15 giugno La nostra fuga è stata annunciata ieri dai quotidiani e per i giornali popolari è stata una giornata campale. Nella seconda pagina del Daily Press c’era una mia vecchia fotografia e il disegno di un topolino bianco. Il titolo diceva DEFICIENTE-GENIO E TOPO IMPAZZISCONO. Secondo le notizie dei giornali Nemur e Strauss hanno dichiarato ch’io ero stato assoggettato a una tensione tremenda e che senza dubbio tornerò presto. Hanno offerto una ricompensa di cinquecento dollari per Algernon, senza sospettare che siamo insieme.
Passando a un altro articolo in quinta pagina, sono rimasto di stucco nel vedere una fotografia di mia madre e di mia sorella. Qualche giornalista si è evidentemente dato da fare.
Brooklyn, New York, 14 giugno. La signorina Norma Gordon, che abita con la madre, Rose Gordon, al n. 4136 di Marks Street, a Brooklyn, NY, ha negato di sapere dove si trovi suo fratello. Norma Gordon ha detto:
«Per più di diciassette anni non lo abbiamo veduto né ci sono pervenute sue notizie».
La signorina Gordon dice di aver creduto morto suo fratello fino agli ultimi giorni dello scorso mese di marzo, quando il preside della facoltà di psicologia dell’università Beekman l’avvicinò per essere autorizzato a servirsi di Charlie in un esperimento.
«Mia madre mi aveva detto ch’era stato mandato alla Warren» (la clinica e scuola di addestramento Warren, a Warren, Long Island), ha dichiarato la signorina Gordon, «e che vi era morto pochi anni dopo. Non avevo idea che fosse ancora vivo».
La signorina Gordon prega chiunque sappia dove si trova suo fratello di mettersi in contatto con la famiglia.
Il padre, Matthew Gordon, che non vive con la moglie e la figlia, gestisce una bottega di barbiere a Bronx.
Ho contemplato per qualche tempo l’articolo, poi ho sfogliato il giornale all’indietro, guardando di nuovo la fotografia. Come posso descrivere mia madre e mia sorella?
Non posso dire di ricordare la faccia di Rose. Sebbene la fotografia fatta di recente sia chiara, continuo a vederla attraverso il velo della fanciullezza. L’ho riconosciuta e non l’ho riconosciuta. Se ci fossimo incontrati per la strada non l’avrei riconosciuta, ma ora, sapendo che è mia madre, riesco a distinguere i minimi particolari… sì!
Smunta, con fattezze esagerate. Naso e mento affilati. E mi par quasi di udire i suoi ciangottii e i suoi stridi da uccello. Ha i capelli raccolti sulla nuca in una crocchia, con severità. Mi fissa penetrante con i suoi occhi scuri. Vorrei che mi prendesse tra le braccia e mi dicesse che sono un bravo bambino e al contempo mi vien fatto di scansarmi per evitare uno schiaffo. La sua fotografia mi fa tremare.
E Norma… smunta in viso anche lei. Lineamenti non troppo duri, graziosi, ma somigliantissimi a quelli di mia madre. I capelli sciolti sulle spalle la raddolciscono. Siedono entrambe sul divano del salotto.
È stato il viso di Rose a far riaffiorare i ricordi spaventosi. Ella era due persone per me, e io non avevo mai modo di sapere quale delle due sarebbe divenuta. Forse lo rivelava agli altri con un gesto della mano, con un sopracciglio inarcato, con un cipiglio… mia sorella conosceva le avvisaglie della tempesta ed era sempre fuori di portata ogni volta che l’ira di mia madre divampava… ma quell’ira coglieva me, invariabilmente, di sorpresa. Mi avvicinavo a lei per esserne consolato e la sua ira si frangeva su di me.
E altre volte v’erano tenerezza e stretti abbracci come un bagno caldo, e mani che mi accarezzavano i capelli e la fronte, e le parole incise sopra la cattedrale della mia infanzia:
Rivedo, attraverso la fotografia che va dissolvendosi, me stesso e mio padre chini su una culla di vimini. Lui mi sta tenendo per mano e dice: «Eccola lì. Non devi toccarla perché è molto piccola, ma quando crescerà avrai una sorellina con cui giocare».
Vedo mia madre nell’enorme letto lì accanto, sbiancata e sciupata, con le braccia abbandonate sulla trapunta ricamata a orchidee. Alza la testa ansiosamente. «Sorveglialo, Matt…»
Questo prima che avesse mutato atteggiamento nei miei riguardi, e ora mi rendo conto che lo diceva perché non aveva modo di sapere, ancora, se Norma sarebbe stata come me o no. Soltanto in seguito, quando fu certa che Dio aveva esaudito le sue preghiere e Norma dimostrò di possedere un’intelligenza normale sotto ogni aspetto, mia madre incominciò a esprimersi in modo diverso. Non soltanto la sua voce, ma il modo di toccarmi, l’aspetto, la sua stessa presenza… tutto mutò. Era come se i suoi poli magnetici si fossero invertiti e là dove un tempo avevano attratto, ora respingevano. Capisco adesso che mentre Norma fioriva nel nostro giardino, io ero diventato un’erbaccia e mi si permetteva di esistere soltanto dove non ero visibile, negli angolini e nei luoghi bui.
Vedendo la sua faccia sul giornale, improvvisamente l’ho odiata. Sarebbe stato meglio se avesse ignorato i medici, gli insegnanti e tutti gli altri i quali avevano tanta fretta di persuaderla che ero un deficiente, allontanandola da me in modo ch’ella mi dava sempre meno affetto proprio quando me ne necessitava di più.
A che gioverebbe rivederla adesso? Che cosa potrebbe dirmi di me stesso? Eppure sono curioso. Come reagirebbe?
Vederla e tornare indietro nel tempo per sapere che cos’ero? O dimenticarla? Vale la pena di conoscere il passato? Perché è tanto importante per me dirle: «Ma’, guardami. Non sono più mentalmente ritardato. Sono normale. Più che normale, anzi; sono un genio?»
Nel momento stesso in cui cerco di togliermela dalla mente, i ricordi riaffiorano dal passato per contaminare il presente. Un altro ricordo… quando ero molto più grande.
Un litigio.
Charlie sta giacendo sul letto, con le coperte ben rimboccate. La stanza è buia, eccettuato il filo sottile di luce gialla della porta socchiusa che penetra l’oscurità per unire entrambi i mondi. Ed egli ode cose, senza capire ma intuendo, poiché il mormorio rauco delle loro voci è collegato a ciò che dicono di lui. Sempre più, ogni giorno, finisce con l’associare quel tono a un cipiglio quando parlano di lui.
Si era quasi assopito quando, al di là del filo di luce, le voci sommesse si alzarono nella foga della discussione… la voce di sua madre, inasprita dalla minacciosità di chi è abituato a fare a modo suo grazie all’isterismo. «Dobbiamo mandarlo via. Non lo voglio più in casa con lei. Va’ dal dottor Portman e digli che vogliamo ricoverare Charlie nella clinica Warren.»
La voce di mio padre è ferma, equilibrata. «Ma sai bene che Charlie non le farebbe alcun male. Non può accaderle nulla a questa età.»
«Che cosa ne sappiamo? Forse ha conseguenze negative per la bambina crescere con un… con qualcuno come lui in casa.»
«Il dottor Portman ha detto…»
«Portman ha detto! Portman ha detto! Me ne infischio di quello che ha detto! Pensa a quello che significherà per lei avere un fratello simile. È stato un errore, tutti questi anni, cercar di credere che sarebbe cresciuto come gli altri bambini. Ora lo riconosco. Sarà meglio per lui se lo ricoveriamo.»
«Adesso che c’è la bambina, ti sei messa in mente di non volerlo più…»
«Credi che sia facile per me? Perché mi rendi la cosa ancor più penosa? Per tutti questi anni tutti hanno seguitato a dirmi che si sarebbe dovuto ricoverarlo. Bene, avevano ragione. Ricoveralo. Forse in clinica, con altri come lui, sarà più felice. Non so più che cosa sia male o bene. So soltanto che adesso non sacrificherò mia figlia per Charlie.»
E Charlie, pur non avendo capito che cosa si siano detti, ha paura e scivola sotto le coperte, con gli occhi aperti, cercando di perforare l’oscurità.
Come lo vedo adesso, non è davvero impaurito, ma si chiude semplicemente in se stesso, come un uccello o uno scoiattolo indietreggiano dal movimento brusco di chi porge loro cibo… una reazione involontaria, istintiva. La luce che penetra attraverso la porta socchiusa torna di nuovo a me come una visione luminosa.
Vedendo Charlie rannicchiato sotto le coperte vorrei poterlo consolare, spiegargli che non ha fatto niente di male, che è al di là delle sue possibilità riportare l’atteggiamento della madre a quello che era prima della nascita di sua sorella. Lì sul letto, Charlie non ha capito quel che dicevano, ma ora soffre. Se potessi portarmi nel passato dei miei ricordi le farei capire quanto mi feriva.
Non è questo il momento di andare da lei. Non è il momento fino a quando non avrò avuto il tempo di risolvere la cosa per mio conto.
Fortunatamente, per precauzione, ho prelevato i miei risparmi in banca non appena giunto a New York. Ottocentottantasei dollari non dureranno a lungo, ma mi daranno il tempo di orientarmi.
Sono andato ad alloggiare all’Hôtel Camden, nella Quarantunesima Strada, a un isolato da Times Square. New York! Le cose che ne ho letto! Gotham… il crogiuolo… la Bagdad sull’Hudson. Metropoli di luci e di colori. È incredibile che abbia vissuto e lavorato a una distanza di appena poche fermate della sotterranea… e che sia stato una sola volta in Times Square, con Alice.
Mi riesce difficile impedirmi di telefonarle. Più volte sono stato lì lì per farlo, e sempre ho cambiato idea. Devo tenermi lontano da lei.
Ho tanti pensieri che mi lasciano disorientato e perplesso da annotare. Dico a me stesso che fino a quando continuerò a dettare al registratore i rapporti sui progressi, nulla andrà perduto; la documentazione sarà completa. Rimangano pure all’oscuro per qualche tempo; io sono rimasto all’oscuro per più di trent’anni. Ma adesso sono stanco. Ieri, sull’aereo, non ho potuto dormire, e non riesco a tenere gli occhi aperti.
Riprenderò da questo punto domani.
16 giugno Ho telefonato ad Alice, ma ho riattaccato prima che rispondesse. Oggi ho trovato un appartamento ammobiliato. Novantacinque dollari al mese sono più di quanto mi fossi proposto di spendere, ma è situato tra la Quarantatreesima Strada e la Decima Avenue e io posso arrivare alla biblioteca in dieci minuti per continuare le mie letture e gli studi. L’appartamento è al quarto piano, ha quattro stanze e contiene un pianoforte preso a nolo. La padrona di casa dice che uno di questi giorni il servizio di noleggio verrà a ritirarlo, ma forse nel frattempo potrò imparare a suonarlo.
