo, essendo composto di gente addormentata; un altro terzo ronzava come un alveare operoso, tutto dedito alle intraprese commerciali; e un'ultima fetta vociava immersa nei modesti divertimenti offerti da Bellinzona. Molti lavoratori, per sbarcare il lunario, facevano un turno e mezzo o addirittura due.

Comunque, per non togliere slancio alla vita sociale, non mancavano osterie, né case da gioco, né bordelli, né sale di riunione. Soltanto lavoro e niente distrazioni sarebbe stata una maniera davvero deprimente di mandare avanti una città, pensava Conal.

I moli e le banchine fluviali ove attraccava la flotta peschereccia fervevano d'ininterrotta attività, e anche i cantieri navali non interrompevano mai il lavoro. C'erano poi altri poli strategici, nel neonato sistema industriale di Bellinzona, che non chiudevano mai i battenti, coprendo l'intero arco dei tre turni. Il motivo principale per scaglionare le ore di lavoro, comunque, consisteva nel far sì che la città non sembrasse troppo congestionata. La semplice verità era che gli alloggi non sarebbero bastati, se tutti gli abitanti avessero cercato di andarsene a dormire alla stessa ora. La vita in comunità stava diventando la norma.

Funzionava abbastanza bene. Ma il tasso di natalità era in crescita, la mortalità infantile diminuiva rapidamente, e schiere di falegnami erano di continuo indaffarati giù ai moli e all'opera su per le colline, impegnati nella costruzione di nuovi alloggi.

Conal aveva deciso che la città gli piaceva. Ci si respirava un'atmosfera nuova e stimolante. Era vivace ed attiva, come egli ricordava ch'era stata Fort Reliance prima della guerra. Nei locali pubblici, ad ascoltare le chiacchiere degli avventori, si sentivano un sacco di lamentele, ma il fatto stesso che la gente non temesse di esprimere il proprio scontento aveva la sua importanza. Voleva dire che in molti c'era la speranza di riuscire a migliorare quello che non andava ancora per il verso giusto.

Conal superò, in rapida successione, uno dei nuovi parchi — un grande bacino galleggiante di forma quadrata attrezzato con percorsi per minigolf, reti da pallavolo, cesti per pallacanestro, adorno di alberi e arbusti in vaso — un ospedale, una scuola. Tutte cose che a Bellinzona, solo sette chiloriv prima, sarebbero state inimmaginabili. Si fece da parte per lasciar passare un titanide al galoppo con una donna incinta fra le braccia, diretto all'ingresso di emergenza dell'ospedale.

All'interno della scuola vide ragazzi che sedevano sul pavimento e sospiravano aspettando la fine della lezione, come han sempre fatto tutti gli scolari di questo mondo. Nei parchi non c'era mai pericolo che le attrezzature sportive rimanessero un momento inutilizzate. Tutte cose che a Conal scaldavano il cuore. Non si era davvero reso conto, prima, di quanto gli fossero mancate.

Non che avesse intenzione di restare a vivere a Bellinzona. Meditava, una volta terminato il periodo di transizione e consegnata la città alle cure di un governo locale legalmente costituito, di riprendere la sua vita di prima, di tornare ad essere un nomade conosciuto per tutta la Grande Ruota, un amico del Capitano. Ma sarebbe stato bello sapere che quel posto esisteva.

Svoltò nell'ingresso di un edificio a lui familiare, e corse su per tre rampe di scale. La porta si aprì docilmente sotto l'invito della sua chiave, ed egli entrò.

Gli avvolgibili erano chiusi. Robin era a letto. Pensò che dormisse. Andò nella piccola stanza da bagno e si diede una bella sciacquata in un catino d'acqua, usando anche un po' di quel sapone duro e ruvido che da qualche tempo si poteva trovare al mercato nero. Poi si lavò i denti, e servendosi d'un vecchio rasoio si fece la barba con gran cura. Tutte abitudini relativamente inedite, per lui, ma ormai li aveva praticamente dimenticati i vecchi tempi, quando prima di decidersi a fare un bagno bisognava che i vestiti gli stessero in piedi da sé.

S'infilò a letto, facendo piano per non disturbare il suo sonno.

Ma Robin si girò subito verso di lui, perfettamente desta, e vogliosa.

— Non ci riuscirai mai — gli disse, come spesso faceva. Lui annuì, e la prese fra le braccia, e riuscì tutto alla perfezione.

VENTI

Dopo la chiacchierata con Conal, Cirocco Jones raggiunse il luogo in cui era certa di trovare Cornamusa. Si mosse adottando quella sua tecnica particolare, quello sgusciare inavvertibile che tanto confondeva Robin quando la Maga lo usava per comparire d'improvviso alle sedute del Consiglio. Nessuno si accorse minimamente di lei.

Cirocco si disse che poteva anch'essere l'ultima volta che riusciva a muoversi in quel modo. Il fatto d'ignorare da cosa le venisse quella capacità, le rendeva ancora più difficile credere di poterla conservare, dopo quello che si apprestava a fare.

Montò a cavalcioni di Cornamusa, e il titanide abbandonò la città al galoppo. Ben presto furono nel folto delle giungle meridionali di Dione, non lontano da Tuxedo Junction.

Giunsero al limitare della Fontana della Giovinezza, e Cirocco discese.

— Non ti allontanare — raccomandò a Cornamusa. — Un poco mi ci vorrà.

Il titanide annuì, e scomparve nella giungla. Cirocco si liberò d'ogni indumento, poi s'inginocchiò sulla sabbia. Aprì lo zaino e ne trasse il barattolo contenente Spione. Il prigioniero ammiccava con aria stordita. Lei lo rovesciò a terra, dove quello rimase vacillante vomitando un fiume di confuse imprecazioni. Per poterne trarre qualcosa di sensato, bisognava dargli il tempo di riaversi.

Cirocco esaminò il proprio corpo, con la medesima circospezione che avrebbe adottato nei confronti di un oggetto estraneo e potenzialmente pericoloso. Le costole sporgevano. Il petto continuava ad essere più abbondante del normale, e le cosce svettavano sode e piene, ma le ginocchia si stavano facendo ossute. I capelli erano nuovamente striati di grigio. Avvertiva un ventaglio di rughe sottili attorno agli occhi e agli angoli della bocca.

Appioppò un buffetto sul muso a Spione e lui di rimando le sputò, ma fu più che altro un gesto riflesso, privo di vera convinzione. Senza attendere l'inevitabile richiesta, Cirocco tirò fuori la bottiglia dallo zaino, e servendosi del solito contagocce erogò sette bei goccioloni dentro le avide fauci sollevate.

Spione schioccò soddisfatto le labbra, inalberando quindi l'espressione che, nell'ambito del suo limitato repertorio di mimica facciale, passava per un sorriso.

— La vecchia strega ha un attacco di generosità, oggi — commentò.

— La vecchia strega non ha nessuna voglia di stare a fare i giochetti. Lo vuoi sapere da che parte incomincio a scorticarti vivo se non parli? O t'è venuta a noia com'è venuta a me?

Spione rimase in equilibrio su una zampa, mentre con l'altra si grattava dietro l'orecchio.

— O dai, su, veniamo al sodo.

— Ottimo. Come sta Adam?

— Meravigliosamente. E vuole tanto bene alla sua gran nonnona. Un giorno di questi Gea lo terrà, mi si passi l'espressione, in palmo di mano.

— E Chris com'è?

— Parecchio giù di corda. I giorni che gli gira un po' meglio pensa ancora di poter conquistare cuore e mente di suo figlio, il sovrammenzionato Adam. I giorni che vede più nero pensa invece di averlo già perduto. Negli ultimi tempi vede quasi sempre nero. Aiutato dal fatto che Gea lo infila a recitare dentro qualcuno dei suoi teleprogrammi, affibbiandogli certe particine antipatichine dove vedessi che gli tocca fare, per guadagnarsi… pane e companatico.

Spione ammiccò, si accigliò.

— Avrò mica confuso le metafore?

Cirocco ignorò la domanda.

— E… Gaby?

Spione le diede un'occhiata di traverso.

— Finora non me l'avevi mai chiesto di lei.

— Te lo chiedo adesso.

— Potrei dirti ch'è tutta un'invenzione della tua immaginazione.

— E io potrei ficcarti la testa su per il buco del culo.

— Dio — replicò Spione facendo una smorfia. — Vorrei che tale operazione fosse inattuabile con me così come lo sarebbe su di te.

— Ma lo sai bene che così non è.

— Vedrò di ricordarmelo. — Sospirò. — Gaby… sta preparando uno scherzo della malora. Tu lo capisci a che mi riferisco. Gaby cammina su un filo sottile. Nemmeno te lo immagini, quant'è sottile. Lasciala in pace.

— Ma se non la vedo da…

— Lasciala in pace, Capitano.

Si scrutarono fissamente. Una simile uscita meritava senza dubbio una punizione. E Cirocco si domandò che cosa potesse significare, il fatto di sentirsi invece disposta a fargliela passar liscia, questa volta. Stava cambiando qualcosa? Oppure era semplicemente troppo stanca per prendersela?

Non aveva né voglia né tempo di starci a pensare ora. Diede a Spione ancora tre gocce di alcol etilico puro, e lo richiuse nel suo barattolo. Poi, lentamente, s'immerse nel tiepido abbraccio purificatore della Fonte, vi si abbandonò, inalò un respiro profondo lasciando che il fluido la pervadesse.

Rimase immobile per dieci riv.

VENTUNO

Nuovo Pandemonio era completo.

Gea aveva ispezionato di persona la muraglia esterna, immerso nel fossato le sue mani gigantesche a blandire i corpi affusolati dei grandi squali bianchi, verificato uno ad uno tutti i preparativi in vista dell'assedio.

Il problema della carenza di manodopera rimaneva grave. C'era voluto un po' per far capire agl'ispettori di produzione che gli umani, una volta cadaveri, non servivano più a nulla. Molta gente era morta, prima che la lezione arrivasse a fissarsi in quelle testacce dure. S'era presentato anche un piccolo problema collaterale d'assenteismo, ora che non erano più disponibili interi battaglioni di zombi per dar la caccia ai fuggiaschi e torturarli. Ai Preti non piacevano granché gli accoliti umani, ma capivano ch'era assai più igienico non farla troppo lunga. Sui Preti, per fortuna, la polvere antizombi non sortiva alcun effetto.

Era tutto pronto. Nuovo Pandemonio era in grado di resistere a qualunque attacco, di affrontare qualunque assedio.

Soddisfatta, Gea convocò il suo archivista ed ordinò una tripla programmazione. L'uomo che volle farsi re. Tutti gli uomini del re. Indira.

Ah, quei favolosi film politici!

VENTIDUE

Gaby Plauget era nata a New Orleans nel 1997, quando ancora la città faceva parte degli Stati Uniti d'America. Aveva vissuto un'infanzia tragica. Suo padre aveva ucciso sua madre, e lei s'era ritrovata sballottata avanti e indietro fra parenti e organismi assistenziali, imparando a non affezionarsi mai troppo a nessuno. Nell'astronomia aveva trovato un'àncora di salvezza. Era infatti divenuta la massima autorità in fatto di astronomia planetaria, talmente apprezzata che, quando si trattò di scegliere l'equipaggio del Ringmaster, non ebbe difficoltà ad assicurarsi una cuccetta, sebbene odiasse viaggiare.

Il sesso l'aveva sempre lasciata più o meno indifferente.

Poi il Ringmaster era andato distrutto, e l'intero equipaggio aveva trascorso un certo periodo in condizioni di totale privazione sensoriale. Gene era impazzito. Bill ne aveva riportato dei vuoti di memoria, tanto da non riconoscere Cirocco quando l'aveva reincontrata. Le sorelle Polo, Aprile e Agosto, una coppia di cloni d'intelligenza superiore, ma emotivamente piuttosto instabili, erano state separate: Aprile si era trasformata in un angelo, e Agosto aveva pian piano finito per consumarsi di dolore nel ricordo della sorella perduta. Calvin era riemerso alla luce in grado di comunicare con gli aerostati, e senza più alcun desiderio di rimanere nel consorzio umano.

Cirocco aveva acquisito la capacità di cantare in titanide.

Gaby aveva percorso un'intera esperienza esistenziale. Vent'anni, aveva poi raccontato. Al risveglio, si era sentita come dopo uno di quei folli sogni in cui, d'un tratto, sembra di aver trovato la risposta a tutte le domande. I Grandi Segreti della Vita sono lì, a portata di mano, se solo si riesce a mantenersi lucidi quanto basta a rimetterli un poco in ordine… Tutte le esperienze da lei vissute nel corso di quei vent'anni erano lì in bella mostra, chiare e tangibili nella sua mente, pronte a cambiare la sua vita e il mondo intero…

…finché, come accade ai sogni, erano svanite. In capo a qualche minuto solo pochi concetti le rimanevano ben chiari. Uno consisteva nella certezza che si era trattato davvero di vent'anni, con tutta l'infinita varietà di particolari che solo un così lungo lasso di tempo può accogliere. Un altro era il ricordo di se stessa che saliva un'ampia scalinata, accompagnata da una musica d'organo. Più tardi, quando lei e Cirocco avevano fatto visita a Gea nel mozzo, Gaby aveva rivissuto quell'esperienza. Il terzo elemento rimasto a farle compagnia era un disperato ed incurabile amore per Cirocco Jones… il che aveva sorpreso Gaby non meno di Cirocco. Gaby non s'era mai sognata di avere tendenze lesbiche.

Tutto il resto se n'era andato.

Trascorsero settantacinque anni.

Giunta all'età di centotré anni, Gaby Plauget morì alla base del cavo centrale di Teti. Fece una fine orribile, straziante, soffocata dai fluidi inarrestabilmente accumulatisi all'interno della massa di tessuto ustionato cui erano ridotti i suoi polmoni.

Poi venne per lei la più straordinaria delle sorprese. Dopo la morte c'era davvero un'altra vita. Gea era davvero Dio.

Cercò di respingere quell'idea durante tutto il tragitto verso il mozzo. Aveva visto il proprio corpo giacere inanimato. Era divenuta null'altro che un nucleo di consapevolezza, senza alcuna percezione sul piano fisico. Il fatto d'essere incorporea non le impediva, però, di provare emozioni. La più forte era la paura. Ritornò all'infanzia, cedette all'insopprimibile desiderio di recitare l'avemaria e il padrenostro, s'immaginò nell'immenso, gelido, minaccioso eppur sereno silenzio della cattedrale, inginocchiata accanto a sua madre, snocciolando il rosario insieme a lei.

Ma la sola cattedrale, qui, era il corpo vivente di Gea.

Gaby fu portata, o spinta, o traslata, o comunque in qualche modo condotta, dentro il mozzo, sino alla scalinata da teatro di posa che lei e Cirocco avevano percorso tanti anni prima, e che adesso appariva soffocata da uno spesso strato di polvere, e adorna d'un apparato scenico di gigantesche ragnatele artisticamente drappeggiate. Le parve di essere lei stessa una cinepresa avanzante in una carrellata ininterrotta ed uniforme, e si mosse, senz'atto di volontà e senza potervisi opporre, a traversare sulla destra un'insignificante porticina (simile a quella che nel Mago di Oz conduce alla Sala del Trono), entrando nella stanza in stile Luigi XVI che appariva come una replica esatta di uno scenario di 2001: Odissea nello spazio. Era il luogo dove Gaby e Cirocco avevano incontrato per la prima volta quell'anziana signora bassa e tarchiata che diceva di chiamarsi Gea.

La doratura stava venendo via dalle cornici dei quadri. Metà dei pannelli luminosi erano spenti o vacillavano debolmente. I mobili erano logori, pieni di spaccature, ricoperti di muffa. Seduta su una poltroncina traballante, coi piedi nudi appoggiati sopra un basso tavolino, occupata a guardare un vecchissimo televisore in bianco e nero intanto che beveva sorsate da una bottiglia di birra, c'era Gea. Sgraziata come al solito, indossava un informe, sudicio abito grigio.

Gaby, al pari di qualunque altro essere umano non accecato da un inguaribile fanatismo, pensando a quella che avrebbe potuto essere un'eventuale esistenza dopo la morte aveva ipotizzato mille esiti diversi, un'intera gamma di eventualità che abbracciava praticamente tutto, dal paradiso all'inferno. Eppure una situazione del genere non le era mai balenata.

Gea si volse leggermente. Parve a Gaby di assistere ad uno di quei film pseudoartistici in cui l'occhio della cinepresa viene portato a simulare un personaggio, e gli altri attori interagiscono con esso. Gea la fissò, o per lo meno puntò lo sguardo nel luogo in cui Gaby immaginava di trovarsi.

— Ce l'hai una vaga idea del casino che mi hai combinato? — borbottò Gea.

No che non ce l'ho, rispose Gaby. Anche se il verbo "rispondere" le parve, riflettendoci, decisamente troppo concreto rispetto alla sostanza del fatto che veniva chiamato ad esprimere. Non c'era stata emissione di suoni. Lei non aveva avvertito alcun movimento delle labbra né della lingua. Nemmeno una stilla d'aria aveva traversato quei polmoni che, per quanto ne sapeva, giacevano ancora laggiù, nelle tenebre di Teti, saturi di muco.

Tuttavia la sensazione che provò fu quella dell'espressione verbale, e Gea parve avere udito.

