ARYA

«Ci sono i fantasmi, qui. Io lo so che ci sono» Frittella, le braccia imbiancate di farina fino ai gomiti, stava preparando delle trecce di pane. «Pia ha visto qualcosa nella dispensa, ieri notte.»

Arya commentò con un suono volgare. Pia vedeva sempre cose nella dispensa. Di solito, si trattava di uomini.

«Me la daresti una pasta?» chiese a Frittella. «Ne hai fatto un intero vassoio.»

«Mi serve tutto. Ser Amory Lorch ne è ghiotto.»

Arya lo odiava, ser Amory Lorch. Era stato lui a comandare quelli che li avevano attaccati nel fortino abbandonato, uccidendo Yoren e tutti gli altri.

«Sputiamoci sopra» propose.

Frittella si guardò intorno nervosamente. Le cucine erano piene di ombre pesanti, piene di echi. Tutti gli altri cuochi e gli sguatteri stavano dormendo negli spazi cavernosi sopra i forni.

«Se ne accorgerà.»

«No invece» insisté Arya. «Non puoi sentire il sapore dello sputo.»

«Ma se lo sente, è a me che mi frustano» Frittella fece una pausa. «Tu non devi nemmeno essere qui. È notte fonda.»

Lo era, ma ad Arya non importava. Perfino nel cuore della notte, c’era sempre attività nelle cucine di Harrenhal. C’era sempre qualcuno che preparava la pasta per il pane della mattina dopo, che rimestava in un pentolone con un lungo mestolo di legno, che macellava un maiale per la pancetta della colazione di ser Amory. Quella notte, quel qualcuno era Frittella.

«Se Occhio moscio si sveglia e scopre che tu non ci sei…»

«Occhio moscio non si sveglia mai» ribatté Arya. Il suo vero nome era Mebble ma, visto che i suoi occhi lacrimavano in continuazione, tutti lo chiamavano Occhio moscio. «Non una volta che è partito.»

Ogni mattina, Mebble Occhio moscio faceva colazione a base di birra. E ogni sera dopo cena crollava in un sonno da ubriaco, con la bava color del vino che gli colava lungo il mento. Arya aspettava di udirlo russare, poi, a piedi nudi, saliva la scala della servitù, senza fare più rumore del piccolo topo che era stata. Non aveva bisogno né di candele né di torce. Un tempo, Syrio Forel le aveva detto che l’oscurità poteva essere sua amica. Aveva ragione. Ad Arya bastavano il chiarore della luna o la luce delle stelle per muoversi.

«Scommetto che potremmo anche scappare» disse a Frittella «e Occhio moscio nemmeno si accorgerebbe che ce ne siamo andati.»

«Io non ho nessuna voglia di scappare. È molto meglio qua che in quei dannati boschi. Io non li voglio più mangiare i vermi. Qui, dammi una mano, spargi un po’ di farina sulla…»

«Aspetta…» Arya inclinò il capo di lato. «Che cos’è stato?»

«Cosa? Io non…»

«Ascolta con le orecchie, non con la bocca. Era il suono di un corno da guerra. Due volte, non lo hai sentito? Ecco, ecco… Queste erano le catene della grata del portale: qualcuno sta entrando. O sta uscendo. Vieni a vedere?»

Era dalla mattina in cui lord Tywin era tornato in guerra con il suo esercito che le porte di Harrenhal non venivano più aperte.

«Sto facendo il pane per domattina» si lamentò Frittella. «E poi a me non piace quando è tutto buio, te l’ho già detto.»

«Io ci vado. Ti dico dopo. Me la dai una pasta o no?»

«No.»

Ma Arya ne prese una comunque. Se la mangiò uscendo dalle cucine. Era ripiena di nocciole tritate e frutta e formaggio, la crosta croccante ancora tiepida dal forno. Mangiare una delle paste di ser Amory la fece sentire temeraria. “Piede nudo, piede sicuro, piede leggero” canticchiò sottovoce. “Sono io il fantasma di Harrenhal.”

Il suono del corno da guerra aveva strappato la fortezza al suo sonno. Erano molti gli uomini che scendevano nel cortile per capire che cosa stesse accadendo. Arya si mescolò tra loro. Una colonna di carri trascinati da buoi stava scorrendo sotto la grata. “Razziatori” si rese subito conto Arya. I cavalieri che scortavano i carri parlavano troppe lingue strane. Sotto i raggi della luna, le loro armature apparivano livide. Arya notò due di quegli strani cavalli a strisce bianche e nere. “I Guitti sanguinari!…” D’istinto, si ritirò dove le tenebre erano più fitte. Rimase a osservare mentre veniva trasportato dentro anche un gigantesco orso nero, chiuso in una gabbia d’acciaio nel retro di uno dei carri. Altri carri erano carichi di argenteria, armi, scudi, sacchi di farina, stie di maiali urlanti, cani macilenti, polli. Arya stava cercando di ricordare da quanti secoli non assaggiava più una fetta di arrosto di maiale quando apparvero i primi prigionieri.

Dal modo orgoglioso e fiero in cui teneva la testa alta, l’uomo che apriva la marcia doveva essere un lord. La sua maglia di ferro scintillava sotto la tunica lacera di colore rosso. Arya credette che fosse un Lannister, ma poi l’uomo entrò nell’alone di una torcia. Il suo emblema era un pugno d’argento, non un leone. Aveva i polsi strettamente legati. Una fune annodata alla caviglia lo univa all’uomo dietro di lui, e questi a sua volta a quello dopo, e a quello dopo ancora. L’intera colonna era costretta ad arrancare a uno strano passo sussultorio. Molti dei prigionieri erano feriti. Se uno di loro si fermava, un cavaliere arrivava al trotto ad assestargli un secco colpo di frusta per farlo muovere di nuovo. Arya cercò di farsi un’idea di quanti fossero quei prigionieri, ma a cinquanta perse il conto. Dovevano essere per lo meno il doppio. I loro abiti erano incrostati di fango e sangue. Nella luce baluginante delle torce, era difficile distinguere emblemi e sigilli. Arya però ne riconobbe alcuni: torri gemelle, vampata solare, uomo insanguinato, ascia da guerra. “L’ascia da guerra è dei Cerwyn, e il sole bianco su sfondo nero è dei Karstark. Questi sono uomini del Nord. Uomini di mio padre… e di Robb.” Non volle pensare a che cosa questo potesse significare.

I Guitti sanguinari cominciarono a smontare. Ragazzi di stalla assonnati si trascinarono fuori dai loro letti di paglia per andare a occuparsi dei loro cavalli coperti di schiuma. Uno dei mercenari chiedeva birra a gran voce. Tutti quei rumori portarono anche ser Amory Lorch a fare la sua comparsa sul ponte coperto al di sopra del cortile. Ai suoi lati, c’erano due uomini che reggevano delle torce.