Algernon è un compagno piacevole. All’ora dei pasti occupa il suo posto al tavolinetto con le gambe pieghevoli. Gli piacciono le ciambelline salate e oggi ha bevuto un sorso di birra mentre guardavamo la partita di pallone alla TV. Credo che facesse il tifo per gli Yankee.
Toglierò quasi tutti i mobili dalla seconda camera da letto e adoprerò la stanza per Algernon. Mi propongo di costruirgli un labirinto tridimensionale con pezzi di plastica che posso procurarmi a buon mercato in centro. Vorrei che imparasse alcune complicate varianti per essere sicuro che si mantenga in forma. Ma vedrò se mi riuscirà di trovare qualche motivazione diversa dal cibo. Devono esservi altre ricompense capaci di indurlo a risolvere i problemi.
La solitudine mi dà modo di leggere e di pensare, e ora che i ricordi stanno riaffluendo, di scoprire il mio passato, per sapere chi e che cosa sono in realtà. Se qualcosa dovesse andar male avrò almeno questo.
19 giugno Ho conosciuto Fay Lillman, la mia vicina di casa che abita nell’appartamento di fronte. Quando sono tornato con le braccia piene di generi di drogheria, ho scoperto di essermi chiuso fuori e ho ricordato che la scala antincendio sulla facciata va dalla finestra del mio soggiorno all’appartamento con l’ingresso di fronte al mio, nel corridoio.
La radio squillava a tutto volume e pertanto ho bussato… prima piano e poi più forte.
«Avanti! La porta è aperta!»
Ho spinto la porta e mi sono irrigidito perché, di fronte a un cavalletto, intenta a dipingere, si trovava una bionda esile, in reggipetto e mutandine rosa.
«Scusi!» ho balbettato richiudendo la porta. Dall’esterno ho gridato: «Sono il suo vicino di casa, quello dell’appartamento di fronte. Sono rimasto chiuso fuori e volevo servirmi della scala antincendio per arrivare alla mia finestra».
La porta si è spalancata ed ella mi si è piazzata di fronte, con un pennello in ciascuna mano e le mani sui fianchi. «Non mi ha sentito dirle di venire avanti?» Con un cenno mi ha invitato a entrare nell’appartamento, spingendo via una scatola di cartone piena di immondizia. «Scavalchi quel mucchio di rifiuti laggiù.»
Ho pensato che doveva aver dimenticato, o non essersi accorta, ch’era svestita, e non sapevo da che parte guardare. Ho distolto gli occhi fissando le pareti, il soffitto, tutto tranne lei.
La casa era un caos. C’erano dozzine di tavolinetti pieghevoli, tutti coperti di tubetti contorti di colore, la maggior parte dei quali secchi e incrostati come serpenti accartocciati, ma alcuni freschi, con una scia di nastri di colore. Tubetti, pennelli, barattoli, stracci e pezzi di cornici e di tele si trovavano disseminati un po’ dappertutto. Nella stanza regnava un odore denso e commisto di colori a olio, d’olio di lino e di trementina… e dopo qualche momento mi è giunto alle narici anche l’odore sottile della birra stantia. Su tre poltrone troppo imbottite e un divano verde e lacero si ammonticchiavano vestiti vecchi, e sul pavimento giacevano scarpe, calze e biancheria intima, come se Fay avesse avuto l’abitudine di spogliarsi mentre camminava e di lanciare qua e là la sua roba. Uno strato sottile di polvere rivestiva ogni cosa.
«Ah, è il signor Gordon», ha detto guardandomi. «Morivo dalla voglia di darle un’occhiata da quando è venuto ad abitare qui. Si accomodi.» Ha tolto una pila di vestiti da una delle poltrone e l’ha gettata sul divano già ingombro. «Sicché finalmente si è deciso a far visita ai suoi vicini. Posso offrirle qualcosa da bere?»
«Lei è pittrice», ho farfugliato, non sapendo che altro dire. Mi snervava il pensiero che, da un momento all’altro, si sarebbe accorta di essere spogliata e allora avrebbe strillato correndo in camera da letto. Cercavo di tenere gli occhi in movimento, guardando dappertutto tranne che dalla sua parte.
«Birra normale o allo zenzero? Non c’è altro in casa in questo momento tranne sciroppo di ciliege. Non vorrà lo sciroppo di ciliege, vero?»
«Non posso trattenermi», ho detto, riavendomi e fissando il neo sul lato sinistro del suo mento. «Sono rimasto chiuso fuori di casa. Volevo arrivarci passando per la scala antincendio. Collega le nostre finestre.»
«Tutte le volte che vorrà», mi ha assicurato. «Quelle schifose serrature sono un disastro. Anch’io sono rimasta chiusa fuori tre volte la prima settimana che abitavo qui… e una volta ha dovuto restare per mezz’ora nel corridoio completamente nuda. Ero uscita per ritirare il latte e la porta dannata ha sbattuto alle mie spalle. Ho tolto quell’accidenti di serratura e da allora la mia porta è rimasta senza.»
Dovevo essermi accigliato, perché si è messa a ridere. «Be’, lo vede che cosa combinano queste maledette serrature, no? La chiudono fuori e non la proteggono molto, le pare? Quindici furti in questo accidenti di palazzo, l’anno scorso, e tutti in appartamenti chiusi a chiave. Nessuno è mai entrato qui dentro, sebbene la porta sia rimasta sempre aperta. Si romperebbero la testa, del resto, per trovare qualcosa di prezioso qui.»
Quando ha insistito di nuovo affinché bevessi una birra con lei, mi sono deciso ad accettare. Mentre andava a prenderla in cucina ho dato di nuovo un’occhiata alla stanza. Prima non avevo notato che la parte di parete alle mie spalle era stata abbattuta, che tutti i mobili erano stati spostati da un lato della stanza o nel mezzo, per cui la parete opposta (senza l’intonaco, in modo da lasciare scoperti i mattoni) serviva da galleria d’arte. I dipinti si pigiavano fino al soffitto e altri erano appoggiati l’uno contro l’altro sul pavimento. Molti di essi, compresi due nudi, erano autoritratti. La tela alla quale stava lavorando quando ero entrato (quella sul cavalletto) la raffigurava nuda fino alla vita, con i lunghi capelli sciolti sulle spalle (non come li portava adesso, raccolti in trecce bionde intorno al capo a mo’ di corona) e una parte delle trecce contorta sul petto e posata tra i seni. Si era dipinta i seni impennati e sodi, con i capezzoli di un irreale rosso lecca-lecca. Quando l’ho sentita tornare con la birra mi sono scostato fulmineamente dal cavalletto, incespicando contro alcuni libri e fingendo di interessarmi a un piccolo paesaggio autunnale appeso alla parete.
Ho provato un senso di sollievo constatando che si era infilata una sottile e lacera vestaglia, anche se aveva buchi in tutti i punti meno indicati, e per la prima volta ho potuto guardarla in faccia. Non era precisamente bella, ma gli occhi celesti e il nasetto camuso e impertinente le davano un che di felino che contrastava con i suoi movimenti robusti e atletici. Era sui trentacinque anni, snella e ben proporzionata. Ha posato le birre sul pavimento di parquet, si è raggomitolata accanto ad esse davanti al divano e con un cenno mi ha invitato a fare altrettanto.
«Trovo che il pavimento è più comodo delle poltrone», ha detto sorseggiando la birra dal barattolo. «E lei?»
Le ho risposto che non ci avevo mai pensato ed ella ha riso e ha detto che avevo una faccia sincera. Era in vena di parlare di se stessa. Aveva evitato il Greenwich Village, ha spiegato, perché là, invece di dipingere, avrebbe trascorso tutto il suo tempo nei bar e nei caffè. «È meglio quassù, lontano dagli impostori e dai dilettanti. Qui posso fare quello che voglio e nessuno viene a schernirmi. Lei non è un prendi-in-giro, vero?»
Mi sono stretto nelle spalle cercando di non notare la polvere che avevo dappertutto sui calzoni e sulle mani. «Suppongo che ci burliamo tutti di qualcosa. Lei sta schernendo gli impostori e i dilettanti, non è così?»
Dopo qualche tempo ho detto che avrei fatto bene a tornare a casa mia. Lei ha scostato una pila di libri dalla finestra e io ho scavalcato giornali e sacchetti di carta pieni di bottiglie di birra da un quarto vuote. «Uno di questi giorni». ha sospirato lei, «bisognerà che le restituisca».
Sono salito sul davanzale della finestra, scendendo poi sulla scala antincendio. Dopo avere aperto la finestra di casa mia, sono tornato indietro a prendere i miei acquisti, ma prima che avessi potuto ringraziarla e salutarla, ella mi ha seguito sulla scala antincendio. «Vediamo il suo appartamento. Non ci sono mai stata. Prima che venisse lei, le due piccole e anziane sorelle Wagner non mi auguravano neppure il buon giorno.» Ha scavalcato il davanzale della finestra dietro di me e vi si è seduta.
«Entri», ho detto, posando sul tavolo i generi di drogheria. «Non ho birra, ma posso prepararle una tazza di caffè.»
Tuttavia lei stava guardando al di là di me, con gli occhi sbarrati per l’incredulità.
«Dio mio! Non ho mai visto una casa in ordine come questa. Chi avrebbe immaginato che un uomo il quale vive solo potesse tenere così bene un appartamento?»
«Non sono sempre stato così», ho detto in tono di scusa. «Soltanto da quando mi sono trasferito qui. Era tutto in ordine quando sono venuto e non ho potuto fare a meno di tenerlo come si deve. Se qualcosa è fuori di posto, adesso, mi sento sconvolto.»
Lei è discesa dal davanzale della finestra per esplorare l’appartamento. «Ehi», ha domandato a un tratto, «le piace ballare? Sa…» Ha eseguito un passo complicato mentre canticchiava un ritmo dell’America Latina. «Se mi dice che balla, scoppio.»
«Soltanto il fox-trott», ho risposto, «e non sono molto bravo neppure in quello».
Ha alzato le spalle. «Vado matta per il ballo, ma nessuno di quelli che conosco e che mi piacciono sa ballare bene. Devo agghindarmi tutta, di tanto in tanto, e andare in centro nella sala da ballo Polvere di Stelle. Quasi tutti i tipi che la frequentano sono un po’ speciali, ma sanno ballare.»
Sospirando si è guardata intorno. «Le dirò che cos’è che non mi va in una casa maledettamente ordinata come questa. In quanto pittrice… sono le linee a darmi ai nervi. Tutte le linee rette sulle pareti, negli angoli, sui pavimenti, che si trasformano in tante casse… come bare. Riesco a liberarmi delle casse in un solo modo, vuotando qualche bicchiere. Allora tutte le linee diventano ondulate e tortuose e il mondo intero mi sembra molto più piacevole. Quando ogni cosa è diritta e allineata in questo modo divento morbosa. Auff! Se abitassi qui dovrei ubriacarmi continuamente.»