— Ma non potevi semplicemente lasciarla in pace? — brontolò Gea. — La vita è complicata, che ti credi, non bisogna mai fermarsi alle apparenze, e comunque perché andarsi ad immischiare, dico io. Rocky stava facendo notevoli progressi. O che male ci sarà ad essere un po' brilli di tanto in tanto?

Gaby non "rispose". Rocky era, naturalmente, Cirocco Jones, e purtroppo la sua ubriachezza era stata assai più che lieve e saltuaria. Quanto al fatto di lasciarla in pace…

Cirocco avrebbe anche potuto farcela da sola, ma chi poteva dirlo. Magari, dopo quaranta o cinquant'anni di quella vita, si sarebbe riscossa, e avrebbe cercato di fare qualcosa per risolvere l'insostenibile situazione che l'aveva portata all'alcolismo. D'altra parte, forse era possibile anche per un immortale bere sino a distruggersi.

Ad ogni modo era stata Gaby che alla fine aveva spinto Cirocco a fare un tentativo, a compiere un primo passo consistente nel visitare i cervelli regionali di Gea alla ricerca di utili tendenze sovversive, nella speranza di trovare qualcuno che potesse far da fulcro per quella Ribellione degli Dei che era nelle intenzioni di Gaby.

E ciò l'aveva condotta ad una morte orribile.

— Avevo i miei progetti, che ti credi, per quella figliola — stava dicendo Gea. — Altri due o tre secoli… e poi chissà? Avrei potuto dirle certe cose. Avrei potuto farle comprendere… accettare… che… — Le parole di Gea si persero in un borbottìo sconsolato. Neppure stavolta Gaby rispose. Gea le lanciò uno sguardo irritato.

— M'hai fatto proprio incavolare — la accusò. — Non avrei mai immaginato che tu potessi metter su tutta 'sta buriana. Una figura tragica, questo dovevi essere. Sempre appresso a Rocky con la tua rosea linguina penzoloni, come una cagna in calore. Era un buon personaggio, Gaby, tanto da poterci costruire sopra una vita intera. Non te lo perdonerò mai d'esserti messa a scrivertela da te, la tua parte, e proprio nel momento in cui stavi… — Non riuscendo a trovare le parole per continuare, Gea scagliò la sua bottiglia di birra contro un'enorme chiazza che bordava la parete, alla base della quale s'ammucchiava un rovinìo di frammenti di vetro scuro. Poi tornò a volgersi verso Gaby, lanciandole un'occhiata maligna.

— Scommetto che avrai chissà quante domande… E io mi divertirò a darti qualche risposta. Ecco, guarda, ne ho una proprio qui. — Gea tese un braccio, e la sua mano si avvicinò al punto di osservazione di Gaby sfocandosi con effetto cinematografico, poi si riallontanò stringendo una cosa piccola, bianchiccia, con due gambe e un paio d'occhi stralunati, che si dibatteva energicamente.

— Spie — disse Gea. — Questa qua era la tua. Se n'è rimasta appollaiata sul tuo cervello per settantacinque anni. Caruccio, nevvero? Il suo nome è Guardone. Quella di Rocky invece si chiama Spione. Lei non lo sa di avercela, proprio come non lo sapevi tu. "Tutto" quel che avete fatto voi due, loro me l'hanno riferito per filo e per segno.

Gaby si sentì travolgere da una disperazione senza limiti. Questo dev'essere l'inferno.

— Macché inferno! Non dirmi che credi ancora a quelle fregnacce! — Gea tacque il tempo sufficiente a schiacciare a morte l'urlante oscenità che teneva prigioniera, poi si ripulì la mano dalla poltiglia sanguinolenta strofinandola sul bracciolo della poltrona.

— La vita e la morte non sono mica importanti come credi tu. La coscienza, quella sì, è il vero enigma. La consapevolezza che hai di te come essere vivente. Tu ricordi d'essere stata moribonda, credi di rammentare di aver fluttuato or non è molto attraverso lo spazio fino a giungere qui… Ma il tempo è ingannevole, da queste parti. Ed anche la memoria. Comunque, se ti può in qualche modo consolare, sappi che non sei un fantasma…

— Tu sei mia — sussurrò Gea dopo un istante di pausa, con un gesto molto simile a quello usato per spiaccicare Guardone. — Io ti ho clonato, ti ho registrato, tutto quel che c'era in te di personale e irripetibile l'ho preso quando sbucasti quassù la prima volta. Lo stesso con Cirocco. E da allora non ho mai smesso di aggiornarmi tramite quel piccolo bastardo che ti avevo cacciato in testa. Io non sono un essere sovrannaturale, non sono Dio, comunque non il Dio che hai in mente tu. Però sono una maga dannatamente in gamba. Il problema se tu, Gaby Plauget, la ragazzina di New Orleans innamorata delle stelle, sia veramente morta laggiù in Teti, è, in fin dei conti, solo una pedante sottigliezza filosofica. Non vale certo la pena di arrovellarcisi. Sai benissimo che il centro di consapevolezza al quale mi sto adesso rivolgendo sei tu. Negalo, se ti riesce.

Gaby non negò.

— È tutto un gioco di specchi — continuò Gea, liquidando la questione con una spallucciata. — Se per caso avevi un'anima, be', allora mi è sfuggita, e dev'essersene volata dritta dritta in quel tuo "cielo" antropomorfico-cattolico-giudeo-cristiano della cui esistenza mi permetto personalmente di dubitare, visto e considerato che di lassù non mi è mai capitato di ricevere neanche una trasmissione radio… Ma stai pur certa che tutto il resto di te, ce l'ho io.

— Che ne farai di me? — domandò Gaby.

— Merda. Mi piacerebbe che ci fosse davvero, l'inferno… — Rimase un poco a rimuginare in silenzio. Gaby non poté far altro che starla a guardare. Poi, lentamente, sul viso di Gea si dipinse un'espressione ch'era uno spaventoso ibrido fra un sorriso e un ghigno beffardo.

— A dire il vero, anche se non c'è un inferno canonico a portata di mano, però dispongo di un surrogato piuttosto convincente. E non credo proprio che ce la farai a sopportarlo. Comunque non ho finito di spiegarti perché. Non t'interessa saperlo?

Gaby pensò che probabilmente qualunque cosa sarebbe stata meglio di quel surrogato d'inferno.

— Ci puoi giurare — commentò Gea. — Perché Rocky tu me l'hai rovinata. Rocky era un'autentica eroina con la corazza incrinata. Ne avevo aspettata una per migliaia di anni. Non che adesso abbia sanato le sue imperfezioni, però si avvia ad acquisire una certa forza di carattere. Spione può sentirgliela crescere dentro. Proprio ora è sul punto di scoprire che tu sei morta. Non ha raggiunto ancora la certezza che io ti abbia uccisa, ma ci si sta avvicinando. Robin e Valiha e Chris sono in gravi difficoltà, e potrebbero anche non sopravvivere. Per un poco Rocky consacrerà ogni sua energia alla loro salvezza. Poi… verrà fin quassù a dichiararmi guerra. Questa incarnazione di Gea — disse battendosi il petto — non sopravviverà. Si strinse nelle spalle. — Meglio così. Cominciavo proprio a essere stufa della Signora Tracagnotti. Per la prossima Gea mi son venute certe ideuzze che ti divertirebbero. Ma non è cosa che ti riguardi. Con te ho finito. Mi stai facendo solo perdere tempo.

Così dicendo, Gea tese una mano e… afferrò l'impalpabile localizzazione di coscienza che era Gaby. La sua capacità percettiva si ottenebrò, poi lei si ritrovò ad ascendere dentro l'arcuata cavità del mozzo, in direzione d'una purpurea linea di luce che si stagliava proprio alla sommità del cilindro, la medesima nettissima linea che lei e Cirocco avevano scorto per la prima volta quando, tanti anni prima, s'erano apprestate ad affrontare l'estremo cimento della loro scalata alla rocca di Gea.

È tutto un sogno, rammentò a sé stessa. Quella conversazione non era mai avvenuta, non comunque a livello fisico. Gea possedeva tutti i ricordi di Gaby, ed era in grado di crearne di nuovi elaborando la matrice memoriale ch'era tutto quanto rimaneva di Gaby, un tempo creatura di carne e di sangue. Quindi è solo un'illusione.

Lei qualcosa mi sta facendo, ma io non mi sto innalzando nello spazio, non mi sto immergendo in quel maelstrom vorticoso che, come il mio cuore ha sempre saputo, è la mente dell'entità chiamata Gea…


Un pensiero la proteggeva. Una consapevolezza inamovibilmente infissa nel centro del caos le consentiva di non sprofondare dall'ossessione nella follia.

Fa tutto parte di quei vent'anni, pensava Gaby. Tutto ciò io l'ho già vissuto.


Lungo la linea rossa, la velocità della luce era una sorta di ordinanza municipale, un curioso aspetto del costume locale che poteva anch'essere fastidioso — come un poliziotto nascosto dietro un cartellone stradale in una cittadina rurale della Georgia — ma che, con opportune "unzioni" o abbastanza cavalli sotto il cofano, non dava proprio la minima preoccupazione.

Vediamo una cosa alla volta. La "velocità" dipende dallo spazio e dal tempo. Nessuno di questi due concetti aveva grande importanza, lungo la Linea. La "luce" consisteva in complessi e superflui pacchetti d'ondeparticelle prive di massa, un sottoprodotto della vita sulla Linea, al pari del sudore e delle feci. "Velocità della luce" era una contraddizione in termini. Quanto pesava quel giorno che sulle montagne accendesti un fuoco da campo e vedesti una stella cadente? Qual è la massa di ieri? Quanto è veloce l'amore?

La Linea si propagava lungo tutto il bordo interno di Gea, che, considerato da un punto di vista einsteiniano, era una circonferenza. Ma la Linea non era circolare. Osservata sullo sfondo del bordo interno, la Linea era sottile. Ma la Linea non era sottile.

La Linea pareva esistere all'interno dell'Universo. Nessuna parte di essa si estendeva al di fuori dei confini fisici di Gea, e Gea era contenuta dall'Universo; ne conseguiva necessariamente che anche la Linea si collocava dentro l'Universo.

Ma la Linea era molto più grande dell'Universo.

Insomma, il termine "Universo" risultava assolutamente inadatto a concorrere ad una corretta definizione della Linea. Il concetto di unicità assoluta, ecco ciò che maggiormente si avvicinava alla vera natura della Linea… pur avendo, con essa, ben poco a che fare.

Lungo la Linea vivevano entità. Erano in gran parte folli, e intenzione di Gea era appunto che anche Gaby impazzisse. Ma Gaby non cessò d'aggrapparsi a un pensiero preciso: fa tutto parte di quei vent'anni. E anche: Cirocco avrà bisogno di me.

Lentamente, con infinita cautela, Gaby apprese la natura della realtà. Divenne pari a un Dio. La sua rimaneva una condizione miseramente inadeguata — possedeva un sacco di Risposte, adesso, e si rendeva conto che le Domande non erano mai state formulate nel modo giusto — ma era già qualcosa. Sarebbe stata molto più contenta se avesse potuto completare quella specie di rigido copione cui un tempo aveva pensato come alla Vita, ma ormai era troppo tardi. Avrebbe accettato quanto doveva.


Prudentemente, tenendosi alla larga da quella presenza soverchiante che sapeva essere Gea, Gaby incominciò a guardare fuori della Linea.

Vide Cirocco giungere nel mozzo, vide i proiettili infiggersi devastanti nella cosa che si faceva chiamare "Gea", avvertì la serie di mutamenti assai più interessanti che sopravvenivano nell'entità a lei nota come Gea, e si fece pensierosa. Aveva individuato una possibilità…

Vi dedicò un attimo di riflessione, al termine del quale cinque anni erano trascorsi.

Si rendeva conto di non poter più resistere a lungo, in quel luogo. La stessa Gea se n'era sottratta, quantunque una parte di lei continuasse a situarsi sulla Linea. Gaby avrebbe dovuto fare altrettanto, se voleva sopravvivere. Cautamente, cercando di non attrarre l'attenzione di Gea, si distaccò dunque dalla Linea, spostando il proprio centro di coscienza verso il bordo della grande ruota. Vide Cirocco numerose volte, senza mai palesare la propria presenza.

Incominciò a percorrere le vie della Magia.

VENTITRÉ

— Forse non verrà — disse Gea.

— Può darsi che tu abbia ragione — assentì Chris.

Immerse il bruschino nell'acqua saponata, poi lo ruotò energicamente in un rapido arco, portandolo di nuovo a sollevarsi contro l'imponente, rosea parete di carne.

Si trovavano nello stabilimento balneare, il quale era né più né meno che uno dei teatri di posa dello studio RKO, utilizzato per girare una parodia di Esther Williams e quindi lasciato libero onde servire agli scopi del Bagno di Gea. Luci basse e immense porte scorrevoli sprangate, nel vasto ambiente con muri e soffitto in legno. In qualche punto della piscina ricolma d'acqua calda erano state gettate pietre ancora più calde, col risultato che spesse nubi di vapore saturavano il locale. Chris grondava sudore, e Gea non era da meno.

Il bruschino consisteva semplicemente in un grosso scopettone fornito di sétole rigide. La pelle di Gea, benché soffice al tatto, pareva non subire alcun danno dall'andirivieni di quell'attrezzo, a prescindere da qualsivoglia accanita vigorìa Chris potesse profondere nel suo impegno. Un piccolo mistero fra tanti.

Passò da quelle parti un panaflex, esaminò attentamente la scena, girò un breve tratto di pellicola, e continuò per la sua strada.

— Lo dici ma non lo pensi — osservò Gea.

— Può darsi che tu abbia ragione — ripeté Chris.

D'un tratto lei prese a muoversi e Chris fece un balzo indietro, poiché qualunque spostamento della gran mole di Gea comportava rischi non indifferenti, per la gente normale cui avveniva di trovarsi nei paraggi.

Stava sdraiata a pancia in giù, il capo appoggiato sulle braccia conserte. Giaceva in poco più di mezzo metro d'acqua. Quando si fu risistemata comoda aveva la testa girata dall'altra parte, e con uno solo dei suoi occhioloni lo guardò trafficare. Lui era intento a strofinarle il fianco destro dalla vita alla spalla, avanzando lentamente verso la parte superiore del braccio. Un lavoretto non di cinque minuti.

— Certo che ne è passato di tempo — proseguì Gea. — Quant'è… otto mesi, ormai?

— Qualcosa del genere.

— Hai idea di quello che starà combinando?

— A te risulta ch'è venuta qui due volte. E stai tranquilla che se l'avessi riveduta, non te lo verrei a dire di sicuro.

— Sei un impertinente, ma ti voglio bene lo stesso. Ad ogni modo lo so benissimo che non è più tornata.

Assolutamente vero. Cirocco l'aveva avvertito che sarebbe andata a quel modo, ma era difficile lo stesso abituarsi all'idea. Chris avrebbe avuto un gran bisogno di appoggio morale.

Quel lavoro d'inserviente al bagno, d'altra parte, non era affatto brutto come aveva temuto. Perseguiva chiaramente lo scopo di demoralizzarlo, e Chris faceva del suo meglio per convincere Gea che il sistema funzionava, trascinandosi stancamente sia all'andata sia al ritorno tutte le volte che lei lo mandava a chiamare per la sbruschinata. Ma insomma, si trattava né più né meno che di un lavoro. Una volta fatta l'abitudine alla sua stranezza, non era poi molto diverso dal dipingere una casa.

Continuò a procedere lungo il fianco e sotto l'esterno dell'avambraccio, diede un'altra risciacquata allo spazzolone, quindi prese a strofinarle il gomito e la zona intermedia fra gomito e spalla.

— Quando verrà qui… — incominciò, ma poi s'interruppe.

— Si?

— Cosa le farai?

— L'ucciderò. Te l'ho già detto, no? O almeno ci proverò.

— Ma credi sul serio che abbia una possibilità?

— Molto scarsa, direi. C'è troppa sproporzione, non ti pare?

— Lo vedrebbe anche un cieco. Ma perché non… non vai semplicemente a darle la caccia? Non riuscirebbe a sfuggirti per molto, vero?

— Innanzitutto è molto furba, e poi non rientra più nella mia… visione. Lì devo dire che me l'ha combinata proprio bella.

Non era la prima volta che Gea formulava ambigue allusioni alla propria cecità. Chris non ne aveva la certezza, ma sospettava che ci fosse di mezzo Spione.

— Perché la odii così tanto?

Gea sospirò, provocando un furioso turbinìo di nubi di vapore.

— Ma io non la odio affatto, Chris. Anzi, l'amo teneramente. Ed è per questo che le concederò il dono della morte. Non ho altro da poterle dare, ed è ciò di cui lei ha bisogno. Anche a te voglio bene.

— Ed hai intenzione di uccidermi?

— Certamente. A meno che Cirocco non riesca a salvarti. Ma per te la morte non sarà un dono.

— Non vedo la differenza.

— Per te sarà un tormento, perché perderai l'amore di Adam. Sei giovane, ancora, e l'esistenza di Adam è la cosa più bella che ti sia mai capitata.

— Sì, fin qui ci arrivo, ma quel che non capisco è perché la morte dovrebb'essere un favore, per Cirocco.

— Non ho detto favore. Ho detto dono. Lei ne ha bisogno. La morte è amica sua. La morte è l'unico sistema che le sia rimasto per andare avanti. Non troverà mai l'amore. Però potrebbe imparare a farne senza. Io ci sono riuscita.

