16° RAPPORTO SUI PROGRESSI

14 luglio Era una brutta giornata per andare alla Warren, grigia e piovosa, e questo può spiegare lo sconforto che mi prende quando ci penso. O forse sto ingannando me stesso ed è stata l’idea di potervi essere ricoverato a turbarmi. Mi sono fatto prestare la macchina da Burt. Alice voleva accompagnarmi, ma bisognava ch’io vedessi la clinica da solo. A Fay non ho detto che ci andavo.

Ci è voluta un’ora e mezzo di macchina per arrivare al villaggio agricolo di Warren, a Long Island, e non mi è stato difficile trovare il posto: una vasta e grigia dimora di campagna, rivelata al mondo soltanto da un cancello d’ingresso tra due pilastri di cemento all’inizio di uno stretto viale e da una targa d’ottone lucidata con la scritta CLINICA STATALE E SCUOLA DI ADDESTRAMENTO WARREN.

Il cartello stradale intimava 30 chilometri all’ora e così sono passato adagio accanto agli edifici, cercando l’amministrazione.

Un trattore veniva nella mia direzione attraverso il prato e oltre all’uomo al volante ce n’erano altri due dietro. Ho sporto la testa fuori del finestrino per domandare: «Sa dirmi dove si trova l’ufficio del signor Winslow?»

Il conducente ha fermato il trattore e ha additato a sinistra e avanti. «Vada fino all’ospedale principale. Volti a sinistra e si fermi a destra.»

Non ho potuto fare a meno di notare il giovane dagli occhi fissi in piedi sulla parte posteriore del trattore, afferrato a una maniglia. Aveva la barba lunga e gli si scorgeva sul volto la traccia di un vacuo sorriso. Portava un berretto da marinaio con la tesa abbassata infantilmente per fare schermo agli occhi, sebbene non splendesse il sole. Ho colto per un attimo il suo sguardo, quegli occhi grandi, interrogativi, ma ho voluto voltarmi. Quando il trattore è ripartito ho visto nel retrovisivo che il giovane mi stava seguendo con lo sguardo, incuriosito. La cosa mi ha sconvolto… perché mi ha ricordato Charlie.

Sono rimasto stupito nel constatare che il primo psicologo era così giovane, un uomo alto, magro, con un’espressione stanca sulla faccia. Ma i fermi occhi azzurri di lui lasciavano capire che dietro l’aria giovanile si celava forza di carattere.

Mi ha accompagnato per la tenuta con la sua macchina, indicandomi la sala di ricreazione, l’ospedale, la scuola, gli uffici amministrativi e gli edifici di mattoni a due piani che egli chiama villini, dove vivono ì pazienti.

«Non ho notato una recinzione intorno alla Warren», ho detto.

«No, c’è soltanto un cancello all’ingresso, e poi siepi per impedire ai curiosi di guardar dentro.»

«Ma come fanno a impedir… loro… di allontanarsi… di andarsene?»

Ha alzato le spalle e ha sorriso. «In realtà non possiamo. Alcuni se ne vanno, però tornano quasi tutti.»

«Non vengono ricercati?»

Mi ha fissato, quasi tentasse di indovinare che cosa si nascondeva dietro la mia domanda. «No. Se si cacciano nei guai veniamo a saperlo ben presto… oppure la polizia li riporta indietro.»

«E se non si mettono nei pasticci?»

«Se non abbiamo notizie di loro o da loro, presumiamo che siano riusciti ad adattarsi in modo soddisfacente alle condizioni esterne. Lei deve rendersi conto, signor Gordon, che questa non è una prigione. Lo Stato ci chiede di fare ogni ragionevole tentativo per riavere i pazienti, ma non disponiamo dei mezzi necessari per sorvegliare da vicino, continuamente, quattromila persone. Quelli che riescono ad andarsene sono tutti deficienti mentali… non che ne ospitiamo più molti, ormai. Sono più numerosi i casi di lesioni cerebrali che richiedono un’assistenza continua; i deficienti, invece, godono di una maggiore libertà, ma la maggior parte di loro, dopo aver passato una settimana fuori di qui, torna indietro essendosi resa conto che fuori non c’è nulla di desiderabile. Il mondo non li vuole, e se ne rendono conto ben presto.»

Siamo discesi dalla macchina per dirigerci a piedi verso uno dei villini. All’interno le pareti erano di piastrelle bianche e nell’edificio regnava un odore di disinfettante. Il vestibolo al pianterreno si apriva su una sala di ricreazione nella quale sedevano settantacinque ragazzi in attesa che suonasse il campanello del pranzo. Ad attrarre immediatamente il mio sguardo è stato uno dei ragazzi più grandi su una sedia in un angolo, intento a cullare tra le braccia uno degli altri ragazzi, sui quattordici o quindici anni. Si sono voltati tutti a guardarci quando siamo entrati e alcuni dei più audaci sono venuti a fissarmi da vicino.

«Non badi a loro», ha detto Winslow, vedendo la mia espressione. «Non le faranno alcun male.»

La responsabile delle pulizie, una bella donna di ossatura robusta, con le maniche rimboccate e un grembiule di cotone sulla camicetta bianca inamidata, è venuta verso di noi. Dalla cintura le pendeva un mazzo di chiavi che tintinnavano a ogni suo movimento, e soltanto quando si è voltata ho veduto che il lato sinistro della sua faccia era deturpato da una grande voglia color vino.

«Non mi aspettavo gente oggi, Ray», ha detto. «Di solito lei accompagna i visitatori il giovedì.»

«Le presento il signor Gordon, Thelma, dell’università Beekman. Vuole soltanto dare un’occhiata in giro e farsi un’idea del lavoro che svolgiamo qui. Sapevo che per lei non avrebbe fatto alcuna differenza, Thelma. Qualsiasi giorno le va bene.»

«Già», ha riso la donna con vigorosa cordialità, «ma il mercoledì voltiamo i materassi. Il giovedì c’è un odore molto migliore qui dentro».

Ho notato che rimaneva alla mia sinistra, per nascondermi la macchia sulla faccia. Mi ha accompagnato nel dormitorio, nella lavanderia, nei ripostigli e nella sala da pranzo, con le tavole già apparecchiate in attesa che il cibo venisse portato dalle cucine. Sorrideva, parlando, e la sua espressione e i capelli raccolti in una crocchia sul capo la facevano somigliare a una ballerina di Lautrec; ma non mi guardava mai negli occhi. Mi sono domandato come sarebbe vivere qui sorvegliato da lei.

«Sono molto buoni, in questo villino», ha detto. «Ma sa com’è: trecento ragazzi, settantacinque per piano, e appena cinque di noi a sorvegliarli… Non è facile tenerli sotto controllo. Però qui si sta molto meglio che nei villini sporchi. Il personale, in quelli, non resiste molto a lungo. Con i bambini non ci si bada troppo, ma quando diventano adulti e continuano a non saper badare a se stessi, la faccenda diventa rivoltante e disastrosa.»

«Lei sembra essere una persona molto gentile». ho osservato. «I ragazzi sono fortunati ad averla come loro governante.»

Ha riso di cuore, sempre guardando diritto dinanzi a sé, e ha mostrato i denti candidi. «Non sono migliore né peggiore delle altre. Voglio un gran bene ai miei ragazzi. Non è un lavoro da nulla, ma è soddisfacente se si pensa quanto hanno bisogno di noi.» Il sorriso le è dileguato dalle labbra per un momento. «I ragazzi normali crescono troppo rapidamente e non hanno più bisogno di nessuno… se ne vanno per conto loro… dimenticano chi li ha amati e ha avuto cura di loro. Ma questi fanciulli hanno bisogno di tutto ciò che siamo in grado di dare… per tutta la vita.»

Si è messa di nuovo a ridere, imbarazzata dalla propria serietà. «È duro lavorare qui, ma ne vale la pena.»

Al pianterreno, dove Winslow ci stava aspettando. è suonato il campanello e i ragazzi sono entrati in fila nella sala da pranzo. Ho notato che il ragazzo grande, il quale aveva tenuto in grembo il più piccolo, lo stava ora guidando verso la tavola e lo teneva per mano.

«È una gran cosa», ho detto, accennando con la testa da quella parte.

Anche Winslow ha annuito. «Il più grande si chiama Jerry, e l’altro Dusty. Ci capita spesso, qui, di vedere situazioni del genere. Quando nessun altro ha tempo da dedicare ai ragazzi, essi capiscono abbastanza per trovare tra loro contatti umani e affetto.»

Mentre, diretti verso la scuola, passavamo davanti a uno degli altri villini, ho udito un urlo, seguito da un lamento, raccolto ed echeggiato da due o tre altre voci. V’erano sbarre alle finestre.

Winslow è parso a disagio per la prima volta in tutta la mattinata. «Quello è un villino speciale di sicurezza», ha spiegato. «Ritardati mentali in preda a turbe emotive. Quando è probabile che possano fare del male a se stessi o agli altri, li mettiamo nel villino K. Vi rimangono chiusi continuamente.»

«Hanno qui pazienti con turbe emotive? Ma non dovrebbero essere ricoverati in ospedali psichiatrici?»

«Oh, certo», ha risposto, «ma è una cosa difficile ad accertarsi. A volte la linea di confine che li separa dalle turbe emotive scompare soltanto dopo qualche tempo che si trovano qui. Altri ci vengono affidati dai tribunali e non possiamo fare altro che ospitarli, anche se in realtà non abbiamo posto per loro. La vera difficoltà sta nel fatto che non c’è più posto per nessuno in nessun luogo. Lo sa quanti sono i prenotati che aspettano di entrare da noi? Millequattrocento. E alla fine dell’anno potremo forse avere posto per venti o trenta pazienti».

«Dove si trovano adesso questi millequattrocento?»

«A casa loro, in attesa di un posto libero qui o in qualche altro istituto. Vede, il problema dello spazio da noi non è come il consueto affollamento degli ospedali. I nostri pazienti di solito vengono per restare tutta la vita.»

Mentre ci avvicinavamo alla nuova scuola, un edificio di un piano in vetro e cemento, con ampie finestre, ho cercato di immaginare che cosa si sarebbe provato percorrendo quei corridoi come pazienti. Mi sono raffigurato nella fila di uomini e di ragazzi che aspettavano di entrare in aula. Forse sarei stato uno di quelli che spingevano un altro ragazzo su una sedia a rotelle o guidavano qualcuno tenendolo per mano o cullavano tra le braccia un compagno più piccolo.

In una delle aule di falegnamerìa, dove alcuni ragazzi grandi stavano costruendo banchi sotto la sorveglianza di un maestro, tutti si sono raggruppati intorno a me, osservandomi incuriositi. L’insegnante ha deposto la sega ed è venuto verso di noi.

«Le presento il signor Gordon dell’università Beekman», ha detto Winslow. «Vuole dare un’occhiata a qualcuno dei nostri pazienti. Ha intenzione di acquistare la clinica.»

L’insegnante si è messo a ridere e ha accennato ai suoi allievi. «Be’, se l’ac-cquista d-deve p-prenderci i-insieme ad essa.»

Mentre mi faceva visitare l’aula ho notato lo strano silenzio dei ragazzi. Continuavano il loro lavoro di levigatura o verniciatura dei banchi appena costruiti, ma non parlavano.

«Q-questi s-sono i m-miei a-allievi s-silenziosi, s-sa». ha detto l’insegnante, quasi avesse intuito la mia domanda inespressa. «S-ordom-muti.»

«Ne abbiamo centosei», si è affrettato a spiegare Winslow, «per uno studio speciale finanziato dal governo federale».

Quale incredibile cosa! Quanto meno avevano di altri esseri umani. Mentalmente ritardati, sordi, muti… eppure levigavano banchi con entusiasmo.

Uno dei ragazzi che stava stringendo un blocco di legno entro una morsa, ha interrotto il lavoro, ha toccato Winslow sul braccio e ha additato l’angolo in cui numerosi oggetti terminati stavano asciugando su scaffali. Il ragazzo ha indicato un sostegno per paralume, sul secondo scaffale, accennando poi a se stesso. Era un lavoro rudimentale, sbilenco, con il mastice che aveva riempito le connessure visibilissimo e la verniciatura troppo spessa e non uniforme. Winslow e l’insegnante lo hanno lodato entusiasticamente e il ragazzo ha sorriso tutto orgoglioso, guardandomi e aspettandosi una lode anche da me.