A un tratto ha girato sui tacchi voltandosi verso di me. «Senta, non potrebbe prestarmi cinque dollari fino al venti? È il giorno in cui mi arriva l’assegno degli alimenti. Di solito non resto a corto, ma la settimana scorsa ho avuto una grana.»
Prima che avessi potuto risponderle ha lanciato uno strillo e si è diretta verso il pianoforte nell’angolo. «Un tempo suonavo il piano. L’ho sentita strimpellare alcune volte e mi son detta, quel tipo è proprio bravo, accidenti. Ecco come ho saputo che desideravo conoscerla ancor prima di averla vista. Non suono più da tanto di quel tempo stramaledetto.» Quando sono andato in cucina a fare il caffè stava suonacchiando sul pianoforte.
«Può venire a esercitarsi quando vuole», le ho detto. Non so perché tutto a un tratto ero diventato così generoso con il mio appartamento, ma c’era qualcosa in lei che esigeva un assoluto altruismo. «Ancora non lascio aperta la porta di casa, ma la finestra non è chiusa, e quando io non sono in casa può entrare passando per la scala antincendio. Latte e zucchero nel caffè?»
Poiché non rispondeva sono andato a guardare nel soggiorno. Non c’era, e mentre mi dirigevo verso la finestra ho udito la sua voce nella camera di Algernon.
«Ehi, che cos’è questo?» Stava esaminando il labirinto di plastica tridimensionale che avevo costruito. Lo ha studiato, poi si è lasciata sfuggire un altro strillo. «Scultura moderna! Tutta scatole e linee rette!»
«È uno speciale labirinto», ho spiegato. «Un complicato mezzo di apprendimento per Algernon.»
Ma lei gli stava girando intorno, entusiasmata. «Ne andranno pazzi al Museo d’Arte Moderna.»
«Non è una scultura», ho insistito. Ho aperto lo sportellino della gabbia di Algernon collegata al labirinto e l’ho fatto uscire.
«Dio mio!» ha bisbigliato lei. «Scultura con un elemento vivo. Charlie, è la cosa più grande dai tempi dell’arte pop.»
Ho cercato di spiegare, ma ha insistito nel dire che l’elemento vivo avrebbe reso storica quella scultura. Soltanto quando le ho veduto ridere gli occhi mi sono accorto che si stava burlando di me. «Potrebbe essere un’arte autoperpetuantesi», ha continuato, «una esperienza creativa per l’intenditore. Si procuri un altro topo e quando avranno i piccoli ne tenga sempre uno per riprodurre l’elemento vivo. Il suo capolavoro conseguirà così l’immortalità e tutta la gente bene ne acquisterà copie per potersene vantare. Come lo chiamerà?»
«Va bene», ho sospirato. «Mi arrendo.»
«No», ha sbuffato lei dando un colpetto alla cupola di plastica dove Algernon aveva trovato la strada della scatola-mèta. «Mi arrendo, sa troppo di cliché. Che ne direbbe di chiamarlo: La vita è soltanto una scatola di labirinti?»
«Lei è matta!» ho esclamato.
«Naturale!» Ha piroettato su se stessa facendomi un inchino. «Mi stavo domandando quando se ne sarebbe accorto.»
In quel momento il caffè ha cominciato a bollire.
Dopo aver vuotato a mezzo la tazza ella ha sussultato e ha detto che doveva scappar via perché aveva un appuntamento mezz’ora prima con qualcuno conosciuto a una mostra d’arte.
«Voleva del denaro», le ho fatto osservare.
Ha allungato la mano verso il mio portafogli mezzo aperto e ne ha tolto una banconota da cinque dollari. «Fino alla prossima settimana», ha detto, «quando arriverà l’assegno. Grazie infinite». Ha appallottolato il denaro, ha soffiato un bacio verso Algernon e prima che mi fosse stato possibile aprir bocca era fuori della finestra sulla scala antincendio e scompariva. Sono rimasto lì stupidamente a seguirla con lo sguardo.
È così attraente, accidenti. Così piena di vita e di entusiasmo. La sua voce, i suoi occhi… tutto di lei era un invito. E abita subito al di là della finestra e della scala antincendio.
20 giugno. Forse avrei dovuto aspettare prima di andare a trovare Matt; o non andare a trovarlo affatto. Non lo so. Nulla va a finire come mi aspetto. Sapendo che Matt aveva aperto una bottega di barbiere in qualche punto del Bronx è stata una cosa semplice rintracciarlo. Ricordavo ch’era stato commesso viaggiatore di una società newyorkese di prodotti per barbieri. Mi sono recato così al Magazzino Metro di articoli per barbieri; là v’era un conto intestato alla bottega di barbiere Gordon, nella Wentworth Street, al Bronx.
Matt aveva parlato molte volte di una bottega tutta sua. Come odiava fare il commesso viaggiatore! Che battaglie v’erano state in proposito con mia madre! Rose strillava che quella del commesso viaggiatore era per lo meno un’occupazione dignitosa e che non avrebbe mai voluto un marito barbiere. Figurarsi, chissà come Margaret Phinney avrebbe deriso «la moglie del barbiere». E Lois Mainer, poi, il cui marito era agente della società di assicurazioni Alarm? Le arie che si sarebbe data!
Durante gli anni in cui aveva fatto il commesso viaggiatore, odiando ogni giorno di quella sua esistenza (specie dopo aver visto la versione cinematografica di Morte di un commesso viaggiatore), Matt sognava di diventare un giorno indipendente. Doveva pensare a questo, a quei tempi, quando parlava della necessità di risparmiare e mi tagliava egli stesso i capelli nello scantinato. Li tagliava benissimo, si vantava, molto meglio di come me li avrebbero tagliati in quelle misere botteghe di barbiere di Scales Avenue. Abbandonando Rose aveva abbandonato anche il suo mestiere e io lo ammiravo per questo.
Ero eccitato dal pensiero di rivederlo. I ricordi che avevo di lui erano piacevoli. Matt mi aveva sempre accettato com’ero. Prima di Norma, i litigi che non concernevano questioni di denaro o la necessità di far bella figura con i vicini concernevano me: mi si sarebbe dovuto lasciare in pace invece di spronarmi a fare quel che facevano gli altri bambini. E dopo Norma egli sosteneva sempre ch’io avevo il diritto di vivere la mia vita, anche se non ero come gli altri. Mi aveva sempre difeso. E adesso ero impaziente di vedere l’espressione della sua faccia; con lui avrei potuto dividere la mia felicità.
Wentworth Street era una parte povera del Bronx. Nelle vetrine di quasi tutti i negozi si vedeva il cartello «Affittasi», mentre altre botteghe rimanevano momentaneamente chiuse. Ma a metà isolato dopo la fermata dell’autobus, un’insegna di barbiere era illuminata da colonnine luminose.
La bottega era deserta, eccezion fatta per il barbiere che leggeva una rivista sulla poltrona più vicina alla vetrina. Quando ha alzato gli occhi su di me ho riconosciuto subito Matt, tarchiato, con le gote accese, molto invecchiato e quasi calvo tranne una frangia di capelli grigi ai lati della testa, ma pur sempre Matt. Vedendomi sulla porta ha messo via la rivista.
«Non c’è da aspettare. La servo subito.»
Ho esitato e lui ha frainteso. «Di solito non lavoro a quest’ora. Avevo un appuntamento con uno dei miei clienti fissi ma non è venuto. Stavo per chiudere. È una fortuna per lei che mi sia messo a sedere per riposarmi i piedi. Il miglior taglio di capelli e la migliore rasatura del Bronx.»
Mentre mi lasciavo trascinare nella bottega si è dato da fare intorno a me tirando fuori forbici, pettini e una salvietta di bucato.
«Tutto igienico, come può constatare, e la stessa cosa non si può dire di quasi tutti i barbieri da queste parti. Barba e capelli?»
Mi sono sistemato sulla poltrona. Incredibile che non mi riconoscesse, mentre io lo ricordavo così bene. Dovetti rammentare a me stesso che non mi vedeva da più di quindici anni e che il mio aspetto doveva essere mutato, più che mai negli ultimi mesi. Mi ha studiato nello specchio, ora che mi aveva messo attorno la salvietta a righe, e ho scorto un cipiglio di vago riconoscimento.
«Servizio completo», ho detto, accennando con la testa alla lista sindacale delle tariffe, «capelli, barba, shampoo, abbronzatura…»
Ha inarcato le sopracciglia.
«Devo incontrarmi con una persona che non vedo da moltissimo tempo», gli ho spiegato, «e voglio figurare bene».
È stata una sensazione spaventosa farmi tagliare di nuovo i capelli da lui. In seguito, mentre affilava il rasoio sulla coramella, il suono frusciante mi ha fatto rabbrividire. Ho chinato il capo sotto la pressione dolce della mano di lui e ho sentito la lama raschiarmi con cautela il collo. Ho chiuso gli occhi e aspettato. Era come trovarmi di nuovo sul tavolo operatorio.
Un muscolo sul collo mi si è irrigidito e poi, senza alcun preavviso, ha guizzato. Il rasoio mi ha tagliato, subito al di sopra del pomo di Adamo.
«Ehi», ha gridato lui, «Gesù… stia fermo. Si è mosso. Ehi, sono dolentissimo».
Si è precipitato verso il lavabo per inumidire una salvietta.
Nello specchio ho guardato la chiazza di un rosso vivo e il sottile filo di sangue che mi scendeva giù per la gola.
Tutto agitato, scusandosi, è riuscito a fermarlo prima che arrivasse alla salvietta intorno al collo.
Osservandolo muoversi, svelto per essere un uomo così tozzo e massiccio, mi sono pentito dell’inganno. Avrei voluto dirgli chi ero e lasciarmi mettere un braccio sulle spalle da lui, per parlare insieme del passato. Ma ho aspettato mentre tamponava il taglio con polvere asettica.
Ha terminato di radermi in silenzio, poi ha portato la lampada a raggi ultravioletti accanto alla poltrona e mi ha messo sugli occhi freschi batuffoli di cotone imbevuti di liquido antinfiammatorio. E lì, nelle rosse tenebre sotto le palpebre, ho rivissuto la notte in cui egli mi aveva condotto via da casa per l’ultima volta…
Charlie dorme nell’altra stanza, ma si desta udendo sua madre che grida. Ha imparato a dormire nonostante le liti… sono un evento quotidiano in casa sua. Ma stanotte c’è qualcosa di tremendo nell’isterismo di sua madre. Egli si fa piccolo contro il guanciale e ascolta.
«Non posso farci niente! Deve andarsene! Dobbiamo pensare a lei. Non voglio che ogni giorno torni a casa da scuola piangendo perché i suoi compagni la prendono in giro. Non possiamo distruggere a causa di Charlie le sue possibilità di condurre un’esistenza normale.»