Chris ci pensò un poco, e decise di correre il rischio.

— Lo credo bene. L'hai sostituito con la crudeltà.

Lei inarcò un sopracciglio. A Chris non piaceva guardarla negli occhi, neppure a distanza. C'era troppa sofferenza, una sofferenza antica, in quello sguardo. E anche malvagità, una malvagità sconfinata… ma Chris da qualche tempo aveva incominciato a chiedersi da dov'è che scaturisce la dedizione al male. Era plausibile che di punto in bianco si potesse decidere di trasformarsi in creature malvagie? Chris ne dubitava. Doveva essere un processo lento, invece.

— È ovvio che sono crudele — mormorò Gea richiudendo l'occhio. — Però non t'illudere di riuscire ad inquadrarla nella giusta prospettiva, la mia crudeltà. Io ho cinquantamila anni, Chris. Pensa, Cirocco ha da poco superato il centinaio, eppure già sente che qualcosa ha cominciato a divorarle l'anima. Riesci a immaginare cosa debbo provare io?

— Volevi dire tre milioni di anni, e non…

— Naturalmente. Chissà a che pensavo. Ora puoi passare alla schiena, Chris.

Allora lui prese lo scalandrino e ci si arrampicò, brandendo il suo spazzolone ed un tubo di gomma. La gran distesa rosea era morbida, cedevole sotto i suoi piedi nudi. Gea si mise a far le fusa come un gatto, quando lui la strofinò in mezzo alle scapole.

VENTIQUATTRO

Cirocco uscì dalla Fonte e si distese sulla sabbia. Chiuse gli occhi per un istante.

Quando li riaprì, il suo corpo giaceva ancora sulla sabbia, ma era la fine sabbia nera del piccolo lago sulla riva del quale aveva fatto l'amore con Gaby il giorno in cui Adam era stato rapito.

Volse il capo, e vide Gaby in piedi lì accanto. Le tese una mano, e Gaby gliel'afferrò. Provò di nuovo la sensazione di venir tirata via da una superficie appiccicosa, poi si ritrovò in piedi anche lei. Strinse l'amica in un tenero abbraccio.

— Quanto tempo sei stata via — disse Cirocco, sull'orlo del pianto.

— Lo so, lo so. Troppo tempo. E adesso invece dobbiamo fare in fretta, e c'è tanto da vedere. Vogliamo andare?

Cirocco annuì, e tenendo Gaby per mano la seguì dentro il lago. Sapeva che l'acqua era bassa, eppure sentì il fondo scendere rapidamente finché non si ritrovarono a galleggiare con solo la testa fuori dei flutti. Gaby fece appena un cenno col capo, e affondarono.

Non fu come nuotare. Andavano giù a perpendicolo. Cirocco non aveva bisogno di darsi alcuna spinta. Si muovevano, e basta. Poteva sentire l'acqua scorrerle accanto veloce.

E comunque non era nemmeno acqua. Più simile al fango, semmai, o ad una tèpida guaina di terra. Ecco la sensazione che deve provare un verme a strisciare nel suo mondo sotterraneo, pensò. E ricordò se stessa, tanti anni prima, lottare per strapparsi all'umido suolo di Gea e riemergere alla luce: più neanche un pelo addosso, smarrita, spaventata come un bimbo appena nato. Niente del genere, stavolta. Nessun timore.

Poi si ritrovò ritta in un'immensa cavità, senza ricordare come avesse fatto ad arrivarvi. La grotta si stendeva a perdita d'occhio. Camminò, insieme a Gaby, accanto ad inerti, addormentate, sottilmente svettanti sagome di astronavi.

— Incominciai a recuperarle fin dall'inizio della Guerra — spiegò Gaby. — Molti comandanti si rifiutarono di tornare sulla Terra, e piuttosto che farsi coinvolgere nel conflitto preferirono abbandonare le loro navi. Io le ho portate qui, e le ho salvate.

Ce n'erano centinaia. Faceva proprio uno strano effetto vederle tutte ordinatamente riunite laggiù sotto.

— Hanno un'aria così… derelitta — commentò Cirocco.

— Gran parte dei guasti sono facilmente riparabili — assicurò Gaby.

— Ci credo. Ma… ecco, non erano destinate a finire quaggiù. Lo sai cosa mi ricordano? Meduse che il mare ha gettato sulla spiaggia.

Gaby rivolse un lungo sguardo all'esercito silenzioso, ed annuì. In effetti, quelle tenaci strutture fatte per lo spazio sembravano avere parecchio in comune con le fantasie anatomiche presenti nei fragili corpi dei più bizzarri invertebrati marini.

— Hai detto che sei stata tu a portarle qui. Non Gea.

— Infatti. Pensavo che un giorno o l'altro sarebbero potute tornare utili. E ho portato anche un mucchio di altro materiale, dopo essermi resa conto che Gea aveva l'intenzione di far continuare la Guerra. Ecco, dai un po' un'occhiata qui. — Gentilmente, costrinse Cirocco a girarsi…

…e l'oscurità di nuovo l'avvolse. Quando si dissipò, Cirocco vide che si trovavano in un luogo completamente diverso.

— Ma come fai a fare una cosa del genere?

— Amormìo, non potrei mai spiegartelo, assolutamente. Accetta il fatto che ne son capace, altro non so dirti.

Riflettendoci, Cirocco si rese conto di avere le idee leggermente confuse, un po' come un lieve stato d'alterazione alcolica, e un po' come una vaghezza di sogno. Condizione mentale che in fondo non le risultava affatto spiacevole.

— Va bene — assentì tranquillamente.

Si trovavano in un tunnel di sterminata lunghezza. Appariva perfettamente circolare, sembrava assolutamente diritto, e pulsava di luci multicolori.

— Ciò che vedi non risiede nel tempo reale — spiegò Gaby.

— Sto sognando, vero?

— Qualcosa del genere. Questo è l'Anello dell'Alchimista. Un acceleratore circolare di particelle elementari lungo quattromila chilometri, basato su tecniche notevolmente superiori a quelle conosciute sulla Terra. È qui che Gea produce i metalli pesanti di cui ha bisogno… soprattutto oro, negli ultimi tempi. In precedenza le è servito anche a procurarsi grandi scorte di plutonio. Volevo semplicemente fartelo vedere.

Cirocco osservò con attenzione i trascorrenti grumi luminosi. Si movevano lungo il tunnel, niente affatto velocemente, simili a calabroni di color bianco incandescente, giallo infocato e rosso arroventato.

Tutto ciò non si svolge nel tempo reale, aveva detto Gaby. Quei globi dovevano essere dunque nuclei atomici, lanciati quasi alla velocità della luce. Divulgazione scientifica con sussidi visivi, pensò Cirocco. Non proprio un sogno, ma qualcosa di simile. Piuttosto come un film, diciamo.

— Qui dentro non c'è aria, vero?

— No, naturalmente. La cosa ti dà fastidio?

Cirocco scosse la testa.

— Bene. E adesso una bella visita a…

…altro giro, altra corsa…

Stavolta Cirocco non si fece cogliere di sorpresa, e il passaggio fu ancora più facile. Tenne gli occhi bene aperti, ma non riuscì ugualmente a veder nulla. L'istante appresso si trovò in un'altra caverna, molto più piccola del deposito in cui riposavano le astronavi.

— Qui dentro la temperatura è assai prossima allo zero assoluto. Ci sono esemplari congelati di svariate centinaia di migliaia di specie animali e vegetali terrestri. Un poco le aveva raccolte Gea. Le altre le ho fatte venire io poco prima che scoppiasse la Guerra. Spero che un giorno, come le astronavi, possano rivelarsi utili. E adesso, fai un passo avanti…

Cirocco lo fece, e perse quasi l'equilibrio. Fu sorretta dalla mano di Gaby, mentre i suoi piedi scendevano a poggiarsi sulla familiare sabbia nera. Trasse un respiro profondo, finalmente, un vero, appagante respiro che scese a carezzarle i polmoni.

— Non mi piace mica, sai, questo sistema… — si lamentò.

— D'accordo, ho capito. Comunque ho da mostrarti altre cose. Ti va ancora di venirmi dietro?

— Sì.

— Prendimi per mano allora, e non aver paura.

Cirocco la prese per mano, e insieme s'innalzarono nell'aria.


Già molte volte, in sogno, a Cirocco era capitato di volare. La cosa poteva svolgersi in due distinte maniere, forse in relazione ad una specie di bollettino meteorologico di natura psichica. Visibilità scarsa nel cervello, oppure cielo limpido nel midollo. Un modo consisteva nello star seduti e fluttuare, come a bordo di un magico tappeto persiano, spostandosi lentamente sopra il mondo. Nell'altro modo, invece, ci si poteva, più liberamente, slanciare in alto e scendere a capofitto, senza mai tuttavia disporre della piena manovrabilità di un aeroplano.

Stavolta si trattava di un volo del secondo tipo, controllabile però con notevole precisione. Cirocco volò a braccia spiegate — afferrandosi inizialmente alla mano di Gaby, ma poi lasciandola e dirigendosi da sé — piedi uniti, gambe distese.

Si sentì pervadere da un esaltante senso di vertigine. Era meraviglioso. Inclinando le braccia all'indietro poteva andare più veloce. I palmi delle mani fungevano da alettoni per inclinarsi e virare. Giostrando con i piedi riusciva ad ottenere cabrate e picchiate. Si divertì a sperimentare varie combinazioni, eseguendo repentini mutamenti di traiettoria e grandi evoluzioni circolari. Esisteva anche un'altra sostanziale differenza, rispetto al "normale" volonirico, e presto comprese che si trattava della completa percezione del movimento. Sebbene la sua vista rimanesse tuttora curiosamente annebbiata, e il suo cervello continuasse ad accusare un leggerissimo stato confusionale, avvertiva con tutti i suoi sensi la presenza dell'aria, la poteva toccare, annusare, assaggiare, ne godeva lungo il corpo la guizzante carezza, e, soprattutto, constatava di aver conservato massa ed inerzia. Nel culmine inferiore d'ogni giravolta doveva controbilanciare il moltiplicarsi dell'accelerazione di gravità, tener le braccia rigidamente protése in fuori le costava un notevole sforzo muscolare, e sentiva sulle gote, sulle cosce, sul petto, la propria carne protendersi verso il basso.

Diede una rapida occhiata a Gaby, che si librava non lontana in consimili acrobazie.

— Bellissimo! — le disse.

— Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto. Ma ci resta poco tempo. Séguimi.

Tramite un'improvvisa virata Gaby prese ad ascendere con piglio deciso, allontanandosi dall'oscuro territorio di Dione. Cirocco le tenne dietro allineandosi alla sua rotta, e si trovò immediatamente ad accelerare pur senza esplicito intervento della volontà. Strinse le braccia lungo i fianchi, e, come Gaby, sfrecciò verso l'alto a velocità vertiginosa. Stavolta nessuna analogia col pilotaggio di un aereo. Non più la tensione di vettori contrastanti, niente sensazione di motori sotto sforzo. Filavano verticalmente, in linea retta, come razzi. Ben presto varcarono l'imboccatura del Raggio di Dione. Cirocco non avvertiva più alcuna resistenza aerodinamica, sebbene la loro velocità oraria dovesse senza dubbio misurarsi in centinaia di miglia. Volle provare a distendere un braccio, ed ebbe conferma di una totale assenza di vento. La manovrabilità ottenuta in precedenza tramite i movimenti di mani e piedi era venuta completamente a cessare. Non poté far altro che seguire Gaby.


Il Raggio di Dione, così come d'altronde tutti e sei i raggi della grande ruota, presentava trasversalmente sezione ovale, con un asse maggiore di circa cento chilometri e un asse minore di circa cinquanta. Esso si congiungeva al bordo svasandosi in una grandiosa cappa campaniforme, che andava gradualmente a trasformarsi nell'arcuata volta della periferica struttura toroidale. Al culmine della campana esisteva una valvola a sfintere in grado di serrarsi a completa tenuta. All'opposta estremità del raggio, nei pressi del mozzo, era presente un altro sfintere. Aprendo o chiudendo tali valvole, e contraendo le pareti del raggio, estese per una lunghezza di trecento chilometri, Gea pompava aria da una regione all'altra, riscaldando o raffreddando a seconda delle necessità.

A parte il Raggio di Oceano, che risultava sterile e desolato, l'interno di queste immense torri cilindriche ospitava forme di vita in abbondanza. Alberi giganteschi crescevano orizzontalmente protendendosi dalle pareti verticali. Complessi ecosistemi prosperavano nell'intrico labirintico dei rami, nel cavo dei tronchi, e persino nella stessa struttura parietale.

Di specie angeliche ce n'erano a dozzine, su Gea, in gran parte troppo dissimili per incrociarsi. Il Raggio di Dione, in particolare, dava ricettacolo a tre specie, o Stormi, come esse si autodefinivano. Nella parte superiore, ove la gravità risultava pressoché inesistente, allignava l'esile popolo dell'Ariastormo: angeli nani con ali ed epidermide di aspetto translucido, creature dalle effimere esistenze, non troppo intelligenti, più simili a pipistrelli che ad uccelli. Atterravano di rado, e quasi esclusivamente per deporre le uova, che venivano poi abbandonate al loro destino. Si nutrivano di foglie.

La parte mediana del raggio apparteneva agli Aquila di Dione, imparentati con gli Aquilastormi di Rea, Febe e Crono. Gli Aquila non si riunivano in comunità. Anzi, quando a due di loro capitava d'incontrarsi, era probabile che finissero per ingaggiare una lotta all'ultimo sangue. I loro figli, che nascevano già completamente formati, venivano dati alla luce in pieno volo, e dovevano imparare ad usare le ali durante la lunga caduta verso il bordo. Molti, in effetti, ce la facevano.

Ma Aria ed Aquila appartenevano ad una minoranza. Gran parte degli angeli geani costruivano il nido e si prendevano cura della prole. Il che, comunque, avveniva in una grande varietà di forme. Una delle specie di Tea, ad esempio, aveva tre sessi: maschi, femmine e neutri. Le femmine, creature di notevoli dimensioni, erano incapaci di volare. I maschi, di corporatura minuta, erano selvatici ed aggressivi. I neutri, gli unici in possesso di capacità intellettive, si occupavano dei cuccioli, che nascevano anch'essi già formati.

Il Sovrastormo di Dione — denominazione quanto mai inadeguata, secondo Cirocco, visto che il loro territorio si estendeva nella parte inferiore del raggio — era composto da individui pacifici e dotati d'istinto sociale. Costruivano sugli alberi grandi nidi in foggia di alveare, utilizzando rami, fango, e le loro stesse feci essiccate, le quali contenevano una sostanza agglutinante. Un solo nido poteva giungere ad ospitare anche un migliaio di Sovra. Le femmine davano alla luce particolari organismi detti placentoidi, specie di uova contenenti un embrione, che andavano impiantati nel corpo vivente di Gea. In tal modo le femmine non raggiungevano mai uno stadio di gravidanza che impedisse loro il volo, e d'altra parte i neonati potevano raggiungere un livello di crescita notevole, prima di venire separati dal loro grembo extramaterno. Al pari degl'infanti umani, anche i piccoli Sovra rimanevano inermi per lungo tempo, ed imparavano a volare non prima dei sei o sette anni.

Fra tanti, Cirocco preferiva i Sovra. Erano più socievoli della maggior parte degli altri angeli, al punto che li si era persino visti venire a commerciare a Bellinzona, e a differenza di numerose altre specie facevano largo uso di utensili. Cirocco si rendeva ben conto che il suo era un atteggiamento preconcetto e irrazionale — agli Aquila non si poteva fare certo alcuna colpa per il fatto d'essere così spietati, trattandosi d'una loro intrinseca caratteristica genetica — ma non poteva farci nulla. Nel corso degli anni si era creata numerose amicizie, fra i Sovra.

Non diversamente da molti altri angeli, i Sovra assomigliavano ad umani di complessione assai gracile, cui faceva da contraltare un torace spropositato. Avevano corpi nerolucenti. Ginocchia capaci di curvarsi in entrambe le direzioni. Come piedi, artigliate zampe d'uccello. Le ali s'innestavano basse sulla schiena, al di sotto delle scapole. Quand'erano ripiegate, le loro articolazioni a gomito svettavano sopra la testa dell'individuo, mentre le estremità delle lunghe penne maestre scendevano a sdilungarsi interminabilmente dietro i piedi.

Angeli e titanidi avevano un solo elemento, in comune. Erano entrambi creazioni relativamente recenti, attuate da Gea come variazioni sul tema umano. Ma pur adottando ossa cave, ali gigantesche, muscolatura sovradimensionata e non un grammo di grasso, la realizzazione di un umano volante aveva messo a dura prova le capacità progettuali di Gea. A livello del bordo, gli angeli di maggiori dimensioni riuscivano a sollevare poco più del loro stesso peso. Era quindi naturale che preferissero vivere nelle regioni a minor gravità esistenti all'interno dei raggi.

A parte le loro consuetudini nidificatone, i Sovra si distinguevano anche per altre due caratteristiche. Una era la colorazione. Il piumaggio delle ali appariva verde nelle femmine e rosso nei maschi. In entrambi i sessi gl'impennaggi caudali erano neri, tranne che nella stagione degli amori, quando le femmine mettevan su una policroma coda a ventaglio stile pavone, magnifico ornamento del quale facevano grande sfoggio. Esternamente, il dimorfismo sessuale si fermava lì.

