13° RAPPORTO SUI PROGRESSI

10 giugno Siamo su uno strato-jet sul punto di decollare per Chicago. Devo questo rapporto sui progressi a Burt, il quale ha avuto un’idea luminosa: avrei potuto dettarlo servendomi di un registratore a transistori e farlo poi battere a macchina da una dattilografa a Chicago. L’idea piace a Nemur. In effetti, vuole che mi serva del registratore fino all’ultimo momento. Pensa che il rapporto sarà più completo se potranno far sentire il nastro appena registrato al termine della riunione.

E così eccomi qui, seduto tutto solo nel nostro scompartimento privato di un jet diretto a Chicago, cercando di abituarmi a pensare a voce alta e al suono della mia voce. Suppongo che la dattilografa saprà sfrondare quel che ho dettato di tutti gli uhm, gli ehm e gli ah, e farlo sembrare naturale sulla carta (non posso evitare la paralisi che mi prende se penso che le parole pronunciate da me in questo momento verranno ascoltate da centinaia di persone).

Ho la mente vacua. A questo punto i miei sentimenti contano più d’ogni altra cosa.

L’idea di volare mi atterrisce.

A quanto posso saperne, prima dell’operazione non mi rendevo realmente conto di quello che sono gli aerei. Non collegai mai i primi piani di aerei al cinema e alla televisione con gli apparecchi che vedevo filare in alto nel cielo. Ora che stiamo per decollare, riesco a pensare soltanto a quel che potrebbe accadere se precipitassimo. Una sensazione di gelo e la riflessione che non voglio morire. Mi fa tornare in mente quelle discussioni su Dio.

Ho pensato spesso alla morte in queste ultime settimane, ma non proprio a Dio. Mia madre mi portava in chiesa di quando in quando… eppure non ricordo di aver mai posto ciò in relazione con il pensiero di Dio. Ella accennava a Dio molto spesso, e io dovevo pregarlo ogni sera, ma non ci pensavo mai molto. Lo ricordo come un lontano zio dalla lunga barba assiso in trono (come il Babbo Natale dei grandi magazzini che, seduto sulla sua grande sedia, ti prende sulle ginocchia e ti domanda se sei stato buono e che cosa vorresti che ti portasse). Ma’ lo temeva, ma gli chiedeva ugualmente grazie. Pa’ non accennava mai a Lui… era come se Dio fosse stato uno dei parenti di Rose con i quali preferiva non avere niente a che fare.


«Siamo pronti per il decollo, signore. Posso aiutarla ad allacciarsi la cintura?»

«È necessario? Non mi piace sentirmi legato.»

«Fino a quando non ci saremo alzati dalla pista.»

«Preferirei di no, a meno che non sia indispensabile. Ho questa paura di essere legato. Probabilmente mi farà star male.»

«È il regolamento, signore. Permetta che l’aiuti.»

«No! Faccio da solo.»

«No… questa si infila qui.»

«Aspetti, mmm… Okay.»


Ridicolo. Non c’è niente di cui aver paura. La cintura non è troppo stretta… non fa alcun male. Perché dovrebbe essere così terrificante allacciare questa maledetta cintura? La cintura e le vibrazioni dell’aereo che decolla. Ansia del tutto sproporzionata alla situazione… quindi dev’essere qualcos’altro… che cosa?… volare in alto nelle scure nubi e attraverso ad esse… allacciarsi le cinture… essere immobilizzati… fare forza per liberarsi… odor di cuoio bagnato di sudore… vibrazioni e un rombo nelle orecchie.

Attraverso il finestrino, nelle nubi, vedo Charlie. L’età è difficile precisarla, dev’essere sui cinque anni. Prima di Norma…


«Non siete ancora pronti voi due?» Suo padre si affaccia sulla soglia, massiccio, specie nella cicciosità cascante della faccia e del collo. Ha un’espressione stanca. «Ho detto, siete pronti?»

«Un minuto solo», risponde Rose. «Mi sto mettendo il cappellino. Guarda se ha la camicia abbottonata e allacciagli le stringhe.»

«Su, presto, facciamola finita con questa storia.»

«Dove?» domanda Charlie. «Dove… va… Charlie?»

Suo padre lo guarda e si acciglia. Matt Gordon non sa mai come reagire alle domande del figlio.

Rose appare sulla soglia della camera da letto aggiustandosi la mezza veletta del cappellino. È una donna minuta come un uccellino e le braccia, alzate al capo, con i gomiti in fuori, sembrano ali. «Andiamo dal dottore che ti aiuterà a diventare intelligente.»

La veletta dà l’impressione ch’ella lo stia scrutando attraverso una rete metallica. Charlie è sempre spaventato quando si vestono in questo modo per uscire, perché sa che dovrà conoscere altra gente e sua madre si turberà e si adirerà.

Vorrebbe fuggire, ma non sa dove andare.

«Perché hai dovuto dirgli proprio questo?» domanda Matt.

«Perché è la verità. Il dottor Guarino può aiutarlo.»

Matt inizia un andirivieni sul pavimento, come chi abbia rinunciato a ogni speranza ma voglia fare un ultimo tentativo di ragionare. «Che cosa ne sai tu? Che ne sai di quell’uomo? Se fosse possibile fare qualcosa, i medici ce lo avrebbero detto già da un pezzo.»

«Non dire così», strilla lei. «Non dirmi che non possono far niente.» Afferra Charlie e si preme contro il petto la testa di lui. «Diventerà normale, qualsiasi cosa dobbiamo fare, per quanto possa costare.»

«Non sono cose che si possano comprare con il denaro.»

«Sto parlando di Charlie. Di tuo figlio… il tuo unico bambino.» Lo dondola da un lato e dall’altro, ormai vicina all’isterismo. «Non voglio sentirti parlare così. Sono ignoranti, e allora dicono che non si può far nulla. Il dottor Guarino mi ha spiegato ogni cosa. Non vogliono appoggiare la sua invenzione, dice, perché dimostrerà che si sbagliano. Proprio come accadde con gli altri scienziati, Pasteur, Jennings e via dicendo. Mi ha detto tutto dei tuoi cari dottori in medicina timorosi del progresso.»

Rispondendo a Matt in questo modo, si distende i nervi e torna ad essere sicura di se stessa. Quando lascia andare Charlie, lui si rifugia in un angolo e rimane in piedi contro la parete, spaventato e tremante.

«Guarda», ella dice, «lo hai sconvolto di nuovo».

«Io?»

«Incominci sempre queste discussioni alla sua presenza.»

«Oh, Cristo! Andiamo, facciamola finita con questa dannata faccenda!»

Durante tutto il tragitto fino allo studio del dottor Guarino evitano di parlarsi. Silenzio sull’autobus e silenzio mentre superano a piedi i tre isolati dalla fermata dell’autobus al palazzo d’uffici in centro. Dopo circa un quarto d’ora il dottor Guarino esce nella sala d’aspetto per salutarli. È grasso, con una calvizie incipiente, e ha l’aria d’essere sul punto di scoppiar fuori del camice. Charlie è affascinato dalle folte sopracciglia bianche e dai baffi bianchi che di tanto in tanto guizzano. A volte sono i baffi a guizzare per primi, seguiti dall’inarcarsi di entrambe le sopracciglia, ma talora le sopracciglia salgono per prime e il guizzo dei baffi viene dopo.