«Che vuoi che faccia? Che lo metta in mezzo alla strada?»
«Mandalo via. Mandalo alla clinica Warren.»
«Ne riparleremo domattina.»
«No. Tu non fai altro che parlare, parlare e non combini niente. Non lo voglio qui un solo giorno di più. Portalo via subito… stanotte.»
«Non dire sciocchezze, Rose. È troppo tardi per fare qualcosa stanotte… Stai urlando così forte che ti sentiranno tutti.»
«Non me ne importa. Deve andarsene stanotte. Non sopporto più di vederlo.»
«Stai diventando impossibile, Rose. Che cosa fai adesso?»
«Ti avverto: portalo via di qui.»
«Metti giù quel coltello.»
«Non voglio distruggere la vita di Norma.»
«Sei pazza. Metti via quel coltello.»
«È meglio che muoia. Non potrà mai condurre un’esistenza normale. È meglio che muoia…»
«Sei impazzita. Per amor di Dio, torna in te!»
«Allora portalo via di qui. Adesso… stanotte stessa.»
«E va bene. Stanotte lo porterò da Herman e forse domani vedremo se si può ricoverarlo nella clinica Warren.»
Segue il silenzio. Nell’oscurità sento il fremito del silenzio dilagare in casa e poi la voce di Matt, meno alterata di quella di mia madre. «So bene quello che hai passato con lui e non posso rimproverarti se ti preoccupi. Ma devi dominarti. Lo porterò da’ Herman. Sei contenta così?»
«Non chiedo altro. Anche tua figlia ha il diritto di vivere.»
Matt entra nella stanza di Charlie e veste suo figlio; e il ragazzo, benché non capisca quel che sta accadendo, ha paura. Mentre escono di casa lei distoglie lo sguardo. Forse sta cercando di convincersi che Charlie è già scomparso dalla sua vita… che non esiste più. Uscendo, Charlie vede sul tavolo di cucina il lungo coltello per tagliare l’arrosto e intuisce vagamente che sua madre volevo fargli del male. Voleva portargli via qualcosa e darlo a Norma.
Quando si volta a guardarla, lei ha preso uno straccio per lavare l’acquaio…
Dopo il taglio dei capelli, la rasatura, l’abbronzatura e il resto, mi sono abbandonato sulla poltrona sentendomi leggero, lindo, pulito, e Matt ha tolto la salvietta e mi ha offerto un secondo specchio perché potessi vedermi la nuca. Mentre mi vedevo nello specchio dinanzi a me guardare entro lo specchietto che lui reggeva, quest’ultimo si è inclinato per un attimo assumendo l’unico angolo che potesse produrre l’illusione della profondità: corridoi senza fine di me stesso… intento a guardare me stesso… che guardavo! me stesso… che guardavo me stesso… che guardavo…
Quale dei due? Chi dei due ero io?
Ho pensato di non dirgli nulla. A che gli servirebbe adesso sapere? Ho pensato di andarmene senza rivelargli chi ero. Poi ho ricordato che volevo farmi riconoscere. Doveva ammettere ch’ero vivo, ch’ero qualcuno. Volevo che si vantasse di me con i clienti del giorno dopo, tagliando loro i capelli e radendoli. Ciò avrebbe reso tutto reale.
Se avesse saputo ch’ero suo figlio sarei diventato un individuo.
«Ora che mi hai tolto i peli dalla faccia forse potrai riconoscermi», ho detto alzandomi, aspettando un segno di riconoscimento.
Si è accigliato. «Che cos’è? Una battuta di spirito?»
Gli ho assicurato che non scherzavo e che se mi avesse osservato con sufficiente attenzione sarebbe riuscito a riconoscermi. Ha alzato le spalle e si è voltato per riporre pettini e forbici. «Non ho tempo per gli indovinelli. Devo chiudere. Fanno tre dollari e mezzo.»
E se non mi avesse ricordato? Se questa fosse stata tutta una assurda fantasia? Già tendeva la mano per avere i soldi, ma io non ho accennato a togliermi di tasca il portafogli. Doveva ricordarmi. Doveva riconoscermi.
Ma no… naturalmente no… e mentre sentivo in bocca il sapore acido e il sudore mi inumidiva il palmo delle mani, ho capito che di lì a un momento sarei stato male. Ma non volevo che questo succedesse davanti a lui.
«Ehi, si sente bene?»
«Sì… aspetti soltanto… un momento…» Incespicando mi sono lasciato cadere su una delle sedie cromate e, piegato in due, ho respirato affannosamente aspettando che il sangue mi riaffluisse alla testa. Il mio stomaco gorgogliava.
Oh Dio, non farmi svenire adesso. Non rendermi ridicolo di fronte a lui.
«Acqua… un po’ d’acqua, per piacere…» Non tanto per bere quanto per farlo voltare. Non volevo ch’egli mi vedesse in questo modo dopo tanti anni. Quando è tornato indietro con un bicchiere mi sentivo un po’ meglio.
«Qua, beva questo. Si riposi un momento. Si rimetterà subito.» Mi ha fissato mentre sorseggiavo l’acqua fresca e l’ho veduto lottare alle prese con ricordi quasi dimenticati. «Ci siamo davvero già conosciuti in qualche posto?»
«No… Ora sto benissimo. Me ne andrò tra un momento.»
Come avrei potuto dirglielo? Che cosa avrei dovuto dirgli? Senti, guardami, sono Charlie, il figlio che tu hai cancellato dai registri dello stato civile. Non che incolpi te di quel che è accaduto, ma eccomi qui, completamente rimesso in sesto, meglio di prima. Mettimi alla prova. Fammi domande. Parlo venti lingue, vive e morte; sono un genio della matematica e sto scrivendo un concerto per pianoforte che mi farà ricordare molto tempo dopo la mia scomparsa.
Come avrei potuto dirglielo?
Quanto ero assurdo stando seduto lì, nella sua bottega, aspettando che mi accarezzasse sul capo e dicesse: «Bravo figliolo». Volevo la sua approvazione, l’espressione soddisfatta che gli illuminava un tempo la faccia quando riuscivo ad allacciarmi le scarpe e ad abbottonarmi il maglione. Ero venuto sin lì proprio per vedere quell’espressione, ma sapevo che non l’avrei vista.
«Vuole che chiami un medico?»
Non ero suo figlio. Ero un altro Charlie. Intelligenza e cultura mi avevano cambiato, ed egli mi avrebbe trovato odioso, come mi trovavano odioso quelli della panetteria, perché i miei progressi lo sminuivano. Non volevo che questo accadesse.
«Sto bene», ho risposto. «Mi spiace di averle arrecato disturbo.» Mi sono alzato mettendo alla prova le gambe. «Qualcosa che ho mangiato. Ora potrà chiudere.»
Mentre mi dirigevo verso la porta la sua voce mi ha gridato dietro, aspra: «Ehi, aspetti un momento!» Mi ha guardato negli occhi, insospettito. «Che tiro sta cercando di combinarmi?»
«Non capisco.»
Tendeva la mano, strofinando l’uno contro l’altro il pollice e l’indice.
«Mi deve tre dollari e mezzo.»
Mi sono scusato pagandolo, ma ho visto che non mi credeva. Gli ho dato cinque dollari, gli ho detto di tenere il resto e mi sono affrettato a uscire dalla sua bottega di barbiere senza voltarmi indietro.
21 giugno Ho aggiunto sequenze temporali di crescente complessità al labirinto tridimensionale, e Algernon le impara con facilità. Non v’è alcuna necessità di dargli una motivazione con cibo e acqua; sembra che impari per il piacere di risolvere il problema… e a quanto pare la sua ricompensa è il successo.
Ma, come ha fatto rilevare Burt al congresso, si comporta in modo imprevedibile. A volte, dopo aver percorso il labirinto o anche mentre lo sta percorrendo, si infuria, si getta contro le pareti, oppure si raggomitola rifiutandosi di continuare. Frustrazione? O qualcosa di più profondo?
Ore 17.30 Quella pazza di Fay è entrata passando per la scala antincendio, nel pomeriggio, con una topolina bianca più piccola della metà di Algernon, perché gli tenga compagnia, ha detto, in queste solitarie notti d’estate. Ha sormontato subito tutte le mie obiezioni e mi ha persuaso che avrebbe fatto bene ad Algernon avere una compagnia. Dopo essermi assicurato che la piccola «Minnie» era sana, anche moralmente, ho accettato. Ero curioso di vedere che cosa avrebbe fatto Algernon posto di fronte a una femmina. Ma non appena abbiamo messo Minnie nella sua gabbia, Fay mi ha afferrato per un braccio e mi ha trascinato fuori della stanza.
«Dov’è il suo senso del romanticismo?» ha detto. Poi ha acceso la radio e si è diretta verso di me in atteggiamento minaccioso. «Le insegnerò i passi più recenti.»
Come ci si può arrabbiare con una giovane donna come Fay?
In ogni modo, sono contento che Algernon non sia più solo.
23 giugno Ieri sera tardi uno scoppio di risate nel corridoio e poi qualcuno ha bussato alla porta del mio appartamento.
Era Fay con un uomo.
«Salve, Charlie», ha ridacchiato vedendomi. «Leroy, ti presento Charlie. È il mio vicino di casa. Un artista meraviglioso. Ha eseguito una scultura con un elemento vivo.»
Leroy l’ha sostenuta, impedendole di urtare contro la parete. Mi ha guardato nervosamente, farfugliando un saluto.
«Ho conosciuto Leroy alla sala da ballo Polvere di Stelle», ha spiegato lei. «È un ballerino fantastico.» Ha fatto per entrare in casa sua e poi ha tirato indietro Leroy. «Ehi», ha ridacchiato, «perché non invitiamo Charlie a bere qualcosa e non organizziamo una festicciola?»
Leroy non pensava che fosse una buona idea.
Sono riuscito a inventare un pretesto e a liberarmi. Stando dietro la porta chiusa li ho uditi ridere mentre entravano nel suo appartamento, e sebbene mi sia sforzato di leggere, immagini hanno continuato a penetrare a forza nella mia mente: un grande letto bianco… candide e fresche lenzuola e loro due abbracciati.
Avrei voluto telefonare ad Alice, ma non l’ho fatto. Perché tormentarmi? Non riuscivo neppure a rivederne il viso. Potevo raffigurarmi Fay, vestita o spogliata, a piacere, con i suoi vividi occhi azzurri e i capelli biondi intrecciati e avvolti intorno al capo come una corona. L’immagine di Fay era limpida, quella di Alice avvolta nella nebbia.
Circa un’ora dopo ho udito un alterco nell’appartamento di Fay, poi il grido di lei e tonfi di oggetti scaraventati contro qualcuno, ma mentre stavo per scendere dal letto e andare a vedere se avesse bisogno di aiuto, ho sentito la porta sbattere… e Leroy imprecare mentre se ne andava. Poi, pochi minuti dopo, qualcuno ha bussato alla finestra del mio soggiorno. Era aperta e Fay è entrata e si è messa a sedere sul davanzale, con un kimono di seta nera che le rivelava le belle gambe.