E poi non conoscevano l'uso dei nomi propri, e la loro lingua non comprendeva i pronomi singolari di prima persona. Più in là del "noi" non andavano, eppure non condividevano affatto una mentalità collettiva. Anzi, possedevano tutti una propria, precisa individualità.

Comunicare con loro presentava pertanto qualche difficoltà, ma ne valeva davvero la pena.


I Sovra non parvero minimamente stupiti di vedere Gaby e Cirocco giungere in volo al loro nido e posarsi, leggère come piume, accanto al grande varco che si apriva alla sommità. All'interno del raggio stava piovendo, e un ampio manto in pelli di sorrisone era stato drappeggiato sull'ingresso per tener fuori la pioggia. Gaby ci s'infilò sotto, e Cirocco la seguì immergendosi nell'oscurità.

Che accidente di sogno strano, pensò. Fino a un momento prima poteva tranquillamente volare, ma non appena messo piede sul nido eccola alle prese col solito scomodo, goffo annaspìo che pareva essere l'unico modo in cui un umano riusciva a muoversi attraverso un Sovranìdo.

Una scala in stile Sovra consisteva in una serie di bastoncelli digradanti incassati sul fianco similadobe del nido. Gli angeli usavano afferrarsi a quelle bacchette con i piedi; ma tutto quel che Cirocco poteva fare era aggrapparsi con entrambe le mani e scendere a marcia indietro, cercando di far finta che si trattasse di una normale scala a pioli. Allo stesso modo, l'equivalente Sovra di una comoda sedia era rappresentato da una lunga pertica orizzontale, su cui i padroni di casa stavano appollaiati con la massima disinvoltura.

Cirocco e Gaby s'inoltrarono lentamente verso la parte posteriore del nido, che risultava costruita contro la fiancata del raggio. Disseminati lungo la parete, in piccole sacche della carne di Gea, si annidavano i Sovrapargoli. Alcuni apparivano non più grandi di uova di struzzo, mentre altri avevano le dimensioni d'infanti umani e necessitavano di mille attenzioni, ond'evitare che movendosi inconsultamente rischiassero di troncarsi il cordone ombelicale. La cura della prole era affidata, a turno, a tutti i membri dello stormo. Nessuna madre e nessun padre in particolare giungeva ad imporre l'esclusività della propria presenza sulla personalità dei nuovi nati.

Alla base della colonia placentoide esisteva l'unico punto in tutto il nido che si presentasse pianeggiante, e abbastanza ampio da poter fungere da pavimento. Le due viaggiatrici andarono a sedervisi a gambe incrociate. A Cirocco venne in mente che avrebbe fatto bene a portare un dono, uno qualsiasi, possibilmente tenendo conto del fatto che i Sovra andavano matti per le cose luccicanti. Sarebbe stato il modo più cortese d'iniziare una visita. Ma indosso non aveva neanche i vestiti.

Gaby era nelle medesime condizioni, tuttavia dopo un ampio improvviso svolazzo in puro stile prestidigitatorio dischiuse il pugno ed esibì sul palmo un decrepito catarifrangente da bicicletta, che a brandeggiarlo cacciava fuori dalle sue viscere di plastica un fitto balenìo di cangianti barbagli. policromi. I Sovra se ne innamorarono immediatamente, e presero a passarselo di mano in mano.

— È un dono favoloso — commentò uno di loro.

— Supremamente luminifero — rincarò un altro.

— Elegante e giocherelloso — osservò un terzo.

— Vivamente accesi di sommo sbalordimento, siamo — flautò approvando un quarto.

— Custodito esso sarà gelosamente.

Continuarono per un poco a cinguettar così tutto il loro apprezzamento, e quando Cirocco e Gaby riuscirono finalmente a interloquire, si diedero diffusamente a celebrare con lodi sperticate la bellezza, l'intelligenza, la dignità, la saggezza, l'ammirevole leggiadria di volo dei loro ospiti. Elogiarono la colonia neonatale, il nido, il reparto, l'ala, la squadriglia e lo Stormo degl'impareggiabili Sovràngeli. Una femmina in calore ne rimase a tal punto turbata che dispiegò a ruota le penne dell'erostentazione caudale. Sebbene in quella semioscurità l'intravvedesse appena, Cirocco non perse l'occasione di unirsi agli altri nell'encomiare la fertilità e maestria sessuale della femmina, in termini talmente espliciti che sarebbero stati capaci di fare arrossire una puttana.

— Gradireste un po' di… cibo? — domandò loro uno dei Sovra. Gli altri distolsero lo sguardo, osservando un discreto silenzio. Si trattava di un'esperienza nuova, per i Sovra, qualcosa che stavano prudentemente collaudando nei loro rapporti con gli umani. Per consuetudine, il cibo non veniva mai chiesto né offerto al di fuori del nido di appartenenza. Nessuno avrebbe negato da mangiare ad un Sovra affamato proveniente da un altro nido, però gran parte di loro avrebbe preferito morire, piuttosto che domandare.

L'invito era stato rivolto dall'individuo di più umile condizione nell'intero nido, un maschio anziano, emaciato, probabilmente prossimo alla morte.

— Non potrei assolutamente — rispose Cirocco in tono disinvolto rivolgendosi a un altro individuo.

— Piene, siamo piene fin qui — confermò Gaby.

— Diverrebbe impossibile il volo, con un altro grammo solo — rincarò Cirocco.

— La pancia è pericolosa.

— L'astinenza è virtuosa.

Nel dir così, evitavano di guardare quello che aveva formulato la domanda, distribuendo in tal modo il peso dell'imbarazzo il più imparzialmente possibile, come cortesia imponeva. I Sovra chioccolarono la loro approvazione, lodando nel contempo la floridezza delle visitatrici.

D'un tratto Cirocco rammentò l'incontro con quel Sovra solitario nel cielo di Giapeto, mentre il necràngelo, non ancora individuato, proseguiva instancabile il suo volo portando Adam via con sé.

— Perché dunque siam qui giunte a questo nido? — chiese allora, rivolgendosi agli angeli presenti e non a Gaby, e invertendo la domanda in modo tale da causare ai Sovra il minore imbarazzo possibile.

— Sì, questione interessante, mistero conturbante — replicò uno.

— Perché son giunte qui, perché son giunte qui?

— Un'ha sostanza d'aria, e un'ha sostanza di sogno.

— Sogni nel nido, oh, quant'è strano.

— C'è come un fuoco che divampa in loro. Perché giunsero qui?

Gaby si schiarì la voce, e tutti si volsero a guardarla.

— Siam giunte per la medesima ragione che già in passato ci condusse — spiegò. — Per proseguire l'azione a danno di Gea, e secondare i preparativi di guerra contro di lei e tutti i suoi possedimenti e nidi.

— Esattamente! — approvò Cirocco, che più confusa di così non avrebbe potuto essere. — Precisamente questa è la nostra intenzione. Impegnarci nell'ideare i più brillanti stratagemmi e le tattiche più sottili.

— Risposta d'esemplare chiarezza! — osservò un angelo in tono entusiastico.

— Oh, colei se ne pentirà!

— Il nido di Gea verrà abbattuto.

— Eh, già — fece un angelo, ed era quello che dicevano quando non avevano nulla da dire ma non volevano rimanere esclusi dalla conversazione.

— Eh, già — convenne un altro.

Era facile vedere nei Sovra di Dione nient'altro che simpatici scioccherelloni, idioti sapienti provvisti d'un vocabolario ampio ma scoordinato. Niente di più ingannevole. La lingua inglese era una vera delizia, per loro, così illogica, e ricca, e adatta a quel naturale desiderio, che tutti li accomunava, di confondere, offuscare, e comunque eludere, nei limiti del possibile, ogni univoca limpidezza di significato.

— Imprescindibile violenza — suggerì Gaby.

— Oh sì, davvero assai violenza. Quanta sofferenza.

— E cautela, estrema cautela.

— La tattica — osservò uno. — Chissà mai che compendio d'arte tattica. E dal tono in cui si espresse, Cirocco capì che si trattava di una domanda, e voleva dire: Come faremo a combatterla?

Gaby si produsse di nuovo in un complesso ghirigoro manuale. Nella manica non ha niente di sicuro…, pensò Cirocco, e per un attimo capì che sensazione dovevano provare gli altri quand'era lei a sfoderare i suoi modesti trucchi.

A comparire, stavolta, fu un bastoncino rosso che era inequivocabilmente dinamite. E in effetti portava un'etichetta con su scritto DINAMITE: Fabbricata in Bellinzona. Cadde il silenzio, fra gli angeli, quando videro di che si trattava. Cirocco la prese e se la rigirò fra le mani. Dagli angeli si levò all'unisono un gran sospiro.

— Dove diavolo l'hai presa? — domandò Cirocco, dimenticando per un momento la loro presenza. — A Bellinzona non c'è niente del genere.

— Ma solo perché comincerete a fabbricarla non prima di un chiloriv — replicò Gaby.

— Ah, trionfo dell'effimero! — trillò un Sovra. — Oh, vanità delle cose!

— Un'inconsistente nullità — opinò un altro.

— Non fabbricat'ancóra?! Che innesco burlesco! Siam forse vittime d'un equivoco sottile?

— Semplicemente non esiste — compendiò una voce. — Come questa Cirocco qui.

— Non arzigogoliamo! — proruppe vigorosa un'esortazione.

— Hai forse smemorato ch'è solo un sogno? — qualcuno pensò bene di rammentare a Cirocco.

— Dinamite! Dinamite! Dinamite!

— Ci sarà, sì, dinamite — confermò Gaby. — Allorché tempo verrà di combattere Gea, dinamite vi sarà stata già da un po'.

— Vi sarà stata? Verbale astruseria, in fede mia!

— Sincerissimamente parlando.

— Una… illusione? — esitò un Sovràngelo giovinetto inarcando un sopracciglio e guatando perplesso il candelotto fra le mani di Gaby.

— Un chimerico fuoco fatuo — gli spiegò un adulto.

— Un fittizio artifizio! Un guazzabuglio di raggidiluna, un piucobliterato, menchimpalpàbile, fugacissimo zimbello! Una vacuitaggine! — gridò un altro, con ciò efficacemente ponendo fine alla discussione.

Ristettero lì a fissare quel singolare oggetto, in un silenzio frusciante di piume. Gaby lo rifece destramente svanire là donde era stato evocato… il futuro, immaginò Cirocco.

— Ah… — sospirò infine uno di loro.

— In verità in verità vi dico… — dichiarò un altro. — Per il mozzo della grande ruota, l'audaci imprese che potrem compiere in virtù d'una cotale roccaforte di possanza!

— Ne compirete, ne compirete — convenne Gaby. — E senza più por tempo in mezzo sarà d'uopo che adesso ci narriate che cosa attende l'animo dei forti.

Il che Gaby giustappunto fece, per filo e per segno.


Concertato il piano, venne il momento della rituale offerta sessuale. Cirocco e Gaby accettarono entrambe, così come buona creanza richiedeva.

Innanzitutto la fase del corteggiamento, che a Cirocco aveva sempre ricordato le movenze di una danza a quattro coppie, mentre gli altri attorno cantavano e ritmicamente battevano le mani. Poi il partner di Cirocco, un aggraziato esemplare della specie, l'avvolse nel tèpido abbraccio delle sue grandi ali rossovivo, e l'atto venne "consumato".

Ecco un'altra caratteristica dei Sovra che lei trovava particolarmente piacevole. Non avevano un grammo di xenofobia. Essendo la loro una società tribale, essi possedevano una cultura intessuta di rituali, costumanze e tradizioni, contemperata però da una mentalità aperta e duttile. Nei confronti di visitatori Sovra, l'offerta sessuale avrebbe assunto ben altra intensità, e l'atto non sarebbe stato per nulla simulato. Il presente cerimoniale era stato dunque formalizzato al solo scopo di venir proposto ad ospiti umani. Un vero rapporto sessuale col Sovra sarebbe risultato grottesco per entrambi. In realtà, il maschio si limitò solo a darle un tocco leggerissimo col suo piccolo pene, senza mai esibirlo, e furono tutti contenti. Per Cirocco si trattò di un'esperienza particolarmente gratificante. Almeno così, poteva avere l'illusione di sentirsi amata.


L'aveva quasi dimenticato che era tutto un sogno, finché non atterrarono sulla spiaggia di sabbia nera e rivide il proprio corpo addormentato. Cornamusa era lì accanto, accovacciato a zampe conserte, immerso nel temponirico, intento a un lavoro d'intaglio. Alzò lo sguardo, e fece loro col capo un cenno di saluto.

Cirocco si accomiatò da Gaby con un bacio, e la guardò volare via. Poi sbadigliò, si stiracchiò, e squadrò la figura distesa sulla sabbia. E proprio tempo che mi svegli, pensò ironicamente.

La facilità con cui le circostanze più fantastiche finivano per divenire roba di ordinaria amministrazione non cessava di stupirla. S'inginocchiò a fianco della dormiente, ripensando a com'era andata la volta prima, e le si rovesciò addosso.

Ma rimase senza fiato quando, invece di finire sulla sabbia come si era aspettata, andò ad urtare un corpo caldo e sodo e invalicabile. Giacque per un istante scompostamente abbandonata sulla forma inerte, poi saltò su d'impeto come se fosse andata a cadere sopra un formicaio. Rimase lì pietrificata dall'orrore mentre l'altra Cirocco si agitava, portava una mano al viso… e poi si rigirava un po' sul fianco ripiombando nel sonno.

Volse la testa, e scoprì che Cornamusa la osservava. Cosa mai vedrà? Forse non avrebbe mai avuto il coraggio di domandarglielo.

— È chiaro che non sono ancora pronta — disse ad alta voce. Poi sospirò, s'inginocchiò di nuovo sulla sabbia, si protese esitante a toccare il corpo. Una tangibile percezione di alterità continuava a separarla da quella donna alta, membra vigorose, pelle abbronzata, e neanche tanto bella.

Le prese una mano. L'altra si mosse lievemente, mormorando qualcosa. Quindi aprì gli occhi e si tirò di scatto a sedere.

La colse un attimo di stordimento, poi fu di nuovo se stessa. Diede attorno una rapida occhiata. Nessuno.

— Solamente io e te, ragazza mia, si disse, e andò a raggiungere Cornamusa.

VENTICINQUE

Gli storici, quando anche Bellinzona finalmente ebbe i suoi, non riuscirono mai a mettersi d'accordo sul momento in cui si verificò la svolta cruciale. La città era nata nel caos, era cresciuta nella confusione, era stata conquistata nello scompiglio. Per un breve periodo il numero dei reclusi nei campi di lavoro fu quasi pari a quello dei cittadini ancora in grado di muoversi liberi per le strade.

Conal, coi suoi informali sondaggi d'opinione, non rilevò alcun sensazionale balzo in avanti nello stato d'animo della gente, o nella popolarità di Cirocco Jones, nemmeno dopo l'incursione aerea. A suo parere, il cambiamento risultò da una combinazione di vari elementi.

Sta il fatto che, per un motivo o per l'altro, a un certo punto, fra il sesto e il nono chiloriv dall'invasione di Cirocco, Bellinzona cessò di essere una litigiosa accolta d'indocili individui e divenne una comunità… per lo meno entro gli umani limiti del termine. Non che all'improvviso tutti gli uomini avessero stabilito di essere fratelli. No, niente di così spettacolare. Continuavano ad esistere profonde ed ostinate differenze, e in nessun luogo tanto tenaci quanto all'interno del Consiglio. Comunque, al termine del nono chiloriv, Bellinzona poteva ormai considerarsi una città provvista di una sua solida identità, e di uno scopo preciso.

Il gioco del calcio, chi l'avrebbe mai detto, rivestì in tutto ciò un ruolo di notevole portata.

In virtù della sfegatata passionaccia di Serpentone, efficacemente coadiuvata dalle capacità organizzative di Robin e dal volenteroso impegno dell'assessore al verde pubblico, in men che non si dica si videro nascere due federazioni, ciascuna composta di dieci squadre: questo per quanto riguarda gli adulti. Ma si formarono anche compagini di adolescenti e di ragazzi. Per accogliere il gran numero di partite fu necessario costruire un secondo stadio. Le gare venivano appassionatamente disputate ed entusiasticamente seguite con gran concorso di popolo plaudente. Nacquero eroi locali, sorsero rivalità fra i sostenitori delle varie squadre cittadine. Era qualcosa di cui parlare nei bar davanti a un buon bicchiere, al termine di un turno di lavoro lungo e faticoso. Qualcuno ci trovò anche un buon pretesto per menar le mani. La polizia titanide aveva ricevuto ordine di non interferire, finché non si andava oltre i cazzotti. Quando si sparse la voce che, caso senza precedenti, in queste particolari circostanze i tutori dell'ordine avrebbero chiuso un occhio, anzi tutt'e due, scoppiò qualche tafferuglio fra tifosi di opposte sponde, qualcuno si fece male… e il Sindaco lasciò correre. Anche questo parve contribuire allo sviluppo di una coscienza pubblica. Quelli coi nervi più saldi presero a intervenire per dividere i litiganti, mentre un poco alla volta i nascenti cittadini imparavano il senso e la forma della reciproca tolleranza.

Il che non vuol dire che non ci scappasse lo stesso qualche naso rotto.