La vasta stanza bianca nella quale Guarino li fa passare sa di pittura recente ed è quasi nuda, due scrivanie a un lato, e all’altro un’enorme macchina con file di quadranti e quattro lunghe braccia simili a trapani da dentista. Accanto ad essa si trova una specie di tavolo operatorio rivestito di cuoio nero, con cinghie spesse e larghe per trattenere i pazienti.

«Bene, bene, bene», dice Guarino inarcando le sopracciglia, «sicché questo è Charlie». Afferra saldamente il bambino per le spalle. «Diventeremo amici.»

«È davvero in grado di fare qualcosa per lui, dottor Guarino?» dice Matt. «Ha mai curato questo genere di disturbi? Non disponiamo di molto denaro.»

Le sopracciglia si abbassano come serrande mentre Guarino si acciglia. «Signor Gordon, ho forse detto qualcosa riguardo a ciò che potrei fare? Non devo prima visitarlo? Forse si può ottenere qualcosa, forse no. Anzitutto dovremo effettuare esami fisici e mentali per accertare le cause della patologia. Avremo tutto il tempo in seguito per parlare di prognosi. In effetti sono occupatissimo in questi giorni. Ho accettato di esaminare questo caso soltanto perché sto eseguendo uno studio speciale su questo genere di ritardi neurali. Ma naturalmente, se lei ha degli scrupoli, allora forse…»

La sua voce si perde malinconicamente nel silenzio, ed egli volta loro le spalle, ma Rose Gordon dà di gomito a Matt. «Mio marito non vuol dire affatto questo, dottor Guarino. Parla troppo.» Di nuovo fissa Matt irosamente per avvertirlo che deve scusarsi.

Matt sospira. «Se lei ha modo di guarire Charlie, faremo tutto quello che vorrà. La situazione economica non è troppo rosea di questi tempi. Io vendo prodotti per barbieri, ma sarò lieto di spendere tutto quello che ho…»

«Devo insistere su una sola cosa», dice Guarino increspando le labbra come per prendere una decisione. «La cura, una volta incominciata, dovrà continuare fino in fondo. In questo genere di casi, i risultati si hanno spesso improvvisamente, dopo lunghi mesi senza alcun indizio di miglioramento. Non che io prometta loro di riuscire, badino. Non c’è niente di certo. Ma devono dar modo alla terapia di agire, altrimenti farebbero meglio a non cominciarla neppure.»

Li fissa accigliato, lasciando che l’ammonimento si imprima nella loro mente, e le sopracciglia sono come bianche serrande di sotto alle quali guardano i vividi occhi azzurri. «E ora, se vogliono uscire e lasciarmi visitare il bambino.»

Matt esita a lasciare Charlie solo con lui, ma Guarino fa un cenno del capo. «È il sistema migliore», dice, conducendoli fuori entrambi nella sala d’aspetto. «I risultati sono sempre più significativi se il paziente e io restiamo soli mentre si eseguono le prove pschiche. Le distrazioni esteriori hanno un effetto deleterio sulle ramificazioni.»

Rose sorride al marito con aria trionfante e Matt la segue rassegnato ed esce.

Rimasto solo con Charlie, il dottor Guarino gli accarezza il capo. Ha un sorriso buono.

«Okay, piccolo. Sul tavolo.»

Poiché Charlie non reagisce, lo prende in braccio, lo pone con dolcezza sul tavolo imbottito di cuoio e lo lega saldamente con le spesse cinghie. Il tavolo sa di sudore, come se il sudore lo avesse impregnato, e di cuoio.

«Mammaaaa!»

«È lì fuori. Non preoccuparti, Charlie. Non sentirai alcun male.»

«Voglio la mia mamma!» Charlie è confuso per essere stato legato in quel modo. Non ha la più pallida idea di quello che gli viene fatto, ma altri medici non sono stati così gentili una volta usciti i suoi genitori.

Guarino cerca di calmarlo. «Sta’ buono, bambino. Non c’è niente di cui aver paura. Lo vedi questo grosso apparecchio? Lo sai a che cosa mi servirà?»

Charlie si fa piccolo, poi ricorda le parole di sua madre. «Mi farà intelligente.»

«Proprio così. Almeno sai per quale ragione ti trovi qui. E adesso chiudi gli occhi e rilasciati mentre io abbasso questi interruttori. Sentirai un gran rumore, come quello di un aeroplano, ma non ti farà alcun male. E staremo a vedere se riusciremo a farti un po’ più intelligente di quello che sei adesso.»

Guarino abbassa l’interruttore che fa ronzare l’enorme apparecchio, mentre luci rosse e blu si accendono e si spengono. Charlie è atterrito. Si fa sempre più piccolo e rabbrividisce, facendo forza contro le cinghie che lo trattengono sul tavolo.

Si mette a gridare, ma Guarino, subito, gli ficca in bocca un bavaglio. «Suvvia, suvvia, Charlie. Non fare così. Fa’ il bravo bambino. Ti dico che non sentirai alcun male.»

Charlie cerca di gridare ancora, ma riesce a emettere soltanto un mugolio soffocato che gli fa venir voglia di vomitare. Sente il bagnato e il viscido intorno alle gambe, e l’odore gli dice che sua madre lo castigherà con una sculacciata e mandandolo in un angolo per essersela fatta addosso. Non ha potuto farci niente. Ogni volta che si sente intrappolato e il panico lo afferra, non sa più controllarsi e se la fa sotto. Una sensazione di soffocamento… di sconvolgimento… di nausea… e tutto si perde nelle tenebre…

Impossibile sapere quanto tempo sia passato, ma quando Charlie riapre gli occhi, non ha più il bavaglio in bocca e le cinghie sono state tolte. Il dottor Guarino finge di non sentire la puzza. «Ebbene, non ti ha fatto male neanche un pochino, vero?»

«N-no…»

«Benissimo, allora perché tremi così? Mi sono limitato ad adoperare questo apparecchio per renderti più intelligente. Che cosa provi essendo più intelligente di prima?»

Dimenticando il terrore, Charlie fissa l’apparecchio con gli occhi spalancati. «Sono diventato intelligente?»

«Ma certo. Uh, sta un po’ più indietro. Come ti senti?»

«Mi sento bagnato. Me la sono fatta sotto.»

«Già, be’… la prossima volta non ti succederà più, vero? Non avrai più paura, perché ormai sai che non fa male. Adesso voglio dire a tua madre come ti senti più in gamba, e lei ti porterà qui due volte alla settimana per l’encefalo-ricondizionamento a onde corte, e tu diventerai sempre e sempre più intelligente.»

Charlie sorride. «So camminare all’indietro.»

«Davvero? Vediamo», dice Guarino con finto entusiasmo chiudendo la cartella clinica. «Vediamo un po’.»

Adagio e a gran fatica, Charlie fa parecchi passi all’indietro urtando contro il tavolo. Guarino sorride e annuisce. «Questa sì che è bravura. Oh, aspetta e vedrai. Diventerai il bambino più intelligente del tuo isolato, quando avremo finito.»

La lode e l’attenzione dimostratagli fanno arrossire Charlie di piacere. Non accade spesso che la gente gli sorrida e lo lodi per aver fatto bene una cosa. Persino il terrore dell’apparecchio e dell’essere stato legato al tavolo con cinghie si dilegua.