«Salve», ha bisbigliato. «Ha una sigaretta?»
Gliene ho data una e lei è scesa dal davanzale ed è andata a mettersi sul divano. «Auff!» ha sospirato. «Di solito so badare a me stessa, ma ci sono tipi così famelici che ce ne vuole per farli stare al loro posto.»
«Oh», ho detto io, «se l’è portato in casa per farlo stare al suo posto».
Ha alzato gli occhi di scatto al mio tono di voce. «Non approva?»
«Chi sono io per disapprovarla? Ma se lei pesca un tipo in una pubblica sala da ballo deve pure aspettarsi degli approcci. Aveva il diritto di farsi avanti.»
Ha scosso la testa. «Vado alla sala da ballo Polvere di Stelle perché mi piace ballare e non vedo per quale ragione se porto a casa un tizio devo lasciarlo venire a letto con me. Non crederà che sia andata a letto con lui, vero?»
La mia immagine di loro due, l’uno nelle braccia dell’altra, è scoppiata come una bolla di sapone.
«Certo, se il tizio fosse lei», ha soggiunto, «la cosa sarebbe diversa».
«Che cosa intende dire?»
«Né più né meno quello che ho detto. Se me lo chiedesse verrei a letto con lei.»
Ho cercato di conservare la mia compostezza. «Grazie», ho mormorato. «Lo terrò presente. Posso offrirle una tazza di caffè?»
«Charlie, non riesco a capirla. In genere agli uomini piaccio o non piaccio, e lo capisco subito. Ma lei sembra aver paura di me. Non è un omosessuale, per caso?»
«Diavolo, no!»
«Voglio dire che non deve nascondermelo se lo è, perché in questo caso potremmo essere semplicemente buoni amici. Ma preferirei saperlo.»
«Non sono un omosessuale. Questa sera, quando è entrata in casa sua con quel tale, ho desiderato essere lui.»
Si è protesa in avanti e il kimono, aperto sul collo, le ha rivelato il seno. Mi ha abbracciato, aspettando ch’io facessi qualcosa. Sapevo che cosa si aspettava da me e mi son detto che non c’era ragione di non farlo. Avevo la sensazione che non sarei stato preso dal panico adesso… non con lei. In fin dei conti, non ero io a prendere l’iniziativa. E inoltre, sembrava diversa da ogni donna che avevo conosciuta. Forse andava bene per me a quel livello emotivo.
L’ho allacciata alla vita.
«Così è diverso», ha tubato. «Incominciavo a pensare di esserti indifferente.»
«Non mi sei indifferente», ho bisbigliato baciandole la gola. Ma mentre la baciavo ho visto me e lei come se fossi stato una terza persona in piedi sulla soglia. Guardavo un uomo e una donna abbracciati. Ma il vedermi in quel modo, da lontano, mi ha reso freddo. Mancava il panico, questo sì, ma non v’era neppure alcuna eccitazione… non v’era alcun desiderio.
«Da te o da me?» ha domandato Fay.
«Aspetta un momento.»
«Che cosa c’è?»
«Forse sarà meglio non farne niente. Non mi sento bene questa sera.»
Mi ha guardato con un’espressione interrogativa. «C’è qualcos’altro?… Qualcosa che vuoi ch’io faccia?… Non m’importa…»
«No, non si tratta di questo», ho risposto con voce aspra. «È solo che questa sera non mi sento bene.» Ero curioso di sapere quali fossero i suoi sistemi per eccitare un uomo, ma non era questo il momento di mettersi a fare esperimenti. La soluzione della mia difficoltà stava altrove.
Non sapevo che altro dirle. Volevo che se ne andasse, ma non volevo dirle di andarsene. Fay mi stava studiando e infine ha detto: «Senti, ti spiace se passo la notte qui?»
«Perché?»
Si è stretta nelle spalle. «Mi piaci. Non so… Leroy potrebbe tornare. C’è un mucchio di ragioni. Se non vuoi…»
Di nuovo mi trovava impreparato. Avrei potuto inventare una dozzina di pretesti per liberarmi di lei e invece ho ceduto.
«Hai del gin?» ha domandato.
«No, non sono un gran bevitore.»
«Ne ho io, a casa mia. Vado a prenderlo.» Prima che avessi potuto fermarla era uscita dalla finestra e pochi minuti dopo tornava con una bottiglia piena per due terzi e un limone. È andata a prendere due bicchieri in cucina e ha versato un po’ di gin in entrambi. «Prendi», ha detto, «questo ti farà star meglio. Toglierà l’amido da quelle linee rette. Ecco che cosa ti tormenta. Tutto è troppo lindo e ordinato e tu ti ci trovi chiuso dentro. Come Algernon nella sua scultura».
A tutta prima non volevo bere, ma mi sentivo cosi giù di corda che ho finito col dirmi: perché no? Un po’ di gin non avrebbe potuto peggiorare la situazione e forse sarebbe riuscito ad attutire la sensazione che provavo di contemplare me stesso con occhi incapaci di capire quel che stavo facendo.
Fay mi ha ubriacato.
Ricordo il primo bicchiere, e di essere andato a letto, e ricordo lei che mi scivolava accanto con la bottiglia in mano.
E null’altro fino a questo pomeriggio, quando mi sono alzato con l’emicrania.
Fay dormiva ancora, la faccia voltata verso il muro, il guanciale ammucchiato sotto il collo. Sul comodino, accanto al posacenere traboccante di mozziconi si trovava la bottiglia vuota, ma l’ultima cosa ch’io ricordassi prima del calar del sipario era di aver osservato me stesso vuotare il secondo bicchiere.
Lei si è stiracchiata e si è voltata verso di me… nuda. A furia di indietreggiare sono caduto giù dal letto. Ho afferrato una coperta per avvolgermici dentro.
«Salve», ha sbadigliato Fay. «Sai che cosa voglio fare uno di questi giorni?»
«Che cosa?»
«Dipingerti nudo. Come il Davide di Michelangelo. Saresti bellissimo. Stai bene?»
Ho annuito. «A parte il mal di testa. Ho… ehm… ho bevuto troppo stanotte?»
Fay ha riso e si è sollevata su un gomito. «Ti eri sborniato. E, perbacco, che modo strano di comportarti… non dico come un finocchio o qualcosa di simile, ma eri bizzarro, ecco.»
«Che cosa», ho domandato, cercando di avvolgermi nella coperta in modo da poter camminare, «vorresti dire? Che cosa ho fatto?»
«Ho visto altri uomini diventare allegri o tristi o sonnacchiosi o smaniosi di sesso, ma non ho mai veduto nessuno comportarsi come te. Meno male che non bevi spesso. Oh, Dio mio, vorrei soltanto aver avuto a portata di mano una cinepresa! Che soggetto saresti stato!»
«Insomma. che cosa ho fatto, santo cielo?»
«Non quello che mi aspettavo. Niente sesso o cose del genere. Ma sei stato fenomenale. Che scena! La più incredibile. Saresti grande sul palcoscenico; lasceresti allibiti gli spettatori. Sei diventato confuso e sciocco. Sai, come un adulto che incominci a comportarsi quasi fosse un bimbetto. Dicevi che volevi andare a scuola per imparare a leggere e a scrivere e per essere intelligente come tutti gli altri. Discorsi pazzeschi di questo genere. Ti eri messo nei panni di un’altra persona, come si fa alle scuole d’arte drammatica, e seguitavi a dire che non potevi giocare con me perché tua madre ti avrebbe portato via le noccioline americane e messo in una gabbia.»
«Le noccioline americane?»
«Sì, che Dio mi aiuti!» ha riso, grattandosi la testa. «E hai continuato a dire che non mi avresti dato le noccioline. Una cosa pazzesca. Ma come ti esprimevi, poi! Come quei pervertiti un po’ scemi agli angoli delle strade, che si eccitano soltanto guardando una donna. A tutta prima ho creduto che ti limitassi a scherzare, ma ora sono convinta che tu sia dominato da qualche impulso o che so io. Tutto quest’ordine e il tuo incessante preoccuparti d’ogni cosa…»
Le sue parole non mi hanno turbato, anche se me lo sarei aspettato. In qualche modo, l’ubriachezza aveva abbattuto momentaneamente le barriere consce che mantenevano celato nella mia mente il Charlie Gordon di un tempo. Come ho sempre sospettato, egli non è affatto scomparso. Nulla scompare mai realmente dai nostri pensieri. L’intervento chirurgico lo ha rivestito con uno straterello di educazione e di cultura, ma emotivamente egli è sempre presente… a guardare e ad aspettare.
Che cosa aspetta?
«Ti senti bene, adesso?»
Le ho risposto che mi sentivo benissimo.
Ha afferrato la coperta nella quale ero avvolto e mi ha trascinato di nuovo a letto. Prima che avessi potuto impedirglielo mi ha abbracciato e baciato. «Ho avuto paura stanotte, Charlie. Ho temuto che fossi sul punto di impazzire. Ho sentito parlare di uomini impotenti che improvvisamente impazziscono e diventano maniaci.»
«Perché sei rimasta, allora?»
Si è stretta nelle spalle. «Be’, eri come un bimbetto spaventato. Ero sicura che non mi avresti fatto del male ma temevo che potessi fare del male a te stesso. Così ho pensato di restare. Ero tanto pentita… In ogni modo, ho tenuto questo a portata di mano, per ogni eventualità…»
Ha tirato fuori un grosso fermalibri che aveva infilato tra il letto e la parete.
«Suppongo che non ti sia servito.»
Ha scosso la testa. «Mamma mia, dovevano piacerti tanto le noccioline americane quando eri bambino.»
È discesa dal letto e ha cominciato a vestirsi. Sono rimasto disteso per qualche tempo a guardarla. Si muoveva davanti a me senza timidezze né inibizioni: aveva i seni sodi e impennati come in quel suo autoritratto. Anelavo a prenderla tra le braccia, ma sapevo che sarebbe stato inutile. Nonostante l’operazione, Charlie era sempre in me.
E Charlie temeva di rimetterci le noccioline.
24 giugno Oggi mi sono dato a una strana specie di baldoria antintellettuale. Se ne avessi avuto il coraggio mi sarei ubriacato, ma dopo l’esperienza con Fay sapevo che sarebbe stato pericoloso. Così, invece, mi sono recato in Times Square passando da un cinematografo all’altro, immergendomi nei western e nei film dell’orrore… com’ero solito fare un tempo. Ogni volta, assistendo alla proiezione di un film, mi sentivo frustato dal rimorso; uscivo a metà spettacolo ed entravo in un altro cinematografo. Dicevo a me stesso che nel mondo della finzione cinematografica stavo cercando qualcosa di cui la mia nuova esistenza era priva.