Anche la partenza di Finefischio c'entrò in qualche modo. Un bel giorno lui prese e scivolò via in silenzio, e non ritornò indietro. Giù dabbasso si tirò un gran sospiro di sollievo. Troppo vistoso, era stato, come simbolo dell'oppressione. In fondo si trattava solo d'una vecchia vescica piena di vento, assolutamente inoffensiva, ma alla gente non piaceva sentirselo sul capo, e furono tutti contenti di vederlo togliersi di mezzo.

I titanidi divennero meno numerosi, e meno visibili. Il giorno che Cirocco fece ritorno dalla Fonte, in effetti, la forza d'occupazione era ormai dimezzata, e un chiloriv dopo risultava ridotta ancora della metà. Il servizio di sorveglianza passò interamente nelle mani della polizia umana, e i titanidi si limitarono ad intervenire solo nei peggiori casi di violenza. I reati da codice civile li lasciavano totalmente indifferenti.

Le forniture alimentari migliorarono sia in qualità che in quantità, man mano che aumentava l'ampiezza dei terreni coltivati e cresceva l'esperienza degli addetti al settore. Nei mercati incominciò a fare la sua comparsa, a prezzi gradualmente decrescenti, la carne di sorrisone. Tramite concessioni fondiarie governative, venne creato un certo numero di agricoltori indipendenti, i quali, come ampiamente previsto, si dimostrarono alquanto più efficienti dei condannati ai lavori forzati…

L'inflazione restava un problema; tuttavia, secondo la sublime sintesi fatta da Nova in uno dei suoi resoconti sulla situazione economica, "Il tasso di aumento del tasso di aumento è in diminuzione".

Nell'opinione di molti, comunque, il motivo primo del rafforzamento dello stato d'animo collettivo era anche il più evidente: il vile e proditorio attacco di quella che in séguito venne identificata come la Sesta Aerobrigata Cacciabombardieri dell'Aviazione Militare Geana, con base in Giapeto. La Sesta Aerobrigata, composta da un Luftmörder e nove bombe volanti, era giunta rombando da oriente il primo giorno sereno dopo molti decariv di pioggia, con la gente tutta per strada a godersi l'inconsueto tepore.

La frase "vile e proditorio" venne pronunziata da Trini in un suo discorso venti riv più tardi, mentre ancora si stavano raccattando i cocci. La sua foga oratoria si era spinta anche oltre: con espressione illogica, ma sull'onda di una collera che le sgorgava dal profondo del cuore, aveva definito, quello dell'attacco, un giorno che sarebbe rimasto per sempre a memento della scelleratezza di Gea.

A parte il termine "giorno", la sua frase era straordinariamente indovinata.

— È Gea che viene a darmi una mano, sia stramaledetta la sua miserabile pellaccia — disse Cirocco alla successiva riunione del Consiglio. — Mi regala nientemeno che una Pearl Harbour s'un vassoio d'argento… e una vittoria, per giunta. Dev'essere ridotta proprio alla disperazione, per farmi un simile favore. Lo sa che a questo punto non potrò più tardare molto, con l'ondata di patriottismo che sta venendo su.

La Sesta Aerobrigata Cacciabombardieri inflisse gravi danni alla città tramite il lancio di bombe e missili. Se l'azione offensiva avesse avuto modo di protrarsi, o se fosse sopraggiunta a dare man forte agli attaccanti l'Ottava Aerobrigata, che Cirocco sapeva essere di stanza in Meti, la città avrebbe rischiato di trasformarsi in un inferno.

Ma l'Aviazione di Bellinzona intervenne in men che non si dica.

Il fatto stesso che esistesse un'Aviazione di Bellinzona costituiva una novità assoluta per gli abitanti della città, e quelli che osarono mettere il naso fuori dai loro nascondigli guardarono sgomenti e ammutoliti le Libellule, le Mantidi, le Zanzare e i Calabroni impegnare i selvaggi aeromorfi in mortali combattimenti. Ciò che ignoravano, era che la Sesta poteva considerarsi sconfitta in partenza. Certo, a prima vista nessuno l'avrebbe detto. Le bombe volanti erano enormi e velocissime e ruggenti, si lasciavano dietro grandi nubi di fumo nero, e si gettavano all'arrembaggio sputando fuoco. Gli aerei di Bellinzona parevano fatti di fildiferro e cellofan. Però viravano e roteavano con impressionante agilità, e sebbene il loro armamento non facesse granché rumore quand'era in azione, nel colpire il bersaglio di certo otteneva l'esito desiderato. Tre Mantidi attaccarono ripetutamente il gigantesco, prepossente Luftmörder, lo incalzarono senza dargli tregua finché il mostro, cacciato dal proprio elemento, urlando la sua agonia non andò a deflagrare in un parossismo di fiamme contro il fianco di una collina. Gli atterriti bellinzoniani che avevano assistito alla scena proruppero in una stridula acclamazione.

Sarebbe stata una totale disfatta, se a favore degli aggressori non avesse in un certo senso giocato l'inesperienza di alcuni piloti umani. Uno di loro ebbe in sorte d'ingaggiar battaglia con una bomba volante particolarmente abile, perse un'ala, e andò a schiantarsi nelle acque del lago. Il suo corpo venne recuperato, ed un corteo formatosi spontaneamente portò in mesto tributo la salma a percorrere il Viale Oppenheimer. Più tardi, al primo eroe della Guerra Geana venne innalzato un monumento.

La vittoria nella Battaglia di Bellinzona fu dunque una fase importante nel cambiamento che interessò la città. Ma l'elemento cruciale, fra quanti concorsero alla svolta, incominciò ad operare subito dopo il ritorno di Cirocco dalla Fontana della Giovinezza.

Lei divenne un personaggio pubblico.

Tempo un ettoriv, non vi fu stradina di Bellinzona che non fosse addobbata di manifesti su cui campeggiava il suo volto. Erano raffigurazioni grandiose e retoriche, realizzate sul modello di quei giganteschi stendardi con l'effigie di Lenin e Suslov che un tempo, in occasione del Primo Maggio, venivano portati in trionfo per le vie di Mosca. Bastava guardarli, per acquisire la certezza che Cirocco Jones si batteva per la fratellanza, la solidarietà, tre pasti abbondanti al giorno, e il benessere del proletariato.

Gli albi municipali si erano ampliati trasformandosi in centri d'informazione, con intere pareti ricoperte di messaggi, cronache, risultati di calcio. Una neonata industria giornalistica stava movendo i primi incerti passi: niente più, per ora, di quattro o cinque discontinui e inconsistenti fogli di notizie su grossolana carta pergamenacea. Senza far chiasso, il settore della stampa periodica venne messo sotto controllo. I vari direttori furono convinti con le buone a collaborare, tranne uno, che venne arrestato e imprigionato. Incominciarono ad apparire articoli su Gea, su Nuovo Pandemonio, su voci di preparativi di guerra nelle regioni orientali. Tali resoconti, o dicerie che fossero, rispondevano sostanzialmente a verità, ma ciò non toglieva che a Bellinzona tutti i mezzi d'informazione fossero in mano allo Stato. Parecchia gente, nel governo, criticava tale situazione. Pressoché altrettanti la ritenevano ideale. Ad esperienza di Cirocco, in qualsivoglia società democratici e fascisti erano presenti sempre più o meno in eguai numero.

Stuart e Trini, ad esempio, la aborrivano, sebbene la loro posizione in tal senso nulla avesse a che vedere con la difesa delle libertà civili. Essi erano infatti costretti ad assistere impotenti mentre Cirocco, giorno dopo giorno, consolidava la propria immagine in seno all'opinione pubblica di Bellinzona. E sapevano che, sin quando ella avesse potuto continuare a distribuire benessere e sicurezza sociale, soffocando nel contempo ogni voce dissenziente, sarebbe rimasta Sindaco vita natural durante. Il che, nel suo caso, poteva benissimo voler dire ancora un migliaio d'anni…

…Così come c'era pure la possibilità che non campasse nemmeno un altro chiloriv.

Aveva incominciato compiendo apparizioni pubbliche. In occasioni tipo assemblee, adunate, parate. Si faceva strada in mezzo alla gente stringendo mani, baciando bambini, mostrandosi insieme ai capi della comunità. Tagliava nastri alle cerimonie d'inaugurazione delle nuove iniziative di sviluppo. E teneva discorsi. Ottimi discorsi. Le sue esibizioni oratorie sonavano convincenti per lo stesso motivo per il quale i suoi manifesti risultavano entusiasmanti: Cirocco trovava gente capace di disegnare manifesti e di scrivere allocuzioni, e la metteva al lavoro.

Con risultati impeccabili. Persino Trini e Stuart dovevano riconoscerlo. Quando si trovavano in sua presenza, avvertivano palpabile l'impatto con quella personalità superiore: sembrava emanare, da Cirocco, un'energia inarrestabile, un flusso empatico che rendeva piacevole lo starle accanto e induceva a pensar bene di lei anche quando se n'era andata. Pareva capace di adeguarsi perfettamente a qualunque situazione. In mezzo alla folla esercitava un ascendente che le guadagnava infallibilmente il favore della massa. Sul podio era travolgente, incoraggiante… o anche inquietante, allorché parlava della minaccia rappresentata da Gea.

Trini incominciò a chiamarla Carisma Jones, per lo meno quando il Sindaco non era nei paraggi. Attualmente, sempresialodato, non risultava più tanto difficile indovinare quando e dove sarebbe sbucata fuori, dal momento che di quelle sue misteriose e inopinate apparizioni non ne faceva più. Cirocco pareva piuttosto avere il dono dell'ubiquità.

E, con ciò, rischiava davvero grosso. Trini non si faceva illusioni. Con tutta la sua popolarità, c'era pur sempre gente che Cirocco Jones la odiava a morte. In tre soli chiloriv si verificarono a suo danno ben due tentativi di omicidio. E nei primi tempi dell'amministrazione Jones ce ne sarebbero stati chissà quanti, se l'amato Sindaco si fosse fatto vedere un po' più in giro. Adesso, all'aperto, tra la folla, rappresentava un bersaglio ideale. Se qualcuno dei suoi nemici avesse potuto mettere le mani su un'arma da fuoco, lei non avrebbe avuto scampo. Ma, così come stavano le cose, chi l'avvicinava con intenti regicidi poteva disporre al massimo di un pugnale, e otteneva solo di rimetterci la pelle nell'arco di pochi secondi. Cirocco era troppo sveglia per avere grandi necessità in fatto di guardie del corpo.

Finora. Un giorno o l'altro un abilissimo arciere, standosene ben distante al sicuro, ci avrebbe provato.

Nel frattempo era bello vivere a Bellinzona.

E quando Cirocco incominciò ad arruolare un esercito, parve a tutti la cosa più naturale di questo mondo.

VENTISEI

— Tutta 'sta roba militare non mi piace punto — disse Robin.

— O perché no? Uguali opportunità per tutti. Reggimenti maschili e reggimenti femminili. La paga è buona, il rancio ottimo e abbondante…

— Non mi riesce mai di capire se scherzi o dici sul serio.

— Robin, quando si parla di esercito io praticamente non faccio altro che scherzare. È l'unico modo in cui mi riesce di sopportarlo.

Robin, seduta in groppa a Valiha, scrutò Cirocco Jones, a cavalcioni di Cornamusa. La giovanissima Tamburina trotterellava accanto a loro nel modo goffo e simpatico di tutti i piccoli titanidi, godendosi la passeggiata educativa in compagnia della sua antemadre Cornamusa e dei due umani.

La Maga, il Capitano, il Sindaco… il Dèmone. Cirocco Jones era tutte queste persone, ed era anche una vecchia amica. Ma negli ultimi tempi capitava talvolta che Robin ne avesse paura. Vederla alle oceaniche adunate nello stadio, assistere alle acclamazioni con cui le moltitudini salutavano ogni sua parola… le rammentava fin troppo certi documentari storici dedicati a demagoghi del passato, farabutti dalla lingua sciolta che avevano precipitato i loro popoli nella rovina. E in quelle circostanze la sentiva del tutto estranea, impettita lassù a braccia levate, sommersa dall'immenso tributo delle turbe osannanti.

Eppure, nelle ormai rare occasioni in cui riusciva a restar sola con lei, ecco che immediatamente riscopriva l'inconfondibile Cirocco di sempre. Dalla personalità comunque di per sé piuttosto dominante, d'accordo, ma proprio nulla a che vedere con la traboccante dominatrice delle assemblee di popolo.

Cirocco parve avvertire lo stato d'animo di Robin. Le si rivolse scotendo la testa.

— Ricorda quel che ti dissi allora, a Tuxedo Junction. Quando stavamo progettando questa bega. Ti dissi che non tutto ti sarebbe andato a genio. Ma ti dissi anche di tenere sempre ben presente che c'è ben altro, dietro la facciata.

— Ma mettere in galera il direttore di quel giornale… è un'azione ripugnante. Una così brava persona…

— Lo so anch'io ch'è una brava persona. E lo ammiro persino. Quando questa storia sarà finita, userò tutta l'autorità che mi sarà rimasta… ammesso che sia ancora viva… per fare in modo che venga ricompensato come merita. Che ne diresti di metterlo a dirigere una scuola di giornalismo?… Tanto continuerà lo stesso a odiarmi per il resto dei suoi giorni. E ne avrà tutti i motivi.

Robin sospirò.

— Schifo d'un mondo. Appena sarà sicura che ti sei tolta di mezzo, Trini lo risbatterà pari pari in galera. O magari ci penserà Stuart.

Si dirigevano all'incirca verso occidente, inoltrandosi nel cuore delle tenebre eterne gravanti su Dione. I titanidi le avevano già trasportate attraverso la giungla "impenetrabile", e al di sopra delle montagne "invalicabili", più o meno con la stessa disinvoltura di un paio di carrarmati a spasso s'una strada asfaltata. Avevano traversato a nuoto l'Ofione, e adesso si stavano avvicinando al cavo verticale svettante al centro di Dione. C'era il chiarore d'una notte di luna piena sulla Terra. Alle loro spalle Giapeto s'incurvava su per la convessità interna della ruota, e di fronte stava Meti. La luce che da queste due regioni pioveva di riflesso su Dione era sufficiente a consentire ai titanidi di procedere senza difficoltà. Tamburina scorrazzava agile a destra e a manca sconfinando un poco dalla via maestra, ma ogni volta bastava un cortese ammonimento di Valiha per riportarla subito in carreggiata, e non si cacciò mai nei pasticci. I cuccioli titanidi sono molto assennati.

Cirocco non aveva rivelato lo scopo del viaggio. Robin pensava che il cavo centrale fungesse solo da punto di riferimento lungo il cammino che li avrebbe condotti a destinazione, ma quando raggiunsero la base dell'immane struttura i titanidi si fermarono.

— Ben lieti saremo di accompagnarti, Capitano — disse Valiha. — Questo luogo non suscita in noi alcun raccapriccio.

Si riferiva all'istintivo terrore che i titanidi nutrivano nei confronti dei cavi centrali e delle creature che inferiormente ad essi si acquattavano. Vent'anni prima, intrappolati da una montagna di macerie sotto il cavo centrale di Teti, Robin e Chris avevano dovuto affrontare l'allucinante compito di condurre Valiha giù per i cinque chilometri di scala spiraliforme che andavano a sfociare nella tana della stessa Teti… un'irascibile, maniaca, terrificante e, per loro fortuna, miope Divinità Minore. Le facoltà intellettive di Valiha erano andate decrescendo gradino dopo gradino, finché, giunti sul fondo, lei era ridotta all'intelligenza di un cavallo, ma in compenso due volte più ombrosa. L'incontro con la temibile padrona di casa si era risolto per Valiha nella frattura delle due zampe anteriori, e per Robin in un interminabile incubo.

Era un terrore di fronte al quale i titanidi rimanevano impotenti, in quanto Gea stessa gliel'aveva indelebilmente marchiato dentro a livello genetico.

Dione, però, era morto, ed evidentemente faceva differenza.

— Grazie per l'offerta, amici miei, ma preferirei che ci attendeste qui. Non c'impiegheremo molto. Voi potreste, nel frattempo, cogliere l'occasione per insegnare a questa disutilaccia un po' della squisita grazia e dell'alta dignità per cui ben nota è la vostra razza, qualità delle quali costei è così evidentemente e penosamente priva.

— Ehi! — protestò Tamburina, e fece un balzo in direzione di Cirocco, che schivò di lato, abbrancò la piccola e fece finta di lottare contro di lei con grande accanimento sin quando la giovane titanide non finì a ridere tanto a crepapelle da non poter neppure continuare il gioco.

Cirocco le scompigliò i capelli, poi prese Robin per un braccio. S'inoltrarono nella foresta di trèfoli.


A venticinque centimetri per gradino, di gradini ce ne volevano ventimila per scendere fino a Dione. Anche con un quarto di g, era pur sempre una grand'abbuffata di scalini.

Cirocco aveva portato una potente torcia a batteria, e Robin gliene fu molto riconoscente. C'era, sì, diffuso dintorno, un chiarore naturale proveniente dalle creature dette fotosfere, che se ne stavano aggrappate all'alto soffitto a volta, ma era fievole e di colore arancio, e poi capitavano estesi tratti in cui quegli animali non attecchivano. Procedettero a lungo in silènzio.

Robin si rendeva conto che probabilmente non le sarebbe mai capitata un'occasione migliore di quella per parlare a Cirocco di qualcosa che le aveva provocato grande sofferenza. Il nuovo, potenziato, illustrissimo Sindaco aveva poco tempo, in quel periodo, per ascoltare ciò che i suoi amici avevano da dirle.