«Di tutto l’isolato?» Il pensiero lo colma, come se non potesse più aspirare abbastanza aria nei polmoni, per quanto ci si provi. «Ancora più intelligente di Hymie?»

Guarino torna a sorridere e annuisce. «Più intelligente di Hymie.»

Charlie guarda l’apparecchio con una meraviglia e un rispetto ancor più grandi. Quella macchina lo renderà più intelligente di Hymie. che abita due case più in là e sa leggere e scrivere ed è nei Giovani Esploratori.

«È tua questa macchina?»

«Non ancora. Appartiene alla banca. Ma presto sarà mia. e allora potrò rendere intelligenti molli bambini come te.» Accarezza Charlie sul capo e soggiunge. «Sei molto più simpatico di molti bambini normali che le madri portano qui sperando ch’io possa farne dei geni elevando il loro quoziente di intelligenza.»

«Diventano dei somari se gli alzi gli occhi?» Si porta le mani al viso per vedere se l’apparecchio gli abbia alzato gli occhi. «Mi farai diventare un somaro?»

La risata di Guarino è amichevole mentre dà una strizzatina alla spalla di Charlie. «No. Charlie. Non hai nessun motivo di preoccuparli. Soltanto gli asinelli cattivi diventano somari. Tu rimarrai quello che sei… un simpatico bambino.» E poi. ripensandoci, aggiunge: «Ma, si capisce, un po’ più intelligente di quanto sei adesso».

Apre la porta e conduce Charlie dai suoi genitori. «Eccolo qui, amici. L’esperienza non lo ha certo peggiorato. È un bravo bambino. Credo che diventeremo buoni amici, eh, Charlie?»

Charlie annuisce. Vuole piacere al dottor Guarino, ma rimane atterrito quando scorge l’espressione della faccia di sua madre.

«Charlie! Che cosa hai fatto?»

«È stato soltanto un piccolo incidente, signora Gordon. Essendo la prima volta, si è spaventato. Ma non lo rimproveri e non lo castighi. Non vorrei che collegasse il castigo con la sua venuta qui.»

Tuttavia Rose Gordon è sconvolta per l’imbarazzo. «È disgustoso; non so che cosa fare, dottor Guarino. Anche a casa dimentica… e a volte quando abbiamo ospiti. Mi vergogno tanto quando si comporta così.»

L’espressione di disgusto sulla faccia di sua madre lo fa tremare. Per breve tempo aveva dimenticato quanto è cattivo, come fa soffrire i suoi genitori. Non sa perché, ma si spaventa quando la mamma dice che la fa soffrire e quando grida o lo rimprovera; volta la faccia verso il muro e geme piano tra sé e sé.

«Ora non lo turbi, signora Gordon, e non si preoccupi. Lo porti da me martedì e giovedì di ogni settimana, alla stessa ora.»

«Ma questa cura gli gioverà sul serio?» domanda Matt. «Dieci dollari sono un mucchio di…»

«Matt!» Lei gli afferra la manica. «Sono cose da dirsi in un momento simile? Si tratta della tua carne e del tuo sangue, forse il dottor Guarino può farlo diventare come gli altri bambini, con l’aiuto di Dio. e tu parli di soldi!»

Matt Gordon fa per giustificarsi, ma poi, pensandoci meglio, si toglie di tasca il portafogli.

«Prego…» sospira Guarino. come se la vista del denaro lo mettesse in imbarazzo. «La mia segretaria provvede a tutte le questioni finanziarie. Grazie.» Fa un mezzo inchino a Rose, stringe la mano a Matt e accarezza Charlie sulla spalla. «Un bel bambino. Molto simpatico.» Poi, tornando a sorridere, scompare dietro la porta del suo studio.

Litigano durante tutto il tragitto di ritorno a casa. Matt lamentandosi perché le vendite di prodotti per barbieri sono diminuite e perché i loro risparmi si stanno dileguando. Rose rispondendo a voce altissima che rendere Charlie normale è più importante d’ogni altra cosa.

Spaventato dal litigio, Charlie piagnucola. Il tono dell’ira, nella loro voce, lo addolora. Non appena entrano in casa, si sottrae alla stretta delle loro mani, corre nell’angolo in cucina, dietro la porta, e tiene la fronte premuta contro la parete piastrellata, tremando e singhiozzando.

Non gli badano affatto. Hanno dimenticato che deve essere lavato e cambiato.

«Non sono isterica. Sono soltanto stufa di sentire le tue lamentele ogni volta che cerco di fare qualcosa per tuo figlio. Tu te ne infischi. Te ne infischi e basta.» «Questo non è vero! Ma mi rendo conto che non possiamo far niente. Quando ti capita un figlio come lui è una croce e devi sopportarla e volergli bene. Bene, io posso sopportare lui. ma non sopporto le tue fesserie. Hai speso quasi tutti i nostri risparmi con ciarlatani e imbroglioni… denaro che avrei potuto spendere per mettere su una bell’azienda per mio conto. Sì. Non guardarmi in quel modo. Con tutti i soldi che hai gettato via per ottenere qualcosa di impossibile avrei potuto metter su una bottega da barbiere mia invece di mangiarmi l’anima dieci ore al giorno cercando di vendere i prodotti ai clienti. Avrei potuto avere una bottega mia con lavoranti alle mie dipendenze!»

«Finiscila di urlare. Guardalo, è spaventato.»

«Va’ all’inferno. Ora so chi è il deficiente in questa casa. Io! Io che ti ho sopportata!» Esce urlando e sbattendosi la porta alle spalle.


«Dolente di disturbarla, signore, ma atterriamo tra pochi minuti. Dovrà allacciarsi di nuovo la cintura… Oh, ce l’ha ancora. L’ha tenuta durante tutto il volo da New York. Per quasi due ore…»

«Me n’ero completamente dimenticato. Continuerò a tenerla finché non saremo atterrati. Sembra che non mi dia più alcun fastidio.»


Ora capisco da dove mi venne l’insolita «motivazione», la frenesia di diventare intelligente che un tempo meravigliava tanto tutti. Era qualcosa che assillava Rose Gordon giorno e notte. La sua paura, il suo senso di colpa, la sua vergogna per il fatto che Charlie era un deficiente. Il sogno di lei che si potesse fare qualcosa. E, sempre, l’incalzante interrogativo: di chi era la colpa, sua o di Matt? Soltanto quando Norma le ebbe dimostrato ch’era capace di mettere al mondo figli normali e che io ero uno scherzo di natura, smise di tentar di rimediare al mal fatto. Ma io, suppongo, non smisi mai di desiderare di essere il bambino intelligente che lei avrebbe voluto, affinché potesse amarmi.

Una cosa buffa a proposito di Guarino. Dovrei avercela con lui per quello che mi fece e perché si approfittò di Rose e di Matt, eppure non posso. Dopo quel primo giorno, fu sempre gentile con me. Mi toccavano sempre la carezza sulla spalla, il sorriso, la parola incoraggiante che altri mi dicevano così di rado.

Mi trattò, anche allora, come un essere umano.

Potrò passare per un ingrato, ma questa è una delle cose che mi esasperano qui… l’atteggiamento che mi fa pensare di essere una cavia. Le incessanti allusioni di Nemur il quale dice di aver fatto di me quello che sono o che un giorno vi saranno altri come me i quali diventeranno veri esseri umani.