Poi, con una intuizione improvvisa, proprio davanti al Keno Amusement Center, ho capito che non desideravo i film ma il pubblico. Volevo avere gente intorno a me nell’oscurità.
Le pareti che dividono le persone sono sottili, qui, e se ascolto in silenzio odo quello che accade. Succede così anche al Greenwich Village. Non si tratta soltanto della vicinanza, poiché non la sento in un ascensore gremito o nella sotterranea durante le ore di punta, ma in una notte calda, quando tutti stanno passeggiando o si trovano nelle sale di spettacolo, si ode un fruscio e per un momento io sfioro qualcuno e sento il nesso tra il ramo e il tronco e la radice profonda. In momenti come questi la mia carne è sottile e tesa, e la brama intollerabile di far parte di tutto ciò mi spinge fuori a cercare negli angoli bui e nei vicoli ciechi della notte.
Di solito, quando sono sfinito a furia di camminare, torno nel mio appartamento e piombo in un sonno profondo, ma stanotte, invece di tornare a casa mia, sono andato al ristorante economico. C’era un nuovo sguattero, un ragazzo sui sedici anni, e aveva un che di familiare, nei movimenti, nell’espressione degli occhi. Poi, sparecchiando il tavolo dietro di me, ha fatto cadere alcuni piatti.
Sono piombati sul pavimento andando in pezzi e proiettando frammenti di porcellana bianca sotto i tavoli. Il ragazzo è rimasto immobile, stordito e spaventato, reggendo in mano il vassoio vuoto. I fischi e le prese in giro degli avventori (grida di: «Ehi, ecco che se ne vanno gli utili!»… «Mazel tov!»… e «Be’, non lavorava qui da un pezzo…» che sembravano invariabilmente far seguito a una rottura di stoviglie nei ristoranti) lo confondevano.
Quando il proprietario è venuto a vedere che cosa fosse accaduto il ragazzo si è fatto piccolo… e ha alzato le braccia come per parare un colpo.
«E vabbe’, vabbe’, tonto», ha urlato l’uomo, «non startene lì come un micco! Va’ a prendere la scopa e porta via quei cocci. La scopa… la scopa, idiota! È in cucina. Spazza via tutto».
Non appena il ragazzo si è reso conto che non sarebbe stato punito gli è scomparsa dal viso l’espressione spaventata e ha sorriso e canticchiato mentre tornava indietro con la scopa. Alcuni dei clienti più chiassosi hanno continuato a burlarsi di lui divertendosi a sue spese.
«Ehi, figliolo, da questa parte. Ce n’è un bel pezzo dietro di te…»
«Su, avanti, rompine ancora…»
«Non è poi tanto stupido. È più semplice romperli che lavarli…»
Il ragazzo, spostando gli occhi vacui su coloro che lo deridevano, ne ha rispecchiato adagio i sorrisi e infine ha sogghignato con aria incerta dello scherzo che non capiva.
Mi sono sentito sconvolto osservando quel sorriso ottuso e vacuo… gli occhi grandi e vividi del ragazzo, incerto ma ansioso di piacere, e ho capito che cosa avevo riconosciuto in lui. Lo deridevano perché era un ritardato mentale.
E a tutta prima m’ero divertito anch’io insieme a tutti gli altri.
A un tratto mi sono infuriato contro me stesso e contro tutti coloro che si burlavano di lui. Avrei voluto prendere i piatti e lanciarglieli contro. Avrei voluto sferrare pugni su quelle facce ridenti. Sono balzato in piedi e ho gridato: «Finitela! Lasciatelo in pace! Non può capire. Non è colpa sua se è quello che è… ma per amor di Dio abbiate un po’ di rispetto! È un essere umano!»
Nel ristorante è calato il silenzio. Ho imprecato tra me e me per essermi lasciato andare e per aver fatto una scenata, e ho cercato di non guardare il ragazzo mentre pagavo il conto e uscivo senza aver toccato cibo. Mi vergognavo per entrambi.
Come è strano che persone sensibili e di animo buono, persone che non si approfitterebbero di un cieco o di un uomo nato senza braccia o gambe, non esitino a maltrattare un uomo privo di intelligenza! Mi ha esasperato ricordare che non molto tempo fa io, come questo ragazzo, avevo pazientemente fatto la parte del pagliaccio.
E quasi me n’ero dimenticato.
Soltanto poco tempo fa ho capito che la gente rideva di me. Ora mi rendo conto che senza saperlo mi ero unito agli altri ridendo di me stesso. E questo mi addolora più d’ogni altra cosa.
Ho riletto più volte i miei primi rapporti sui progressi e ho veduto l’ignoranza, l’ingenuità infantile, la mente ottusa sbirciare da una stanza buia, attraverso il buco della chiave, la luce abbacinante all’esterno. Nei miei sogni e nei miei ricordi ho veduto Charlie sorridere felice, non ben sicuro di quel che diceva la gente intorno a lui. Anche nella mia ottusità mi rendevo conto di essere inferiore. Gli altri avevano qualcosa che a me mancava… qualcosa che mi era negato. Nella mia cecità mentale avevo creduto che in qualche modo ciò fosse collegato alla capacità di leggere e di scrivere, ed ero stato certo che se fossi riuscito a imparare queste cose sarei diventato anche intelligente.
Anche un uomo debole di mente vuole essere come gli altri.
Un bambino può non essere capace di mangiare o non sapere come nutrirsi, ma ha fame ugualmente.
Oggi ho imparato qualcosa. Devo smetterla con queste preoccupazioni infantili sul mio conto… sul mio passato e sul mio avvenire. Voglio dare qualcosa di me agli altri. Voglio servirmi della mia cultura e delle mie capacità per accrescere l’intelligenza umana. Chi è meglio preparato di me? Chi altro ha vissuto in entrambi i mondi?
Domani mi metterò in contatto con il consiglio d’amministrazione della Fondazione Welberg e chiederò il permesso di lavorare indipendentemente all’esperimento. Se me lo consentiranno potrò essere in grado di rendermi loro utile. Ho alcune idee.
Vi è molto da fare con questa tecnica, se sarà perfezionata. Se è stato possibile fare di me un genio, che cosa non si potrà fare con gli altri cinque milioni di individui mentalmente ritardati degli Stati Uniti? E con gli innumerevoli milioni di deboli di mente in tutto il mondo e con gli altri che ancora nasceranno? E a quali livelli fantastici si potrà arrivare impiegando la stessa tecnica con le persone normali? O con i geni?
Esistono tante di quelle porte da aprire che sono impaziente di applicare al problema le mie conoscenze e le mie capacità.
Devo far capire a tutti che la cosa è molto importante per me.
Sono certo che la Fondazione mi concederà il permesso.
Ma non posso più rimanere solo. Devo parlarne ad Alice.
25 giugno Oggi ho telefonato ad Alice. Ero nervoso e devo esserle sembrato incoerente, ma è stato piacevole udire la sua voce e lei sembrava felice di udire la mia. Ha accettato di ricevermi e ho preso un tassi in centro, spazientito dalla lentezza con la quale procedeva.
Prima che avessi potuto bussare ha spalancato la porta e mi ha gettato le braccia al collo. «Charlie, ci siamo preoccupati tanto a causa tua. Ho avuto visioni orribili di te morto in un vicolo o mentre vagabondavi nei quartieri poveri, colpito da amnesia. Perché non ci hai fatto sapere che stavi bene? Avresti potuto fare almeno questo.»
«Non rimproverarmi. Dovevo rimanere solo per qualche tempo e trovare la risposta ad alcuni interrogativi.»
«Vieni in cucina. Ti preparo un po’ di caffè. Che cosa hai fatto?»
«Di giorno… ho pensato, letto e scritto; e di notte… ho vagabondato in cerca di me stesso. E ho scoperto che Charlie mi sta spiando.»
«Non parlare così.» Alice ha rabbrividito. «Questa faccenda di essere spiato non è reale. L’hai immaginata tu.»
«Non posso fare a meno di pensare che non sono io. Ho usurpato il suo posto e l’ho scacciato come hanno scacciato me dalla panetteria. Voglio dire che Charlie Gordon esiste nel passato, e il passato è reale. Non si può costruire un nuovo palazzo in un determinato punto fino a quando non si è demolito quello che c’era prima, e il Charlie di un tempo non può essere distrutto. Esiste. Dapprima l’ho cercato; sono andato a far visita a suo… a mio… padre. Volevo soltanto dimostrare che Charlie esisteva come individuo nel passato per poter giustificare la mia esistenza. Sono stato insultato quando Nemur ha detto di avermi creato. Ma ho scoperto che Charlie non si limita a esistere nel passato, esiste anche nel presente. In me e intorno a me. Si è sempre interposto tra noi. Credevo che la mia intelligenza creasse una barriera… il mio pomposo, stupido orgoglio, la sensazione di non avere niente in comune con te perché ti avevo superato. Ma non è così. È Charlie, il ragazzetto che ha paura delle donne a causa di quello che gli fece sua madre. Non capisci? In tutti questi mesi, mentre crescevo intellettualmente, ho sempre avuto la stessa struttura emotiva di Charlie fanciullo. E ogni volta che mi sono avvicinato a te o ho pensato di fare all’amore con te vi è stato un corto circuito.»
Ero eccitato. La mia voce la martellava, tanto che ha cominciato a fremere. Il viso le si è acceso. «Charlie», ha bisbigliato, «posso fare qualcosa? Posso aiutarti?»
«Credo di essere cambiato in queste settimane di lontananza dal laboratorio», ho detto. «Prima non capivo come avrei potuto fare, ma stanotte, mentre vagabondavo per la città, mi si è presentata la soluzione. La grande sciocchezza è consistita nel tentar di risolvere il problema per mio conto. Ma quanto più rimango impigliato in questo groviglio di sogni e di ricordi, tanto più mi rendo conto che i problemi emotivi non possono essere risolti come i problemi intellettuali. È quello che ho scoperto di me stesso stanotte. Mi son detto che stavo vagando come un’anima perduta, e poi ho capito di essere perduto… In qualche modo, ho finito con il separarmi emotivamente da tutto e da tutti. E quel che cercavo in realtà laggiù nelle strade buie, l’ultimo posto al mondo, accidenti, in cui avrei potuto trovarlo, era un modo di tornare a essere partecipe emotivamente della gente, pur conservando intellettualmente la mia libertà. Devo crescere. Per me questo significa tutto…»
Continuavo a parlare e a parlare, riversando fuori di me ogni dubbio e ogni paura che affiorassero alla superficie. Lei era la mia cassa di risonanza e sedeva immobile e ipnotizzata. Mi sentivo ardere come se avessi avuto la febbre, finché non mi è parso che il mio corpo fosse in fiamme. Consumavo, bruciando, l’infezione alla presenza di una persona cui volevo bene, e questo faceva una differenza enorme.