Vargo Hoat, il capo dei Guitti sanguinari, con l’elmo a testa di caprone, fece fermare il cavallo sotto la galleria: «Mio lord caschtellano.» Il mercenario parlava in modo strascicato, distorto, come se avesse la lingua troppo grossa per stargli tutta quanta in bocca.

«Che cosa accade, Hoat?» chiese ser Amory con la fronte aggrottata.

«Prischogneri. Roosh Bolton pensava di attraversare il fiume, ma i miei Bravi Camerati gli hanno tagliato la sua avanguardia in pesschi. Uccisi tanti e poi Bolton schcappa. Queschto qua è il loro lord comandante, Glover. E quello dietro è scher Aenysch Frey.»

Gli occhietti porcini di ser Amory esaminarono la fila dei prigionieri. Ad Arya, non parve che lui fosse compiaciuto. Tutti al castello di Harrenhal sapevano che Lorch e Hoat si odiavano a morte.

«Molto bene» disse alla fine ser Amory. «Ser Cadwyn, porta questi uomini nelle segrete.»

L’uomo con il simbolo del pugno argenteo sulla tunica alzò lo sguardo: «Ci era stato promesso di essere trattati in modo onorevole…».

«Schilenschio!» sputacchiò Vargo Hoat.

«Qualsiasi cosa Hoat vi abbia promesso, non significa nulla per me» berciò ser Amory dall’alto. «Lord Tywin ha nominato me castellano di Harrenhal, e io farò come mi pare e piace.» Fece un cenno alle guardie. «La cella grande sotto la Torre della Vedova dovrebbe bastare a contenerli tutti. Chiunque di voi non voglia andarci, si ritenga libero di crepare qui fuori.»

Gli uomini di Lorch condussero via i prigionieri, spingendoli con le punte delle lance. Arya vide Occhio moscio apparire alla base della scala, ammiccando nel chiarore delle torce. Se avesse scoperto che lei se n’era andata in giro, le avrebbe gridato dietro, minacciando di spellarle la schiena a frustate. Arya però non aveva paura. Occhio moscio non era Weese. Stava sempre a sbraitare e a minacciare di spellare la schiena a frustate a questo e a quello, ma lei non lo aveva mai visto colpire nessuno. In ogni caso, era meglio che lui non la vedesse. Arya diede un’occhiata in giro. I finimenti stavano venendo rimossi dai buoi, i carri scaricati, mentre i Bravi Camerati di Vargo Hoat chiedevano da bere. Parecchi curiosi si erano radunati attorno alla gabbia con dentro l’orso. In tutta quella confusione, non le fu difficile sgattaiolare via. Rientrò nella fortezza per la stessa strada che aveva percorso all’andata, cercando di restare fuori vista, per evitare che qualcuno la notasse e le desse qualche lavoro da fare.

Lontano dalle porte e dalle stalle, Harrenhal era per la maggior parte deserta. I suoni si affievolirono dietro di lei. Il vento soffiava rabbioso, traendo strani ululati dalle crepe nella Torre dei Lamenti. Dagli alberi del parco degli dei avevano cominciato a cadere le foglie. Arya poteva udire il loro fruscio mentre scivolavano lungo il selciato dei vari cortili interni. Adesso che la fortezza maledetta era nuovamente vuota, il suono giocava strani scherzi. A volte, le pietre stesse sembravano inghiottire qualsiasi rumore, immergendo Harrenhal in un sudario di silenzio. Altre volte, gli echi parevano acquistare una vita propria. Così ogni passo si tramutava nel ritmo di marcia di un esercito fantasma, e ogni voce remota diventava un cantico di spettri. Tutte cose che a Frittella facevano paura, ma non ad Arya Stark.

Silenziosa come un’ombra, scivolò lungo il ponte di mezzo, attorno alla Torre del Terrore. Superò grandi uccelliere dove, secondo alcuni, gli spiriti dei falconi morti agitavano l’aria con le loro ali fantasma. Arya poteva andare dove voleva. La guarnigione era composta da un centinaio di uomini al massimo, talmente pochi da perdersi nella vastità della fortezza. La Sala dei Cento Focolari era stata chiusa. Lo stesso valeva per parecchi altri edifici secondari, inclusa la Torre dei Lamenti. Ser Amory Lorch stava nella residenza del castellano, situata nella Torre del Rogo del Re, spaziosa quanto quella di un lord. Arya e gli altri servi erano stati trasferiti nelle cantine sottostanti, in modo da essere opportunamente a disposizione. Quando lord Tywin aveva abitato a Harrenhal, c’era sempre qualcuno armato che voleva sapere chi eri e dove andavi. Ma ora, con solo un centinaio di uomini lasciati a sorvegliare più di mille porte, nessuno sembrava sapere chi dovesse trovarsi dove. Né sembrava importare granché.

Nel superare l’armeria, Arya udì il pestare ritmico di un martello. Una luce arancione scuro pulsava da dietro le alte finestre. Arya scalò fino al tetto e diede una sbirciata. Gendry stava rifinendo una corazza pettorale. Quando lavorava, per lui non esisteva altro se non il metallo, il mantice e la fiamma. Il martello era come un’estensione del suo braccio. Arya rimase a fissare il gioco dei muscoli che guizzavano sotto la pelle del suo poderoso torace, ascoltando il canto dell’acciaio. “È forte” non poté fare a meno di pensare. Gendry si munì di un paio di pinze dal manico lungo per immergere la corazza nel bagno di tempera. Arya s’infilò dalla finestra e saltò giù, atterrando accanto a lui.

Gendry non parve affatto sorpreso di vederla: «Dovresti essere a letto, ragazzina». La corazza immersa nell’acqua soffiò come una gatta infuriata. «Che cos’era tutto quel baccano?»

«Vargo Hoat è tornato portando dei prigionieri. Ho visto i loro emblemi. C’è un Glover di Deepwood Motte. È uno degli uomini di mio padre. Anche gli altri, per la maggior parte.» E di colpo, Arya seppe per quale ragione i suoi piedi l’avevano portata fino là. «Devi aiutarmi a farli scappare.»

Gendry rise: «Davvero? E come?».

«Ser Amory li ha mandati in una delle segrete. Quella sotto la Torre della Vedova, che è un’unica grande cella. Tu potresti spaccare la serratura a martellate…»

«Giusto. Mentre le guardie stanno a guardare, scommettendo su quanti colpi mi ci vogliono per farla fuori?»