«Sì», ho annuito, pronunciando con enfasi esagerata le parole, «bellissimo… splendido». L’ho detto perché lui ne aveva bisogno, ma mi sentivo vuoto dentro. Il ragazzo mi ha sorriso e quando ci siamo accinti ad andarcene è venuto a toccarmi il braccio come per dirmi arrivederci. La commozione mi ha soffocato e ho stentato molto a dominarmi finché non siamo usciti di nuovo nel corridoio.


La direttrice della scuola è una donna piccola di statura, grassoccia, materna, che mi ha fatto sedere di fronte a un diagramma ben disegnato dal quale risultano i vari tipi di pazienti, la specializzazione assegnata a ciascuna categoria e le materie studiate.

«Naturalmente», ha spiegato, «non ospitiamo più molti di coloro che hanno un quoziente di intelligenza meno basso. Ad essi, quelli con un quoziente di intelligenza di sessanta o settanta, si provvede in misura sempre maggiore nelle scuole cittadine, in classi speciali, oppure vi sono enti comunali che se ne occupano. Quasi tutti quelli affidati a noi sono in grado di abitare fuori, in ospizi o pensioni, e di svolgere un lavoro semplice nelle fattorie, nelle fabbriche o nelle lavanderie…»

«O nelle panetterie», le ho suggerito.

Si è accigliata. «Sì, suppongo che ne sarebbero capaci. Noi classifichiamo inoltre i nostri bambini (io li chiamo tutti bambini, qualunque età abbiano, perché sono tutti bambini qui) in due categorie, puliti o sporchi. È molto più semplice tenere in ordine i rispettivi villini se ognuno viene inquadrato secondo il proprio livello. Alcuni degli sporchi sono casi con gravissime lesioni al cervello, tenuti in appositi lettini e destinati a rimanervi per tutta la vita…»

«Fino a quando la scienza non avrà trovato il modo di aiutarli.»

«Oh», ha sorriso lei, spiegandomi meticolosamente, «temo che siano irrecuperabili».

«Nessuno è irrecuperabile.»

Mi ha sbirciato con un’aria incerta. «Sì, sì, certo. Lei ha ragione. Dobbiamo sperare.»

L’avevo innervosita. Ho sorriso tra me e me, pensando: che cosa accadrebbe se mi riportassero qui come uno dei suoi bambini? Mi classificherebbero pulito o sporco?

Tornati nell’ufficio di Winslow abbiamo sorseggiato un caffè mentre lui parlava del suo lavoro. «È un buon posto», ha detto. «Del nostro personale non fanno parte psichiatri… vi è soltanto un consulente esterno che viene ogni due settimane. Ma le cose vanno bene ugualmente. Ognuno degli psicologi è dedito al suo lavoro. Avrei potuto assumere uno psichiatra, ma con lo stipendio che dovrei corrispondergli posso assumere due psicologi… uomini che non temono di dare una parte di se stessi a queste creature.»

«Che cosa intende dire con ’una parte di se stessi ’?»

Mi ha studiato per un momento, poi, attraverso la sua stanchezza, è balenata l’ira. «Vi sono molte persone disposte a dare denaro o materiale, ma pochissimi disposti a dare tempo e affetto. Ecco che cosa intendo dire.» La sua voce è divenuta dura ed egli ha additato un biberon su uno scaffale della libreria al lato opposto della stanza.

«Vede quel biberon?»

Gli ho detto che mi ero domandato come mai si trovasse lì non appena entrato nel suo ufficio.

«Bene, quante persone conosce lei che sarebbero disposte a prendere in braccio un uomo adulto e ad allattarlo con il biberon? E a correre il rischio che il paziente urini o defechi addosso a loro? Ha l’aria sorpresa. Non può capire, non è vero, dall’alto della torre d’avorio delle sue ricerche? Che cosa sa lei dell’essere precluso da ogni esperienza umana come lo sono i nostri pazienti?»

Non ho potuto trattenere un sorriso, ed egli deve avere frainteso, poiché si è alzato e bruscamente ha posto termine al colloquio. Se tornerò qui per rimanervi e se verrà a sapere tutta la mia vicenda, sono certo che capirà. È il tipo d’uomo capace di capire.

Uscendo in macchina dalla clinica Warren, non sapevo che cosa pensare. Il senso di gelido grigiore era ovunque intorno a me… un senso di rassegnazione. Non si era parlato di riabilitazione, di guarigione, della possibilità di rimandare un giorno nel mondo quelle creature. Nessuno aveva parlato di speranza. La sensazione che predominava era quella di una morte vivente… o, peggio, quella che i poveretti non fossero mai stati vivi e coscienti. Anime avvizzite sin dall’inizio e costrette a sgranare gli occhi nel tempo e nello spazio di ogni giorno.

Ho ripensato alla responsabile delle pulizie, con la voglia rossa sulla faccia, e all’insegnante balbuziente, alla materna direttrice e allo psicologo dall’aspetto giovanile e dall’aria stanca, e ho desiderato sapere in che modo avessero finito con il lavorare lì, dedicandosi a quelle menti silenziose. Al pari del ragazzo che teneva il suo compagno tra le braccia, ognuno di loro aveva trovato soddisfacimento nel donare una parte di se stesso a coloro che avevano meno.

E che dire delle cose che non mi erano state mostrate?

Può darsi che torni presto alla Warren, per trascorrervi il resto della mia vita con gli altri… in attesa.


15 luglio Ho sempre rinviato una visita a mia madre. Desidero e non desidero al contempo rivederla. Non andrò da lei fino a quando non sarò certo di quel che mi accadrà.

Stiamo anzitutto a vedere come procederà il lavoro e che cosa scoprirò.

Algernon si rifiuta di percorrere ancora il labirinto; la motivazione generale è diminuita. Oggi sono passato di nuovo a dargli un’occhiata, e questa volta c’era anche Strauss. Sia lui sia Nemur avevano un’aria turbata mentre guardavano Burt costringerlo ad alimentarsi. È strano vedere il piccolo batuffolo bianco immobilizzato sul tavolo da lavoro e Burt che gli caccia il cibo in gola con un contagocce.

Se le cose continueranno in questo modo, dovranno cominciare ad alimentarlo con iniezioni. Vedendo Algernon dimenarsi sotto le minuscole cinghie, oggi nel pomeriggio, mi è sembrato di averle intorno alle braccia e alle gambe. Ho incominciato a sentirmi mancare il respiro e a soffocare e ho dovuto uscire dal laboratorio per respirare una boccata d’aria pura. Devo smetterla di identificarmi con lui.

Sono andato al bar Murray e ho bevuto qualcosa. Poi ho telefonato a Fay e abbiamo fatto il solito giro. Fay è seccata perché ho smesso di condurla a ballare e ieri sera si è adirata e mi ha piantato in asso. Non ha la più pallida idea del mio lavoro, né si interessa ad esso minimamente, e quando cerco di parlargliene non tenta affatto di nascondere la noia. Non vuole assolutamente annoiarsi, né io posso rimproverarla. A quanto ho potuto constatare, le interessano tre sole cose: il ballo, la pittura e il sesso. È sciocco da parte mia tentare di interessarla al mio lavoro. Di conseguenza va a ballare senza di me. Mi ha detto di aver sognato l’altra notte che era entrata nel mio appartamento e aveva dato fuoco a tutti i libri e gli appunti, dopodiché ci eravamo messi a ballare tra le fiamme. Devo stare attento; sta diventando possessiva. Soltanto questa sera mi sono reso conto che casa mia incomincia a somigliare al suo appartamento… uno sfacelo. Devo ridurre i liquori.


16 luglio Ieri sera Alice ha conosciuto Fay. Mi ero preoccupato di quello che sarebbe accaduto se si fossero trovate a faccia a faccia. Alice è venuta a trovarmi dopo aver saputo di Algernon da Burt; sa che cosa può voler dire e continua a sentirsi responsabile per avermi incoraggiato, all’inizio.

Abbiamo preso il caffè e conversato fino a tardi. Sapevo che Fay era andata a ballare al Polvere di Stelle, e pertanto non mi aspettavo che rientrasse cosi presto. Ma verso l’una e quarantacinque del mattino ci ha fatto trasalire l’improvvisa apparizione di Fay sulla scala antincendio. Ha bussato alla finestra, l’ha aperta a metà ed è entrata nella stanza ballando il valzer con una bottiglia in mano.

«Mi autoinvito al ricevimento», ha detto. «Ho i rinfreschi.»

Le avevo detto che Alice lavorava all’esperimento all’università, e con Alice avevo già accennato a Fay… per conseguenza l’incontro non le ha sorprese. Ma dopo essersi studiate per qualche secondo si sono messe a parlare d’arte e io, per quello che importava a loro, mi sarei potuto trovare in qualunque altra parte del mondo.

Simpatizzavano l’una con l’altra.

«Vado a prendere il caffè», ho detto, e sono andato in cucina per lasciarle sole.

Quando sono tornato, Fay si era tolta le scarpe e sedeva sul pavimento sorseggiando il gin dalla bottiglia. Stava spiegando ad Alice che, per quanto la concerneva, nulla giovava al corpo umano più dell’elioterapia e che le colonie di nudisti costituivano la soluzione dei problemi morali del mondo.

Alice rideva istericamente della proposta di Fay che ci iscrivessimo tutti e tre a una colonia di nudisti; poi si è protesa in avanti e ha accettato un bicchierino riempitole da Fay.

Abbiamo continuato a conversare fino all’alba e io ho voluto a tutti i costi accompagnare Alice a casa. Poiché lei sosteneva che non era necessario, Fay ha detto che sarebbe stata una follia aggirarsi sola per la città a quell’ora. Pertanto sono disceso e ho chiamato un tassi.

«C’è qualcosa in lei», ha detto Alice durante il tragitto fino a casa sua. «Non so di che si tratti. La sua franchezza, un’aperta fiducia, l’altruismo…»

Ho approvato.

«E ti ama», ha soggiunto Alice.

«No. Ama chiunque», ho sostenuto. «Io non sono che il suo vicino di casa.»

«Non sei innamorato di lei?»

Ho scosso la testa. «Tu sei la sola donna ch’io abbia mai amato.»

«Non parliamo di questo.»

«Allora mi privi di un argomento di conversazione molto importante.»

«C’è una sola cosa che mi preoccupa, Charlie. Il bere. Ho sentito parlare di quei tuoi mal di testa.»

«Di’ a Burt di limitare le sue osservazioni e i suoi rapporti ai dati sperimentali. Non voglio che ti avveleni contro di me. Resisto benissimo all’alcool.»

«L’ho già sentito dire altre volte.»

«Ma non da me.»

«È la sola cosa che le rimprovero», ha detto. «Ti ha insegnato a bere e sta ostacolando il tuo lavoro.»

«Anche sotto questo aspetto so badare a me stesso.»

«Questo lavoro è importante, adesso, Charlie. Non soltanto per il mondo e per milioni di sconosciuti, ma anche per te; devi risolvere il problema nel tuo stesso interesse. Non lasciarti legare le mani da nessuno.»

«Sicché adesso la verità salta fuori», mi sono burlato di lei. «Vorresti che la frequentassi meno.»

«Non è quello che ho detto.»

«È quello che intendevi dire. Se sta ostacolando il mio lavoro, sappiamo entrambi che devo escluderla dalla mia vita.»

«No, non credo che dovresti escluderla dalla tua vita. Va bene per te. Hai bisogno di una donna che abbia vissuto come lei.»

«Tu andresti bene per me.»

Ha distolto il viso. «Non nello stesso modo.» Poi si è voltata di nuovo a guardarmi. «Ero venuta da te questa sera pronta ad odiarla. Volevo vedere in lei una miserabile e stupida sgualdrina con la quale ti eri impegolato e facevo grandi progetti pensando di mettermi di mezzo e di salvarti da lei contro la tua volontà. Ma ora che l’ho conosciuta, mi rendo conto di non avere alcun diritto di giudicare il suo comportamento. Penso che ti giovi. Di conseguenza questo mi smonta completamente. Fay mi piace, anche se la disapprovo. Ma, nonostante ciò, se devi ubriacarti con lei e passare tutto il tuo tempo insieme a lei nei club notturni a ballare, allora ti ostacola. Questa però è una difficoltà che soltanto tu puoi eliminare».

«Un’altra?» ho riso.

