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Volarono dalle torri bianche di Kryne Lamiya fino ai fuochi fuggenti di Larteyn in un mutismo solitario, senza toccarsi, ognuno seguendo i suoi propri pensieri. Gwen lasciò la macchina al suo solito posto sul terrazzo e Dirk la seguì giù per le scale fino alla sua porta. «Aspetta», disse lei in un rapido sussurro, anche se lui si aspettava che semplicemente gli dicesse buona notte. Gwen sparì all’interno; lui aspettò, perplesso. Dall’altra parte della porta si sentivano dei rumori… voci… poi improvvisamente Gwen ritornò e gli premette nelle mani uno spesso manoscritto, una massa di carta davvero impressionante, rilegata a mano in pelle nera. La tesi di Jaan. Se ne era quasi dimenticato. «Leggila», disse lei, appoggiandosi contro la porta. «Vieni su domani mattina e parleremo ancora un po’». Lo baciò appena appena sulla guancia, poi chiuse la pesante porta con uno scatto. Dirk rimase lì, in piedi per qualche istante, rigirando il pesante manoscritto rilegato tra le mani, poi si voltò verso le cabine.

Si era allontanato solo di pochi passi, quando udì il primo grido. Poi, per qualche ragione, non ce la fece più a proseguire; i rumori lo fecero tornare indietro e rimase lì, accanto alla porta ad ascoltare.

Le pareti erano spesse e trapelava molto poco di ciò che veniva detto all’interno. Dirk perse interamente il senso delle parole, ma si sentivano le voci ed il tono. Quella che dominava era la voce di Gwen: alta, acuta — a volte urlava — vicina al limite dell’isteria. Dirk riusciva ad immaginarsela che camminava su e giù per la stanza davanti alle cariatidi, nel modo suo solito di quando era arrabbiata. Dovevano essere presenti entrambi i Kavalari, che la rimbrottavano… Dirk era sicuro di udire due altre voci… una era tranquilla e sicura, senza rabbia, che continuava a domandare inflessibilmente. Doveva trattarsi di Jaan Vikary. La sua cadenza era chiara, il ritmo del suo discorso si poteva facilmente distinguere anche attraverso le pareti. La terza voce, Garse Janacek, all’inizio parlava solo raramente, poi si senti sempre di più, il volume di voce continuava ad aumentare ed anche la rabbia. Dopo un po’ la voce maschile tranquilla era praticamente assente, mentre Gwen e Garse urlavano tra di loro. Poi la voce disse qualcosa, un ordine deciso. E Dirk udì un colpo. Un pugno. C’era qualcuno che aveva colpito qualcun altro, non poteva essere nient’altro.

Alla fine Vikary diede degli ordini e ne seguì il silenzio. Le luci nella stanza si spensero.

Dirk rimase in piedi tranquillo, con il manoscritto di Vikary in mano, chiedendosi cosa dovesse fare. Pareva che non ci fosse proprio niente che potesse fare, tranne parlare con Gwen la mattina successiva per scoprire chi era stato a colpirla e perché. Doveva essere stato Janacek, pensò.

Ignorando la cabina dell’ascensore, decise di prendere le scale per raggiungere la camera di Ruark.

Una volta a letto, Dirk scoprì di essere immensamente stanco e malamente scosso da ciò che era capitato quel giorno. Tante cose in un solo giorno, si potevano affrontare ben difficilmente. I cacciatori Kavalari ed i loro falsuomini, la vita strana e amara che Gwen conduceva con Vikary e Janacek, l’inebriante possibilità di poter ritornare assieme. Pensò a queste cose per lungo tempo, incapace di prender sonno. Ruark dormiva già; non c’era nessuno con cui si potesse parlare. Alla fine Dirk decise di prendere il manoscritto che gli aveva dato Gwen e cominciò a sfogliare le prime pagine. Non c’era niente come un buon mattone scientifico per addormentarsi, pensò.

Quattro ore e mezza dozzina di tazze di caffè dopo, lui posò il manoscritto, sbadigliò e si sfregò gli occhi. Quindi chiuse la luce e fissò l’oscurità.

La tesi di Jaan Vikary — Mito e Storia: Origini della società di granlega, sulla scorta di un’interpretazione del ciclo di Demoncanti di Jamis-Leone Taal — era il peggiore atto d’accusa verso il suo popolo. Peggio delle cose che avrebbe potuto dire Arkin Ruark, pensò Dirk. Aveva messo giù tutto, con scritte le fonti e la documentazione ricavata dalle banche di dati di Avalon, con lunghe citazioni ricavate dal poeta Jamis-Leone Taal ed anche più lunghe dissertazioni su ciò che Jamis Taal voleva dire. Tutto ciò che lui e Gwen gli avevano detto quella mattina, era lì, ben dettagliato. Vikary forniva teorie su teorie, cercando di spiegare tutto. Spiegava perfino i falsuomini, più o meno. Pensava che durante il Tempo del Fuoco e dei Demoni, alcuni sopravvissuti avessero raggiunto i campi minerari per cercar rifugio. Tuttavia, una volta accolti si rivelarono pericolosi. Alcuni erano rimasti vittime della malattia da radiazioni; morirono lentamente ed in maniera orribile e forse passarono l’avvelenamento a quelli che li avevano assistiti. Altri, che parevano in buona salute, continuarono a vivere, diventando membri della proto-granlega, finché si sposarono ed ebbero dei figli. Allora la contaminazione da radiazione divenne ben visibile. Da parte di Vikary erano solo congetture, confermate solo da un paio di vefsi tratti da Jamis-Leone, eppure pareva un modo convincente e plausibile per razionalizzare il mito dei falsuomini.