Arya si morsicò il labbro inferiore: «Le guardie… le dobbiamo uccidere».

«E come pensi di riuscirci?»

«Forse non ce ne sono tante.»

«Se anche sono solo due, per te e me sono due di troppo. Tu proprio non hai imparato niente in quel villaggio sull’Occhio degli Dei, eh? Tu solo provaci…» Gendry impugnò di nuovo le pinze «e Vargo Hoat ti taglia le mani e i piedi, come fa sempre con quelli che lo infastidiscono.»

«Hai paura.»

«Lasciami perdere, ragazzina.»

«Gendry ci sono almeno cento uomini del Nord là sotto. Forse anche di più, non li ho contati tutti. Tanti quanti ne ha ser Amory, be’… senza contare i Guitti sanguinari. Dobbiamo solo farli uscire. Poi c’impossessiamo della fortezza e scappiamo.»

«Non riuscirai a farli uscire. Così come non sei riuscita a salvare Lommy Maniverdi» Gendry sollevò la corazza con le pinze e la esaminò da vicino. «E se anche riusciamo a scappare, poi dove andiamo?»

«A Grande Inverno» rispose Arya senza esitazione. «Dirò alla lady mia madre che tu mi hai aiutato. Potresti rimanere con noi…»

«E milady me lo permetterebbe? Potrei ferrare i tuoi cavalli e fare le spade per i lord tuoi fratellini?»

Certe volte, Gendry la mandava proprio fuori dai gangheri: «Smettila!».

«Perché dovrei giocarmi i piedi per poter sudare a Grande Inverno invece che sudare a Harrenhal? Tu conosci il vecchio Ben Pollice nero? Era il fabbro di lady Whent. E prima di lui, di suo padre. E prima ancora, del padre di suo padre. Era addirittura il fabbro di lord Lothson, che aveva Harrenhal prima che arrivassero i Whent. Adesso è uno dei fabbri di lord Tywin. Lo sai quello che dice? Una spada è una spada e un elmo è un elmo. E se metti la mano nel fuoco, te la ritrovi bruciata, chiunque tu servi. Lucan non è male come mastro armiere. Io resto qua.»

«Allora la regina finirà per catturarti. A Ben Pollice nero non ha certo mandato delle cappe dorate!»

«Mi sa che non era nemmeno me che volevano.»

«Invece sì, e tu lo sai bene. Tu sei qualcuno.»

«Io sono un apprendista fabbro. Un giorno potrei anche diventare mastro armiere… ma solo se non scappo e non finisco con i piedi mozzati e non mi faccio uccidere.»

Gendry le voltò le spalle, riprese il martello e cominciò a picchiare di nuovo.

Piena di rabbia impotente, Arya serrò entrambi i pugni: «Il prossimo elmo che fai, invece delle corna di toro, mettici sopra delle orecchie da somaro!».

Corse via dalla forgia. Doveva farlo, altrimenti si sarebbe messa a colpirlo. “Ma anche se lo facessi, forte com’è probabilmente non sentirebbe niente. Quando scopriranno chi è, gli taglieranno quella sua stupida testa da somaro, e allora sì che gli dispiacerà di non avermi aiutato.”

In ogni caso, era meglio andare avanti senza di lui. Era stato per colpa sua che li avevano catturati, in quel villaggio maledetto sulle rive dell’Occhio degli Dei.

Ma ripensare al villaggio le fece tornare in mente la marcia della morte, e la stalla dov’era stata tenuta prigioniera insieme agli altri, e Messer sottile. Rivide il bambino cui avevano sfondato il cranio con una mazza ferrata e quel vecchio sciocco. Tutto per Joffrey e Lommy Maniverdi. “Ero una pecora, e poi sono stata un topo, e la sola cosa che ho potuto fare è stata nascondermi.” Arya si morse nuovamente il labbro inferiore, cercando di ricordare quando il coraggio le era tornato. “Jaqen mi ha ridato la fierezza. Lui mi ha tramutato in uno spettro, invece di essere un topo.”

Era dalla morte di Weese che evitava l’uomo misterioso di Lorath. Con Chiswyck era stato facile, chiunque poteva spingere qualcuno giù da un camminamento sulle mura. Weese, invece, quella sua brutta cagna maculata l’aveva avuta fino da quando era un cucciolo. Soltanto qualche oscura magia poteva aver fatto sì che il cane gli si rivoltasse contro. “Yoren aveva trovato Jaqen H’ghar in una delle celle buie della Fortezza Rossa, la stessa di Rorge e di Mordente. Jaqen aveva commesso un crimine spaventoso e Yoren sapeva quale. Per questo lo teneva ai ceppi.” E se il lorathiano era una specie di stregone, allora forse Rorge e Mordente non erano uomini, ma demoni evocati dagli inferi.

Jaqen le doveva ancora una morte. Nelle storie che la Vecchia Nan raccontava degli uomini cui gli elfi avevano concesso poteri magici, il terzo desiderio era quello cui bisognava stare più attenti. Proprio perché era l’ultimo. Chiswyck e Weese non erano stati importanti. “Ma la terza morte deve contare.” Era questo che Arya bisbigliava a se stessa ogni notte, ripetendo i nomi dell’odio. Dunsen, Polliver, Raff Dolcecuore, Messer Sottile e il Mastino. Ser Gregor, ser Amory, ser Ilyn, ser Meryn, re Joffrey, regina Cersei. Solo che ora aveva cominciato a chiedersi se fosse davvero quella l’unica ragione per cui continuava a esitare. Sapeva uccidere con un sussurro. Non avrebbe dovuto avere paura di nulla… Ma nel momento in cui avesse decretato l’ultima morte, sarebbe tornata a essere un topo.

Adesso che Occhio moscio era sveglio, Arya non osava tornare al suo pagliericcio. Non sapendo dove nascondersi, andò nel parco degli dei. Le piaceva l’odore penetrante dei pini e degli alberi-sentinella, la sensazione dell’erba e del terriccio sotto le piante dei piedi, il suono del vento tra le foglie. C’era un torrente, piccolo e lento, che si snodava tra gli alberi. E c’era un punto, in prossimità del tronco di un albero caduto, in cui la corrente aveva scavato il terreno.

Là, sotto del legno marcio e contorti rami spezzati, Arya trovò la sua spada nascosta.