«Ma sei in grado di riuscirci? Sei molto legato a lei, lo capisco.»

«Non poi tanto.»

«Le hai detto di te?»

«No.»

Impercettibilmente la vedevo rilassarsi. Mantenendo il segreto per quanto mi concerneva, in qualche modo non mi ero legato a Fay completamente. Sapevamo entrambi che, per quanto fosse meravigliosa, Fay non avrebbe mai capito.

«Avevo bisogno di lei», ho detto, «e in un certo senso lei aveva bisogno di me, ed essendo vicini di casa, be’, eravamo a portata di mano, ecco tutto. Ma non direi che si tratta d’amore… non è la stessa cosa che esiste tra noi».

Alice ha abbassato gli occhi guardandosi le mani e si è accigliata. «Non sono sicura di sapere che cosa esiste tra noi.»

«Qualcosa di così profondo e importante che Charlie, dentro di me, è atterrito ogni volta, quando si profila la possibilità ch’io faccia all’amore con te.»

«E con lei no?»

Ho alzato le spalle. «Ecco perché so che con lei non è importante. Non ha un’importanza così grande da far sì che Charlie venga preso dal panico.»

«Magnifico!» ha riso. «E ironico quanto mai. Quando parli di lui in questo modo, lo odio per essersi interposto tra noi. Credi che ti permetterà mai… che ci permetterà…»

«Non lo so. Lo spero.»

L’ho lasciata sulla porta. Ci siamo scambiati una stretta di mano, eppure, strano a dirsi, è stata una cosa più segreta e più intima di un abbraccio.

Sono tornato a casa e ho fatto all’amore con Fay. ma seguitando a pensare ad Alice.


27 luglio Sto lavorando ventiquattr’ore su ventiquattro. Nonostante le proteste di Fay, ho fatto portare una brandina in laboratorio. Fay è diventata troppo possessiva e odia il mio lavoro. Credo che potrebbe tollerare un’altra donna, ma non una dedizione così completa a qualcosa che non riesce a capire. Temevo che saremmo arrivati a questo, ma non ho più pazienza con lei, ormai. Sono geloso di ogni momento trascorso lontano dal lavoro… impaziente con chiunque cerchi di rubarmi tempo.

Sebbene quando scrivo mi limiti quasi esclusivamente ad appunti che conservo in una cartella a parte, di quando in quando sono costretto ad accennare ai miei stati d’animo e ai miei pensieri, per la pura forza dell’abitudine.

Il calcolo dell’intelligenza è uno studio affascinante. In un certo senso è questo il problema al quale mi sono interessato per tutta la vita. È questo il settore al quale possono essere applicate tutte le conoscenze da me acquisite.

Il tempo assume ora un’altra dimensione… è lavoro e assorbimento nella ricerca di una soluzione. Il mondo intorno a me e il mio passato appaiono remoti e deformati, come se il tempo e lo spazio fossero pasta per caramelle stiracchiata e annodata e contorta. Le sole cose reali sono le gabbie e i topi e l’attrezzatura del laboratorio, qui al quarto piano dell’edificio principale. Non esistono né la notte né il giorno. Devo comprimere un’intera vita di ricerche in poche settimane. So che dovrei riposare, ma non posso fino a quando non avrò saputo la verità su quanto sta accadendo.

Alice mi è adesso di grande aiuto. Mi porta panini imbottiti e caffè, ma non chiede nulla.

A proposito della mia percezione: tutto è netto e chiaro, ogni sensazione acuita e illuminata per cui i rossi, i gialli e i blu splendono. Dormire qui mi fa uno strano effetto. Gli odori degli animali da laboratorio, cani, scimmie, topi, mi riportano indietro alle mie reminiscenze, ed è difficile stabilire se sto sperimentando nuove sensazioni o rievocando il passato. Non è possibile stabilire che cosa sia ricordo e che cosa esista nel presente… per cui viene a formarsi uno strano miscuglio di memoria e di realtà; passato e presente; reazione a stimoli accumulati nei miei centri cerebrali e reazione a stimoli esistenti in questa stanza. È come se tutte le cose che ho imparato si fossero fuse in un universo di cristallo che ruota dinanzi a me, per cui posso vederne tutte le sfaccettature riflesse in radiosi sprazzi di luce…


Una scimmia seduta al centro della sua gabbia mi sta fissando con occhi sonnacchiosi e si strofina le guance con mani rattrappite da vecchietto… cii… ciii… ciii… poi si stacca con un balzo dalla rete metallica della gabbia e va a posarsi sull’altalena in alto, dove altre scimmie se ne stanno appollaiate fissando ottuse il vuoto. Urinano, defecano, fanno aria, mi fissano è ridono… ciiii… ciiiii… ciiiii…

E saltellano qua e là, spiccano balzi, capriolano, si dondolano e cercano di ghermire la coda delle altre, ma quella sulla sbarra seguita a spostarla senza fare storie, fuori di portata. Bella scimmia… scimmia graziosa… con grandi occhi e la coda guizzante. Posso darle una nocciolina?… No, il sorvegliante si metterebbe a urlare. Quel cartello dice che è vietato dar da mangiare agli animali. Questo è uno scimpanzé. Posso accarezzarlo? No. Voglio accarezzare lo scimpanzé. Lascia stare, vieni a vedere gli elefanti.

Fuori, la folla di gente illuminata dal sole è vestita come la primavera.

Algernon giace nei suoi escrementi, senza muoversi, e i fetori sono più forti che mai. Che cosa sarà di me?


28 luglio Fay ha un nuovo amico. Sono tornato a casa ieri sera per stare con lei. Volevo prima entrare nel mio appartamento a prendere una bottiglia e poi passare dalla scala antincendio. Per fortuna ho guardato prima di farmi avanti. Erano insieme sul divano. Strano, in realtà me ne infischio. È quasi un sollievo.

Sono tornato in laboratorio a lavorare con Algernon. Vi sono momenti in cui esce dal letargo. Periodicamente, percorre un labirinto mobile, ma quando sbaglia e viene a trovarsi in un vicolo cieco reagisce con violenza. Non appena arrivato in laboratorio ho guardato dentro la gabbia. Era vispo e mi si è avvicinato come se mi avesse riconosciuto. Sembrava smanioso di lavorare e quando l’ho fatto passare per la porticina tra le reti metalliche del labirinto, ha percorso rapidamente i passaggi fino alla cassetta delle ricompense. Per due volte ha percorso il labirinto senza commettere errori. La terza volta è arrivato a metà, si è fermato a una intersezione e poi, con un movimento guizzante, ha imboccato la svolta sbagliata. Immaginavo quel che sarebbe accaduto e avrei voluto chinarmi a prenderlo prima che finisse in un vicolo cieco. Ma mi sono dominato, continuando a guardare.

Quando è venuto a trovarsi in un percorso sconosciuto, ha rallentato e i suoi movimenti sono diventati caotici: partenza, sosta, inversione di marcia, giro su se stesso, poi di nuovo avanti, finché in ultimo è venuto a trovarsi in un cul-de-sac il quale, con una lieve scossa, lo ha informato che aveva commesso un errore.

A questo punto, invece di tornare indietro per trovare una via diversa, ha incominciato a muoversi in circolo, squittendo come una puntina di fonografo che raschi trasversalmente ai solchi. Si è gettato contro le pareti del labirinto più e più volte, balzando in alto, contorcendosi all’indietro, ricadendo e ricominciando. Per due volte le unghie gli sono rimaste impigliate nella rete metallica in alto, ha squittito selvaggiamente, poi si è liberato e ha tentato ancora, senza speranza. Infine si è fermato e si è raggomitolato formando una piccola palla tesa.

Quando l’ho preso in mano non ha tentato affatto di muoversi ma è rimasto in quello stato assai simile a un torpore catatonico. Quando gli muovevo la testa o le zampe, rimanevano nella nuova posizione simili a cera. L’ho rimesso nella gabbia e sono rimasto a osservarlo finché il torpore non è passato e ha ricominciato a muoversi normalmente qua e là.

A eludermi è la ragione del suo regresso… si tratta di un caso speciale? Di una reazione isolata? O esiste una causa fondamentale di insuccesso nell’intera procedura? Devo scoprirlo.

Se riuscirò ad accertarlo, e se ciò aggiungerà anche soltanto una briciola di nuove nozioni a tutto ciò che è già stato scoperto sul ritardo mentale e sulla possibilità di aiutare altri individui come me, mi riterrò soddisfatto. Qualsiasi cosa possa accadermi, avrò vissuto un migliaio di esistenze normali con ciò che potrò dare agli altri non ancor nati.

E questo mi basterà.


31 luglio Sono sull’orlo della scoperta. Lo sento. Pensano tutti che continuando con questo ritmo finirò con l’uccidermi, ma non capiscono ch’io sto vivendo a un culmine di chiarezza e di bellezza delle quali non avevo mai immaginato l’esistenza. Ogni parte di me è accordata con il lavoro. Lo assorbo attraverso i pori di giorno e durante la notte, nei momenti che precedono il sonno, idee esplodono nella mia mente come fuochi d’artificio. Non esiste felicità più grande della soluzione di un problema che si presenta inaspettatamente.

È incredibile che qualcosa possa accadere e sottrarmi questa energia ribollente, l’entusiasmo da cui è saturato tutto ciò che faccio. È come se tutte le conoscenze delle quali mi sono imbevuto negli scorsi mesi si fossero fuse, innalzandomi a un diapason di luce e di comprensione. Questo è bellezza, amore e verità, tutto insieme. Questa è felicità. E ora che l’ho trovata, come posso rinunciarvi? La vita e il lavoro sono le cose più meravigliose che un uomo possa avere. Sono innamorato di quello che sto facendo, perché la soluzione del problema è proprio qui nella mia mente e presto, molto presto, esploderà nella consapevolezza. Che mi sia consentito di risolvere quest’unico problema. Prego Dio ch’io possa trovare la soluzione che desidero, ma se non sarà tale, accetterò tutto e sarò grato di quel che avrò avuto.

Il nuovo amico di Fay è un maestro di ballo del locale Polvere di Stelle. Non posso certo rimproverarla, dato che ho così poco tempo da dedicarle.


11 agosto Vicolo cieco negli ultimi due giorni. Nulla. In qualche punto devo avere imboccato la svolta sbagliata, perché trovo la risposta a molti interrogativi ma non all’interrogativo più importante d’ogni altro: in qual modo la regressione di Algernon influenza l’ipotesi fondamentale dell’esperimento?

Per fortuna conosco abbastanza i processi mentali per non lasciarmi preoccupare eccessivamente da questo ostacolo. Invece di essere preso dal panico e di rinunciare (o, quel che è peggio, di insistere per trovare risposte che non si presentano), devo distogliere per qualche tempo la mente dal problema e lasciarlo cuocere nel proprio brodo. Sono arrivato sin dove mi era possibile sul livello conscio, e ora è il turno di quei processi misteriosi al di sotto del livello della consapevolezza. Si tratta di una di quelle cose inesplicabili, in qual modo tutto ciò che ho appreso e sperimentato debba essere applicato al problema. Insistere troppo non farà che irrigidire la situazione. Quanti grandi problemi non sono stati risolti perché gli uomini non sapevano abbastanza o non avevano una fede sufficiente nel processo creativo e in se stessi, una fede così grande da consentire all’intera mente di applicarsi alla difficoltà?

Pertanto, ieri nel pomeriggio ho deciso di interrompere per qualche tempo il lavoro e di andare al cocktail party della signora Nemur. Veniva offerto in onore dei due uomini del consiglio d’amministrazione della Fondazione Welberg il cui intervento era stato decisivo nel fare ottenere i fondi a suo marito. Avevo pensato di condurre con me Fay, ma lei ha detto che si era impegnata con un altro e preferiva andare a ballare.

Ho incominciato la serata con tutte le buone intenzionì di essere cordiale e di farmi degli amici. Ma in questi giorni incontro difficoltà nell’accostarmi alla gente. Non so se per colpa mia o loro; fatto sta che ogni tentativo di conversazione fallisce di solito in uno o due minuti e le barriere si innalzano. Forse perché hanno paura di me? O forse perché, in cuor loro, se ne infischiano, e io mi infischio di loro?