Ma era troppo per Alice. Ciò ch’era cominciato come un tremito si è tramutato in lagrime. Il mio sguardo ha colto il dipinto sopra il divano, la fanciulla impaurita, dalle gote accese, e mi sono domandato che cosa provasse Alice in quel momento. Sapevo che mi si sarebbe concessa e la desideravo, ma che cosa avrebbe fatto Charlie?
Charlie forse non si sarebbe intromesso se avessi voluto fare all’amore con Fay. Probabilmente sarebbe rimasto sulla soglia a guardare. Ma non appena mi avvicinavo ad Alice si lasciava prendere dal panico. Perché consentirmi di amare Alice lo spaventava?
Ella si è messa a sedere sul divano, guardandomi, aspettando di vedere che cosa avrei fatto. E che cosa potevo fare?
Volevo prenderla tra le braccia e…
Mentre incominciavo a pensarci, l’ammonimento è giunto.
«Ti senti bene, Charlie? Sei così pallido.»
Mi sono messo sul divano accanto a lei. «Soltanto un po’ di capogiro. Passerà.» Ma sapevo che sarebbe peggiorato fino a quando Charlie avesse intuito il pericolo ch’io facessi all’amore con lei.
E poi mi è venuta l’idea. A tutta prima mi ha disgustato, ma a un tratto mi sono reso conto che il solo modo di sormontare quella paralisi consisteva nel giocarlo in astuzia. Se, per qualche motivo, Charlie temeva Alice e non Fay, allora avrei spento la luce e finto, di fare all’amore con Fay. Lui non se ne sarebbe mai accorto.
Era ingiusto, disgustoso, ma se avesse funzionato sarei riuscito a spezzare la presa soffocante di Charlie sulle mie emozioni. In seguito avrei saputo di aver amato Alice, e che non esisteva altra soluzione.
«Ora sto bene. Restiamo seduti al buio per qualche minuto», ho detto spegnendo la luce e aspettando di riavermi. Non sarebbe stato facile. Dovevo persuadere me stesso, raffigurarmi Fay, ipnotizzarmi e indurmi a credere che la donna seduta accanto a me era Fay. E anche se egli si fosse separato da me per osservarmi dal di fuori, non gli sarebbe servito a nulla perché la stanza era buia.
Aspettavo qualche indizio dei suoi sospetti… i sintomi premonitori del panico. E invece nulla. Mi sentivo vigile e calmo. L’ho allacciata con un braccio alla vita.
«Charlie, io…»
«Non parlare!» ho detto in tono aspro, e lei ha fatto un movimento come per sottrarmisi. «Ti prego», l’ho rassicurata, «non dire niente. Lasciami soltanto tenerti stretta in silenzio nell’oscurità». L’ho avvicinata a me ancor più, e nel buio delle palpebre chiuse ho evocato l’immagine di Fay… con i lunghi capelli biondi e la pelle chiara. Fay, come l’avevo veduta l’ultima volta accanto a me. Ho baciato i capelli di Fay, la gola di Fay, e in ultimo ho trovato con la bocca le labbra di Fay. Ho sentito le mani di Fay accarezzarmi i muscoli sulla schiena sulle spalle e la tensione dentro di me si è intensificata come non mi era mai accaduto per una donna. L’ho accarezzata dapprima adagio e poi con una eccitazione impaziente, crescente, che ben presto si è fatta sentire.
I capelli corti sulla nuca hanno cominciato a drizzarmisi. C’era qualcun altro nella stanza a scrutare l’oscurità, a cercar di vedere. E febbrilmente ho ripetuto molte volte il nome tra me e me. Fay! Fay! FAY! Ne ho immaginato il viso con vivida chiarezza in modo che nulla potesse frapporsi tra noi. E poi, mentre lei mi stringeva più forte, ho lanciato un grido e l’ho respinta.
«Charlie!» Non potevo vedere il viso di Alice, ma la protesta di lei ha rispecchiato il suo smarrimento.
«No, Alice! Non posso. Tu non capisci.»
Sono balzato in piedi e ho acceso la luce. Mi aspettavo quasi di vederlo lì in piedi. Ma naturalmente non c’era. Eravamo soli. Tutto esisteva soltanto nella mia immaginazione. Alice giaceva sul divano, con la blusa aperta là dove io l’avevo sbottonata, accesa in viso, con gli occhi sbarrati e colmi di incredulità. «Ti amo…» le parole mi sono uscite strozzate dalla bocca. «ma non posso farlo. È qualcosa che non posso spiegare, ma se non mi fossi fermato avrei finito con l’odiarmi per tutta la vita. Non chiedermi di spiegare, altrimenti mi odieresti anche tu. C’è di mezzo Charlie. Non so per quale motivo, non mi consente di fare all’amore con te».
Lei ha distolto lo sguardo e si è abbottonata la blusa. «Questa sera è stato diverso», ha detto. «Non ti è venuta la nausea né ti ha preso il panico o che so io. Mi volevi.»
«Sì, ti volevo, ma in realtà non stavo facendo all’amore con te. Volevo servirmi di te, in un certo senso, ma non posso spiegare. Non lo capisco io stesso. Diciamo, semplicemente, che non sono ancora pronto. E non posso simulare o frodare o fingere che tutto vada bene quando non è così. È, né più né meno, un altro vicolo cieco.»
Mi sono alzato per andarmene.
«Charlie, non fuggire di nuovo.»
«Sono stanco di fuggire. Ho del lavoro da sbrigare. Di’ loro che tornerò al laboratorio tra qualche giorno… non appena sarò riuscito a dominarmi.»
Sono uscito dall’appartamento in preda alla frenesia. Giù in istrada, di fronte al palazzo, ho esitato, non sapendo da che parte andare. Qualsiasi direzione seguissi sentivo una scossa che significava un altro errore.
Tutte le vie erano bloccate. Dio mio… qualsiasi cosa facessi, ovunque mi volgessi, tutte le porte erano chiuse per me.
Non v’era luogo in cui potessi entrare. Né una strada né una stanza né una donna.
Infine sono disceso barcollante nella sotterranea e un convoglio mi ha portato nella Quarantanovesima Strada.
Poca gente in giro, ma c’era una bionda dai lunghi capelli che mi ha ricordato Fay. Dirigendomi verso l’autobus che attraversa la città, sono passato davanti a un negozio di liquori e senza riflettere sono entrato e ho comprato un quinto di gin. Mentre aspettavo l’autobus ho aperto la bottiglia nel sacchetto, come avevo veduto fare dai vagabondi, e ho bevuto un lungo sorso. L’ho sentito bruciare fino allo stomaco, ma era piacevole. Ne ho bevuto un altro, un sorsetto appena, e quando l’autobus è arrivato ero immerso in una sensazione formidabile di formicolio. Non ho bevuto più. Non volevo ubriacarmi in quel momento.
Quando sono arrivato a casa mia ho bussato alla porta di Fay. Nessuna risposta. Ho aperto la porta e dato un’occhiata. Non era ancora tornata ma aveva lasciato tutte le luci accese. Se ne infischiava di tutto. Perché non potevo essere anch’io così?
Sono andato nel mio appartamento ad aspettare. Mi sono spogliato, ho fatto la doccia e indossato una vestaglia. Ho pregato affinché non fosse questa una delle sere in cui tornava a casa accompagnata da qualcuno.
Verso le due e mezzo del mattino l’ho udita salire gli scalini. Ho preso la bottiglia, sono uscito sulla scala antincendio e ho raggiunto la finestra di lei proprio mentre ella stava aprendo la porta di casa. Non avevo avuto l’intenzione di starmene lì rannicchiato a guardare; intendevo bussare alla finestra. Ma mentre alzavo la mano per rendere nota la mia presenza l’ho veduta togliersi le scarpe con un movimento brusco dei piedi e piroettare allegramente. Si è avvicinata allo specchio e adagio, un capo di vestiario alla volta, ha incominciato a togliersi tutto di dosso, eseguendo uno spogliarello privato. Ho bevuto un altro sorso. Ma non sono riuscito a indurmi a farle sapere che l’avevo spiata.
Sono rientrato nel mio appartamento senza accendere la luce. A tutta prima avevo pensato di invitarla a casa mia, ma tutto era eccesivamente lindo e in ordine, troppe linee rette da cancellare, e sapevo che lì non avrebbe funzionato. Così sono uscito nel corridoio e ho bussato alla porta di casa sua, dapprima piano, poi più forte.
«La porta è aperta!» ha gridato lei.
Era in sottoveste, distesa sul pavimento, con le braccia aperte e le gambe appoggiate al divano. Ha reclinato la testa all’indietro e mi ha guardato di sotto in su. «Charlie, tesoro! Perché stai in equilibrio sulla testa?»
«Lascia perdere», ho detto, togliendo la bottiglia dal sacchetto di carta. «Le linee e le scatole sono troppo diritte e mi son detto che forse ti saresti unita a me nel cancellarne alcune.»
«Quello è il liquore più efficace del mondo per riuscirci», ha detto lei. «Se ti concentri sul punto caldo che incomincia a farsi sentire alla bocca dello stomaco, tutte le linee incominciano a fondersi.»
«È appunto quello che sta accadendo.»
«Meraviglioso!» È balzata in piedi. «Anche a me! Ho ballato con troppi scocciatori, questa sera. Dimentichiamo tutto!» Ha preso un bicchiere e io gliel’ho riempito.
Mentre beveva le ho fatto scivolare un braccio intorno alla vita e le ho pizzicato la pelle della schiena nuda.
«Ehi, tu, figliolo! Uaaaa! Che cosa bolle in pentola?»
«Io. Aspettavo che tornassi a casa.»
Si è fatta indietro. «Oh, aspetta un momento, Charlie mio. Attraverso questa esperienza ci siamo già passati. Sai bene che non ti giova. Voglio dire, lo sai che mi piaci un mucchio e ti trascinerei a letto in un lampo se pensassi che c’è qualche possibilità. Ma non voglio eccitarmi tutta per niente. Non è giusto, Charlie.»
«Stanotte sarà diverso, lo giuro.» Prima che avesse potuto protestare l’avevo tra le braccia, la baciavo, l’accarezzavo, la travolgevo con tutta l’accumulata eccitazione che stava per dilaniarmi. Ho cercato di sganciarle il reggipetto ma ho tirato troppo energicamente e il gancetto si è strappato.
«Per amor di Dio, Charlie, il mio reggiseno…»
«Non preoccuparti per il reggiseno…» ho detto con voce strozzata aiutandola a toglierselo. «Te ne comprerò un altro. Ti ricompenserò delle altre volte. Farò all’amore con te per tutta la notte.»
Lei mi ha respinto. «Charlie, non ti ho mai sentito parlare così. E finiscila di guardarmi come se volessi inghiottirmi intera!» Ha strappato una blusetta da una delle poltrone e l’ha tenuta dinanzi a sé. «Ora mi fai sentire spogliata.»