— Non è possibile, vero, che tu non sappia di me e Conal?…

— Esatto. Non è possibile.

— Vuole che torniamo insieme.

— Perché l'hai mollato?

— Non sono stata io che… — E invece era stata proprio lei. E tanto valeva ammetterlo, concluse fra sé. Ormai era trascorso quasi un chiloriv, e da allora, guarda caso, soffriva d'insonnia. Il fatto è che non sono più abituata a dormire da sola, si diceva, pur sapendo che c'era ben altro.

— Credo che in parte sia stato per via di Nova — continuò. — Ogni volta che la guardavo era come trovarmi sul banco degl'imputati, e mi sentivo in colpa. Volevo riavvicinarmi a lei.

— E ha funzionato proprio bene, vero?

— Quella brutta mocciosa gattamorta bigotta puzzalnaso… — Si trattenne, prima che la collera potesse travolgerla.

— Nova è tutto quel che ho — concluse, in tono smarrito.

— Non è vero. E poi non devi essere ingiusta con lei.

— Ma io…

— Ascoltami un minuto — l'interruppe Cirocco. — Ci ho riflettuto, che ti credi. È da quella volta del banchetto che ci penso, fin da quando giurammo il nostro impegno solenne e ci mettemmo a preparare la conquista di Bellinzona. Io…

— Lo sapevi già allora?

— Detesto vedere gli amici incasinati a quel modo. Ma ho sempre fatto finta di nulla, perché in quelle faccende lì la gente in realtà non li vuole, i consigli degli altri. Comunque una mia opinione ce l'avrei… Se la vuoi sentire.

Robin non l'avrebbe voluta sentire. Aveva imparato che le osservazioni e i progetti del Sindaco erano in genere le cose giuste da mettere in pratica… ma quasi mai le più gradevoli.

— Ti ascolto — disse.

Prima che Cirocco parlasse di nuovo, Robin arrivò a contare trecento gradini. Grande Madre, pensò. Dev'essere davvero terribile, se ci mette tutto questo tempo solo per scegliere le parole… Ma per chi mi prende?

— Nova non conosce la differenza fra bene e male.

Robin contò altri cinquanta scalini.

— Forse nemmeno io la conosco — disse infine.

— Be', ovviamente parto dal presupposto che io, invece, una certa idea ce l'ho — replicò Cirocco ridacchiando. — Lascia che ti dica ciò che penso, e poi fanne quello che ti pare.

Altri dieci gradini.

— Il peccato è una violazione delle leggi tribali — dichiarò Cirocco. — Sulla Terra, nella maggior parte delle società era peccato, quello che voi facevate alla Congrega. C'è anche un'altra parola per definirlo. Perversione. Nel corso della storia umana, di solito l'omosessualità è stata considerata una perversione. Avrò sentito almeno un centinaio di teorie che pretendono di spiegare perché esistono gli omosessuali. Gli psicologi dicono che è per via di qualcosa capitato durante l'infanzia. I biochimici dicono ch'è tutta questione di chimica cerebrale. I militanti gay dicono che essere gay è semplicemente la cosa più bella del mondo… e così via. Nella Congrega dicevate che gli uomini sono esseri malvagi, e che solo una donna malvagia poteva avere a che fare con loro. Io, personalmente, non ho nessuna teoria. E non saprei che farmene. Per me non ha la minima importanza se uno è omosessuale o eterosessuale. Ma per te invece sì che è importante. Dentro di te sei convinta di avere peccato, allacciando rapporti carnali con un uomo. E ti consideri una depravata.

Trascorsero altri cinquanta scalini, mentre Robin ci rifletteva. Non era nuova a pensieri del genere.

— Non è che il fatto di saperlo mi aiuti molto — disse alla fine.

— Mica ti avevo promesso una soluzione facile, no? Secondo me la tua unica speranza è di riuscire a guardare la cosa in modo obiettivo. Io, per esempio, ci ho provato. E sono arrivata alla conclusione che, per motivi che mi sfuggono, certa gente è in un modo, e cert'altra in un altro modo. Sulla Terra, pure in presenza di una schiacciante convenienza sociale ad essere eterpsessuali, c'è sempre stata gente di segno opposto. La Congrega era una specie d'immagine speculare della Terra. Ed ho il sospetto che debbano esserci state un bel po' di donne infelici, là da voi. Probabilmente non se ne rendevano nemmeno conto di cosa fosse a provocare la loro insoddisfazione. Forse si sfogavano in sogno. Chissà che sogni peccaminosi… Ma insomma, il problema di quelle donne stava nel fatto che, vai a capire se per motivi biologici, psicologici, ormonali o quel che sia, loro erano… be', in mancanza di una definizione più adeguata, diciamo, tanto per intenderci, che erano gay. Sarebbero state sessualmente più soddisfatte con partner maschi. Io non lo so se tu sei nata gay o lo sei diventata… sulla Terra o alla Congrega. Ma credo comunque che tu sia una pervertita.

Robin sentì il sangue salire impetuoso ad avvamparle il volto, tuttavia continuò, senza alcuna esitazione, a percorrere di buon passo l'interminabile scalinata. Tutto sommato, era bene portare l'argomento fino in fondo.

— Quindi pensi che debba avere un uomo.

— Non è così semplice. Ad ogni modo mi pare chiaro che c'è qualcosa, nella tua personalità, che si armonizza con qualche altra cosa che è presente nella personalità di Conal. Se lui fosse una donna, ora come ora tu saresti la persona più felice di tutta Gea. Ma siccome è un uomo, sei invece una delle più disgraziate. E questo perché sostanzialmente hai accettato la grande menzogna della Congrega, anche se pensi di essere troppo matura per cascarci. Sulla Terra, milioni di uomini e donne hanno creduto ai mostruosi inganni delle varie culture terrestri, e quando sono morti erano infelici proprio come sei tu adesso. E io invece ti sto suggerendo che è da stupidi lasciarsi condizionare.

— Già, però… accidenti, Cirocco, ma credi che non ci abbia mai pensato? Me n'ero accorta sì di questa trappola!

— Tuttavia non l'hai rifiutata con abbastanza decisione.

— Ma come devo fare con Nova?

— Lasciala cuocere nel suo brodo. Se non è capace di accettarti per come sei, allora vuol dire che non è la persona che tu speravi che potesse essere.

Robin ci rifletté per molte centinaia di scalini.

— È grande, ormai — continuò Cirocco. — E sarà bene che incominci ad assumersi la responsabilità delle proprie decisioni.

— Sì, lo so, comunque…

— Lei rappresenta l'implacabile peso della moralità della Congrega.

— Ma… non potrei in qualche modo farle superare l'ostacolo?

— No. Secondo me non sei tu che puoi aiutarla. Vedi… forse non dovrei dirlo, ma ho l'impressione che sarà il tempo a risolvere il tuo problema… Il tempo, e un titanide.

Robin le chiese spiegazioni, ma Cirocco non volle dir altro.

— Quindi ritieni… che dovrei far tornare Conal?

— Gli vuoi bene?

— A volte mi sembra di sì.

— Non sono molte le cose che so per certo, ma di una sono abbastanza sicura, ed è che l'amore è l'unica cosa che valga davvero la pena.

— Conal mi rende felice — ammise Robin.

— Tanto meglio.

— Stiamo parecchio bene, insieme… a letto.

— E allora sei proprio matta a rinunciarci. Pensa a com'era normale per la tua bis-bis-bisnonna. Tu discendi da una lunga serie di lesbiche, ma nel tuo sangue rimane pur sempre una goccia di perversione.

Passarono altri cento scalini, e poi ancora cento.

— D'accordo, ci penserò — disse Robin. — M'hai spiegato che cos'è il peccato. E il male, cos'è?

— Robin… lo riconosco quando lo vedo.

E non rimase tempo per dire altro, poiché, con sua sorpresa, Robin scoprì d'essere arrivata in fondo alla scala di Dione.

Nulla a che vedere con gli altri cervelli regionali. Robin ne aveva conosciuti tre: Crio, ancora fedele a Gea; Teti, suo nemico; e Tea, uno dei più tenaci alleati di Gea. I dodici cervelli regionali avevano preso partito molto tempo prima, durante la Ribellione di Oceano, quando la Terra stessa aveva tradito Gea.

Dione, per sua sfortuna, si collocava fra Meti e Giapeto, due dei più forti e determinati sostenitori di Oceano. Allo scoppio della guerra, stretto così fra l'incudine e il martello, era stato ferito a morte. La sua agonia si era protratta molto a lungo, ma ormai era estinto da almeno cinquecento anni.

C'era buio alla base della scalinata. I loro passi riecheggiavano nel silenzio. Cinta da un fossato completamente asciutto, si ergeva la gigantesca struttura conica che aveva un tempo ospitato Dione. Mentre Teti aveva avvampato dall'interno d'un vivo bagliore rossastro, ed era parso consapevole e vigile pur nella sua assoluta immobilità, Dione era evidentemente un cadavere. La torre aveva ceduto in vari punti, rovinando al suolo. Robin poté intravvedere, attraverso le ampie fratture, qualche squarcio dell'intima struttura reticolare. Che, colpita dal fascio di luce della torcia elettrica di Cirocco, reagì proiettando all'esterno una miriade di riflessi sfaccettati.

Poi il raggio della torcia si spostò di lato perdendosi lontano, e di riflessi, laggiù in fondo, ne baluginarono soltanto due. Due luccichìi gemelli separati da un paio di metri, acquattati oltre l'arco d'ingresso di una grande galleria. Sembrava quasi che laggiù dentro ci fosse un treno in attesa.

— Vieni fuori, Nasu — bisbigliò Cirocco.

Il cuore di Robin si mise a battere forte. E d'un balzo lei tornò con la memoria indietro negli anni, venti e anche più… al giorno in cui, ancora bambina, aveva ricevuto in dono il minuscolo serpente, un anaconda sudamericana, Eunectes Murinus, e deciso di farne il suo dèmone personale. Niente gatti o corvi, per Robin; per lei ci voleva un serpente. Dopo averla vista divorare in un pasto solo ben sei terrorizzati topolini la chiamò Nasu, che, come le aveva spiegato qualcuno, voleva dire "porcellino" in una delle tante lingue della Terra.

…al suo arrivo su Gea, con Nasu dentro la borsa, spaventata e stordita dalle procedure d'immigrazione e dalla bassa gravità. Nasu l'aveva morsicata tre volte, quel giorno.

…a quando aveva perduto il suo serpente nelle viscere di Gea, in qualche punto fra Teti e Tea. Con l'aiuto di Chris l'aveva cercata a lungo, avevano piazzato in giro dei bocconcini per attirarla, l'avevano chiamata per ore ed ore, inutilmente. Chris aveva cercato di convincerla che a Nasu non sarebbero certo mancate le prede, nelle tenebre di quel mondo sotterraneo pullulante di vita, e che avrebbe potuto cavarsela benissimo. Robin s'era sforzata di crederci, ma con scarsi risultati.

Aveva avuto intenzione di non separarsi mai, dal suo serpente. Aveva immaginato che sarebbero invecchiate insieme. A quanto ne sapeva, quel genere di rettili poteva raggiungere i dieci metri di lunghezza e arrivare tranquillamente a pesare il doppio di un normale pitone. Davvero un serpente notevole, l'anaconda…

Nasu emise un suono sibilante che fece rizzare i capelli sulla nuca a Robin. Dovevano esser riecheggiati suoni come quelli, sebbene non altrettanto forti e profondi, nelle paludi del Cretaceo. Serpenti notevoli, d'accordo, ma non diventavano mica così grandi…

— Ci-ci-ci… Cirocco… fo-forse… m-meglio…

Nasu si mosse. Sicuramente, fin dall'alba dei tempi, non s'era mai visto né udito un serpeggiare come quello. Un immane frussscìo ssspiraliforme capace di spedir di corsa un tirannosauro a rifugiarsi pigolando nella boscaglia, di far venire la cacarella ad una tigre dai denti a sciabola, di gelare il sangue nelle vene a un elephas primigenius.

E di paralizzare il cuore a Robin.

La testa dell'anaconda eruppe dalla galleria, poi s'immobilizzò. La lingua, due volte la circonferenza di un anaconda di grosso calibro, guizzava tra le fauci saettando ognidove. La testa, completamente bianca, aveva all'incirca le dimensioni della locomotiva che Robin s'era immaginata dapprincipio nelle tenebre. Occhi color dell'oro, tagliati da strette fenditure nere.

— Dille qualcosa, Robin — sussurrò Cirocco.

— Cirocco!- replicò Robin in tono d'urgenza. — Ma non ti rendi conto? Un anaconda non è mica un gattino o un cagnolino!

— Lo so.

— E no che non lo sai! Puoi prendertene cura, ma non arrivi mai a possederli. E loro ti sopportano solo perché sei troppo grossa da mangiare. Se Nasu ha fame…

— Non ce l'ha. Làsciati servire da chi ne sa più di te, mia cara. Gira un sacco di selvaggina robusta, da queste parti. Non crederai mica che quella là sia diventata così grossa mangiando polli e conigli, vero?

— Ma io non ci credo per niente che sia diventata così grossa! In vent'anni? È impossibile.

Si udì nuovamente quel terrificante sinuoseggiar di scaglie, ed altri venti metri di Nasu fecero il loro ingresso nella sala buia. Quindi l'anaconda sostò, tornando a saggiar l'aria a colpi di lingua.

— E poi non si ricorderà, di me. Non è mica un animalino domestico, accidenti a lei! Anche allora dovevo trattarla coi guanti, e tanto qualche morso me lo buscavo lo stesso.

— Ma se ti ho detto e garantito che non ha fame. E anche se ce l'avesse, non perderebbe tempo con prede piccole come noi.

— Ma insomma, cosa vuoi che faccia?

— Solo che resti calma e parli con lei. Dille le cose che le dicevi vent'anni fa. Dalle modo di riabituarsi a te… E non tagliare la corda.

Robin obbedì. Si trovavano a tre o quattrocento metri dal serpente. Ogni tanto quel fluente ondeggiare si ripeteva, ed altri cinquanta metri emergevano dalla galleria.

A un certo punto la testa del serpente giunse ad appena un paio di metri. Robin sapeva cosa stava per accadere, e si fece forza.

La grande lingua guizzò fuori e si distese a sfiorarle le braccia, si trastullò brevemente con la stoffa dei suoi abiti, le saettò sopra i capelli.

E andò tutto bene.

La lingua era umida e fredda, ma non sgradevole. E mentre quel delicato palpeggiare la percorreva da capo a piedi, Robin ebbe l'assoluta certezza che il serpente si ricordava di lei. Fu come se il tocco di quella lingua avesse trasmesso da Nasu a Robin un qualche segno di riconoscimento. Io ti conosco.

Nasu fece un altro lieve movimento, la grande testa si alzò leggermente dal suolo, e Robin si ritrovò racchiusa in un semicerchio di candida sinuosità serpentina più alta di lei. Un terrificante occhio giallo la fissò con ofidica ponderazione, ma Robin non provò paura. Poi la testa s'inclinò un poco…

…E a Robin tornò d'un tratto in mente qualcosa ch'era piaciuto a Nasu. Le capitava, a volte, di darle con l'indice un grattatina in cima alla testa, al che lei si sollevava, le si attorcigliava intorno al braccio, e si metteva in posizione per farsi grattare ancora.

Allora Robin si alzò in punta di piedi, protese le braccia e, con entrambe le mani chiuse a pugno, strofinò la levigata pelle che ricopriva la testa di Nasu. Il serpente emise un suono sibilante relativamente sommesso — non più forte della sirena di un transatlantico che entra in porto — e si ritrasse. Nuovo titillar di lingua, poi Nasu scivolò a contornarla sul lato opposto, e reclinò il suo capoccione per farsi grattare anche da quest'altra parte.

Movendosi a lenti passi, Cirocco si avvicinò. Nasu la osservò placidamente.

— Ecco fatto — disse Robin con voce sommessa. — Le ho parlato. E adesso che si fa?

— Evidentemente, questo qui è un po' più di un anaconda — commentò Cirocco.

— Evidentemente.

— Ignoro cos'abbia potuto operare una simile trasformazione. La dieta? La bassa gravità? Qualcosa è stato, comunque. Si è adattata alla vita nel sottosuolo. M'era già capitato d'intopparla in due o tre occasioni, ogni volta più grande, ma aveva sempre fatto in modo di tenersi alla larga da me. Ho ragione di credere che sia divenuta assai più intelligente di quanto non fosse in origine.

— Perché?

— Me l'ha raccontato un uccellino di mia conoscenza… Dopo di che, all'incontro successivo, le ho detto di venirmi ad aspettare quaggiù, se voleva ritrovarsi con la sua vecchia amica. E infatti eccola qui.

Robin era impressionata, però incominciava anche a farsi sospettosa.

— D'accordo, ma veniamo al dunque.

Cirocco sospirò.

— M'hai chiesto cos'è il male. Ecco, forse ora l'abbiamo di fronte. E per quanto ci abbia riflettuto a lungo, temo di non saper definire con precisione che cosa possa sembrare malvagio a un serpente. Non credo che Na-su ami Gea. Tutto quel che posso fare, ad ogni modo, è avanzare un suggerimento. Il resto tocca a te, e a lei.

— Quale suggerimento?

— Che tu le chieda di seguirci in Iperione, per uccidere Gea.