Ho bevuto qualcosa e mi sono aggirato nella vasta sala. V’erano gruppetti di persone sedute e intente a conversare, conversazioni di quelle alle quali trovo impossibile prendere parte. Infine la signora Nemur mi ha bloccato e mi ha presentato a Hyram Harvey, uno dei consiglieri d’amministrazione. La signora Nemur è una donna piacente, sulla quarantina, con i capelli biondi, molto trucco e lunghe unghie rosse. Teneva Harvey sotto braccio. «Come stanno andando le ricerche?» ha voluto sapere.

«Bene quanto ci si poteva aspettare. Sto cercando di risolvere un problema difficile, in questo momento.»

Ha acceso una sigaretta, sorridendomi. «So che tutti coloro i quali prendono parte all’esperimento le sono grati per aver deciso di intervenire e aiutarli. Ma immagino che lei preferirebbe lavorare a qualcosa di suo. Dev’essere alquanto tedioso occuparsi del lavoro di un altro invece di qualcosa concepito e creato da noi stessi.»

Era tagliente, e come. Non voleva consentire a Hyram Harvey di dimenticare che il merito sarebbe spettato a suo marito. Non ho saputo resistere alla tentazione di ribattere. «Nessuno crea mai qualcosa di realmente nuovo, signora Nemur. Tutti edificano sugli insuccessi altrui. In realtà, nella scienza non vi è nulla di originale. Quello che conta è il contributo di ogni uomo alla somma delle conoscenze.»

«Naturale», ha detto lei, rivolgendosi più che a me al suo anziano ospite. «È un peccato che il signor Gordon non sia stato qui prima per contribuire a risolvere questi ultimi piccoli problemi.» Ha riso. «Ma d’altro canto… oh, me ne dimenticavo, lei non era in grado di compiere esperimenti psicologici.»

Harvey ha riso a sua volta, e io mi son detto che avrei fatto meglio a tacere. Bertha Nemur non mi avrebbe mai lasciato l’ultima parola, e se la cosa fosse andata oltre avrebbe potuto finir male.

Ho veduto il dottor Strauss e Burt conversare con l’altro rappresentante della Fondazione Welberg… George Raynor. Strauss stava dicendo: «La difficoltà, signor Raynor, è quella di reperire fondi sufficienti per lavorare a ricerche del genere, senza che il denaro sia legato a condizioni. Quando i fondi sono destinati a scopi specifici, non abbiamo una vera libertà d’azione».

Raynor ha scosso la testa e agitato il grosso sigaro nella direzione del gruppetto che lo circondava. «La vera difficoltà consiste nel persuadere il consiglio d’amministrazione che questo genere di ricerche ha un valore pratico.»

Strauss ha crollato il capo. «Intendevo dire che questo denaro è destinato a ricerche. Nessuno può mai sapere in anticipo se un esperimento darà luogo a qualcosa di utile. Spesso i risultati sono negativi. Apprendiamo che cosa non è qualcosa… e ciò è importante quanto una scoperta positiva per chi partirà da lì. Per lo meno egli saprà che cosa non deve fare.»

Mentre mi avvicinavo al gruppo ho notato la moglie di Raynor, alla quale ero già stato presentato. È una bella donna bruna, sulla trentina. Mi stava fissando, o meglio fissava il cocuzzolo della mia testa… come se si fosse aspettata che ne spuntasse qualcosa. Ho ricambiato lo sguardo e lei si è innervosita e si è rivolta di nuovo al dottor Strauss. «Ma per quanto concerne l’esperimento attuale? Prevede di potersi avvalere di queste tecniche con altri ritardati mentali? È una scoperta che il mondo potrà utilizzare?»

Strauss si è stretto nelle spalle e ha accennato a me con la testa. «È ancora troppo presto per dirlo. Suo marito ci ha aiutato a mettere Charlie al lavoro sull’esperimento, e molto dipende da ciò ch’egli scoprirà.»

«Naturalmente», ha osservato la signora Raynor, «ci rendiamo conto tutti quanti della necessità della ricerca pura in campi come il suo. Ma sarebbe una gran cosa se si potesse trovare un metodo davvero efficace per arrivare a risultati definitivi fuori del laboratorio, se si potesse dimostrare al mondo che si sono ottenuti vantaggi tangibili».

Ho fatto per parlare, ma Strauss, che doveva aver intuito quanto stavo per dire, si è alzato e mi ha messo un braccio sulle spalle. «Tutti noi della Beekman siamo persuasi che il lavoro cui si sta dedicando Charlie rivesta la massima importanza. Il suo compito è ora quello di accertare la verità, ovunque essa possa condurre. Alle vostre fondazioni lasciamo il compito di orientare il pubblico, di educare la società.»

Ha sorriso ai Raynor e mi ha condotto lontano da loro.

«Questo», ho osservato, «non è tutto ciò che stavo per dire».

«L’ho immaginato», ha bisbigliato lui, tenendomi per il gomito. «Però ho potuto arguire dal bagliore dei tuoi occhi che ti stavi accingendo a farli a pezzi. E questo non potevo permetterlo, ti pare?»

«Suppongo di no», ho riconosciuto, prendendo un altro martini.

«È prudente che tu beva tanto?»

«No, ma sto cercando di distendermi i nervi e a quanto pare sono venuto nel posto meno adatto.»

«Be’, non te la prendere e non metterti nei pasticci questa sera. Quelle persone non sono sciocche. Sanno quello che pensi di loro, e anche se tu non ne hai bisogno, a noi sono necessarie.»

L’ho salutato con la mano. «Ci proverò, ma farebbe bene a tenere la signora Raynor lontana da me. La strozzo se viene di nuovo ad ancheggiarmi davanti.»

«Ssst!» ha sibilato lui. «Potrebbe sentirti.»

«Ssst!» gli ho fatto eco. «Mi scusi. Me ne starò seduto qui in un angolo e mi terrò alla larga da tutti.»

La bruma mi stava sommergendo, ma attraverso ad essa continuavo a vedere persone fissarmi con insistenza. Stavo borbottando tra me e me, suppongo… in modo troppo udibile. Non ricordo che cosa dicevo. Poco tempo dopo ho avuto la sensazione che la gente se ne stesse andando insolitamente presto, ma non ho badato molto alla cosa fino a quando Nemur non si è avvicinato, mettendosi davanti a me.

«Chi diavolo credi di essere, per comportarti in questo modo? Non ho mai visto una villania così insopportabile in vita mia.»

A fatica mi sono alzato in piedi.

«Ehi, per quale ragione dice una cosa simile?»

Strauss ha cercato di trattenerlo ma lui, ansimando e soffiando, ha continuato: «Lo dico perché non hai alcuna gratitudine e non ti rendi conto della situazione. In fin dei conti hai un debito di riconoscenza con queste persone, se non con noi… sotto più di un aspetto».

«Da quando in qua una cavia dovrebbe essere riconoscente?» ho urlato. «Sono stato utile ai suoi scopi e ora sto cercando di rimediare ai suoi errori, e dunque come diavolo posso essere indebitato con qualcuno?»

Strauss ha incominciato a farsi avanti per separarci, ma Nemur lo ha fermato. «Un momento solo. Voglio sapere che cos’ha da dire. Credo che sia giunto il momento di accertare la verità.»

«Ha bevuto troppo», gli ha fatto osservare sua moglie.

«Non fino a questo punto», ha sbuffato Nemur. «Si sta esprimendo con molta chiarezza. Ho sopportato molto da lui. Ha posto in pericolo, se non effettivamente distrutto, il nostro lavoro, e ora voglio sentirgli dire quale sarebbe la sua giustificazione.»

«Oh, lasci perdere», ho detto. «Lei non vuole sapere realmente la verità.»

«Sì, invece, Charlie. O per lo meno la tua versione della verità. Voglio sapere se provi un po’ di gratitudine per tutto quello che è stato fatto nel tuo interesse… le tue nuove capacità, le cose che hai imparato, le esperienze che hai fatto. Oppure pensi per caso che stavi meglio prima?»

«Sotto certi aspetti, sì.»

Questo li ha scandalizzati.

«Ho imparato mólte cose in questi ultimi mesi», ho detto. «Non soltanto su Charlie Gordon, ma sulla vita e sulla gente, e ho scoperto che in realtà nessuno si cura di Charlie, sia egli un deficiente o un genio. Dunque, che differenza fa?»

«Oh», ha riso Nemur, «il tuo è autocompatimento. Che cosa ti aspettavi? Questo esperimento si proponeva di elevare la tua intelligenza, non di fare di te un beniamino. Non dipendeva da noi quello che sarebbe accaduto alla tua personalità, e dal giovane debole di mente ma simpatico che eri, ti sei trasformato in un bastardo arrogante, egocentrico e asociale».

«La verità è un’altra, egregio professore: lei voleva qualcuno che potesse essere reso intelligente, ma tenuto ugualmente in gabbia ed esibito ogni volta che fosse stato necessario per mietere gli onori cui ambisce. Il guaio è che io sono un essere umano.»

Era furente e ho capito che non sapeva se por termine al litigio o cercare ancora una volta di sconfiggermi. «Sei ingiusto, come sempre. Sai che ti abbiamo sempre trattato bene… che abbiamo fatto tutto il possibile per te.»

«Tutto, tranne che trattarmi come un essere umano. Lei ha proclamato, ripetutamente, che non ero niente prima dell’esperimento, e io so perché. Perché. se non ero niente, allora il merito di avermi creato spettava a lei, e questo faceva di lei il mio signore e padrone. La esaspera il fatto che io non dimostri ogni giorno e ogni momento la mia gratitudine. Ebbene, lo creda o no, le sono grato. Ma quello che ha fatto per me, sebbene meraviglioso, non le dà il diritto di trattarmi come un animale da esperimenti. Sono un individuo, adesso, e lo era anche Charlie prima di entrare in quel laboratorio. Sembra esterrefatto! Già, a un tratto scopriamo ch’io sono sempre stato una creatura umana, anche prima, e ciò mina il suo convincimento che chiunque abbia un quoziente di intelligenza inferiore a 100 non meriti alcuna considerazione. Professor Nemur, io credo che quando lei mi guarda si senta rimordere la coscienza.»

«Ho ascoltato abbastanza», è esploso lui. «Sei ubriaco.»

«Ah, no», gli ho assicurato. «Perché, se mi ubriacassi, lei vedrebbe un Charlie Gordon diverso da quello che ha finito con il conoscere. Sì, l’altro Charlie che procedeva nelle tenebre è ancora qui con noi. Dentro di me.»

«Gli ha dato di volta il cervello», ha detto la signora Nemur. «Parla come se esistessero due Charlie Gordon. Farebbe bene a visitarlo, dottore.»

Il dottor Strauss ha crollato il capo. «No. So quello che intende dire. La cosa è affiorata di recente durante le sedute psicanalitiche. Da un mese a questa parte, circa, vi è stata una singolare dissociazione. In numerose circostanze egli ha percepito se stesso com’era prima dell’esperimento, come un sìngolo e distinto individuo ancora esistente nella sua coscienza, quasi che il Charlie di un tempo stesse lottando per riacquistare il dominio fisico…»

«No! Non ho mai detto questo! Non sta lottando per riconquistare il dominio fisico. Charlie è presente, senz’altro, ma non lotta con me. Si limita ad aspettare. Non ha mai cercato di affermarsi, né ha mai tentato d’impedirmi di fare qualcosa ch’io volessi.» Poi, ricordandomi di Alice, ho rettificato: «Be’, quasi mai. L’umile e modesto Charlie del quale parlavate tutti quanti un momento fa, si limita ad aspettare con pazienza. Ammetto ch’egli mi piace sotto un certo numero di aspetti, ma l’umiltà e la modestia non sono tra essi. Ho imparato quanto poco possono procurare a una persona in questo mondo».

«Sei diventato cinico», ha detto Nemur. «L’occasione che ti è stata offerta non ha significato altro pef te. Il tuo genio ha distrutto la fiducia che avevi nel mondo e nei tuoi simili.»

«Questo non è completamente vero», ho risposto con soavità. «Ma ho imparato che la sola intelligenza non significa un corno di niente. Qui, nella sua università, l’intelligenza, la cultura, la conoscenza, sono diventate tutte grandi idoli. Ma io so adesso che voi tutti avete trascurato una cosa: l’intelligenza e l’educazione che non siano temperate dall’affetto umano non valgono nulla.»

Ho preso un altro martini sulla vicina credenza e ho continuato la predica.