Come posso fargli capire che non è stato lui a crearmi?

Egli commette lo stesso sbaglio degli altri quando guardano una persona debole di mente e ridono perché non capiscono che sono in gioco sentimenti umani. Non si rende conto ch’ero una creatura umana anche prima di venire qui.

Sto imparando a dominare il mio risentimento, a non essere così impaziente, ad aspettare le cose. Sto invecchiando mentalmente, credo. Ogni giorno imparo sempre di più sul mio conto, e i ricordi, incominciati come increspature, ora mi sommergono come alle ondate che si frangono…


11 giugno La confusione è cominciata non appena siamo arrivati all’Hôtel Chalmers. a Chicago. e abbiamo saputo che in seguito a un errore le nostre camere non sarebbero state libere fino alla sera dopo e fino a quel momento avremmo dovuto alloggiare nel vicino Hotel Independence. Nemur era furente. Ha considerato la cosa un affronto personale e ha litigato con tutti quelli dell’albergo, dal fattorino al direttore.

Siamo rimasti ad aspettare nel vestibolo, mentre ogni dipendente dell’Hôtel Chalmers andava in cerca del suo diretto superiore per vedere che cosa si potesse fare.

Nel bel mezzo della gran confusione, bagagli che arrivavano e si ammonticchiavano dappertutto nel vestibolo, facchini che correvano avanti e indietro con i loro piccoli carrelli, partecipanti al congresso che non si rivedevano da un anno e si riconoscevano e si salutavano, siamo rimasti in piedi sentendoci sempre più imbarazzati, mentre Nemur cercava di attaccar bottone con i funzionari dell’Associazione Psicologica Intemazionale.

Infine, quando è apparso chiaro che non c’era niente da fare, si è rassegnato alla necessità di trascorrere la nostra prima notte a Chicago all’Hotel Independence.

È risultato poi che quasi tutti gli psicologi più giovani alloggiavano proprio all’Independence e che lì si svolgevano i grandi ricevimenti serali. Lì molti avevano sentito parlare dell’esperimento e quasi tutti sapevano chi io fossi. Ovunque andassimo, qualcuno si avvicinava e domandava il mio parere su tutto, dalle conseguenze della nuova tassa alle più recenti scoperte archeologiche in Finlandia. Era come una sfida, e la mia gran riserva di cognizioni generali ha fatto sì che mi fosse facile parlare quasi di tutto. Ma dopo qualche tempo mi sono accorto che Nemur era irritato per il fatto che l’attenzione si accentrava su di me.

Quando una simpatica giovane dottoressa dell’università Falmouth mi ha domandato se fossi in grado di spiegare alcune cause del mio ritardato sviluppo mentale, le ho detto che il solo a poter rispondere alla sua domanda era il professor Nemur.

Era l’occasione ch’egli aveva aspettato per dar prova della sua competenza, e per la prima volta da quando ci conosciamo mi ha messo una mano sulla spalla. «Non sappiamo esattamente che cosa sia a causare il tipo di fenilketonuria del quale soffriva Charlie da bambino… qualche insolita situazione biochimica o genetica, forse dovuta a radiazioni ionizzanti o a radiazioni naturali o anche a un attacco virale al feto… in ogni modo, essa ha dato luogo a un gene anormale, il quale produce, possiamo dire, un enzima ’dissenziente’ che determina anormali reazioni biochimiche. E, naturalmente, gli amminoacidi così prodotti contrastano gli enzimi normali causando lesioni cerebrali.»

La ragazza si è accigliata. Non si era aspettata una conferenza, ma Nemur, ormai salito in cattedra, ha continuato con lo stesso slancio. «Io la definisco inibizione emulativa degli enzimi. Mi permetta di farle un esempio per spiegare come agisce. Pensi all’enzima prodotto dal gene anormale come ad una chiave falsa che entra nella serratura chimica del sistema nervoso centrale… ma non gira. Essendovi questa chiave falsa, la vera chiave, il giusto enzima, non può penetrare nella serratura. È bloccato. Conseguenza? Distruzione irreversibile di proteine nel tessuto cerebrale.»

«Ma se è irreversibile», si è intromesso uno degli altri psicologi unitisi al gruppetto di ascoltatori, «come è possibile che il signor Gordon, qui, non sia più ritardato?»

«Ah!» ha intonato Nemur. «Io ho detto ch’era irreversibile la distruzione del tessuto, non il processo stesso. Molti ricercatori sono riusciti a invertire il processo iniettando sostanze chimiche che si combinano con gli enzimi anormali, mutando la forma molecolare della chiave intrusa, per così dire. Ciò è essenziale anche nella nostra tecnica. Ma prima noi asportiamo le parti danneggiate del cervello e lasciamo che il tessuto cerebrale trapiantato, chimicamente vivificato, produca proteine cerebrali a un ritmo supernormale…»

«Un momento solo, professor Nemur», ho detto, interrompendolo al culmine della sua arringa. «Che cosa ne pensa del lavoro di Rahajamati in questo campo?»

Egli mi ha fissato inespressivo. «Di chi?»

«Rahajamati. Il suo articolo attacca la teoria di Tanida sulla fusione degli enzimi… il concetto secondo il quale si muterebbe la struttura chimica dell’enzima bloccando lo scalino sul sentiero metabolico.»

Nemur si è accigliato. «Dove è stato tradotto questo articolo?»

«Non è stato ancora tradotto. L’ho letto appena pochi piorni fa nel Giornale indù di psicopatologia.»

Egli ha guardato i suoi ascoltatori e ha cercato di non attribuire importanza alla cosa. «Be’, non credo che abbiamo motivo di preoccuparcene. I risultati da noi ottenuti parlano da soli.»

«Ma lo stesso Tanida ha proposto per primo la teoria del blocco dell’enzima dissenziente mediante la combinazione, e ora fa rilevare che…»

«Oh, andiamo, Charlie. Il solo proporre per primi una teoria non significa che si debba avere l’ultima parola per quanto concerne i suoi sviluppi sperimentali. Tutti qui riconosceranno, io credo, che le ricerche compiute negli Stati Uniti e in Inghilterra eclissano senz’altro il lavoro svolto in India e in Giappone. Disponiamo ancora dei migliori laboratori e della migliore attrezzatura del mondo.»

«Ma questo non risponde alla tesi di Rahajamati, secondo cui…»

«Non è né il momento né il luogo per approfondire la questione. Sono certo che tutti questi aspetti verranno adeguatamente illuminati nella seduta di domani.» Si è voltato a parlare con qualcuno di un vecchio e comune amico dell’università, tagliandomi fuori completamente e lasciandomi allibito.

Sono riuscito ad appartarmi con Strauss e ho cominciato a interrogarlo. «Senta un po’: lei ha seguitato a dirmi che sono ipersensibile nei confronti di Nemur. Ma che cosa ho detto adesso per turbarlo tanto?»

«Gli stai facendo provare una sensazione di inferiorità e non può sopportarlo.»

«Per amor di Dio. parlo seriamente. Mi dica la verità.»

«Charlie, tu devi smetterla di pensare che tutti stiano ridendo di te. Nemur non ha potuto parlare di quell’articolo perché non lo ha letto. Non conosce l’indù.»

«Non conosce l’indù e il giapponese? Oh, andiamo!»

«Charlie, non tutti hanno la tua facilità per le lingue.»