Gendry era troppo testardo per forgiargliene una, così Arya se l’era fatta da sola togliendo le setole a una scopa. La lama era troppo leggera, e mancava una vera l’impugnatura, ma ad Arya la punta scheggiata piaceva lo stesso. Ogni volta che aveva un’ora libera, andava a rifugiarsi nel parco degli dei di Harrenhal per addestrarsi nelle cose che Syrio le aveva insegnato. Si muoveva a piedi nudi sulle foglie cadute, falciando i rami, staccando altre foglie. A volte, scalava uno dei tronchi e danzava sulle biforcazioni superiori, con le dita dei piedi che si chiudevano sul ramo mentre lei si spostava avanti e indietro, barcollando ogni volta sempre di meno, man mano che riacquistava il suo senso dell’equilibrio. La notte era il momento migliore. Nessuno allora veniva a disturbarla.

Arya salì su uno degli alberi. Là, nel regno delle foglie, sfoderò la spada e riuscì a dimenticare tutti, almeno per breve tempo. Dimenticò ser Amory e i Guitti sanguinari e anche gli uomini del Nord. Si perse nel legno ruvido che sentiva sotto i piedi e nel sibilo della lama che fendeva l’aria. Un ramo spezzato divenne Joffrey. Arya lo colpì e lo colpì fino a quando non volò via in pezzi. La regina e ser Ilyn e ser Meryn e il Mastino non erano altro che foglie, ma lei li uccise tutti lo stesso, riducendoli a una poltiglia verde.

Quando il suo braccio fu stanco, Arya sedette a cavalcioni su uno dei rami alti, per riprendere fiato nell’aria fredda e oscura, ascoltando lo squittire dei pipistrelli a caccia di prede. Oltre l’intrico del fogliame, poteva vedere il legno dell’albero del cuore, bianco come vecchie ossa. “Visto da quassù, sembra proprio il parco degli dei di Grande Inverno.” Come avrebbe voluto che lo fosse veramente… Perché nel ridiscendere, sarebbe stata a casa. E forse avrebbe trovato suo padre, seduto come sempre sotto l’albero-diga.

S’infilò la spada nella cintura. Passò da un ramo all’altro fino a quando non fu nuovamente a terra. La luce della luna conferiva al tronco dell’albero-diga un colore argenteo. Andò verso di esso. Le foglie, però, le rosse foglie a cinque punte, apparivano completamente nere. Arya scrutò il volto scavato nel legno. Era una maschera terribile, la bocca distorta, gli occhi fiammeggianti pieni d’odio. Erano così i volti degli dei? E potevano soffrire, gli dei, nello stesso modo in cui soffrivano gli uomini? “Dovrei pregare…” Il pensiero la colse all’improvviso.

Arya si mise in ginocchio. Non sapeva bene come cominciare. Intrecciò le mani. “Aiutatemi, antichi dei” pregò silenziosamente. “Aiutatemi a far uscire gli uomini del Nord dalla segreta, in modo che possiamo uccidere ser Amory, in modo che io possa tornare a casa a Grande Inverno. Fate di me una danzatrice dell’acqua e un lupo. Fate che non abbia più paura, mai più.”

Che potesse bastare? Forse, se voleva che gli antichi dei la udissero, avrebbe dovuto pregare a voce alta. O forse pregare più a lungo. Ricordava di aver visto suo padre pregare per molto tempo. Ma gli antichi dei non lo avevano mai aiutato.

«Avresti dovuto salvarlo» disse con rabbia al livido volto nell’albero. «Pregava sempre, lui. Be’, non m’importa se non mi aiuterai. Non sono certa che potresti farlo, nemmeno se lo volessi.»

«Gli dei non s’ingannano, ragazza.»

Una voce, alle sue spalle. Arya schizzò in piedi, con la spada di legno in pugno. Immobile come uno degli alberi del parco degli dei, c’era un’ombra più profonda delle tenebre. Jaqen H’ghar.

«Quest’uomo viene per udire un nome. Uno, due e dopo c’è il tre. Quest’uomo poi avrà finito.»

Arya abbassò la punta scheggiata verso terra: «Come sapevi che ero qui?».

«Quest’uomo vede. Quest’uomo sente. Quest’uomo sa

Arya lo studiò con sospetto. Erano stati gli dei a mandarlo? «Come hai fatto a costringere il cane a uccidere Weese? E Rorge e Mordente… li hai evocati dagli inferi? Jaqen H’ghar è il tuo vero nome?»

«Alcuni uomini hanno molti nomi. Donnola. Arry. Arya.»

Lei fece un passo indietro. Alla fine, si ritrovò con la schiena contro l’albero del cuore: «È stato Gendry? Te lo ha detto lui?».

«Quest’uomo sa» ripeté Jaqen. «Mia lady di Stark.»

«Devi aiutarmi a fare uscire quegli uomini dalle segrete.» Forse gli dei lo avevano veramente mandato da lei, rispondendo alle sue preghiere. «Quel Glover e gli altri uomini del Nord, tutti quanti. Dobbiamo uccidere la guardie e aprire la cella in qualche modo…»

«La ragazza dimentica» rispose Jaqen quietamente. «Due la ragazza ha avuto, tre erano dovuti. Se una guardia deve morire, la ragazza deve pronunciare il suo nome.»

«Ma una sola guardia non basterà! Bisogna ucciderle tutte se vogliamo aprire la cella» per fermare le lacrime, Arya si morse duramente il labbro. «Voglio che tu salvi gli uomini del Nord come io ho salvato te.»

«Tre vite sono state strappate a un dio» lo sguardo di Jaqen era impietoso. «Tre vite devono essere ripagate.» La sua voce era seta, e acciaio. «Gli dei non s’ingannano.»

«Non li ho mai ingannati.» Arya pensò per un lungo momento. «Il nome… il nome della terza morte. Posso sussurrare qualsiasi nome voglio? E tu lo ucciderai?»

Jaqen H’ghar inclinò il capo: «Quest’uomo ha parlato».

«Qualsiasi nome?» insisté Arya. «Un uomo, una donna, un bambino… oppure lord Tywin, o l’Alto Sacerdote, o tuo padre?»

«Il sire di quest’uomo è morto da molto tempo. Ma se egli fosse vissuto, e se tu conoscessi il suo nome, dietro tuo comando lui morirebbe.»

«Giura, Jaqen. Giuralo sugli dei.»

«Nel nome di tutti gli dei del mare e dell’aria, nel nome del dio del fuoco, lo giuro» Jaqen H’ghar posò una mano sulla bocca del volto mostruoso scolpito nel legno livido. «Nel nome dei Sette Dei nuovi, e degli innumerevoli dei antichi, lo giuro.»