«Non mi fraintenda», ho detto. «L’intelligenza è uno dei più grandi doni umani. Ma la ricerca della conoscenza esclude anche troppo spesso la ricerca dell’amore. Questa è un’altra cosa che ho scoperto per mio conto molto di recente. Gliela offro come un’ipotesi: l’intelligenza, senza la capacità di dare e di ricevere affetto, porta a un tracollo mentale e morale, alla nevrosi e forse anche alla psicosi. E io dico che la mente assorta e chiusa in se stessa come un fine centrato nell’io, a esclusione dei rapporti umani, può condurre soltanto alla violenza e al dolore… Quando ero mentalmente ritardato avevo molti amici. Ora non ne ho alcuno. Oh, conosco un mucchio di gente. Innumerevoli persone. Ma non ho alcun vero amico. Non come ne avevo alla panetteria. Non un amico al mondo che abbia qualche importanza per me, e nessuno per il quale io rivesta qualche importanza.» Ho scoperto che stavo incominciando a pronunziare male le parole e che mi girava la testa. «Questo non può essere giusto, le pare?» ho insistito. «Voglio dire, lei che cosa ne pensa? Crede che… sia giusto?»

Strauss si è avvicinato e mi ha preso per un braccio.

«Charlie, forse faresti bene a coricarti per un po’. Hai bevuto troppo.»

«Perché mi guardate tutti quanti in quel modo? Che cosa ho detto di male? Ho fatto qualcosa di male? Non volevo dir niente che non fosse giusto.»

Ho sentito le parole impastarmisi nella bocca, come se mi avessero iniettato novocaina nella faccia. Ero ubriaco… completamente andato. In quel momento, quasi come se fosse scattato un interruttore, stavo osservando la scena dalla porta della sala da pranzo, e ho potuto vedere me stesso come l’altro Charlie… lì, vicino alla credenza, con il bicchiere in mano, gli occhi sbarrati e spaventati.

«Cerco sempre di fare quello che è giusto. Mia madre mi ha sempre insegnato a essere gentile con la gente perché in questo modo, diceva, non ci si mette nei guai e si hanno sempre molti amici.»

Ho capito, dai suoi movimenti a scatto e dai suoi contorcimenti, che doveva andare in bagno. Oh, Dio mio, non lì davanti a loro. «Mi scusino, prego», ho detto, «devo andare…» In qualche modo, in quel torpore ebbro, sono riuscito ad allontanarlo da loro e a guidarlo verso il bagno.

È arrivato in tempo, e dopo qualche secondo ero nuovamente in me. Ho appoggiato la gota alla parete e poi mi sono lavato la faccia con acqua fredda. Ero ancora stordito, ma sapevo che mi sarei sentito meglio.

In quel momento ho veduto Charlie guardarmi dallo specchio dietro il lavabo. Non so come ho saputo che si trattava di Charlie e non di me. Un non so che nell’espressione ottusa, interrogativa della sua faccia. Gli occhi di lui erano sbarrati e spaventati, come se a una mia parola avesse potuto voltarsi e fuggire lontano nella dimensione del mondo rispecchiato. Ma non è fuggito. Si è limitato a fissarmi, a bocca aperta, con la mascella ciondolante.

«Ciao», ho detto, «sicché ti trovi finalmente a faccia a faccia con me».

Si è accigliato appena un poco, come se non avesse capito quello che volevo dire, come se avesse voluto una spiegazione ma non sapesse come chiederla. Poi. rinunciando, ha sorriso di sbieco con un angolo della bocca.

«Resta qui davanti a me», ho urlato. «Sono stufo marcio di essere spiato dalle soglie e dai luoghi bui dove non posso raggiungerti.»

Continuava a fissarmi.

«Chi sei tu, Charlie?»

Null’altro che il sorriso.

Ho annuito e lui ha risposto annuendo.

«Allora che cosa vuoi?» ho domandato.

Si è stretto nelle spalle.

«Oh, andiamo», ho detto, «devi pur volere qualcosa. Mi hai seguito…»

Ha abbassato gli occhi e io mi sono sbirciato le mani per vedere che cosa stesse guardando. «Le rivuoi, non è vero?»

«Vuoi che me ne vada di qui per poter tornare a ricominciare dove eri rimasto. Non posso rimproverarti. Si tratta del tuo corpo e del tuo cervello… e della tua vita, anche se tu non sei mai riuscito a farne un grande uso. Non ho il diritto di togliertela. Nessuno lo ha. Chi può dire che la mia luce sia migliore della tua tenebra? Chi può dire se la morte è migliore della tua tenebra? E chi sono io per dirlo…? Ma posso dirti qualcos’altro, Charlie.» Mi sono raddrizzato, indietreggiando dallo specchio. «Non ti sono amico. Ti sono nemico. Non rinuncerò alla mia intelligenza senza lottare. Non posso tornare in quella caverna. Non c’è alcun luogo in cui io possa andare adesso, Charlie. Quindi devi star lontano. Rimani nel mio subcosciente al quale appartieni e finiscila di seguirmi. Non mi arrenderò… qualunque cosa possano pensare tutti quanti. Per quanto questo significhi rimaner solo. Terrò quello che mi hanno dato e farò grandi cose per il mondo e per gli altri esseri come te.»

Mentre mi voltavo verso la porta, ho avuto l’impressione che tendesse la mano verso di me. Ma tutta questa dannata cosa era una sciocchezza. Avevo soltanto bevuto troppo e quel che vedevo era la mia immagine riflessa nello specchio.

Quando sono uscito, Strauss voleva mettermi in un tassi, ma ho insistito nel dire che potevo benissimo arrivare a casa per mio conto. Mi occorreva soltanto un po’ d’aria fresca e non volevo essere accompagnato da nessuno.

Volevo andare solo.

Stavo vedendo me stesso come realmente ero diventato: Nemur lo aveva detto. Un bastardo arrogante ed egocentrico. A differenza di Charlie, ero incapace di farmi degli amici o di pensare agli altri e alle loro difficoltà. Ero interessato a me stesso e soltanto a me stesso. Per un lungo momento mi ero veduto in quello specchio attraverso gli occhi di Charlie… mi ero contemplato, e avevo constatato che cos’ero divenuto in realtà. E mi vergognavo.

Ore dopo, mi sono trovato davanti a casa mia, sono salito di sopra e ho percorso il corridoio fiocamente illuminato. Passando davanti all’appartamento di Fay ho visto che la luce era accesa e mi sono diretto da quella parte. Ma proprio mentre stavo per bussare l’ho udita ridacchiare e mi è giunta la risata di risposta di un uomo.

Era troppo tardi.

Sono entrato silenziosamente nel mio appartamento e sono rimasto per qualche tempo al buio, senza avere il coraggio di muovermi, senza avere il coraggio di accendere la luce. Sono semplicemente rimasto immobile e ho sentito il vortice negli occhi.

Che cosa mi è accaduto? Perché sono così solo al mondo?


4,30 antimeridiane La soluzione mi si è presentata proprio mentre stavo appisolandomi. Si è fatta luce in me! Tutto concorda e ora vedo quel che avrei dovuto sapere sin dall’inizio. Non più sonno. Devo tornare al laboratorio e paragonare quanto ho scoperto con i risultati della calcolatrice. Questa, finalmente, è la falla nell’esperimento. L’ho scoperta.

Che cosa sarà adesso di me?


26 agosto LETTERA AL PROFESSOR NEMUR [COPIA]


Caro professor Nemur,

in plico a parte le spedisco una copia del mio rapporto intitolato «L’effetto Algernon-Gordon: studio della struttura e della funzione dell’accresciuta intelligenza», che potrà essere pubblicato se lei lo riterrà opportuno.

Come sa, i miei esperimenti si sono conclusi. Ho compreso nel rapporto tutte le mie formule, nonché le analisi matematiche dei dati nell’appendice. Naturalmente queste ultime dovrebbero essere controllate.

I risultati sono chiari. Gli aspetti più sensazionali della mia rapida ascesa non possono oscurare i fatti. La tecnica basata sulla chirurgia e le iniezioni, creata da lei e dal dottor Strauss, deve essere considerata di scarso o nessun valore pratico, attualmente, ai fini dell’accrescimento dell’intelligenza umana.

Passiamo in rassegna i dati concernenti Algernon: sebbene il topo sia ancora fisicamente giovane, è regredito mentalmente. L’attività motoria è menomata; si ha una riduzione generale delle funzioni glandolari; una perdita accelerata di coordinazione; e spiccati indizi di amnesia progressiva.

Come dimostro nel mio rapporto, queste e altre sindromi di deterioramento fisico e mentale possono essere previste con risultati statisticamente significativi mediante l’applicazione della mia nuova formula. Sebbene lo stimolo chirurgico al quale siamo stati assoggettati entrambi abbia dato luogo a una intensificazione e a un’accelerazione di tutti i processi mentali, l’inconveniente, ch’io mi sono permesso di chiamare «effetto Algernon-Gordon», è la logica durata dell’intera accelerazione dell’intelligenza. Le ipotesi qui dimostrate possono essere riassunte con estrema semplicità nei seguenti termini:

L’INTELLIGENZA INDOTTA ARTIFICIALMENTE SI DETERIORA CON UNA RAPIDITÀ DIRETTAMENTE PROPORZIONALE ALLA QUANTITÀ DELL’ACCRESCIMENTO.

Fino a quando sarò in grado di scrivere, continuerò a esporre i miei pensieri e le mie idee in questi rapporti sui progressi. È uno dei miei pochi piaceri solitari ed è senz’altro necessario al completamento di questa ricerca.

Tuttavia, stando a tutti gli indizi, il mio deterioramento mentale sarà rapidissimo.

Ho controllato e ricontrollato i dati una dozzina di volte nella speranza di trovare un errore, ma mi spiace dire che i risultati restano validi. Eppure sono lieto del poco che qui aggiungo alla conoscenza del funzionamento della mente umana e delle leggi che governano l’accrescimento artificiale dell’intelligenza umana.

L’altra sera il dottor Strauss diceva che un insuccesso sperimentale, la confutazione di una teoria, sono importanti per il progredire della scienza quanto lo sarebbe un successo. Ora so che questo è vero. Mi spiace, tuttavia, che il mio contributo in questo settore debba poggiare sulle ceneri dell’opera di lei e dei suoi collaboratori, e in particolare di coloro che tanto hanno fatto per me.

Suo, sinceramente

CHARLES GORDON

Allegato: 1 rapporto

copie: per il dottor Strauss

per la fondazione Welberg


1 settembre Non devo lasciarmi prendere dal panico. Presto vi saranno sintomi di instabilità emotiva e di amnesia, i primi indizi del disfacimento. Saprò riconoscerli in me stesso? La sola cosa ch’io possa fare adesso è continuare a tener nota delle mie condizioni mentali il più obiettivamente possibile, ricordando che questo diario psicologico sarà il primo del genere, e probabilmente anche l’ultimo.

Stamane Nemur ha fatto portare da Burt il mio rapporto e i dati statistici all’università Hallston, affinché alcuni degli specialisti più eminenti verifichino i risultati che ho ottenuto e l’applicazione delle mie formule. Per tutta la scorsa settimana Burt ha riveduto i miei esperimenti e i diagrammi metodologici. In realtà non dovrei adontarmi per le loro precauzioni.

In fin dei conti non sono che Charlie, l’ultimo venuto, e a Nemur riesce difficile convincersi che il mio lavoro potrebbe essere superiore al suo. Aveva finito con il credere nel mito della sua autorità, e in fin dei conti io sono un estraneo.

A dire il vero non m’importa più nulla di quello che pensa né di quello che pensano tutti gli altri, del resto. Non ne ho il tempo. Il lavoro è svolto, i dati sono stati raccolti e ormai non rimane altro che accertare se mi sono servito senza errori della curva dei dati di Algernon per prevedere quel che accadrà a me. Alice ha pianto quando le ho comunicato la notizia. Poi è corsa fuori. Devo farle capire che non ha motivo di ritenersi responsabile.