«Ma allora come può confutare le critiche di Rahajamati al suo metodo e la sfida lanciata da Tanida alla validità di questo genere di controllo? Deve pur conoscere queste…»

«No…» ha risposto Strauss cogitabondo. «Queste pubblicazioni devono essere recenti. Non c’è stato il tempo di farle tradurre.»

«Vuol dire che non le ha lette neanche lei?»

Si è stretto nelle spalle. «Io sono un linguista ancora peggiore di lui. Ma ho la certezza che prima della compilazione dei rapporti definitivi si cercheranno ulteriori dati in tutte le pubblicazioni mediche.»

Non sapevo che cosa dire. Sentirlo ammettere che entrambi ignoravano interi settori del loro campo specifico era terrificante. «Che lingue conosce?» gli ho domandato.

«Il francese, il tedesco, lo spagnolo, l’italiano, e quel tanto che basta di svedese per capirlo.»

«Non conosce il russo, il cinese, il portoghese?»

Mi ha ricordato che, poiché esercitava come psichiatra e neurochirurgo, gli rimaneva pochissimo tempo da dedicare alle lingue. E le sole lingue antiche che sapesse leggere erano il latino e il greco. Non una delle antiche lingue orientali.

Mi sono accorto che a questo punto avrebbe voluto por termine alla conversazione, ma, non so perché, non potevo tacere. Dovevo scoprire tino a dove arrivava la sua cultura.

L’ho scoperto.

Fisica: niente oltre alla teoria dei quanti. Geologia: niente in fatto di geomorfologia o stratigrafia o anche petrografia. Niente sulla teoria micro o macroeconomica. Ben poco di matematica, a parte le nozioni più elementari di calcolo delle variabili, e assolutamente nulla per quanto concerne l’algebra di Banach o i multipli di Riemann. Era la prima avvisaglia delle rivelazioni che mi aspettavano quella settimana.

Non sono riuscito a restare al ricevimento. Me ne sono andato quatto quatto per passeggiare e riflettere. Impostori… tutti e due. Si erano fatti passare per geni. Ma erano soltanto comuni mortali e lavoravano alla cieca, sostenendo di poter fare luce nelle tenebre. Perché mentono tutti? Nessuno che io conosca è come sembra. Mentre voltavo all’angolo, ho intravisto con la coda dell’occhio Burt che mi seguiva.

«Che cosa c’è?» gli ho detto quando mi ha raggiunto. «Mi sta pedinando?»

Ha alzato le spalle e ha riso, un po’ a disagio. «Reperto A, la stella dello spettacolo. Non posso lasciarla investire da uno di questi cowboy motorizzati di Chicago o aggredire e uccidere in State Street.»

«Non mi va di essere sorvegliato.»

Ha evitato il mio sguardo mentre mi camminava accanto, con le mani affondate nelle tasche. «Non te la prendere. Charlie. Il vecchio è sulle spine. Questo congresso ha una grande importanza per lui; è in gioco la sua reputazione.»

«Non sapevo che lei gli fosse così amico», l’ho punzecchiato, ricordando tutte le volte in cui Burt si era lagnato della pignoleria e dell’arrivismo del professore.

«Non gli sono amico.» Mi ha guardato con un’espressione di sfida. «Ma ha dedicato a questo l’intera esistenza. Non è un Freud o uno Jung, un Pavlov o un Watson, ma sta facendo qualcosa di importante e io rispetto la sua dedizione… forse tanto più in quanto è soltanto un uomo comune che si sforza di compiere l’opera di un grand’uomo, mentre i grandi uomini sono tutti impegnatissimi a costruire bombe.»

«Mi piacerebbe sentirle dire in faccia a lui che è un uomo comune.»

«Non ha importanza quello che pensa di se stesso. È senz’altro egocentrico, ma con ciò? Occorre proprio questa specie di egoismo per far sì che un uomo tenti una cosa simile. Ne ho conosciuti abbastanza di uomini come lui per sapere che, mescolata alla loro pomposità e al loro arrivismo, c’è una dose abbastanza notevole, accidenti, di incertezza e di paura.»

«E di impostura e superficialità», ho soggiunto. «Ora li vedo come realmente sono, degli impostori. Di Nemur lo sospettavo già. Mi è sempre sembrato spaventato di qualcosa. Ma Strauss mi ha stupito.»

Burt si è fermato, alitando un lungo pennacchio di vapore. Siamo entrati in una tavola calda per prendere un caffè, e io non ho potuto vederlo in faccia: tuttavia, il suono di quel lungo sospiro mi ha rivelato la sua esasperazione.

«Crede che sbagli?»

«Penso soltanto che tu abbia percorso una lunga strada troppo rapidamente», ha detto. «Possiedi ora un’intelligenza superba, un’intelligenza che non può neppure essere valutata, e hai assorbito più conoscenze di quante ne acquisiscano la maggior parte delle persone nel corso di una lunga esistenza. Ma sei squilibrato. Conosci molte cose. Vedi molte cose. Però in te non vi è stato un analogo sviluppo della comprensione o, mi dispiace servirmi di questa parola, della tolleranza. Tu li definisci impostori, ma quando mai uno di loro ha preteso di essere perfetto o un superuomo? Sono individui comuni. Il genio sei tu.»

Si è interrotto goffamente, accorgendosi a un tratto che mi stava facendo la predica.

«Continui.»

«Hai mai conosciuto la moglie di Nemur?»

«No.»

«Se vuoi capire perché egli è continuamente teso, anche quando le cose vanno bene al laboratorio e all’università, devi conoscere Bertha Nemur. Lo sapevi che è stata lei a procurargli la cattedra? Lo sapevi che si è avvalsa dell’influenza di suo padre per fargli ottenere il finanziamento della Fondazione Welberg? Bene, ora lo ha indotto a questa prematura presentazione del rapporto al congresso. Finché non sei stato dominato da una donna come lei, non credere di poter capire l’uomo che ha una moglie del genere.»

Non ho detto nulla e ho capito che voleva tornare all’albergo. Durante tutto il tragitto abbiamo taciuto.

Sono un genio? Non credo. Non ancora in ogni modo. Come si esprimerebbe Buri, burlandosi degli eufemismi del gergo scolastico, sono eccezionale… un termine democratico impiegato per evitare le etichette compromettenti di dotato e manchevole (che equivalgono a intelligente e ritardato), e non appena eccezionale incomincerà a rivestire un significato per qualcuno, sceglieranno un’altra parola. L’idea sembra essere: adoperate un’espressione soltanto fino a quando non significa niente per nessuno. Eccezionale si riferisce a entrambi gli estremi della gamma, e di conseguenza io sono stato eccezionale per tutta la vita.

Strana questa faccenda della cultura; quanto più progredisco, tanto più mi rendo conto di non aver mai neppure saputo della sua esistenza. Poco tempo fa credevo stupidamente di poter imparare ogni cosa… tutto lo scibile umano. Ora spero soltanto di poter sapere che esiste e di capirne un solo granello.

Ne avrò il tempo?