“Ha giurato!” «Perfino se pronunciassi il nome del re…»

«Pronuncia il nome, e la morte verrà. Domattina, al ciclo della luna, un anno da questo giorno, la morte verrà. Quest’uomo non vola come un uccello, ma muove un piede e poi l’altro. E un giorno quest’uomo è là. E un re muore.» Jaqen pose un ginocchio a terra di fronte a lei. «La ragazza sussurra se teme di dirlo a voce alta.» Erano faccia a faccia. «Sussurra. Ora. È… Joffrey

Arya si protese verso il suo orecchio, le labbra quasi a contatto. Sussurrò il nome della terza morte. «Jaqen H’ghar.»

Nemmeno nella stalla che bruciava, incatenato davanti alla ruggente muraglia di fiamme, Jaqen H’ghar era apparso così sconvolto come appariva in quel momento.

«La ragazza… fa uno scherzo.»

«Tu hai giurato! Gli dei ti hanno udito.»

«Gli dei hanno udito.» E di colpo, c’era un pugnale nella sua mano, la lama sottile quanto il mignolo di un bambino. Arya non fu in grado di dire chi di loro due quella lama avrebbe colpito. «La ragazza piangerà. La ragazza perde il suo solo amico.»

«Tu non sei mio amico. Un vero amico mi aiuterebbe.» Arretrò da lui, in equilibrio sulle punte dei piedi, pronta a scattare via se Jaqen avesse lanciato il pugnale. «Io non ucciderei mai un amico.»

Un sorriso, lo spettro di un sorriso, apparve sul viso di Jaqen H’ghar: «La ragazza potrebbe… sussurrare un diverso nome, se l’amico aiuta?».

«La ragazza potrebbe» confermò Arya. «Se l’amico aiuta.»

Il coltello svanì: «Vieni».

«Vuoi dire… adesso?» Non avrebbe mai pensato che lui avrebbe agito tanto in fretta.

«Quest’uomo ode il mormorio della sabbia che scende attraverso il cristallo. Quest’uomo non dorme fino a quando la ragazza sussurra un diverso nome. Sì, adesso, bambina malvagia.»

“Non sono una bambina malvagia. Sono un meta-lupo. E sono lo spettro di Harrenhal.” Arya ripose nel suo nascondiglio la spada di legno e seguì Jaqen H’ghar fuori dal parco degli dei.


Era notte fonda, ma ad Harrenhal ferveva l’attività.

La venuta di Vargo Hoat aveva sovvertito tutti i ritmi. Carri, buoi e cavalli erano spariti dal cortile, ma la gabbia con dentro l’orso era ancora là. Era stata appesa al centro dell’arcata del ponte tra il blocco esterno e quello intermedio della fortezza, e penzolava a circa un metro da terra. Un anello di torce gettava riflessi baluginanti sull’acciottolato. Alcuni ragazzi delle stalle lanciavano sassi contro l’orso per sentirlo ruggire. Dalla parte opposta del cortile, un alone di luce si diffondeva dai baraccamenti delle truppe. Si udiva il cozzare dei boccali e i Guitti sanguinari che reclamavano altro vino. Una mezza dozzina di voci diedero il via a una canzone in una strana lingua gutturale che ad Arya suonò del tutto sconosciuta.

“Mangiano e bevono prima di andare a dormire. Occhio moscio mi avrà di sicuro cercata. Ora sa che non sono a letto.” A quanto pareva, doveva avere il suo daffare a versare vino e birra per gli uomini di Hoat e per le guardie di ser Amory che si erano messi a gozzovigliare con loro. Tutto quel rumore sarebbe stata un’ottima distrazione.

«Gli dei affamati stanotte faranno festa con il sangue, se quest’uomo agisce» disse Jaqen. «Dolce ragazza, delicata e gentile. Sussurra un nome diverso e getta lontano questo folle sogno.»

«La delicata ragazza non lo fa.»

«E sia» Jaqen parve rassegnato. «La cosa verrà consumata, ma la ragazza deve obbedire. Quest’uomo non ha tempo per le parole.»

«La ragazza obbedirà» confermò Arya. «Che cosa devo fare?»

«Cento uomini hanno fame, devono essere nutriti. Il lord comanda brodo caldo. La ragazza deve correre nelle cucine e dirlo al ragazzino delle frittelle.»

«Brodo» ripeté lei. «E tu intanto dove sarai?»

«La ragazza aiuterà a fare il brodo caldo. E poi aspetterà nelle cucine fino a quando quest’uomo non viene a cercarla. Va’. Corri.»

Frittella era intento a tirare fuori dal forno le forme di pane quando Arya fece irruzione. Ma non era più solo nelle cucine. I cuochi erano stati svegliati per nutrire Vargo Hoat e i suoi Guitti sanguinari. Servitori andavano e venivano, portando via i vassoi con il pane e le paste preparati da Frittella. Ragazzi addetti alla cottura facevano girare sulle fiamme conigli infilzati in lunghi spiedi, mentre le sguattere li pennellavano con il miele. Altre donne affettavano cipolle e carote.

Il capocuoco, intento a tagliare grosse fette di prosciutto, vide Arya: «Che vuoi Donnola?».

«Brodo» annunciò lei. «Il mio lord vuole brodo.»

«Quello che cosa pensi che sia?» Con un gesto rabbioso, il cuoco puntò il coltello verso i calderoni neri appesi sul fuoco. «Anche se mi piacerebbe pisciarci dentro piuttosto che darlo a quel caprone. Nemmeno dormire in pace, si può.» Sputò con disprezzo. «Be’, non ci pensare, va’ dal caprone e digli che non si può cuocere più in fretta.»

«Devo aspettare qui fino a quando è pronto.»

«Allora sta’ fuori dai piedi. Anzi, renditi utile. Fai una corsa fino alla dispensa. Il lord caprone vorrà anche burro e formaggio. Sveglia Pia e dille che fa meglio a muoversi, se vuole tenerseli attaccati alle gambe, i suoi piedi.»

Arya corse a perdifiato. Pia era già sveglia nel piano della servitù. Sveglia e mugolante con le gambe aperte sotto il peso di uno dei Guitti. Ma quando udì il richiamo di Arya, si rivestì, in tutta fretta. Riempì sei ceste di vimini con blocchi di burro e fette di formaggio dall’odore acre.

«Dammi una mano con queste, Donnola.»

«Adesso no. Ma è meglio che ti sbrighi, se no Vargo Hoat ti taglia via i piedi.»

Arya schizzò via prima che Pia potesse afferrarla. Nel correre indietro, si domandò come mai a nessuno dei prigionieri fossero stati mozzati mani e piedi. Forse Vargo Hoat aveva paura della rabbia di Robb. Per quanto, non sembrava proprio tipo da avere paura di qualcosa o di qualcuno.