VENTISETTE

Nova alzò lo sguardo verso Virginale cercando di nascondere la propria delusione.

— Sei stanca? È per questo?

— No — rispose Virginale. — È solo che… che oggi non mi va di correre.

— Non ti senti bene? — Nova non ricordava d'avere mai udito un titanide lamentarsi neanche di un mal di testa. Erano tutti disgustosamente sani, quelli là. Con l'esclusione di fratture ossee e gravi lesioni interne, non c'era molto che potesse mettere a cuccia un titanide.

Aveva tutto il diritto di rifiutare, naturalmente. Nova non s'illudeva affatto di possedere Virginale, e neppure di poter disporre in alcun modo del suo tempo. Però era una cosa cui s'erano dedicate regolarmente sin dal loro arrivo a Bellinzona.

Nova preparava e impacchettava una pantagruelica merenda, quindi se ne partivano tutt'e due al galoppo in direzione di qualche remoto, impervio luogo montagnoso, con la ragazza abbarbicata come un'edera in groppa alla titanide per non finire in fondo a qualche burrone, ma consapevole di correre d'altronde ben pochi rischi. Giunte sul posto mangiavano, discorrevano del più e del meno, poi Nova schiacciava un pisolino mentre Virginale s'immergeva nel temponirico.

All'inizio l'avevano fatto immancabilmente una volta all'ettoriv. Man mano però che le sue responsabilità aumentavano, a Nova era rimasto sempre meno tempo per quelle escursioni. Ma erano il suo unico divertimento, la sua sola fuga da un infinito deserto di aride cifre. Il calcio l'annoiava a morte, e bere non beveva.

— Va bene, allora diciamo domani, eh? — propose Nova, servendosi del termine comunemente usato a Bellinzona per significare "dopo il mio prossimo periodo di sonno".

Ma, con sua grande sorpresa, Virginale palesò un'evidente esitazione, e poi distolse lo sguardo.

— No, io non credo — replicò la titanide in tono riluttante.

Nova lasciò cadere il pesante bagaglio sulle assi di legno della strada, e si piantò le mani sui fianchi.

— Benissimo. È chiaro che ti frulla qualcosa in mente. E credo di avere il diritto di saperlo anch'io, no?

— Non ne sono sicura — rispose Virginale, con aria addolorata. — Ma forse a Tamburina piacerebbe, correre un po' in giro in tua compagnia. Se lo desideri, glielo posso domandare.

— Tamburina? E perché proprio lei? Perché ancora una bambina?

— Ti garantisco che anch'essa può portarti senza difficoltà alcuna.

— Non è questo il punto, Virginale! — Nova ricacciò in fondo l'émpito d'ira che minacciava di sommergerla, e fece un altro tentativo.

— Mi stai forse dicendo… che non vuoi correre insieme a me né oggi, né domani… né mai più?

— Sì — confermò Virginale, con gratitudine.

— Ma… perché?

— Non è questione di perché — rispose a disagio Virginale.

Nova si rigirò quella frase in mente cercando di darle un senso. Non era questione di perché… Ma c'è sempre un perché. I titanidi erano gente onesta, ma non sempre dicevano tutta la verità.

— Forse non mi vuoi più bene? — le domandò.

— Ti voglio ancora bene.

— Allora… anche se non puoi dirmi perché, magari però puoi dirmi cosa… cosa c'è di diverso, adesso. Sì, dimmi, cosa è cambiato?

Virginale, esitando, annuì.

— C'è una presenza — disse infine. — Un'entità estranea che va crescendo dentro la tua testa.

Nova, con gesto istintivo, si portò una mano alla fronte. Pensò immediatamente a Spione, e sentì gelide zampe di ragno brulicarle giù per la schiena. Ma non era quello, che Virginale aveva inteso.

— Confidavo che in breve tempo si sarebbe estinta — continuò la titanide. — Ma tu la stai nutrendo giorno dopo giorno, e ben presto sarà troppo grande perché la si possa sopprimere. E piango per te. E voglio dirti addio sin da ora, prima che quella cosa consumi la Nova che ho conosciuto e amato.

Continuando a scervellarsi nel tentativo di cavarne un senso, ebbe un'intuizione, e le parve di aver forse colto nel segno.

— Ciò che dici ha qualcosa a che fare con mia madre?

Virginale sorrise, lieta che l'altra avesse finalmente compreso.

— Sì. Naturalmente. Quello è il seme del tuo male.

Nova sentì la collera rifermentarle dentro, e si domandò se ce l'avrebbe fatta, stavolta, a raffrenarla.

— Ascoltami bene, maledizione, se putacaso Robin t'ha messa su per…

Virginale la schiaffeggiò. Uno schiaffo in realtà assai leggero, in scala titanide. Non la mandò neppure al tappeto.

— Allora è stata Cirocco, vero? È stata lei che t'ha detto…

Virginale la schiaffeggiò di nuovo. Il gusto del sangue le riempì la bocca. Il pianto le sgorgò dagli occhi.

— Sono estremamente dispiaciuta — disse Virginale. — Ma ho anch'io la mia dignità. Nessuno sta cercando di raggirarti. E mai avrei consentito a chicchessia di servirsi di me per indurti ad un riavvicinamento con tua madre.

— Sono cose che non ti riguardano!

— Hai perfettamente ragione. Sono cose che non mi riguardano affatto. Hai la tua vita da vivere, e devi far ciò che ritieni giusto. — Ciò detto si volse, e prese ad allontanarsi.

Nova le corse dietro, l'afferrò per un braccio.

— Aspetta! Ti prego, Virginale, aspetta. Dimmi… che posso fare?

Virginale si fermò, trasse un gran sospiro.

— Lo so che non è tua intenzione mostrarti scortese, ma offrire consigli in una situazione come questa viene considerata villanìa, presso il mio popolo. Non sta a me tracciare in vece tua una linea di condotta che ti si addica.

— Dovrei fare la pace con mia madre, vero? — insisté Nova in tono aspro. — E dirle che fa benissimo ad infrangere ogni più solenne voto, e ad… accompagnarsi con quel…

— Non so dirti, comunque, se ciò ti sarebbe davvero di aiuto. Io… ho già parlato troppo. Vai da Tamburina. È giovane, lei, e la presenza che ti corrode le rimarrà inavvertita ancora per qualche tempo. Potrai farle con lei, le tue cavalcate fuori città.

— Ancora per qualche… vuoi forse dire che gli altri titanidi riescono a…

Fu sopraffatta dall'enormità di quell'idea. Si sentì come nuda. I suoi più intimi pensieri erano dunque alla mercé di ogni sguardo titanide?

Ma che cos'è che vedono, di me?

Virginale rovistò nella borsa e ne trasse una tavoletta di legno, del genere di quelle che usava spesso per i suoi lavori d'intaglio.

Mostrava una ragazza, facilmente riconoscibile come Nova, seduta dentro una specie di cassa, con un atteggiamento fisso e inerte dipinto sul volto. All'esterno della cassa apparivano altri individui — Robin? Conal? Virginale? — non così univocamente identificabili, ma in pose d'indubitabile afflizione. Nova si rese conto che la cassa avrebbe potuto rappresentare una bara. Ma la ragazza al suo interno non era morta. Ricevette dall'oggetto una sensazione di estremo disagio, e fece il gesto di restituirlo.

— Aspetta. Guardalo meglio, quel viso — le ingiunse Virginale.

Obbedì. Se ad un primo esame le era parso freddo, immoto, sostanzialmente privo d'espressione, adesso, osservandolo più da vicino, non ebbe difficoltà a scorgervi una soddisfatta, felina piega delle labbra. Autocompiacimento? Gli occhi erano due fori vacui.

Gettò via la tavoletta. Virginale la raccolse, le diede un'ultima occhiata malinconica, poi la scaraventò lontano sulle acque del lago Moira.

— Non avresti fatto meglio a conservarla? — le domandò Nova in tono amaro. — Magari un giorno avrebbe potuto valere qualcosa. Forse un tantino esagerata, non credi? Un po' troppo apertamente simbolica. Se ci riprovi son sicura che puoi far di meglio…

— Era la quinta della serie, Nova. Eseguite una alla volta durante i miei ultimi cinque periodi di temponirico. Ho cercato d'ignorarle, le ho gettate tutte via. Ma non posso continuare a rifiutare la verità che i miei sogni non cessano di rivelarmi. Stai respingendo chi ti ama. E questo è già doloroso. Ma tu ne godi. E questo è non solo qualcosa che, come tu tieni a rilevare, non mi riguarda, ma soprattutto qualcosa che travalica la mia capacità di sopportazione. Addio.

— Aspetta, ti prego, rimani ancora… Sì, va bene, andrò a dirle che ha ragione lei… andrò a dirle che mi dispiace.

Virginale esitò, quindi scosse lentamente la testa.

— Non so se basterà.

— Ma allora cosa devo fare?

— Riapri te stessa — dichiarò senza esitazione Virginale. — Ora sei sprangata ad ogni possibilità di amore. E non solo nei confronti di tua madre. C'è una ragazza, nel tuo ufficio. Tu neanche la vedi. Ma lei ti ammira. Potrebb'essere tua amica. Potrebb'essere tua amante. Non so. Ma non esiste prospettiva per nessuna delle due cose, nello stato in cui ti trovi ora.

— Non capisco di chi stai parlando.

— Ne ignoro il nome. Ma ti basterebbe guardare, e la vedresti.

— E come devo fare per… guardare?

Virginale sospirò.

— Nova, se tu fossi un titanide oserei suggerirti di andartene via di qui per qualche tempo. Se questa malattia dell'anima avesse colpito me, correrei a rifugiarmi nelle deserte solitudini di un luogo remoto e selvaggio, ove digiunerei sin quando non fossi di nuovo giunta a scorgere le cose con la necessaria chiarezza. Non so tuttavia quale efficacia tale metodo sia in grado di esplicare, con gli umani.

— Ma non posso! Ho il mio lavoro… Cirocco ha bisogno di me…

— Certo — replicò Virginale con voce ricolma di mestizia. — Hai ragione, naturalmente. Quindi, addio.

VENTOTTO

Cirocco trovò Conal seduto sul fianco d'una collinetta sovrastante il Campo degli Stivali.

Tale luogo era situato su di un'ampia, lunga isola nel bel mezzo del lago Moira. Vi si ergevano numerose tende. C'erano una grande mensa ed una piazza d'armi. L'aria riecheggiava delle urla dei sergenti, e le minuscole figure delle nuove reclute marciavano ben bene allineate od arrancavano lungo percorsi ad ostacoli. Conal alzò lo sguardo su di lei mentre Cirocco andava a sederglisi accanto.

— Bel posticino, eh?

— Non quello che preferisco — confessò Conal. — Certo che ne arrivano di reclute!

— Trentamila, l'ultima volta che ho controllato. Pensavo di dover offrire premi d'ingaggio e razioni extra di cibo, per attirarne così tanti, e invece continuano ad arrivare spontaneamente. Non è una cosa favolosa, il patriottismo?

— Non ci ho mai pensato granché.

— E adesso ci pensi?

— Per forza. — Fece un gesto in direzione del neonato Esercito di Bellinzona. — Tu dici che non avranno bisogno di combattere. Ma il loro atteggiamento mi sorprende. A vederli così sembra che ne abbiano una gran voglia, invece. Nonostante…

— …tutto quello che han veduto sulla Terra — concluse per lui Cirocco. — Sì, me ne sono accorta. Immaginavo che qui sarebbe stato difficile arruolare un esercito di volontari. Ma probabilmente esiste nella razza umana una profonda, basilare, ineliminabile propensione alla guerra. Prima o poi Bellinzona diventerà troppo grande. A quel punto si dovrà fondare un'altra città da qualche parte nelle vicinanze, forse in Giapeto. In breve tempo le due città allacceranno vivaci rapporti commerciali. Dopo di che non ci vorrà molto prima che entrino in conflitto.

— Ma gli piace sul serio dover correre qua e là e obbedire agli ordini?

Cirocco si strinse nelle spalle.

— A qualcuno sì. Gli altri… be', moltissimi se ne tornerebbero a casa immediatamente, se potessero. Certo, non siamo andati mica a dirglielo prima, che si tratta di un arruolamento a tempo indeterminato, e che l'unico modo per uscirne è un congedo per motivi di salute… Metà di quella gente laggiù è già convinta di avere commesso un errore imperdonabile. — Indicò un'area recintata. — Là c'è il campo di concentramento per i renitenti. È molto peggio dei campi di lavoro. E una volta che gli è riuscito di venirne fuori, si dedicano alla vita militare anima e corpo.

Conal lo sapeva già. Così com'era a conoscenza di gran parte delle cose che lei gli aveva appena detto. Da un po' di tempo, ormai, veniva ad appostarsi lì a mezza costa, osservando, e cercando di capire. Era nato piuttosto in ritardo sull'epoca dei grandi eserciti. La disciplina militare era per lui, una cosa estranea e paurosa. E i soldati con cui gli capitava di parlare sembravano… diversi.

— Una cosa è certa — notò Conal. — Si stanno preparando a combattere. — Ed era vero. L'addestramento, laggiù al campo, si svolgeva con la massima serietà. La produzione di spade era in aumento. Ogni soldato avrebbe dovuto essere equipaggiato di una corta spada, uno scudo, una corazza pettorale in cuoio temprato o — per gli ufficiali — in bronzo, un elmetto di ferro, stivali e pantaloni di buona qualità… insomma, la dotazione essenziale della fanteria. Le truppe venivano organizzate in legioni e coorti, ed istruite circa le tattiche degli eserciti romani. C'erano legioni di arcieri. C'erano squadre di genieri che imparavano a realizzare torri d'assedio e catapulte, da costruire in zona operativa utilizzando i soli materiali ivi disponibili. Alcune unità operative erano già partite e si trovavano attualmente in Giapeto e Crono, impegnate nella riparazione dei ponti lungo il tracciato della vecchia strada Circum-Gea.

— Bisogna che si preparino — dichiarò Cirocco. — Se la battaglia cruciale, quella fra me e Gea… insomma, se io perdo, la guerra non sarà finita, per i nostri soldati. Si troveranno in difficoltà lontanissimi da casa, e stai sicuro che Gea non sarà così gentile da sospendere le ostilità. Ha radunato a Pandemonio qualcosa come centomila individui, e quelli combatteranno tutti. Anche se privi di addestramento… Gea è un tipo troppo trascurato per badare a queste cose… come numero saranno quattro volte i nostri. Quindi ho il dovere di far sì che quei ragazzi laggiù siano pronti a combattere.

Conal ci rifletté un istante, e vide che i conti non tornavano.

— Ma se ne abbiamo già trentamila, e poi tutti quegli altri che via via stanno arrivando…

— Qualcuno rimarrà per strada, Conal.

Lui si girò a guardarla, e vide che Cirocco lo scrutava in attesa della sua reazione.

— Così tanti?

— No. Tanto per cominciare ho intenzione di fare una discreta cernita. Comunque avremo certamente delle perdite. Quante, dipende in parte anche da te.

Conal capiva perfettamente. Le loro legioni "romane" avrebbero marciato sotto la continua minaccia d'incursioni aeree. E sarebbe toccato proprio a lui rintuzzare gli attacchi dell'Aviazione Geana.

— Quanti apparecchi? Ce l'hai già un'idea?

— Vuoi dire le bombe volanti? Sono abbastanza sicura che Gea dispone ancora di otto squadre d'assalto. Il che significa ottanta aeromobili. A proposito, come va l'addestramento?

— Una meraviglia. Ormai ho più piloti in gamba che aerei da fargli guidare.

— Be', quanto agli aerei ti ho già dato tutti quelli che potevo darti, quindi stai bene attento a non sprecarli.

Per un attimo Conal si sentì pervadere da un senso d'irritazione. Non era da Cirocco dire cose del genere. Le diede un'occhiata, e rimase sgomento nel vedere, percezione fugacissima eppure intensa, che lei quasi dimostrava la propria età. Il peso delle sue responsabilità doveva essere davvero tremendo.

— Conal… forse non è il momento più adatto per tirare in ballo l'argomento, ma… Sono appena tornata da un giro insieme a Robin, e ho avuto modo di notare in lei un certo… nervosismo.

— Cosa vorresti dire? Che genere di nervosismo?

— Ecco… ho avuto l'impressione che… sembra quasi che abbia paura che io ci prenda troppo gusto a… a questa situazione. — Fece, con la testa, un cenno vago in direzione del campo, ma evidentemente in quel gesto intendeva racchiudere molto di più.

Anche Conal, a dire il vero, era giunto a nutrire un timore del genere.

— Secondo me — replicò — nessuno verrebbe a sollevarti dai tuoi impegni. Nemmeno se tu li mettessi in palio con regolari elezioni.

— Credo che tu abbia ragione.

— È un potere molto grande.

— Sì, davvero grande. Quando ne discutemmo tutti insieme la prima volta, ve la diedi un'idea di quel che sarebbe potuto succedere. Ma fra il sentirselo dire e il vederlo, c'è una bella differenza.

Conal sentì che dita di ghiaccio s'insinuavano a stringergli il cuore. Era tanto che non gli capitava. Il perno del suo universo s'incentrava lì, in quell'enigma chiamato Cirocco Jones. La loro reciproca conoscenza aveva avuto inizio nel sangue e nel patimento. Il suo atteggiamento nei confronti di lei era lentamente filtrato attraverso il vaglio del terrore e della sottomissione, era sfociato nell'accettazione, poi si era evoluto in qualcosa di simile alla venerazione… per trasformarsi, finalmente, in amicizia.