Burt è irritato con me. Trova che sono impaziente, e anche gli altri debbono pensare la stessa cosa. Ma mi respingono e cercano di tenermi al mio posto. Qual è il mio posto? Chi e che cosa sono adesso? Sono la somma della mia esistenza o soltanto di questi ultimi mesi? Oh. come si spazientiscono quando cerco di parlare della cosa con loro. Non amano riconoscere che non lo sanno. È paradossale che un uomo comune come Nemur abbia la presunzione di dedicarsi alla creazione del genio negli altri. Gli piacerebbe che si pensasse a lui come allo scopritore di nuove leggi dell’apprendimento… l’Einstein della psicologia. E v’è in lui il timore dell’insegnante di essere superato dai suoi allievi, la paura del maestro che i discepoli gettino il discredito sulla sua opera. (Non che io sia. nel vero senso del termine, lo studente o il discepolo di Nemur come lo è Burt.)

Penso che il timore di Nemur di essere smascherato come un uomo che cammina sui trampoli tra giganti, sia comprensibile. Un insuccesso a questo punto lo distruggerebbe. È troppo anziano per poter ricominciare tutto daccapo.

Per quanto sia sconvolgente scoprire la verità a proposito di uomini che avevo rispettato e ammirato, credo che Burt abbia ragione. Non devo spazientirmi troppo con essi. Sono state le loro idee insieme al loro brillante lavoro a rendere possibile l’esperimento. Devo evitare la tendenza naturale a guardarli dall’alto in basso, ora che li ho superati.

Devo rendermi conto che quando essi mi ammoniscono continuamente a parlare e a scrivere con semplicità, affinché le persone che leggeranno questi rapporti possano capirmi, stanno parlando anche di se stessi. Eppure è spaventoso sapere che il mio destino è nelle mani di uomini i quali non sono i giganti ch’io credevo un tempo, di uomini che non conoscono tutte le soluzioni.


13 giugno Sto dettando questo rapporto in preda a una grande tensione emotiva. Ho piantato in asso tutto e tutti. Sono solo su un aereo diretto a New York e non ho idea di quello che farò una volta arrivalo. A tutta prima, lo ammetto, l’idea di un congresso internazionale di scienziati e studiosi, riuniti per uno scambio di idee, mi incuteva un timore reverenziale. Questa, pensavo, era la sede in cui realmente si compiva il miracolo. Qui tutto sarebbe stato diverso dalle sterili discussioni universitarie, perché costoro erano gli uomini giunti ai più alti livelli della ricerca psicologica e dell’istruzione, gli scienziati che scrivevano libri e insegnavano, le autorità citate dal pubblico. Se anche Nemur e Strauss erano uomini comuni che andavano oltre le loro capacità, gli altri, ne avevo la certezza, sarebbero stati diversi.

Quando è giunto il momento della riunione, Nemur ci ha guidati attraverso il gigantesco vestibolo con il suo arredamento massiccio e baroccheggiante e su per gli enormi scaloni di marmo; siamo così passati attraverso gruppetti sempre più fitti di persone che ci stringevano la mano, ci salutavano con cenni del capo, ci sorridevano. Due altri professori della Beekman, arrivati a Chicago proprio stamane, si sono uniti a noi. I professori White e Clinger camminavano un pochino a destra e un passo o due dietro a Nemur e a Strauss, mentre Burt e io eravamo in coda.

I curiosi si sono separati per aprirci una strada e consentirci di entrare nel grande salone da ballo, e Nemur ha salutato con la mano i giornalisti e i fotografi venuti ad ascoltare personalmente i risultati stupefacenti ch’egli ha ottenuto in poco più di tre mesi con un adulto ritardato.

Nemur, ovviamente, si era già fatto la pubblicità diramando notizie in precedenza.

Alcune relazioni presentate al congresso sono state importanti. Un gruppo di ricercatori dell’Alasca ha dimostrato come la stimolazione di parti diverse del cervello causi uno sviluppo significativo della capacità di apprendimento, e un gruppo della Nuova Zelanda ha individuato le parti del cervello che presiedono alla percezione e alla ritenzione degli stimoli.

Ma vi sono state anche relazioni d’altro genere… lo studio di P. T. Zellerman sulla diversa durata del tempo impiegato dai topi per imparare a muoversi in un labirinto quando i suoi angoli sono curvi anziché a spigolo, o la relazione di Worfel a proposito dell’effetto del livello di intelligenza sul tempo di reazione delle scimmie rhesus. Le relazioni di questo genere mi hanno irritato. Denaro, tempo ed energie sciupate per analisi particolareggiate del banale. Burt aveva ragione quando aveva lodato Nemur e Strauss per essersi dedicati a qualcosa di importante e di incerto, anziché a qualcosa di insignificante ma sicuro.

Se soltanto Nemur mi considerasse un essere umano!

Quando il presidente ha annunciato la presentazione della relazione dell’università Beekman, abbiamo preso posto sulla pedana, dietro il lungo tavolo… Algernon nella sua gabbia, tra Burt e me. Eravamo l’attrazione più importante della serata e dopo che ci siamo sistemati, il presidente ha incominciato la presentazione. Mi aspettavo quasi di sentirlo tuonare: Signoreeee e signorini. Si avvicinino subito da questa parte per assistere a un numero eccezionale! Quialcosa che non si è mai visto nel mondo scientifico! Un topo e un deficiente trasformati in geni sotto i vostri stessi occhi!

Confesso ch’ero venuto in preda a uno stato d’animo bellicoso.

Invece si è limitato a dire: «La prossima relazione non ha bisogno in realtà di alcuna presentazione. Abbiamo tutti sentito parlare del lavoro stupefacente svolto all’università Beekman, con l’appoggio della Fondazione Welberg e la direzione del preside della facoltà di psicologia professor Nemur, in collaborazione con il dottor Strauss del Centro neuropsichiatrico della Beekman. Inutile dirlo, è questa una relazione che noi tutti abbiamo atteso con sommo interesse. Cedo la parola al professor Nemur e al dottor Strauss».

Nemur ha ringraziato graziosamente con un cenno del capo per la presentazione elogiativa del presidente e, nel trionfo del momento, ha strizzato l’occhio a Strauss.

Il primo oratore della Beekman è stato il professor Clinger.

Incominciavo a irritarmi e vedevo che Algernon, disturbato dal fumo, dal ronzio, dall’ambiente inconsueto, si aggirava nervosamente nella gabbia. Ho provato lo stranissimo impulso di aprire lo sportellino e di lasciarlo uscire. Era un’idea assurda, più un prurito che un pensiero, e ho cercato di ignorarla. Ma mentre ascoltavo la stereotipata relazione del professor Clinger su «Gli effetti delle cassette a mèta sinistrorsa in un labirinto a T rispetto alle cassette a mèta destrorsa in un labirinto a T», mi sono sorpreso a giocherellare con il meccanismo della chiusura a scatto della gabbia di Algernon.

Di lì a poco (prima che Strauss e Nemur rivelassero il loro supremo successo), Burt avrebbe letto una relazione che descriveva le procedure e i risultati dei test di apprendimento e di intelligenza da lui escogitati per Algernon. Questa lettura sarebbe stata seguita da una dimostrazione e Algernon avrebbe risolto un problema per avere il suo pasto (una cosa che non ha mai smesso di esasperarmi).

Non ch’io avessi qualcosa contro Burt. Era sempre stato schietto con me, più di quasi tutti gli altri, ma quando ha descritto il topolino bianco al quale era stata data l’intelligenza, mi è sembrato pomposo e artificioso come Nemur e Strauss. Quasi stesse provandosi la toga dei suoi maestri. Mi sono trattenuto, a questo punto, più per amicizia nei suoi riguardi che per altro. Lasciare uscire Algernon dalla gabbia avrebbe significato provocare il caos, e in fin dei conti questo era il debutto di Burt nella corsa di topi della carriera accademica.