Rientrando nelle cucine, Arya trovò Frittella impegnato a rimescolare nei calderoni con un lungo mestolo di legno. Prese un secondo mestolo e si mise ad aiutarlo. Per un momento, pensò se non fosse il caso di dirgli quello che stava per succedere. Poi, però, le tornò in mente quanto era accaduto nel villaggio e decise di tenere la bocca chiusa. “Frittella si arrenderebbe ancora e basta.”

«Cuoco!»

Arya conosceva quella brutta voce raschiante. Apparteneva a Rorge, il brutale tagliagole dal naso mozzato. Lasciò andare il mestolo, sentendosi di colpo piena d’angoscia. “Non avevo detto a Jaqen di portare anche loro…”

«Lo prendiamo noi il tuo fottuto brodo.»

Rorge indossava il suo mezzo elmo di ferro munito della protezione nasale che nascondeva in qualche modo la mutilazione. Dietro di lui venivano Jaqen H’ghar e Mordente.

«Il fottuto brodo non è ancora fottutamente pronto» ribatté il cuoco. «Deve diventare ben denso. Le cipolle gliele abbiamo messe dentro solo da poco…»

«Chiudi quella fogna, se no ti pianto uno di quegli spiedi dentro il culo e ti do un paio di giri a fuoco lento. Voglio il brodo e lo voglio adesso.»

Emettendo uno di quei suoi suoni sibilanti, Mordente strappò dallo spiedo un coniglio cotto a metà e lo addentò con le sue zanne appuntite, e il miele fumante gli colò tra le dita.

«E allora prenditelo, il tuo fottuto brodo» cedette il cuoco. «Ma se poi il lord caprone vuol sapere perché è così acquoso, glielo dici tu.»

Mordente si leccò le dita impiastricciate mentre Jaqen H’ghar si faceva scivolare sulle mani un paio di grossi guanti imbottiti. Ne diede un secondo paio ad Arya: «La Donnola aiuterà».

Il brodo era una mistura gorgogliante, ribollente. I calderoni erano pesanti. Jaqen e Arya ne sollevarono uno in due. Rorge ne prese uno e Mordente addirittura due, sibilando di dolore nello scottarsi le mani sui manici roventi. In ogni caso, non li lasciò cadere. Trasportarono i calderoni fuori dalle cucine e attraverso il cortile. C’erano due guardie a sorvegliare la porta della Torre della Vedova.

«E questo cosa sarebbe?» una di loro apostrofò Rorge.

«Un bel pentolone di piscio bollente, ne vuoi un po’?»

Jaqen si esibì in un sorriso disarmante: «Un prigioniero deve mangiare anche lui, sì?».

«Nessuno ci ha detto di…»

«È per loro, non per te» lo interruppe Arya.

La seconda guardia fece cenno di passare: «Forza. Portateli di sotto».

C’era una scala a chiocciola che scendeva nelle segrete. Rorge fece strada, Jaqen e Arya lo seguirono. «La ragazza si terrà in disparte» avvertì Jaqen.

I gradini di pietra sfociavano in un’umida cripta di pietra. Uno spazio allungato, tetro e privo di finestre. Alcune torce ardevano nelle loro nicchie verso il fondo della segreta, dove un gruppo di uomini di ser Amory sedevano attorno a un malridotto tavolo di legno, parlando e giocando a domino. Spesse sbarre di ferro li separavano dai prigionieri, ammassati nel buio. L’odore del brodo caldo spinse molti, di loro verso le sbarre. Arya contò otto guardie. Anche loro sentirono l’odore del brodo.

«Mai vista una serva più brutta» il capitano sghignazzò all’indirizzo di Rorge. «Che cosa c’è lì dentro?»

«Il tuo cazzo e i tuoi coglioni. Vuoi mangiare o no?»

Una delle guardie passeggiava avanti e indietro, un’altra era in piedi vicino alle sbarre, una terza sedeva a terra con la schiena alla parete. Ma l’idea del cibo li portò tutti attorno al tavolo.

«Era tempo che ci davano da mangiare.»

«Cos’è, cipolle?»

«E il pane? Dov’è?»

«Merda, ci servono ciotole, cucchiai…»

«Non vi serve proprio un cazzo, invece.»

Rorge scaraventò l’intero contenuto del calderone oltre il tavolo, dritto in faccia al gruppo. Jaqen H’ghar fece lo stesso. Mordente lanciò anche le pentole, mandando brodo incandescente a piovere per metà della segreta. Uno dei calderoni colpì il capitano alla tempia mentre cercava di tirarsi su da terra. Crollò di nuovo e rimase immobile, come un sacco di stracci. Gli altri urlavano per le ustioni, pregando, cercando di strisciare via.

Arya si schiacciò con la schiena contro la parete mentre Rorge cominciava a tagliare gole. Mordente, invece, preferì prendere gli uomini da dietro e spezzare loro il collo con una secca torsione delle sue enormi mani pallide. Una delle guardie riuscì a sfoderare la spada. Jaqen H’ghar schivò il fendente, snudando la sua lama. In un vortice di colpi, costrinse il soldato in un angolo. Lo finì con un singolo affondo al cuore. L’uomo di Lorath si avvicinò ad Arya, con la spada ancora gocciolante. «Anche la delicata ragazza si sporca di sangue» disse ripulendo la lama sulla tunica di lei. «Questo chiede, questo riceve.»

La chiave della cella era appesa a un uncino sul muro, al di sopra del tavolo. Rorge la prese e aprì la porta a sbarre.

«Ben fatto» il primo uomo a uscire fu il lord con l’emblema del pugno coperto di maglia di ferro sulla tunica. «Sono Robett Glover.»

«Mio lord» Jaqen fece un perfetto inchino.

Una volta liberi, i prigionieri tolsero alle guardie morte le armi e si precipitarono su per le scale, con l’acciaio in pugno. I loro compagni si ammassarono dietro di loro, a mani nude. Si mossero in fretta, quasi senza dire una parola. E adesso, nessuno di loro sembrava più così seriamente ferito come quando Vargo Hoat li aveva condotti attraverso il portale di Harrenhal.

«Questa del brodo» stava dicendo l’uomo di nome Glover. «Una mossa astuta. Non me l’ero aspettata. Idea di lord Hoat?»

Rorge scoppiò a ridere. Una risata talmente sbracata che grumi di muco fetido schizzarono fuori dalla voragine che aveva in mezzo alla faccia. Mordente sedette su uno dei cadaveri, sollevò la mano del morto e l’addentò. Scricchiolio di ossa, il sangue gli colò sul mento.

«Ma voi chi siete?» Era apparsa una ruga profonda sulla fronte di lord Glover. «Non eravate con Hoat quando ha attaccato il campo di lord Bolton. Siete con i Bravi Camerati?»