Ma restava pur sempre, nel più profondo del suo essere, una minuscola scheggia di gelo assoluto.

Tanti anni prima, confinato lassù nell'inaccessibile caverna, aveva trascorso un periodo durante il quale si era sentito prossimo alla morte. Cirocco e Cornamusa mancavano da oltre un chiloriv. Quel poco di cibo che gli avevano lasciato era finito da un pezzo. Egli vegetava in una condizione di torpida semincoscienza, del tutto adeguata all'inerzia della luce immutabile.

Guardava la carne del proprio corpo gradualmente dissolversi dal prostrato carcame delle ossa, e sapeva che l'avevano abbandonato.

Non gli pareva giusto. Non se lo sarebbe mai aspettato, da Cirocco.

Eppure, da quella situazione disperata, riusciva a trarre un curioso senso di superiorità. Le recenti traversìe gli avevano consentito di veder molto più chiaro, in se stesso, e aveva ora la certezza che quel non più baldo giovinotto, ormai ad un passo dalla morte per inedia, a dargli tempo qualche settimana sarebbe divenuto un uomo assai migliore rispetto a quel frescone che, nel bar titanide, s'era spavaldamente fatto avanti ad apostrofare l'imperscrutabile strega nerovestita. Insomma, a questo punto ci avrebbe perso lei, se lo lasciava crepare.

Poi, un bel "giorno", Cornamusa s'era inerpicato dentro la grotta, e a Conal l'appena edificato castello d'elucubrazioni era riprecipitato repentinamente attorno. Allora mi stavano mettendo alla prova, aveva pensato. Lasciamogli patire un po' la fame, vediamo come reagisce. E che importa se gli dà un po' di volta il cervello? Vuol dire che diventerà più malleabile…

Questa linea di pensiero era durata non più d'una frazione di secondo. Poi Conal aveva dovuto rendersi conto che Cornamusa appariva gravemente ferito, che sanguinava da una dozzina di piaghe, che teneva un braccio appeso al collo. Ma com'era riuscito, in quelle condizioni, ad arrampicarsi fin lassù?…

— Sono profondamente mortificato — aveva detto Cornamusa con voce stanca. — Fosse stato anche solo remotamente possibile, sarei tornato qui già da lungo tempo. Ma non siamo stati assolutamente in grado di muoverci. Cirocco mi ha ordinato di assicurarti che, ov'ella sopravviva, verrà personalmente a presentarti le sue scuse. Comunque, che viva o che muoia, ti concede sin da ora di tornar libero da questo luogo. Non avremmo mai dovuto lasciarti qui da solo.

Conal sprizzava curiosità da tutti i pori, ma ogni altra cosa passò in subordine, alla vista del cibo. Cornamusa gli preparò una minestra in brodo e rimase un poco a fargli compagnia, anche per assicurarsi che iniziasse a riprendersi. Però non volle rispondere ad alcuna domanda, quando infine Conal prese a fargliene, limitandosi a rivelare che anche Cirocco era rimasta gravemente ferita, ma si trovava ora in un rifugio abbastanza sicuro.

Poi il titanide se n'era riandato via, non senza lasciargli una scorta di cibo stipata in barattoli di vetro, una stufa con un po' di combustibile, e un paracadute. Gliene aveva spiegato il funzionamento, garantendogli che nel caso si fosse visto costretto ad usarlo le sue possibilità di sopravvivenza sarebbero state eccellenti… per lo meno finché non avesse toccato terra. Ma aveva anche ribadito con forza che la caverna era, al momento, il posto più inviolabile di tutta Gea, e che proprio per quel motivo egli sarebbe andato a prendere Cirocco per portarla lì. Giù a valle stavano accadendo un po' ovunque cose terribili, gli aveva rivelato Cornamusa, e fin quando fosse durato il cibo avrebbe fatto bene a non muoversi di lì. Gli aveva anche giurato che nulla, tranne la morte, avrebbe potuto impedirgli di far ritorno alla grotta. Se Cornamusa non fosse ricomparso prima dell'esaurimento delle provviste, allora Conal si sarebbe dovuto lanciare col paracadute.

Ma Cornamusa non rimase assente molto a lungo. Ritornò assieme a Cirocco, il cui corpo era ricoperto di ferite innumerevoli. Aveva perduto molto sangue, era spaventosamente dimagrita, le mancavano persino due dita… che in séguito le ricrebbero. Era in preda alla febbre, e non del tutto cosciente.

Insieme a loro giunse un altro titanide di nome Rocky, Si trattava di un guaritore, che con le sue cure assidue riuscì pian piano a rimetterla in sesto.

Rimasero dunque nella grotta per qualche tempo, e durante quel periodo, come Conal aveva previsto, gli si presentò un'occasione. I due titanidi si trovavano entrambi all'imboccatura della caverna, concentrati in quel loro trafficare a metà strada fra la veglia e il sonno. Gli volgevano le spalle. Cirocco dormiva su un pagliericcio, a pochi centimetri di distanza.

Conal aveva tolto la pistola dallo zaino di lei. Col pollice aveva armato il cane. Le aveva premuto la canna contro la tempia. E aveva aspettato di vedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

Una minima pressione sul grilletto, e quella donna sarebbe morta.

Non trascurò di gettare un'occhiata ai titanidi per verificare che non lo stessero osservando. No, continuavano a volgergli le spalle. Poi gli venne un sospetto, e controllò rapidamente se l'arma fosse carica. Sì, era carica.

Allora l'allontanò dalla testa di Cirocco, abbassò il cane con la massima cautela, la rimise al suo posto. Quando rialzò la testa, i due titanidi gli erano accanto. Avevano in volto un'espressione strana, ma non sembravano adirati. Capì che dovevano averlo veduto mentre rimetteva via la pistola. Comprese anche, più tardi, che quei due avevano in realtà seguito ogni suo minimo gesto, e, da quel momento, la sua fiducia nel discernimento dei titanidi divenne assoluta.

Poco tempo dopo tali avvenimenti, Rocky aveva poggiato un orecchio sulla testa di Cirocco e dichiarato che udiva qualcosa, lì dentro…

— Conal?

Sorpreso, si riscosse.

— Avevi l'aria d'essere lontano un milione di miglia…

— Lo credo bene. Non m'avevi chiesto se sono preoccupato, al pensiero che tu possa diventare in pianta stabile il dittatore di Bellinzona?

Cirocco lo fissò spalancando tanto d'occhi.

— Ecco, a dire il vero non è che abbia semplicemente buttato là pari pari la domanda… ma insomma, il concetto era quello.

— E la risposta è: non me ne frega nulla. Se tu ti mettessi a fare il dittatore di professione, credo che ci riusciresti meglio di chiunque altro, forse con l'eccezione di Robin, che comunque avrei intenzione di convincere ad uscire dal governo per venirsene a vivere in Meti con me in una linda capannina, e magari faremo un bel paio di marmocchi, e tu e Nova e Chris e tutti quanti i titanidi verrete a trovarci pei loro compleanni. E poi sono convinto che sai benissimo quel che fai. E ad ogni modo non credo affatto che andrai avanti per questa strada… se non altro perché sei di gran lunga troppo in gamba per impantanarti in una bega del genere.

— Cacchio… — Cirocco scosse la testa, poi scoppiò a ridere. — Hai proprio ragione. È una prospettiva allettante anche per un'incallita vecchia cagna solitaria come me… Però hai altrettanto ragione quando suggerisci che ci vuole ben altro, per incastrarmi.

— Ma allora qui che ci saresti venuta a fare?

— A raccogliere un parere sincero, credo. Sono così paranoica, di questi tempi, da avere l'impressione che persino i titanidi mi dicano unicamente quel che voglio sentirmi dire.

— E io no?

Cirocco sogghignò.

— Certo, Conal, pure tu. Solo che, detto da te, io ci credo.

VENTINOVE

Doveva essere l'ultima riunione prima dell'inizio della Grande Marcia, cui mancava ormai soltanto un ettoriv. Si stavano completando i preparativi per la grandiosa parata. Una vera rottura. Le truppe avrebbero dovuto essere trasportate via acqua fino a Bellinzona, sbarcate, fatte sfilare attraverso la città in un tripudio d'acclamazioni popolari, quindi reimbarcate e condotte all'estremità meridionale del lago Moira, da dove il tragitto via terra fino alla Circum-Gea risultava pianeggiante ed agevole. Ma non la si poteva evitare. La città aveva bisogno di vedere il suo esercito. E l'esercito aveva bisogno di sentirsi sorretto dall'entusiasmo della gente, mentre partiva in armi per la guerra. Sottovalutare l'importanza di tener alto il morale sarebbe stato pericolosissimo.

Anche la riunione era una scocciatura. Cirocco sedette tranquillamente al suo posto e si sorbì la solita sequela di lamentele, di proposte, di presuntuose ostentazioni, aspettando che venisse il suo turno.

La grande tenda ospitava agevolmente i quattro Generali, venti Colonnelli e cento Maggiori che costituivano gli ufficiali superiori dell'esercito. Li conosceva tutti per nome — parte del lavoro di un politico consiste appunto nel ricordarsi senza sbagliare un'infinità di nomi, e lei aveva preso la cosa con molto scrupolo — ma dentro di sé preferiva attribuire ad ognuno di loro un appellativo derivante dal comando affidatogli.

Esistevano quattro Divisioni, ciascuna agli ordini di un Generale. C'erano dunque il Generale Due, il Tre, l'Otto e il Centouno, i quali guidavano rispettivamente la Seconda, la Terza, l'Ottava e la Centounesima Divisione. Il fatto che non esistessero la Prima, la Quarta ecc. Divisione, non dava alcun fastidio a Cirocco. Aveva scelto quei numeri per motivi di carattere storico che avrebbero deliziato Gea.

Ciascun Generale aveva autorità su cinque Legioni, comandate da altrettanti Colonnelli e numerate progressivamente. Ogni Legione comprendeva duemila soldati.

In una Legione c'erano cinque Coorti, in una Coorte dieci Compagnie, in una Compagnia due Reparti. Le Compagnie venivano comandate da Sergenti, il cui numero, nell'esercito di Bellinzona, ascendeva a milleseicento.

Tali numeri erano frutto d'infinite dispute, e continuavano tuttora a suscitare qualche discussione. Gran parte dello Stato Maggiore concordava nel ritenere che il rapporto ufficiali-truppa fosse insostenibilmente basso. Quarantamila soldati avevano bisogno di più ufficiali, su questo i militari di professione non nutrivano dubbi.

La seconda lamentela in ordine d'importanza riguardava la scarsità di armamento ed equipaggiamento. Gli approvvigionamenti erano risultati inferiori alle aspettative. Cirocco ascoltò i Generali Uno e Centouno sciorinare le cifre: mancanza di X spade, Y scudi, Z corazze.

La terza concerneva l'insufficienza di addestramento. Gli ufficiali superiori erano estremamente contrariati di non avere a portata di mano neanche un nemico su cui far pratica. Con la conseguenza che le truppe sarebbero partite senza aver prima ricevuto il battesimo del fuoco, a parte un ristretto numero di uomini che avevano già combattuto sulla Terra.

Cirocco aspettò che avessero finito, poi si alzò.

— Tanto per cominciare — disse, puntando un dito accusatore contro il Generale Due — lei è rimosso dall'incarico. Col suo dispregio per la vita umana dovrebb'essersene rimasto laggiù, sul nostro disgraziato pianeta, a premere pulsanti e a creare deserti. Se potessi, ce la rispedirei volentieri… Ma così come stanno le cose, mi limiterò a mandarla in campo di lavoro per due chiloriv. I suoi bagagli sono già pronti. Torni a casa a scrivere le sue memorie.

Attese, nel pesante silenzio, che l'uomo, imporporato in volto, fosse uscito dalla tenda. Poi indicò il Colonnello Sei.

— Da questo momento lei è promosso a sostituirlo. L'insegna del grado l'attende già sulla cuccetta. Se l'appunti all'uniforme non appena fa ritorno in tenda. Scelga il suo successore al comando della Sesta Legione… non necessariamente fra i suoi Maggiori. — Puntò il dito tre volte ancóra. — Lei, lei, e lei. Non siete più Colonnelli. Ci vogliono altre capacità, per comandare una Legione. — I tre si alzarono e se ne andarono. Il silenzio, ammesso che fosse possibile, s'era fatto ancora più assoluto.

— Quanto ai Maggiori, non li conosco a sufficienza per formulare ponderati giudizi sul loro rendimento, quindi possono anche tirare un sospiro di sollievo. Però esorto tutti voi qui presenti a fare quanto necessario, infliggendo se necessario degradazioni ed espulsioni, per rendere più efficiente il nostro esercito. E adesso vedrò di risolvere tutti i vostri problemi… decimandovi le truppe.

Attese che si fosse spento il brusìo dei commenti, poi si rivolse ai Generali.

— Trasmetterete i miei ordini ai Sergenti. Ciascuno di loro ha la responsabilità di venti soldati. Voglio che prendano i due peggiori, e li rimandino a casa. Voglio che scelgano le reclute più refrattarie, i bambocci che continuano ad inciampare nei lacci degli stivali e a pungersi con la spada, i balordi che non son capaci di tenere la testa giù e non riescono a ricordarsi da quale parte s'incocca una freccia… Voglio che tutti i rammolliti, i disadattati, i malaticci e gl'imbecilli siano tolti di mezzo. Esonerateli dal servizio entro venti riv. E congedateli dignitosamente, senza appiccicare marchi d'infamia addosso a nessuno. — Agitò la mano in un gesto di noncuranza. — Non c'è bisogno che siano esattamente due per ogni reparto. Alcuni reparti saranno certo validi dal primo all'ultimo uomo, e rimarranno intatti, mentre in altri potranno avvenire anche quattro o cinque scarti. Arrangiatevi fra di voi a livello di Compagnia e di Coorte, ma agite senza indugio. Voglio che entro venti riv l'esercito sia ridotto del dieci per cento. Come aveva previsto, la novità fece nascere fra i presenti un fitto intreccio di conversazioni. Cirocco trattenne un sorriso. Con questo sistema il rapporto ufficiali-truppa migliorava di sicuro, ma non era esattamente quello che avevano avuto in mente loro…

— Altro punto — continuò indicando il Generale Tre, il quale per la paura si rannicchiò leggermente. — La Divisione al suo comando è quella di più recente formazione, e conta la maggior percentuale di reclute. Io ritengo che lei sia un buon ufficiale, con un sincero interesse per il benessere delle sue truppe. E non intendo incolparla del fatto che la sua Divisione è la più debole di tutte. Ciò non toglie, tuttavia, che tale debolezza esiste. La sua Divisione rimarrà pertanto a difesa della città.

— Un momento, vorrei…

Cirocco non ebbe bisogno di lanciargli uno sguardo eccessivamente feroce, per ridurlo al silenzio. L'uomo si rese conto immediatamente di avere oltrepassato i ristretti limiti concessi, e tacque.

— Come stavo dicendo, la sua Divisione rimarrà di stanza qui. Il che risolverà il problema dell'equipaggiamento e contribuirà ad alleviare il problema dell'addestramento, in quanto lei rinuncerà alle attrezzature e ai materiali che le sono stati finora assegnati, e continuerà ad addestrare le sue truppe mentre noi marceremo su Pandemonio.

Il Generale mandò giù il rospo con qualche difficoltà, ma non fiatò.

— Riceverà le nuove dotazioni man mano che si renderanno disponibili. Noialtri dovremo arrangiarci con quello che ci porteremo dietro… e che a questo punto dovrebbe pur essere sufficiente. Sarà suo compito organizzare due guarnigioni, una da schierare ad est, sulla strada per Giapeto, e l'altra da dislocare sulle montagne, a presidio del valico occidentale. Se Gea invierà forze armate fn Dione, tali guarnigioni dovranno essere in grado di garantire un'efficace difesa. Lei disporrà inoltre avamposti sulle rive settentrionali del Moira, e in accordo con le autorità civili renderà operativo un servizio di pattuglia navale sulle acque del lago. Lascio a lei la responsabilità delle decisioni tattiche, ma le raccomando comunque di sottoporre la città ad opportune opere di fortificazione, e di mantenere inoltre una certa quantità di truppe — possibilmente una legione — nelle immediate vicinanze dell'abitato. Se dovessimo fallire, la difesa di Bellinzona ricadrà interamente sulle sue spalle.

Il Generale sembrava decisamente più interessato, sebbene Cirocco sapesse che non c'era modo di rendergli davvero gradito il nuovo incarico.

— Un'ultima cosa, Generale. Partendo lasciamo qui la peggior Divisione. Al ritorno, voglio che sia diventata la migliore, o lei dovrà cercarsi un altro lavoro.

— Sarà fatto — assicurò lui.

— Bene. Allora non perda tempo.

Quello parve sorpreso, poi si alzò di scatto e sortì risolutamente dalla tenda, seguito dai suoi Colonnelli e dai suoi Maggiori. Quando se ne furono andati, il numero di posti vacanti era impressionante. Cirocco aveva in pochi minuti falcidiato gli organici del suo esercito di oltre un quarto, e ne era estremamente soddisfatta. Guardò in volto i superstiti a uno a uno, senza fretta, e quand'ebbe finito, sorrise.

— Signore e Signori — annunciò. — Siamo pronti a marciare su Pandemonio.

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