2 settembre Ancora nulla di preciso. Mi muovo in un silenzio di chiara luce bianca. Tutto, intorno a me, è in attesa. Sogno di essere solo sulla vetta di una montagna, contemplando il paesaggio intorno a me, verdi e gialli… e il sole a perpendicolo comprime la mia ombra in una sfera compatta intorno alle mie gambe. Mentre il sole si abbassa nel cielo del pomeriggio, l’ombra si srotola e si estende verso l’orizzonte, lunga e sottile, e molto lontana dietro a me…

Voglio ripetere quel che ho già detto al dottor Strauss. Nessuno ha colpa, in alcun modo, di quanto è accaduto. Questo esperimento è stato preparato con cura, messo abbondantemente alla prova con animali e convalidato statisticamente. Quando decisero di scegliere me come primo soggetto umano, erano ragionevolmente sicuri che la cosa non implicasse alcun pericolo fisico. Non esisteva la possibilità di prevedere i trabocchetti psicologici. Voglio che nessuno soffra a causa di quanto mi sta accadendo.

L’interrogativo ormai è uno solo: per quanto tempo ancora potrò resistere?


15 settembre Nemur dice che i risultati da me ottenuti sono stati confermati. Questo significa che l’errore è determinante e mette in dubbio l’intera ipotesi. Un giorno forse si troverà il modo di sormontare la difficoltà, ma il momento non è ancora maturo. Ho raccomandato di non compiere ulteriori esperimenti con èsseri umani fino a quando tutto ciò non sarà stato chiarito con altre ricerche sugli animali.

Sento che per avere maggiori probabilità di successo le ricerche dovranno essere orientate verso lo studio degli squilibri degli enzimi. Come in tanti altri campi, il fattore chiave è il tempo: rapidità nell’individuare la carenza e fulmineità nel somministrare i sostituti degli ormoni. Vorrei rendermi utile in questo settore delle ricerche e nella ricerca di radioisotopi utilizzabili per il controllo corticale locale, ma so che me ne mancherà il tempo.


17 settembre Sto diventando distratto. Ripongo oggetti nei cassetti della mia scrivania o dei tavoli del laboratorio e quando non riesco a trovarli perdo la pazienza e me la prendo con tutti. Si tratta dei primi sintomi?

Algernon è morto due giorni fa. L’ho trovato alle quattro e mezzo del mattino, quando sono rientrato in laboratorio dopo aver vagabondato lungo il fronte del porto; era coricato sul fianco in un angolo della gabbia. Come se stesse correndo nel sonno.

La dissezione dimostra che le mie previsioni erano giuste. Paragonato a un cervello normale, quello di Algernon era diminuito di peso e risultava uno spianamento generale delle circonvoluzioni cerebrali nonché un approfondimento e un ampliamento delle pieghe.

È spaventoso pensare che la stessa cosa potrebbe accadere anche a me in questo momento. Averla constatata in Algernon la rende reale. Per la prima volta ho paura del futuro.

Ho messo Algernon in una scatoletta metallica e l’ho portato a casa con me. Non voglio che lo gettino nel forno per rifiuti; è una cosa sciocca e sentimentale, ma ieri sera tardi l’ho seppellito nel cortile. Ho pianto mentre deponevo sulla tomba un mazzo di fiori di campo.


21 settembre Domani andrò in Marks Street a far visita a mia madre. Stanotte un sogno ha dato l’avvio a una sequenza di ricordi, illuminando un intero tratto del passato e l’importante è mettere tutto subito per iscritto prima che me ne dimentichi, poiché sembra che ora dimentichi più rapidamente le cose. Il sogno concerne mia madre e ora, più che mai, voglio capirla, sapere com’è e perché ha agito come ha agito. Non devo odiarla. Devo venire a patti con lei prima di vederla, per non essere troppo aspro e non commettere sciocchezze.


27 settembre Avrei dovuto scrivere subito questi appunti perché è importante che il diario sia completo.

Sono andato a trovare Rose tre giorni fa. Alla fine ho imposto a me stesso di chiedere nuovamente in prestito la macchina di Burt. Avevo paura, eppure sapevo di dover andare.

A tutta prima, una volta arrivato in Marks Street, mi son detto che forse avevo sbagliato. Non era più affatto come la ricordavo. Era una strada sudicia. Terreni da costruzione là dove molte delle case erano state demolite. Sul marciapiede un frigorifero abbandonato il cui sportello era stato tolto, e nel rigagnolo un vecchio materasso dal cui ventre sporgevano gli intestini. Alcune case avevano le finestre chiuse con assi e altre sembravano più tuguri riparati alla meglio che abitazioni decenti. Ho lasciato la macchina a un isolato di distanza da casa mia e ho proseguito a piedi.

Non c’erano bambini intenti a giocare in Marks Street… non era affatto come l’immagine mentale che avevo conservato in me di fanciulli intenti a giocare dappertutto e di Charlie che stava a guardarli dalla finestra della facciata (strano che quasi tutti i miei ricordi di questa strada siano incorniciati dalla finestra e che io sia sempre dentro a guardare gli altri bambini che giocano). Adesso c’erano soltanto vecchi in piedi all’ombra di verande sbilenche.

Quando mi sono avvicinato alla casa mi aspettava una seconda sorpresa. Mia madre si trovava sulla veranda, con un vecchio maglione marrone, e stava lavando dall’esterno le finestre al pianterreno sebbene facesse freddo e tirasse vento. Sempre al lavoro per dimostrare ai vicini fino a che punto sapeva essere una buona moglie e una buona madre.

La cosa più importante era sempre stata per lei quello che pensavano gli altri… le apparenze, prima di se stessa o della sua famiglia. E si sentiva virtuosa per questo. Più e più volte Matt insisteva nel dire che quanto pensavano gli altri non era la sola cosa a contare nella vita. Ma invano. Norma doveva vestirsi bene; la casa doveva avere bei mobili; Charlie doveva essere tenuto in casa affinché gli altri non sapessero che non era normale.

Arrivato al cancelletto mi sono fermato a guardarla mentre lei si raddrizzava per riprendere fiato. Vedendo la sua faccia ho tremato, ma non era la faccia che così ostinatamente avevo cercato di ricordare. I capelli erano diventati bianchi, striati di grigio, e la pelle delle gote sembrava vizza e rugosa. Il sudore le faceva luccicare la fronte. Mi ha veduto e ha ricambiato il mio sguardo.

Avrei voluto distogliere gli occhi, tornare indietro lungo la strada, ma non mi è stato possibile… non dopo essere arrivato sin lì. Mi sarei limitato a domandarle da che parte dovevo andare, fingendo di essermi smarrito in un quartiere che non conoscevo. Averla veduta mi bastava. Ma intanto rimanevo lì in piedi, aspettando che fosse lei la prima a fare qualcosa. Ed ella non faceva altro che rimanere immobile a fissarmi.

«Vuole qualcosa?» La voce rauca era un’eco inequivocabile nei corridoi della memoria.

Ho aperto la bocca, ma non ne è uscita una sillaba. Le labbra si muovevano, lo so, e io mi sforzavo di parlarle, di dire qualcosa, perché in quel momento vedevo il riconoscimento negli occhi di lei. E non volevo assolutamente che mi vedesse in quel modo. Non lì in piedi di fronte a lei, ammutolito, incapace di farmi capire. Ma la lingua continuava a mettersi di mezzo come un ostacolo enorme e avevo la bocca secca.

Finalmente le mie labbra hanno pronunciato un suono. Non quello cui pensavo (m’ero proposto di dire qualcosa di tranquillizzante e di incoraggiante, di dominare la situazione e di cancellare tutto il passato e tutte le sofferenze con poche parole) ma la mia gola costretta ha saputo dire soltanto: «Maaa…»

Nonostante tutte le cose che avevo imparato… nonostante tutte le lingue che parlavo scorrevolmente… una sola cosa riuscivo a dire a lei che, in piedi sulla veranda, mi fissava: «Maaaaa». Come un agnello dalla bocca secca di fronte alla mammella.

Mia madre si è asciugata la fronte con il dorso del braccio, guardandomi accigliata, come se non riuscisse a vedermi bene. Mi sono fatto avanti superando il cancello, entrando nel vialetto d’accesso e avvicinandomi agli scalini. Lei ha indietreggiato.

Non sapevo bene se mi avrebbe riconosciuto, ma a un tratto ha ansimato: «Charlie!…» Non ha gridato il mio nome né lo ha bisbigliato. Si è limitata ad ansimare come si potrebbe fare emergendo da un sogno.

«Ma’…» Ho incominciato a salire gli scalini. «Sono io.»

Il mio movimento l’ha spaventata e ha fatto un passo indietro, rovesciando il secchio dell’acqua e sapone; le sudice bolle si sono sparse giù per gli scalini. «Che cosa stai facendo qui?»

«Volevo soltanto vederti… parlarti…»

Poiché la lingua seguitava a incepparmisi, la voce mi è uscita dalla gola diversa, con un greve tono lamentoso, come avrei potuto esprimermi molto tempo fa. «Non andartene», l’ho supplicata. «Non sfuggirmi.»

Ma era ormai entrata in anticamera e aveva chiuso la porta di casa. Un attimo dopo l’ho veduta sbirciarmi da dietro la tendina bianca trasparente sul finestrino della porta, con gli occhi atterriti. Dietro la tendina le labbra di lei si muovevano senza suono. «Vattene! Lasciami in pace!»

Perché? Chi era lei per respingermi in quel modo? Con quale diritto mi scacciava?

«Fammi entrare! Voglio parlarti! Fammi entrare!» Ho picchiato così forte sul vetro della porta da farlo incrinare e l’incrinatura, come una tela di ragno, mi ha imprigionato la pelle per un momento trattenendola saldamente. Lei deve aver creduto che fossi impazzito e che mi trovassi lì per farle del male. Si è allontanata dalla porta ed è fuggita lungo il corridoio.

Ho spinto ancora. Il gancio ha ceduto, e impreparato all’improvvisa mancanza di resistenza ho perduto l’equilibrio e sono caduto nell’ingresso. La mano mi sanguinava a causa del vetro che avevo rotto e non sapendo che altro fare me la sono infilata in tasca per evitare che il sangue imbrattasse il linoleum appena lavato.

Mi sono fatto avanti andando oltre le scale vedute così spesso negli incubi. Molte volte ero stato inseguito, su per quella lunga e stretta scala, da demoni che mi afferravano le gambe e mi trascinavano giù nella cantina sottostante, mentre mi sforzavo di urlare senza voce, strozzandomi con la mia stessa lingua e imbavagliandomi con il silenzio. Come i ragazzi muti alla clinica Warren.

Quelli che abitavano al primo piano, i nostri padroni di casa, i Meyer, erano sempre stati buoni con me. Mi davano dolciumi e mi lasciavano andare in cucina a giocare con il cane. Avrei voluto rivederli, ma senza che nessuno me lo avesse detto sapevo ch’erano morti e che ora di sopra abitavano estranei. Quella strada era ormai chiusa in eterno per me.

In fondo al corridoio, la porta attraverso la quale Rose aveva trovato scampo era chiusa a chiave, e per un momento sono rimasto immobile… indeciso.

«Apri.»

Per tutta risposta mi sono giunti gli uggiolii acuti di un cagnolino. La cosa mi ha colto di sorpresa.

«E va bene», ho detto, «non voglio farti alcun male, ma sono venuto da lontano e non me ne andrò senza averti parlato. Se non apri quella porta la sfondo».

L’ho udita dire: «Zitto, Nappie… Vieni qui, va’ in camera da letto». Un momento dopo ho sentito lo scatto della serratura. La porta si è aperta e lei è rimasta lì sulla soglia a guardarmi.

«Ma’», ho bisbigliato, «non farò nulla. Voglio soltanto parlarti. Devi capire che non sono più lo stesso. Sono cambiato. Adesso sono normale. Non te ne rendi conto? Non sono più mentalmente ritardato. Non sono più un deficiente. Sono come tutti gli altri, un essere normale… proprio come te e Matt e Norma».

Ho cercato di continuare a parlare, farfugliando, in modo che lei non chiudesse la porta. Ho cercato di dirle tutto, in una volta sola. «Mi hanno cambiato, mi hanno sottoposto a un’operazione e sono riusciti a fare di me un essere diverso, come tu hai sempre desiderato che fossi. Non lo hai letto nei giornali? Un nuovo esperimento scientifico che muta la capacità di intelligenza, e io sono il primo sul quale è stato tentato. Non riesci a capire? Perché mi stai guardando in quel modo? Sono intelligente, adesso, più intelligente di Norma o dello zio Herman o di Matt. So cose che ignorano anche i professori universitari. Parlami! Puoi essere fiera di me, adesso, e andarlo a dire a tutti i vicini. Non dovrai più nascondermi in cantina quando verrà gente. Raccontami, raccontami come stavano le cose quando ero un bimbetto, non voglio altro. Non ti farò alcun male. Non ti odio. Ma devo sapere di me, devo capirmi prima che sia troppo tardi. Non te ne rendi conto? Non posso essere un individuo completo se non capisco me stesso, e tu sei la sola persona al mondo che possa aiutarmi in questo momento. Fammi entrare e lascia che mi metta a sedere per un po’.»