Rorge si pulì il muco dal mento con il dorso della mano: «Lo siamo adesso».

«Quest’uomo ha l’onore di essere Jaqen H’ghar, della Libera Città di Lorath. Gli scortesi compagni di quest’uomo si chiamano Rorge e Mordente. Il mio lord già sa qual è Mordente.» Jaqen fece un cenno verso Arya. «E qui c’è…»

«Donnola» esclamò Arya, bloccandolo prima che Jaqen rivelasse chi era lei in realtà. Non voleva che il suo nome fosse pronunciato qui, dove Rorge poteva udirlo, e anche Mordente, e tutti quegli altri che lei non conosceva. Vide Glover che si limitava a ignorarla.

«Molto bene» disse il lord. «Ora poniamo fine a questa sanguinosa questione.»

Tornarono su nel cortile. Le due guardie giacevano sulla soglia della Torre della Vedova, in una pozza del loro stesso sangue. I guerrieri del Nord correvano attraverso il cortile. Arya udì delle grida. La porta dei baraccamenti si aprì di schianto e un uomo ferito si trascinò fuori barcollando. Altri tre uomini gli furono addosso e lo ridussero al silenzio con le spade e le lance. Stavano combattendo anche attorno al corpo di guardia. Rorge e Mordente corsero via insieme a Glover, gettandosi a loro volta nella mischia.

Jaqen H’ghar mise un ginocchio a terra di fronte ad Arya: «La ragazza riesce a comprendere?».

«Sì, comprende» anche se invece non comprendeva, non completamente.

Jaqen glielo lesse in faccia: «Non c’è lealtà in un caprone nero. Presto, un vessillo di lupo sventola su Harrenhal. Ma prima, quest’uomo vuole udire che un certo nome viene cancellato.»

«Il nome è cancellato» Arya si morse il labbro. «Ho ancora la terza morte?»

«La ragazza è avida.» Jaqen toccò uno dei corpi e le mostrò la punta del dito coperta di sangue. «Questo è il tre, quello il quattro, altri otto giacciono nelle segrete. Il debito è pagato.»

«Il debito è pagato» ammise Arya con riluttanza. E adesso si sentiva triste. Perché adesso, lei non era più lo spettro di Harrenhal. Era tornata a essere un topo.

«Un dio ha avuto ciò che al dio era dovuto. E ora…» un sorriso enigmatico affiorò sulle labbra di Jaqen H’ghar. «Quest’uomo deve morire.»

«Morire?» esclamò confusa. Ma che cosa stava dicendo Jaqen? «Ma io l’ho cancellato, il nome. Non devi più morire!»

«Il mio tempo è concluso.»

Jaqen H’ghar si passò una mano sul volto, dalla fronte scivolando fino al mento. E dove quella mano passò, ogni cosa subì un mutamento. Le gote si fecero più rotonde, gli occhi più ravvicinati, il naso divenne a uncino, una cicatrice apparve sulla guancia destra, là dove nessuna cicatrice era mai esistita. E quando l’uomo di Lorath scosse il capo, i suoi lunghi capelli lisci, metà rossi e metà bianchi, si dissolsero. Al loro posto, apparvero corti riccioli, neri come l’inchiostro.

«Ma tu chi sei?» Arya era a bocca aperta, troppo stupefatta perfino per avere paura. «Come hai fatto? È difficile?»

«Non più difficile che cambiare nome» lui sorrise, rivelando uno scintillante dente d’oro. Anche la sua voce, il suo modo di parlare, erano mutati. «Basta sapere come fare.»

«Insegnami!… Voglio farlo anch’io.»

«Se vuoi imparare, dovrai venire con me.»

Arya esitò: «Dove?».

«Molto lontano, al di là del mare Stretto.»

«Non posso. Devo tornare a casa, a Grande Inverno.»

«Allora le nostre strade si dividono. Anch’io ho dei doveri.» Le prese una mano e premette nel palmo una piccola moneta. «Ecco, prendi.»

«Che cos’è?»

«Una moneta di grande valore.»

Arya vi diede un morso. Era talmente dura che avrebbe potuto essere ferro. «Vale abbastanza da comprarci un cavallo?»

«Il suo scopo non è comprare cavalli.»

«E allora a che cosa serve?»

«Tanto vale che tu chieda a che cosa serve la vita di un uomo. O la morte. Se mai verrà il giorno in cui le nostre strade torneranno a incontrarsi, da’ questa moneta a qualsiasi uomo della Città Libera di Braavos, e pronuncia queste parole: vaiar morghulis.»

«Vaiar morghulis» ripeté Arya. Non era difficile. Serrò le dita attorno alla moneta. Dall’altra parte del cortile, poteva udire altri uomini morire. «Ti prego, Jaqen, non andare.»

«Jaqen è morto, come Arry» disse lui con tristezza «e io ho delle promesse da mantenere. Vaiar morghulis, Arya Stark. Ripetilo ancora.»

«Vaiar morghulis.»

Lo sconosciuto che si era chiamato Jaqen H’ghar, che ancora indossava gli abiti di Jaqen H’ghar anche se aveva cessato di esserlo, fu inghiottito dalle tenebre, con il mantello che turbinava nel vento freddo. Arya rimase sola, insieme agli uomini morti. Le tornarono alla mente Yoren e Koss e tutti quelli che ser Amory aveva ucciso nel fortino sul lago. “Meritavate di morire.”


Le celle sotto la Torre del Rogo del Re erano vuote. Arya tornò al suo pagliericcio. Contro il cuscino, sussurrò i nomi dell’odio: «Dunsen, Polliver, Raff Dolcecuore, Messer sottile e il Mastino, ser Gregor, ser Amory, ser Ilyn, ser Meryn, re Joffrey, regina Cersei». E quando li ebbe pronunciati tutti, aggiunse: «Vaiar morghulis».

Lo disse in un bisbiglio appena percettibile, chiedendosi che cosa significasse.

Occhio moscio e gli altri tornarono alle prime luci. Tornarono tutti tranne un ragazzo delle cucine rimasto ucciso nei combattimenti per nessuna ragione comprensibile. Occhio moscio salì nel cortile, da solo, in modo da rendersi conto di quale fosse la situazione alla luce del giorno, lamentandosi di quanto le sue vecchie ossa scricchiolavano su tutti quei gradini di pietra. Quando tornò, disse che Harrenhal era stata presa.

«I Guitti sanguinari hanno ucciso molti degli uomini di ser Amory nei loro letti. Il resto, li hanno sgozzati attorno alla tavola, quand’erano ubriachi. Il nuovo lord sarà qua prima del tramonto, e con tutto il suo esercito. È uno di lassù nel Nord, dove ci sta quella Barriera, e dicono che sia uno duro. Questo lord, quel lord, c’è sempre lavoro da fare uguale. Voi fate qualche schiocchezza, e io vi strappo la pelle dalla schiena a frustate.»