Tenevo il dito sulla chiusura a scatto dello sportello della gabbia e, ne sono sicuro, mentre Algernon fissava il movimento della mia mano con gli occhietti rosa-caramella, sapeva quello che avevo in mente. In quel momento Burt ha preso la gabbia per fare la dimostrazione. Ha spiegato quanto è complicata la serratura e quale capacità di risolvere problemi occorra ogni volta che deve essere aperta. (Sottili chiavistelli di plastica si spostano in modi diversi e debbono essere azionati dal topo, che abbassa una serie di leve nello stesso ordine.) Man mano che l’intelligenza di Algernon si era accresciuta, la sua rapidità nel risolvere i problemi era aumentata… e questo è ovvio. Ma poi Burt ha rivelato una cosa che io ignoravo.

Una volta raggiunto il culmine dell’intelligenza, il rendimento di Algernon era divenuto variabile. V’erano momenti, stando alla relazione di Burt, in cui Algernon si rifiutava completamente di lavorare, anche quando, apparentemente, era affamato, e altri momenti in cui risolveva il problema, ma invece di consumare il cibo che costituiva la ricompensa sì gettava contro le pareti della gabbia.

Quando uno degli ascoltatori ha domandato a Burt se ne deducesse che questo comportamento capriccioso fosse causato direttamente dall’accresciuta intelligenza, Burt ha aggirato la domanda. «Per quanto mi concerne», ha detto. «non esistono prove sufficienti per convalidare tale conclusione. Vi sono altre possibilità. È possibile che tanto l’accresciuta intelligenza quanto il comportamento imprevedibile a questo livello siano stati determinati dall’intervento chirurgico iniziale, anziché essere l’una in funzione dell’altro. È possibile inoltre che questo comportamento capriccioso sia tipico di Algernon. Non lo riscontriamo in nessuno degli altri topi ma, d’altro canto, nessuno di essi è pervenuto a un livello di intelligenza così alto né lo ha mantenuto a lungo come Algernon.»

Mi sono reso conto immediatamente che questo particolare mi era stato nascosto. Ne ho sospettato il motivo, e la cosa mi ha irritato, ma tutto ciò non era nulla in confronto all’ira che ho provato quando hanno proiettato i film.

Non avevo mai saputo che i miei primi test in laboratorio erano stati filmati. Eccomi là, al tavolino accanto a Burt. confuso e a bocca aperta mentre cercavo di seguire il labirinto con lo stilo elettrico. Ogni volta che sentivo la scossa, la mia espressione mutava divenendo una smorfia assurda a occhi sbarrati, per essere poi nuovamente sostituita dal sorriso ebete. Ogni volta che ciò accadeva, tutti i presenti scoppiavano in una risata. Un labirinto dopo l’altro, la situazione si ripeteva, e ogni volta tutti la trovavano ancor più comica di prima.

Dicevo a me stesso che costoro non erano stupidi individui avidi di curiosità, ma scienziati che si trovavano lì per allargare le loro conoscenze. Non avrebbero potuto fare a meno di trovare buffe quelle immagini… eppure, mentre Burt, centrando lo stato d’animo generale, faceva commenti divertenti sul film, mi sono sentito sopraffatto da una smania di malignità. Sarebbe stato ancora più divertente far fuggire Algernon dalla gabbia e vedere tutti quegli individui sparpagliarsi e strisciare qua e là carponi nel tentativo di riprendere un minuscolo genio bianco in fuga.

Ma sono riuscito a dominarmi e, quando Strauss si è alzato per parlare, l’impulso era passato.

Strauss ha esposto principalmente la teoria e le tecniche della neurochirurgia, descrivendo in particolare come gli studi pionieristici sull’individuazione dei centri di controllo ormonali gli avessero consentito di isolare e stimolare tali centri e al contempo di eliminare quella parte di corteccia cerebrale che produce la sostanza inibitrice dell’ormone. Ha spiegato la teoria del blocco dell’enzima e ha continuato descrivendo le mie condizioni fisiche prima e dopo l’intervento. Sono state distribuite e commentate fotografie (non sapevo di essere stato fotografato), e ho potuto arguire, dai cenni d’assenso e dai sorrisi, che la maggior parte dei presenti convenivano con lui che «l’espressione facciale ottusa e vacua» si era trasformata in un «aspetto sveglio e intelligente». Burt ha esaminato inoltre nei particolari gli aspetti pertinenti delle nostre sedute psicoterapiche… e in particolare i miei mutati atteggiamenti nei confronti della libera associazione.

Mi trovavo lì come parte d’una presentazione scientifica e m’ero aspettato di essere messo in mostra, ma tutti seguitavano a parlare di me come se fossi stato una sorta di oggetto creato ex novo che essi stavano presentando al mondo scientifico. Nessuno in quella sala mi considerava un individuo… un essere umano. Il costante accostamento «Algernon e Charlie» e «Charlie e Algemon», lasciava capire chiaramente che essi pensavano a entrambi come a una coppia di animali per esperimenti, inesistenti al di fuori del laboratorio. Ma, a parte la mia ira, non riuscivo a togliermi dalla mente la convinzione che v’era qualcosa di sbagliato.

Infine è toccato a Nemur parlare, per riassumere ogni cosa come direttore dell’esperimento e per essere illuminato dalle luci della ribalta come iniziatore di un tentativo originale. Era questo il momento ch’egli aveva aspettato.

Era imponente quando si è alzato sulla pedana e, mentre parlava, mi sono sorpreso ad annuire, approvando affermazioni che sapevo essere vere. Le prove, l’esperimento, l’intervento chirurgico e il mio successivo sviluppo mentale, tutto è stato descritto minuziosamente e ravvivato da citazioni tolte dai miei rapporti sui progressi. Più di una volta ho dovuto ascoltare qualcosa di intimo o di stupido letto agli ascoltatori. Grazie a Dio avevo badato bene a conservare nella mia cartella personale quasi tutti i particolari concernenti Alice e me.

Poi, a un certo punto del suo compendio, Nemur lo ha detto: «Noi che abbiamo lavorato a questo esperimento all’università Beekman siamo soddisfatti di sapere che abbiamo eliminato uno degli errori della natura e creato, con le nostre nuove tecniche, un essere umano superiore. Quando Charlie venne da noi era un reietto della società, solo in una grande metropoli, senza amici o parenti che si occupassero di lui, senza la struttura mentale necessaria per condurre un’esistenza normale. Nessun passato, nessun contatto con il presente, nessuna speranza nell’avvenire. Si potrebbe dire che Charlie Gordon non esisteva, in realtà, prima di questo esperimento…»

Non so perché mi esasperasse così intensamente il fatto che essi pensavano a me come a qualcosa di appena coniato nella loro zecca privata, ma si trattava, ne sono sicuro, di echi di quell’idea che aveva risuonato nelle latebre della mia mente dal momento in cui eravamo giunti a Chicago. Avrei voluto balzare in piedi e dimostrare a tutti quanto egli era stupido, gridargli: Sono un essere umano, un individuo… con genitori e ricordi e un passato… e lo ero prima che mi portaste sul lettino a rotelle in quella sala operatoria!