Era il mio modo di parlare, più che quanto dicevo, ad ipnotizzarla. Rimaneva lì sulla soglia e mi fissava. Senza neppure accorgermene ho tirato fuori dalla tasca la mano insanguinata e l’ho stretta a pugno mentre supplicavo. Quando l’ha veduta la sua espressione si è raddolcita.

«Ti sei fatto male…» Non compativa me, necessariamente. Era la stessa compassione che avrebbe potuto provare per un cane con la zampa rotta o per un gatto graffiato in una zuffa. Non si comportava così perché ero il suo Charlie, ma nonostante ciò.

«Vieni a lavarti. Ho bende e tintura di iodio.»

L’ho seguita fino all’acquaio screpolato con lo scolapiatti storto, l’acquaio al quale mi aveva lavato tante volte la faccia e le mani quando rientravo dal cortile o quando ero pronto per andare a tavola o a letto. Mi ha osservato mentre mi rimboccavo le maniche. «Non avresti dovuto rompere il vetro. La padrona di casa andrà in bestia e io non ho soldi abbastanza per pagarlo.» Poi, come spazientita dai miei movimenti, mi ha tolto di mano il sapone e mi ha lavato la mano. Lavandomela si è concentrata a tal punto che ho taciuto, timoroso di rompere l’incantesimo. Di tanto in tanto faceva schioccare la lingua o sospirava: «Charlie, Charlie, non fai che combinare guai. Quando imparerai a badare a te stesso?» Era tornata indietro di venticinque anni, quando mi considerava ancora il suo piccolo Charlie ed era disposta a battersi per assicurarmi un posto nel mondo.

Una volta lavato via il sangue, e dopo avermi asciugato la mano con tovagliolini di carta, mi ha guardato in viso e gli occhi le si sono fatti tondi di spavento. «Oh, Dio mio!» ha esclamato, indietreggiando.

Mi sono rimesso a parlare, con dolcezza, in tono persuasivo, per convincerla che non doveva aver paura e che non intendevo farle alcun male. Ma mentre parlavo capivo che i suoi pensieri vagavano altrove. Si è guardata intorno con aria vaga, si è portata la mano alla bocca e si è lasciata sfuggire un gemito guardandomi di nuovo. «La casa è tanto in disordine», ha detto. «Non aspettavo nessuno. Guarda quelle finestre e quello zoccolo, laggiù.»

«Non ha importanza. Ma’, non stare a preoccupartene.»

«Devo tirare di nuovo a cera i pavimenti. Bisogna che tutto sia pulito.» Ha notato impronte di dita sulla porta e, preso lo straccio, le ha tolte. Quando ha rialzato gli occhi e mi ha veduto intento a guardarla si è accigliata. «È venuto per la bolletta della luce?»

Prima che avessi potuto rispondere negativamente ha agitato un dito rimproverandomi. «Intendo mandare un assegno il primo del mese, ma mio marito è fuori città per affari. Ho già detto a tutti che non devono preoccuparsi per i soldi, perché mia figlia prenderà la paga questa settimana, e allora potremo pagare i conti. Non c’è bisogno quindi di venirmi a seccare per i soldi.»

«È la sua unica figlia? Non ha avuto altri bambini?»

Ha trasalito, poi il suo sguardo si è perduto lontano. «Avevo un figlio. Tanto intelligente che tutte le altre madri ne erano gelose. E così gli fecero il malocchio. Lo chiamavano quoziente d’intelligenza, ma era il malocchio. Altrimenti sarebbe diventato un grand’uomo. Era davvero intelligentissimo… eccezionale, dicevano. Sarebbe potuto diventare un genio…»

Ha preso lo spazzolone. «Ora mi scusi. Devo preparare tutto. Mia figlia ha invitato a cena un giovanotto e devo pensare alle pulizie.» Si è inginocchiata e ha cominciato a strofinare il pavimento già lucido. Non ha più alzato gli occhi.

Borbottava tra sé e sé, adesso, e io mi sono messo a sedere al tavolo di cucina. Avrei aspettato che si riprendesse, fino a riconoscermi e a capire chi ero. Non potevo andarmene fino a quando non si fosse resa conto ch’ero il suo Charlie. Qualcuno doveva pur capire.

Si era messa a canticchiare malinconicamente, ma a un certo momento si è interrotta, con lo strofinaccio a mezz’aria tra il secchio e il pavimento, quasi fosse divenuta a un tratto consapevole della mia presenza alle sue spalle.

Si è voltata, con la faccia stanca e gli occhi lustri, e ha reclinato la testa. «Come è possibile? Non capisco. Mi avevano detto che non sarebbe mai stato possibile cambiarti.»

«Mi hanno sottoposto a un intervento chirurgico ed è stato questo a cambiarmi. Ora sono famoso. Hanno sentito parlare di me in tutto il mondo. Sono intelligente, adesso. Ma’, so leggere e scrivere, e so…»

«Dio sia ringraziato», ha bisbigliato lei. «Le mie preghiere… durante tutti questi anni ho creduto che non mi ascoltasse, e invece mi ascoltava continuamente, aspettando che con il tempo si compisse la sua volontà.»

Si è asciugata gli occhi con il grembiule, e quando le ho messo un braccio sulle spalle si è abbandonata al pianto appoggiata a me. Tutta la sofferenza se n’è andata e sono stato contento di essere venuto.

«Devo dirlo a tutti», ha bisbigliato lei sorridendo, «a tutti i maestri a scuola. Oh, aspetta di vedere che faccia faranno quando glielo dirò. E ai vicini. E allo zio Herman. Come sarà contento! E aspetta che tornino a casa tuo padre e tua sorella! Oh, come sarà contenta Norma di rivederti! Non ne hai idea».

Mi stringeva, parlando eccitata, facendo progetti per la nuova vita che ci saremmo goduti insieme. Non ebbi il coraggio di ricordarle che quasi tutti gli insegnanti della mia fanciullezza se n’erano andati da quella scuola da un pezzo, che lo zio Herman era morto anni prima e che mio padre l’aveva abbandonata. L’incubo di tutti quegli anni era stato abbastanza doloroso. Volevo vederla sorridere e sapere ch’ero stato io a renderla felice. Per la prima volta in vita mia facevo affiorare un sorriso sulle sue labbra.

Poi, dopo qualche momento, si è interrotta cogitabonda, come se avesse ricordato qualcosa. Ho avuto l’impressione che la sua mente stesse per smarrirsi. «No!» ho urlato, riportandola con un sussulto alla realtà. «Aspetta, Ma’! C’è qualcos’altro. Qualcosa che voglio darti prima di andarmene.»

«Andartene? Non puoi andartene, adesso.»

«Devo andare, Ma’. Ho molte cose da fare. Ma ti scriverò e ti manderò soldi.»

«Ma quando tornerai?»

«Non lo so… ancora. Ma prima di andarmene voglio darti questo.»

«È una rivista?»

«Non proprio. È una relazione scientifica che ho scritto io. Molto tecnica. Guarda, è intitolata L’effetto Algernon-Gordon. Qualcosa che ho scoperto e che in parte prende il nome da me. Voglio che tu ne tenga una copia per far vedere alla gente che tuo figlio è diventato qualcosa di meglio di un tonto, tutto sommato.»

Ha preso il dattiloscritto e mi ha guardato con timore reverenziale. «È… è il tuo nome. Lo sapevo che sarebbe andata così. L’ho sempre detto che un giorno sarebbe successo. Ho fatto tutto quel che potevo. Tu eri troppo piccolo per potertene ricordare, ma ho fatto quanto stava in me. Dicevo a tutti che saresti andato all’università e diventato un professionista e che avresti lasciato il tuo segno nel mondo. Ridevano, ma io lo dicevo lo stesso.»

Mi ha sorriso tra le lagrime e poi, un momento dopo, già non mi stava guardando più. Ha preso lo straccio e si è messa a lavare l’intelaiatura intorno alla porta di cucina, canticchiando, più allegramente mi è parso, come in sogno.

Il cane ha ricominciato ad abbaiare. La porta di casa si è aperta e chiusa e una voce ha gridato: «Okay, Nappie. Okay, sono io». Il cane balzava eccitato contro la porta della camera da letto.

Ero furente perché mi trovavo in trappola. Non volevo vedere Norma. Non avevamo niente da dirci e non volevo che mi guastasse il piacere della visita. La porta di servizio non esisteva. Il solo modo per andarmene consisteva nell’uscire dalla finestra e scavalcare la recinzione del cortile; ma qualcuno avrebbe potuto scambiarmi per un ladro.

Mentre sentivo la chiave infilata nella toppa ho bisbigliato a mia madre, non so perché: «Norma è arrivata a casa». Le ho toccato il braccio, ma non mi ha udito. Era troppo intenta a canticchiare lavando la porta.

L’uscio di casa si è aperto. Norma mi ha visto e si è accigliata. A tutta prima non mi ha riconosciuto… regnava la penombra, la luce non era stata accesa. Dopo aver posato il sacchetto con gli acquisti ha fatto scattare l’interruttore. «Chi è lei?» Ma prima che avessi potuto risponderle si è portata la mano alla bocca e si è addossata alla porta.

«Charlie!» Lo ha detto come mia madre, in un ansito. Aveva anche lo stesso aspetto di mia madre, un tempo… lineamenti minuti e affilati, faceva pensare a un grazioso uccelletto. «Charlie! Dio mio che spavento! Avresti potuto avvertirmi. Avresti dovuto telefonare… Non so che cosa dire…» Ha guardato mia madre, seduta sul pavimento accanto all’acquaio. «Sta bene? Non l’avrai spaventata o qualcosa di simile…»

«È rientrata in sé per qualche tempo. Abbiamo parlato un po’.»

«Mi fa piacere. Non ricorda più molto, ormai. È la vecchiaia… la senilità. Il dottor Portman vuole che la metta in un ospizio, ma io non posso. Non sopporto di pensarla in uno di quegli istituti.» Ha aperto la porta della camera da letto per lasciar uscire il cane e quando la bestiola ha spiccato balzi uggiolando di gioia, l’ha presa tra le braccia, stringendola a sé. «Questo con la mamma non posso farlo.» Poi mi ha sorriso con un’aria incerta. «Ma che sorpresa. Non lo avrei mai immaginato. Lasciati guardare. Non ti avrei riconosciuto di certo; ti sarei passata accanto per la strada senza riconoscerti. Sei così diverso.» Ha sospirato. «Sono contenta di averti rivisto, Charlie.»

«Davvero? Non credevo che volessi rivedermi.»

«Oh, Charlie!» mi ha preso le mani tra le sue. «Non dir questo. Sono davvero contenta di vederti. Ti aspettavo. Non sapevo quando, ma ero certa che un giorno saresti tornato. Da quando ho letto della tua fuga a Chicago.» Si è fatta indietro per guardarmi meglio. «Non sai quanto ho pensato a te, quante volte mi sono domandata dove fossi e che cosa stessi facendo. Fino al giorno in cui quel professore venne qui, quando fu? nello scorso marzo? soltanto sette mesi fa? non sapevo che tu fossi ancora vivo. La mamma mi aveva detto ch’eri morto alla Warren. E io ne ero sempre stata convinta. Quando mi dissero che eri vivo e che avevano bisogno di te per l’esperimento non seppi che cosa fare. Il professor… Nemur? Si chiama così?… non volle permettermi di parlarti. Temeva di turbarti prima dell’operazione. Ma quando lessi sui giornali che l’esperimento era riuscito e che tu eri diventato un genio… oh, povera me!… non puoi immaginare che cosa provai… Lo dissi a tutti i colleghi d’ufficio e alle ragazze del Circolo del bridge. Mostrai la tua fotografia pubblicata dai giornali e dissi a tutti che un giorno saresti tornato a farci visita. E sei venuto. Sei venuto sul serio. Non ci hai dimenticate.»