Guardò fisso Arya nel pronunciare quella sua minaccia che non metteva mai in atto, ma non le chiese dove era stata la notte prima.

Per tutta la giornata Arya rimase a guardare i Guitti sanguinari che spogliavano i caduti dei loro averi e delle loro armi, trascinando poi i cadaveri su una pira eretta nel Cortile di Granito, sulla quale sarebbero stati bruciati.

Shagwell il Giullare mozzò la testa a due dei cavalieri morti e saltellò da tutte le parti della fortezza facendole ballonzolare per i capelli e facendo finta che si parlassero. «Ehi, tu di che cosa sei crepato?» chiese una delle teste mozzate. «Zuppa calda di donnola» rispose la seconda testa.

Ad Arya venne dato il compito di lavare via il sangue rappreso. Nessuno le disse una parola di più del solito, ma ogni tanto si rendeva conto che erano in parecchi a guardarla in modo strano. Robett Glover e gli altri uomini del Nord che lei aveva liberato dovevano aver detto qualcosa di quanto era accaduto nelle segrete sotto la Torre della Vedova. E poi Shagwell e le sue maledette teste mozzate avevano cominciato con quella storia balorda della zuppa di donnola. Avrebbe proprio voluto dirgli di piantarla, ma aveva paura a farlo. Il Giullare era mezzo matto e lei aveva sentito dire che una volta aveva ucciso uno che non aveva riso a uno dei suoi scherzi. “Farà meglio a chiudere quella sua maledetta bocca” rimuginò mentre continuava a raschiare via chiazze purpuree. “Se no metto anche lui nella mia lista.”

Stava calando la sera quando il nuovo padrone di Harrenhal finalmente arrivò. Aveva una faccia qualsiasi, senza barba, con i lineamenti ordinari. C’era un’unica cosa che si notava in lui: gli occhi, così stranamente pallidi. Non era né grasso, né magro, né muscoloso. Indossava una cotta di maglia nera con sopra una tunica rosa a macchie. L’emblema della sua casa era un uomo che sembrava essere stato immerso nel sangue.

«In ginocchio davanti al lord di Forte Terrore!»

A urlarlo fu il suo scudiero, un ragazzino che non poteva essere più vecchio di Arya.

E Harrenhal andò in ginocchio.

Vargo Hoat si fece avanti: «Mio lord, Harrenhal è voschtra».

Il lord rispose qualcosa, ma a voce troppo bassa perché Arya potesse udirla, Robett Glover e ser Aenys Frey, lavati, ripuliti e con indosso farsetti e mantelli nuovi, andarono a prendere i loro posti presso il padrone. Dopo un breve colloquio, ser Aenys condusse il gruppo da Rorge e Mordente. Arya fu sorpresa di vederli ancora al castello. Per qualche ragione, si era aspettata che fossero svaniti anche loro insieme a Jaqen H’ghar. La voce raschiante di Rorge parlò, ma ancora una volta Arya non riuscì a udire quello che disse. Poi, Shagwell le piombò addosso, trascinandola al centro del cortile.

«Mio lord, mio lord, mio lord» saltellò continuando a tirarla per il polso. «Eccola qua, la donnola che ha fatto la zuppa!»

«Lasciami andare!» Arya cercò di divincolarsi.

Il lord la osservò. Soltanto i suoi occhi si mossero. Erano stranamente lividi, dello stesso colore del ghiaccio. «Quanti anni hai, piccola?»

Arya fu costretta a pensarci su un momento per ricordare: «Dieci».

«Dieci… mio signore» le ricordò il lord. «Ti piacciono gli animali?»

«Alcuni sì, mio signore.»

«Ma non i leoni, si direbbe» un esile sorriso increspò le sue labbra sottili. «E nemmeno le manticore.»

Arya non sapeva che cosa dire, così non disse nulla.

«Mi hanno detto che ti chiamano Donnola. Non va bene. Quale nome hai avuto da tua madre?»

Arya si morse il labbro, andando disperatamente alla ricerca di un altro nome. Lommy l’aveva chiamata Bitorzolo, Sansa preferiva Faccia di cavallo, gli uomini di suo padre scherzavano con Piededolce. Ma nessuno di quei nomi poteva andare bene per il lord.

«Nymeria» disse alla fine. «Ma lei mi chiamava Nan.»

«Tu ti rivolgerai a me chiamandomi “mio signore”, Nan» disse il lord quietamente. «Sei troppo giovane per diventare uno dei Guitti sanguinari, penso, e anche del sesso sbagliato. Hai paura delle sanguisughe, piccola?»

«Sono soltanto delle sanguisughe, mio signore.»

«Avresti qualcosa da insegnare al mio scudiero, si direbbe. Salassi frequenti sono il segreto di una vita lunga. Un uomo deve purgarsi del sangue cattivo. Tu andrai bene, credo. Per il tempo che rimarrò ad Harrenhal, Nan, tu sarai la mia coppiera. Mi servirai al mio desco e nei miei alloggi.»

Arya aveva imparato la lezione: questa volta, si guardò bene dal dire che avrebbe preferito lavorare nelle stalle. «Sì, vostro signore. Voglio dire, mio signore.»

Il lord fece un gesto vago: «Rendetela presentabile» disse a nessuno in particolare. «E siate certi che sia in grado di versare del vino senza sprecarlo.» Si girò, indicando qualcosa in alto. «Lord Hoat, provvedi tu a quegli stendardi sulla torre del ponte levatoio.»

Quattro Bravi Camerati andarono ad arrampicarsi sui merli e tirarono giù il leone dei Lannister e la manticora nera di ser Amory. Al loro posto, innalzarono i vessilli con l’uomo scuoiato di Forte Terrore e con il meta-lupo degli Stark.

Quella sera, un paggio di nome Nan versò vino per Roose Bolton e per Vargo Hoat mentre stavano sul ponte coperto, intenti a osservare i Guitti sanguinari che spingevano ser Amory Lorch, nudo come un verme, nel cortile intermedio. Ser Amory implorò e singhiozzò e si aggrappò alle gambe dei mercenari. Sforzi patetici, sforzi sprecati. Rorge tagliò i lacci e Shagwell il Giullare delle teste mozzate sbatté con un calcio ser Amory Lorch nella fossa dell’orso.

“È tutto nero, quell’orso” pensò Arya. “Tutto nero come Yoren.”

E riempì la coppa di Roose Bolton senza farne traboccare neppure una goccia.

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