«Voglio fare all’amore con te. Stanotte posso riuscirci. Lo so… lo sento. Non respingermi, Fay.»
«Prendi», ha bisbigliato, «bevi ancora un po’».
Ho versato gin per me e per lei, e mentre lo sorseggiavo le ho coperto la spalla e il collo di baci. Ha incominciato ad ansimare, man mano che la mia eccitazione le si comunicava.
«Dio, Charlie, se mi fai cominciare e mi deludi di nuovo, non so che cosa combinerò. Anch’io sono umana, sai.»
L’ho distesa accanto a me sul divano, sopra il mucchio dei suoi vestiti e della sua biancheria.
«Non qui sul divano, Charlie», ha detto, sforzandosi di alzarsi. «Andiamo a letto.»
«Qui», ho insistito, strappandole di dosso la blusa.
Ha abbassato gli occhi su di me, ha posato il bicchiere sul pavimento e si è tolta le mutandine. È rimasta in piedi davanti a me, nuda. «Spengo la luce», ha bisbigliato.
«No», ho detto, tirandola di nuovo giù sul divano. «Voglio guardarti.»
Mi ha baciato a lungo tenendomi stretto tra le braccia. «Non deludermi, però, questa volta, Charlie. Sarà meglio di no.»
Il suo corpo si è mosso adagio, protendendosi verso di me, e io ho capito che questa volta nulla si sarebbe intromesso. Sapevo che cosa fare e come farlo. Lei si è lasciata sfuggire un ansito, ha sospirato, ha invocato il mio nome.
Per un momento ho avuto la sensazione raggelante ch’egli mi stesse guardando. Al di sopra del bracciolo del divano, ho intravisto la sua faccia che mi fissava al di là dell’oscurità della finestra… dove ero rimasto rannicchiato soltanto pochi minuti prima. Un salto di percezione ed ero di nuovo sulla scala antincendio a guardare dentro, un uomo e una donna che facevano all’amore sul divano. Poi, con uno sforzo violento della volontà, sono tornato sul divano con lei, conscio del suo corpo e del mio desiderio pressante e della mia potenza, e ho rivisto la faccia nella cornice della finestra che avidamente guardava. E ho pensato tra me e me, fa’ pure, povero bastardo… guarda. Non me ne importa più niente.
E lui ha sbarrato gli occhi mentre guardava.
29 giugno Prima di tornare al laboratorio porterò a termine i lavori che ho cominciato dopo essermene andato dal congresso. Ho telefonato a Landsdoff del Nuovo Istituto Studi Superiori, a proposito della possibilità di utilizzare il fotoeffetto nucleare di produzione accoppiata per ricerche sperimentali in biofisica. A tutta prima mi ha scambiato per un picchiatello, ma quando gli ho fatto rilevare gli errori nel suo articolo sul Giornale del Nuovo Istituto, mi ha tenuto al telefono per quasi un’ora. Vuole che vada all’Istituto a parlare delle mie idee con il gruppo dei suoi collaboratori. Potrei associarmi con lui dopo aver terminato il lavoro al laboratorio, se ne avrò il tempo. È questa la difficoltà, naturalmente. Non so quanto tempo mi rimanga. Un mese? Un anno? Tutta la vita? Dipende da quello che scoprirò sugli effetti psicofisici collaterali dell’esperimento.
30 giugno Ho smesso di vagabondare per le strade ora che ho Fay. Le ho dato la chiave di casa mia. Fay mi prende in giro perché chiudo a chiave la porta, e io la prendo in giro per il disordine di casa sua. Mi ha avvertito di non tentare di cambiarla. Suo marito divorziò da lei cinque anni fa perché ella non sopportava di essere infastidita a proposito della necessità di mettere ogni cosa in ordine e di curarsi della casa.
Si comporta così, del resto, in quasi tutte le cose che le sembrano prive di importanza. Non può o non vuole curarsene, semplicemente. L’altro giorno ho scoperto una pila di scontrini di parcheggio in un angolo dietro una poltrona… dovevano essere quaranta o cinquanta. Quando è venuta con la birra le ho domandato perché li collezionasse.
«Oh, quelli!» ha riso. «Non appena il mio ex marito mi manda il maledetto assegno, non posso fare a meno di comprarne alcuni. Non hai idea di quanto mi assillano. Li tengo dietro quella poltrona perché altrimenti ogni volta, vedendoli, mi verrebbe una crisi di rimorso. Ma che cosa dovrebbe fare una povera donna? Ovunque vada, ci sono cartelli dappertutto… non parcheggiate qui! Non parcheggiate lì!… Io non posso assolutamente darmi la pena di leggere i cartelli ogni volta che scendo dalla macchina.»
Pertanto ho promesso che non cercherò di mutarla. È eccitante vivere con lei. Ha un gran senso dell’umorismo. Ma, soprattutto, è uno spirito libero e indipendente. La sola cosa che può stancare dopo qualche tempo è la sua folle passione per il ballo. Siamo rimasti fuori tutte le sere questa settimana fino alle due e alle tre del mattino. Non mi rimane più tanta energia.
Non si tratta d’amore… ma Fay è importante per me. Mi sorprendo a rimanere in ascolto dei suoi passi nel corridoio ogni volta che esce.
Charlie ha smesso di spiarci.
5 luglio Ho dedicato a Fay il mio primo concerto per pianoforte. Era entusiasmata dall’idea che le venisse dedicato qualcosa, ma non credo che le sia piaciuto davvero. Questo dimostra semplicemente che non si può trovare tutto quello che si vuole in una donna. Un altro argomento a favore della poligamia.
L’importante è che Fay è allegra e di buon cuore. Ho saputo oggi perché è rimasta senza soldi così presto questo mese. La settimana prima di conoscermi aveva fatto amicizia con una ragazza incontrata alla sala da ballo Polvere di Stelle. Quando la ragazza disse a Fay di non avere la famiglia in città, di essere senza un centesimo e di non saper dove andare a dormire, Fay la invitò a casa sua. Due giorni dopo la ragazza trovò i duecentotrentadue dollari che Fay teneva nel cassetto della toletta e scomparve con il denaro. Fay non ha denunciato il furto alla polizia; è risultato, del resto, che non sapeva neppure come si chiamasse di cognome la ragazza.
«A che cosa servirebbe avvertire la polizia?» ha voluto sapere. «La povera sgualdrinella, voglio dire, doveva avere un gran bisogno di quei soldi per fare una cosa simile. Non voglio rovinarle l’esistenza per un paio di centinaia di dollari. Non sono certo ricca, ma neppure voglio la sua pelle… non so se mi capisci.»
Ho capito benissimo.
Non ho mai conosciuto una persona più aperta e fiduciosa di Fay. È ciò di cui ho più bisogno in questo momento. Sono affamato di semplici contatti umani.
8 luglio Non mi rimane molto tempo per lavorare… tra il passare da un club notturno all’altro, la sera, e le emicranie mattutine. Soltanto con aspirine e non so che altro intruglio preparatomi da Fay sono riuscito a terminare la mia analisi linguistica delle forme verbali urdu e a inviare la relazione al Bollettino linguistico internazionale. Farà sì che i linguisti tornino in India con i loro registratori, poiché mina la sovrastruttura critica della metodologia moderna.
Non posso fare a meno di ammirare i linguisti strutturali che si sono imposti una disciplina linguistica basata sul deterioramento delle comunicazioni scritte. Un altro caso di uomini che dedicano l’esistenza a uno studio sempre più intenso di argomenti sempre più esigui… riempiendo volumi e biblioteche con la sottile analisi linguistica del grugnito. Niente di male in questo, ma non bisognerebbe servirsene come di un pretesto per distruggere la stabilità del linguaggio.
Alice ha telefonato oggi; voleva sapere quando tornerò a lavorare al laboratorio. Le ho detto che desideravo terminare i lavori già iniziati e che speravo di ottenere dalla Fondazione Welberg il permesso di dedicarmi al mio studio speciale. Lei ha ragione però… devo tenere conto anche del fattore tempo.
Fay seguita a voler andare a ballare continuamente. Ieri sera abbiamo cominciato bevendo e ballando al White Horse Club, e di là siamo passati al Benny’s Hideaway e quindi al Pink Slipper… e in seguito non ricordo più in quanti altri locali, ma abbiamo ballato finché non ce la facevo più a stare in piedi. La mia tolleranza per i liquori deve essersi accresciuta, poiché ero quasi ubriaco prima che Charlie apparisse. Lo ricordo soltanto mentre si esibiva in uno stupido tip-tap sul palcoscenico del club notturno Allakazam. Ha ricevuto un grande applauso prima che il direttore ci mettesse alla porta e Fay ha detto che, a parere di tutti, ero un comico meraviglioso e la mia imitazione di un deficiente aveva incontrato l’approvazione generale.
Che diavolo è accaduto in seguito? So che mi duole la schiena per uno strappo muscolare. Credevo che fosse successo a furia di ballare, invece Fay dice che sono caduto dal dannato divano.
Il comportamento di Algernon sta diventando di nuovo imprevedibile. Minnie sembra aver paura di lui.
9 luglio Oggi è accaduta una cosa terribile. Algernon ha morso Fay. L’avevo sconsigliata di trastullarsi con lui, ma le è sempre piaciuto dargli da mangiare. Di solito, quando entrava nella sua stanza, Algernon si rallegrava e le correva incontro. Oggi invece è stato diverso. Si trovava al lato opposto della gabbia, raggomitolato come un batuffolo bianco. Quando Fay ha infilato la mano attraverso lo sportellino, il topo si è rannicchiato su se stesso rincantucciandosi. Lei ha cercato di allettarlo, aprendo l’ingresso del labirinto e prima che potessi dirle di lasciarlo stare ha commesso l’errore di cercare di prenderlo in mano. Algernon le ha morso il pollice. Poi ci ha fissato entrambi con ira ed è sgattaiolato nel labirinto.
Abbiamo trovato Minnie all’estremità opposta, nella cassetta delle ricompense. Sanguinava da un morso al petto, ma era viva. Mentre facevo per prenderla, Algernon è entrato nella cassetta e ha cercato di mordermi; ha affondato i denti nella manica della giacca e vi è rimasto appeso finché non me ne sono liberato con uno strattone.
In seguito si è calmato; l’ho osservato per più di un’ora. Sembra irrequieto e confuso e sebbene continui a imparare nuovi problemi senza ricompense, il suo modo di comportarsi è singolare. In luogo dei cauti ma decisi movimenti nei corridoi del labirinto, il suo incedere è precipitoso e incontrollato. Ripetutamente volta agli angoli troppo in fretta e urta contro un ostacolo; v’è una strana fretta nel suo modo di agire.
Esito a dare un giudizio immediato. Potrebbe trattarsi di molte cose. Ma ora è necessario che lo riporti in laboratorio. Anche se non saprò niente dalla Fondazione per quanto riguarda il finanziamento delle mie ricerche, telefonerò a Nemur domattina.