Mi ha abbracciato di nuovo. «Oh, Charlie, Charlie… è così meraviglioso scoprire tutto a un tratto che ho un fratello maggiore. Tu non puoi figurartelo. Siediti… ti preparo qualcosa da mangiare. Devi raccontarmi tutto, dirmi che progetti hai. Io… io non so dove cominciare a farti domande. Devo sembrarti ridicola… come una ragazza la quale ha appena saputo che suo fratello è un eroe o un divo del cinema o qualcosa di simile.»

Ero confuso. Non mi ero aspettato una simile accoglienza da Norma. Non mi era mai passato per la mente che tutti quegli anni trascorsi in solitudine con mia madre avessero potuto cambiarla. Eppure era inevitabile. Non si trattava più della marmocchia viziata delle mie reminiscenze. Era cresciuta, era diventata cordiale, comprensiva e affettuosa.

Abbiamo parlato. È stato ironico conversare con mia sorella, parlare insieme di nostra madre, la quale si trovava nella stessa stanza, come se non fosse stata presente. Ogni volta che Norma accennava alla loro vita in comune io guardavo per vedere se Rose stesse ascoltando, ma era profondamente immersa in un mondo tutto suo e sembrava che non capisse la nostra lingua o che tutto ciò non la riguardasse più. Si aggirava per la cucina come un fantasma, prendendo oggetti, riordinando, senza mai venirci tra i piedi. Era spaventoso.

Sono stato a guardare mentre Norma dava da mangiare al cane. «Sicché, finalmente sei riuscita ad averlo. Nappie… è l’abbreviativo di Napoleone, vero?»

Lei si è raddrizzata accigliandosi. «Come lo sai?»

Le ho parlato delle mie reminiscenze: di quella volta che aveva portato a casa la prova d’esame scritta sperando di avere il cane, che invece le era stato negato da Matt. Man mano che gliene parlavo, il cipiglio diventava sempre più accentuato.

«Non me ne ricordo affatto. Oh, Charlie, fui così meschina con te?»

«C’è un ricordo che mi incuriosisce. Non so bene, a dire il vero, se sia un autentico ricordo o un sogno, o se mi sono limitato a immaginare ogni cosa. Fu l’ultima volta che giocammo insieme in buona armonia. Ci trovavamo nello scantinato e ci divertivamo con paralumi in testa, fingendo di essere coolies cinesi… saltando su e giù su vecchi materassi. Tu avevi sette od otto anni, credo, e io circa tredici. E a quanto ricordo tu saltasti giù dal materasso e battesti la testa contro il muro. Non fu un colpo molto forte, appena un piccolo urto, ma Pa’ e Ma’ scesero di corsa perché strillavi e dicevi che stavo cercando di ucciderti… La mamma rimproverò Matt perché non mi aveva sorvegliato, perché ci aveva lasciati soli insieme, e mi frustò con una cinghia fino a farmi quasi svenire. Te ne ricordi? Accadde davvero così?»

Norma era affascinata dalla mia descrizione del ricordo come se avesse destato immagini assopite. «È tutto così vago. Sai, credevo di averlo sognato. Rammento che ci eravamo messi in testa paralumi e saltavamo su e giù dai materassi.» Ha guardato fuori della finestra.

«Ti odiavo perché con te facevano sempre un mucchio di storie. Non ti sculacciavano mai per non aver fatto bene il compito o per non aver preso i voti migliori. Tu marinavi quasi sempre la scuola e non facevi che giocare, mentre per me la scuola diventava sempre più difficile. Oh, come ti odiavo. A scuola gli altri bambini scribacchiavano parole e tracciavano disegni sulla lavagna. Un ragazzo con un berretto d’asino in testa e sotto Il fratello di Norma. E scrivevano anche insulti sul marciapiede nel cortile… La sorella del deficiente e La famiglia di Gordon il Tonto. E poi un giorno, quando non fui invitata alla festa di compleanno di Emily Raskin, capii ch’era a causa tua. E quella volta che giocammo insieme nello scantinato con i paralumi in testa volli vendicarmi.» Si è messa a piangere, a questo punto. «Così mentii e dissi che mi avevi fatto male apposta. Oh, Charlie, com’ero stupida… che marmocchia viziata. Mi vergogno tanto…»

«Non rimproverarti. Doveva essere difficile tener testa agli altri bambini. Per me questa cucina era il mio mondo… insieme a quella stanza laggiù. Tutto il resto non aveva importanza, purché qui mi sentissi al sicuro. Tu invece dovevi affrontare il resto del mondo.»

«Perché ti mandarono via, Charlie? Non avresti potuto restare qui e vivere con noi? Me lo sono sempre domandata. Ogni volta che ne ho parlato con lei ha detto sempre che fu per il tuo bene.»

«In un certo senso ha ragione.»

Ha scosso la testa. «Non ti volle più a causa mia, non è vero? Oh, Charlie, perché deve essere stato così? Perché ci è accaduto tutto questo?»

Non sapevo come risponderle. Avrei voluto poterle dire che, come la famiglia di Atreo o come Cadmo, scontavamo i peccati dei nostri padri o realizzavamo le predizioni di un antico oracolo greco.

Ma non v’era alcuna risposta che potessi dare a lei o a me stesso.

«Ora è tutto finito», ho detto. «Sono contento di averti rivista. Rende la situazione un po’ più facile.»

A un tratto mi ha afferrato il braccio. «Charlie, tu non sai che cosa ho passato in tutti questi anni con lei. L’appartamento, questa strada, il mio lavoro. È stato tutto un incubo, tornare a casa ogni giorno domandandomi, ci sarà ancora? avrà fatto del male a se stessa? e sentendomi colpevole perché pensavo cose simili.»

Mi sono alzato e ho lasciato che appoggiasse il capo alla mia spalla e piangesse. «Oh, Charlie, sono contenta che tu sia tornato, adesso. Avevamo bisogno di qualcuno. Sono così stanca…»

Avevo sognato un momento come questo, ma adesso ch’era giunto, a che cosa serviva? Non avrei potuto dirle quanto stava per accadermi. Né, d’altro canto, potevo accettare il suo affetto con la frode. Perché illudermi? Se fossi stato ancora il Charlie di un tempo, debole di mente e indifeso, non mi avrebbe parlato in questo stesso modo. E allora che diritto avevo di sentirmi parlare così adesso? La maschera mi sarebbe stata presto strappata.

«Non piangere, Norma. Tutto tornerà ad andare nel migliore dei modi.» Mi sono sentito pronunziare banalità rassicuranti. «Cercherò di provvedere a tutte e due. Ho un po’ di soldi da parte, e con lo stipendio che mi corrisponde la Fondazione potrò mandarvi denaro con regolarità… per qualche tempo almeno.»

«Ma non vorrai andartene! Devi restare con noi, adesso…»

«Devo viaggiare ancora, compiere alcune ricerche, tenere qualche conferenza, ma cercherò di tornare a trovarvi. Abbi cura di lei. Ha molto sofferto. Ti aiuterò finché mi sarà possibile.»

«Charlie! No, non andartene!» Si è avvinghiata a me. «Ho paura!»

La parte era quella che avevo sempre voluto interpretare… quella del fratello maggiore.

In quel momento ho sentito che Rose, seduta silenziosa in un angolo, ci stava fissando. Vi era qualcosa di mutato nel suo viso. Aveva gli occhi spalancati e si sporgeva in avanti dall’orlo della sedia. Il primo paragone che mi è venuto in mente è stato quello di un falco pronto a piombare sulla preda.

Ho spinto Nonna lontano da me, ma prima che fossi riuscito a dire qualcosa Rose era in piedi. Aveva afferrato sul tavolo il coltello da cucina e lo stava puntando contro di me.

«Che cosa le stai facendo? Vattene lontano da lei! Te l’ho detto che cosa ti avrei fatto se ti avessi sorpreso di nuovo a toccare tua sorella! Sporcaccione! Non fai parte delle persone normali!»

Siamo balzati indietro entrambi e per qualche folle ragione mi sono sentito colpevole, come se fossi stato sorpreso a fare qualcosa di male; sapevo che anche Norma provava la stessa sensazione. Era come se l’accusa di mia madre si fosse tramutata in verità e noi avessimo fatto qualcosa di osceno.

Norma le ha gridato: «Mamma! Posa quel coltello!»

Il vedere Rose lì in piedi con il coltello ha fatto sì che ricordassi la notte in cui aveva costretto Matt a portarmi via. Stava rivivendo quel momento. Io non riuscivo a parlare né a muovermi. La nausea mi pervadeva, insieme alla tensione soffocante e al ronzio nelle orecchie, e lo stomaco mi si torceva come se avesse voluto strapparsi dal mio corpo.

Rose aveva un coltello e Alice aveva un coltello e mio padre aveva un coltello e anche il dottor Strauss…

Per fortuna Norma ha avuto la presenza di spirito di togliere il coltello dalla mano di nostra madre, ma non ha potuto cancellare la paura dagli occhi di Rose che gridava:

«Portalo via di qui! Non ha il diritto di guardare sua sorella pensando al sesso!»

Rose ha seguitato a gridare, poi è ricaduta sulla sedia piangendo.

Non sapevo che cosa dire e non lo sapeva neppure Norma. Eravamo entrambi imbarazzati. Ormai ella sapeva perché ero stato allontanato.

Mi domandavo se avessi mai fatto qualcosa che giustificasse la paura di mia madre. Non avevo ricordi del genere, ma come potevo essere certo che non vi fossero pensieri orribili repressi dietro le barriere della mia coscienza torturata? Nei chiusi corridoi, dietro i vicoli ciechi che io non avrei mai veduto. Forse non lo saprò mai. Qualunque sia la verità, non devo odiare Rose per aver protetto Norma. Devo capire la situazione come la vedeva lei. A meno che non le perdoni, non avrò nulla.

Norma stava tremando. «Non te la prendere», ho detto. «Non sa quello che fa. Non stava infuriando contro di me; ce l’aveva con il Charlie di una volta. Temeva quello che lui avrebbe potuto farti. Non posso rimproverarla se vuole proteggerti. Ma adesso non dobbiamo più pensarci perché il Charlie di un tempo se n’è andato per sempre, non è vero?»

Non mi stava ascoltando. Aveva sul viso un’espressione sognante. «Ho appena fatto una di quelle strane esperienze in cui accade qualcosa e provi la sensazione di sapere quel che sta per succedere, come se tutto fosse già accaduto, esattamente nello stesso modo, e tu lo vedi ripetersi…»

«È un’esperienza comunissima.»

Ha scosso la testa. «Un momento fa, quando l’ho veduta con quel coltello, è stato come un sogno fatto molto tempo fa.»

A che giovava dirle che senza alcun dubbio era stata sveglia quella notte, da bambina, e aveva veduto ogni cosa dalla sua stanza… dirle che il ricordo era stato represso e deformato finché lo aveva immaginato come una fantasia? Non c’era motivo di opprimerla con la verità. Sarebbe già stata abbastanza triste con mia madre nei giorni a venire. Ben volentieri le avrei tolto il fardello dalle spalle e il dolore, ma non c’era senso a cominciare qualcosa che non avrei potuto terminare. Io pure sarei stato costretto a vivere soffrendo. Non c’era modo di impedire alle sabbie della sofferenza di scivolare attraverso la clessidra della mia mente.

«Ora devo andare», ho detto. «Abbi cura di te e di lei.»

Le ho stretto la mano. Mentre uscivo, Napoleone mi ha latrato contro.

Mi sono trattenuto finché è stato possibile, ma una volta giunto sulla strada non ci sono più riuscito. È penoso scriverlo, ma la gente si è voltata a guardarmi mentre tornavo verso la macchina, piangendo come un bambino. Non potevo farne a meno e non me ne importava.

Mentre camminavo, le parole ridicole hanno cominciato a martellarmi nella testa, ripetutamente, raggiungendo il ritmo di un rumore ronzante.


Tre ciechi topolini… tre ciechi topolini,

guarda come corrono! Non vanno certo piano!

Inseguono tutti e tre quei bambini

che con il coltello han tagliato loro i codini.

Avevi mai visto qualcosa di tanto strano?

Tre… ciechi… topolini?


Ho cercato di escluderle dalle orecchie ma non è stato possibile, e a un certo momento, quando mi sono voltato indietro a guardare la casa e la veranda, ho visto la faccia di un ragazzo che mi fissava con la gota premuta contro il vetro della finestra.

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