Al contempo, nel profondo della vampata d’ira, andava forgiandosi l’intuizione travolgente di ciò che mi aveva turbato quando aveva parlato Strauss e di nuovo quando Nemur aveva elaborato i suoi dati. Entrambi avevano commesso un errore… ma certo! La valutazione statistica del periodo d’attesa necessario per dimostrare la permanenza del mutamento si era basata su esperimenti precedenti nel campo dello sviluppo mentale e dell’apprendimento, sui periodi d’attesa nel caso di animali normalmente ottusi o normalmente intelligenti. Ma appariva ovvio che il periodo di attesa sarebbe dovuto essere protratto nei casi in cui l’intelligenza di un animale era stata aumentata di due o tre volte.

Le conclusioni di Nemur erano state premature. Sia per quanto concerneva Algernon, sia per quanto concerneva me stesso, sarebbe occorso più tempo per stabilire se il mutamento fosse definitivo. I professori avevano commesso uno sbaglio e nessun altro se n’era accorto. Avrei voluto balzare in piedi e dirlo a tutti, ma non riuscivo a muovermi. Come Algernon, mi trovavo dietro la rete della gabbia che avevano costruito intorno a me.

Ora vi sarebbe stato un intervallo riservato alle domande, e prima di poter andare a cena avrei dovuto esibirmi dinanzi all’illustre consesso. No. Bisognava che me ne andassi di lì.

«… In un certo senso, egli è il risultato della moderna psicologia sperimentale. In luogo di un vuoto guscio debole di mente, un fardello per la società che deve temerne il comportamento irresponsabile, abbiamo un uomo ricco di dignità e di sensibilità, pronto a occupare il suo posto come membro fattivo della società. Vorrei che tutti loro ascoltassero poche parole di Charlie Gordon…»

Accidenti a lui, non sapeva di che cosa stava parlando. A questo punto l’impulso è stato più forte di me. Ho guardato affascinato mentre la mia mano si muoveva, indipendentemente dalla mia volontà, per abbassare la chiusura della gabbia di Algernon. Mentre aprivo lo sportellino, il topo mi ha fissato, immobilizzandosi. Poi si è voltato, è sfrecciato fuori della gabbia e si è messo a correre sul lungo tavolo.

Dapprima si è confuso contro la tovaglia di damasco, una chiazza bianca sul bianco, finché una donna seduta al tavolo ha strillato rovesciando la sedia all’indietro mentre balzava in piedi. Al di là di lei caraffe d’acqua sono cadute, e poi Burt ha gridato: «Algernon è fuggito!» Algernon è saltato giù dal tavolo, sulla pedana e poi sul pavimento.

«Prendetelo! Prendetelo!» urlava Nemur, mentre il consesso, diviso nei suoi obiettivi, si tramutava in un intrico di braccia e di gambe. Alcune donne (non erano sperimentaliste?) cercavano di reggersi in piedi sulle instabili sedie pieghevoli, mentre altre, cercando di aiutare a bloccare Algernon, le facevano cadere.

«Chiudete quelle porte là dietro!» ha urlato Burt, rendendosi conto che Algernon era abbastanza intelligente per dirigersi da quella parte.

«Presto», mi sono sentito gridare. «La porta laterale!»

«È uscito dalla porta laterale», mi ha fatto eco qualcuno.

«Prendetelo! Prendetelo!» supplicava Nemur.

La massa umana si è precipitata dal grande salone da ballo nel corridoio, mentre Algernon, sgambettando sulla guida di velluto marrone, la trascinava in un’allegra caccia. Sotto tavoli Luigi XIV, intorno a palme in vaso, giù per scaloni, nel vestibolo principale, ingrossata da altre persone man mano che procedeva. Vedere tutta quella gente correre avanti e indietro nel vestibolo, inseguendo un topolino bianco più intelligente della maggior parte di coloro che gli davano la caccia, è stata la cosa più comica che mi sia accaduta da un pezzo.

«Su, avanti, ridi!» ha sbuffato Nemur, che per poco non era venuto a sbattermi contro. «Ma se non lo troviamo, l’intero esperimento è in pericolo.»

Ho finto di cercare Algernon sotto un cestino per la carta straccia. «Sa una cosa?» ho detto. «Lei ha commesso un errore. E quello che è successo oggi forse non avrà alcuna importanza.»

Pochi secondi dopo, cinque o sei donne sono uscite strillanti dalla toletta, alzando con frenesia sulle gambe le gonne.

«È lì dentro», ha urlato qualcuno. Ma, per un momento, la folla è stata trattenuta dalla targa applicata alla parete… Signore. Io ho varcato per primo la barriera invisibile e sono passato per le sacre porte.

Algernon era appollaiato su uno dei lavabi e contemplava la propria immagine nello specchio.

«Vieni», ho detto. «Ce ne andremo di qui insieme.»

Si è lasciato prendere e mettere nella tasca della mia giacca. «Rimani lì tranquillo finché non ti avvertirò.»

Gli altri hanno fatto irruzione attraverso la porta a molla a doppio battente con un’aria colpevole, come se si fossero aspettati di vedere femmine nude e strillanti.

Io sono uscito mentre loro cercavano nella toletta e ho udito la voce di Burt: «C’è un buco in quel ventilatore. Forse è salito su di lì».

«Si accerti dove conduce», ha detto Strauss.

«Lei salga al secondo piano», ha detto Nemur, facendo un cenno a Strauss. «Io scenderò nello scantinato.»

A questo punto si sono precipitati fuori della toletta e le forze si sono suddivise. Ho seguito gli uomini del contingente di Strauss fino al secondo piano mentre cercavano di scoprire dove conducesse il ventilatore. Quando Strauss e White e l’altra mezza dozzina di seguaci hanno voltato a destra nel corridoio B, io ho voltato a sinistra nel corridoio C e ho preso l’ascensore per andare in camera mia.

Mi sono chiuso la porta alle spalle e ho dato un colpetto alla tasca. Un musetto roseo e un po’ di peluria bianca hanno fatto capolino per guardarsi intorno. «Devo soltanto fare le valige», ho detto, «poi ce ne andremo… e tu e io soli… due geni, creati dall’uomo, in fuga».

Ho fatto portare da un fattorino le valige e il registratore a nastro sul tassi che aspettava, ho pagato il conto dell’albergo e sono uscito per la porta girevole con l’oggetto delle ricerche raggomitolato nella tasca della giacca. Mi sono servito del biglietto di ritorno in aereo fino a New York.

Invece di tornare nella mia stanza, mi propongo di alloggiare in albergo qui in città per una o due notti. Sarà la nostra base d’operazioni mentre cercherò un appartamento ammobiliato verso il centro. Voglio essere vicino a Times Square.

Parlare di tutto questo mi fa sentire molto meglio… e anche un po’ sciocco. Davvero non so perché mi sia lasciato turbare tanto, né che cosa stia facendo su un aviogetto di ritorno a New York, con Algernon in una scatola di scarpe sotto la poltrona. Non devo lasciarmi prendere dal panico. L’errore non implica necessariamente alcunché di grave. È soltanto che le cose non sono ben definite come credeva Nemur. Ma io dove andrò, dopo?

Anzitutto devo rivedere i miei genitori. Non appena possibile.

Può anche darsi che non mi rimanga tutto il tempo che credevo di avere…

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