Vikary aveva anche scritto parecchio sull’avvenimento che i Kavalari chiamavano Peste Dolorosa… e che lui chiamava per la precisione «il passaggio ai modelli della contemporanea famiglia sessuale».

Secondo la sua ipotesi, gli Hrangani erano ritornati su Alto Kavalaan approssimativamente un secolo dopo la loro prima sortita. Le città che avevano bombardato erano ancora radioattive; non c’era alcun segno di nuove costruzioni da parte degli umani. Eppure le tre razze schiave che loro avevano mandato per conquistare il pianeta non si vedevano da nessuna parte: decimate, estinte. Indubbiamente la Mente che comandava gli Hrangani dovette concludere che alcuni degli umani dovevano vivere ancora. Per fare una pulizia definitiva, gli Hrangani fecero cadere delle bombe pestilenziali. Questa era la teoria di Vikary.

Le poesie di Jamis-Leone non facevano alcun cenno agli Hrangani, ma parlavano spesso della malattia. Tutti i resoconti dei Kavalari superstiti concordavano su questo punto. Ci fu una Peste Dolorosa, un lungo periodo in cui le granleghe furono soggette ad un’epidemia dopo l’altra. Ogni cambio di stagione portava una malattia più tremenda di quella che l’aveva preceduta… era il demone definitivo, quello che i Kavalari non sapevano né combattere, né uccidere.

Morirono novanta uomini su cento. Novanta uomini e novantanove donne.

Una delle molte pesti pareva che fosse selettiva verso le donne. Gli specialisti in medicina che Vikary aveva consultato su Avalon gli dissero che, basandosi sulle poche prove che lui poteva fornire — alcuni poemi antichi e delle canzoni — pareva probabile che gli ormoni sessuali femminili potessero agire da catalizzatori della malattia. Jamis-Leone Taal aveva scritto che alle giovani vergini era risparmiato lo spargimento di sangue a causa della loro innocenza, mentre le corrotte eyn-kethi vennero colpite e morivano con tremiti convulsi. Vikary interpretò queste parole con il fatto che le ragazze prepubescenti erano lasciate sane, mentre le donne sessualmente mature erano devastate. Venne spazzata via un’intera generazione. Peggio ancora, la malattia si protrasse; non appena le ragazze raggiungevano la pubertà venivano colpite dalla malattia. Jamis-Leone vide in ciò una verità di vasto significato religioso.

Alcune donne si salvarono: quelle naturalmente immuni. In principio furono pochissime. Poi furono più numerose; perché quelle che sopravvivevano producevano bambini e bambine, molte delle quali erano immuni, mentre quelle che non avevano ricevuto l’immunità morivano all’età della pubertà. Dopo un po’ tutti i Kavalari furono immuni, con rare eccezioni. La Peste Dolorosa terminò.

Ma il danno era ormai fatto. Erano state spazzate via intere granleghe; quelli che si erano disperatamente attaccati alla vita avevano visto diminuire la loro popolazione al punto che pareva impossibile mantenere una società attiva. Sicché le strutture sociali e le regole sessuali dovettero estirpare per sempre l’egualitarismo monogamo delle colonie terrestri. Erano giunte alla maturità sessuale intere generazioni in cui gli uomini erano molto più numerosi delle donne, dieci volte di più; le ragazzine passavano la loro vita da bambine con il timore di poter morire una volta raggiunta la pubertà. Furono tempi cupi. Su questo punto sia Jaan Vikary che Jamis-Leone Taal la pensavano allo stesso modo.

Jamis-Leone scrisse che il peccato fu finalmente allontanato da Alto Kavalaan quando le eyn-kethi furono chiuse al sicuro, lontane dalla luce del giorno, nelle caverne da cui erano uscite, dove non si poteva vedere la loro vergogna. Vikary scrisse che i sopravvissuti Kavalari avevano fatto ciò che era meglio. Non possedevano ormai più le capacità tecnologiche di costruire delle camere a tenuta stagna; ma indubbiamente si era parlato dell’esistenza, un tempo, di posti del genere e speravano ancora che nelle caverne la malattia non potesse arrivare. Così le donne superstiti vennero messe al sicuro in ospedali simili a prigioni profondamente scavati nella terra, nella zona più sicura della granlega, la zona più lontana dai venti contaminati, dalla pioggia e dall’acqua. Gli uomini che un tempo giravano, cacciavano e facevano la guerra con le loro mogli al fianco, adesso uscivano con un altro uomo vicino e tutti e due piangevano le perdute collaboratrici. Per rallentare la tensione sessuale — e per mantenere alto il livello genetico meglio che potevano, ammesso che una simile idea fosse loro venuta in mente — gli uomini che vissero attraverso la Peste Dolorosa dichiararono le loro donne proprietà sessuale di tutti. Per far sì che potessero esserci molti bambini, le fecero diventare delle allevatrici perpetue che vivevano la loro vita al sicuro, eternamente pregne. Le granleghe che non adottarono una simile misura non riuscirono a sopravvivere; quelle che lo fecero acquisirono un’eredità culturale.

Si radicarono anche altri cambiamenti. Tara era stato un mondo religioso, culla della Chiesa Cattolica Riformata Irlandese-Romana, e la necessità della monogamia non fu facile da estirpare. I modelli si svilupparono secondo due forme diverse; da una parte il rapporto tra i due partners cacciatori che divenne la base per un’intensa relazione totale di teyn-e-teyn, mentre gli uomini che desideravano un vincolo semi-esclusivo con una donna crearono le betheyn, catturando le femmine dalle altre granleghe. I capi incoraggiavano tali razzie, diceva Jaan Vikary; donne nuove significavano sangue nuovo, più bambini, una popolazione superiore e perciò, più possibilità di sopravvivenza. Era impensabile che un uomo avesse la potestà su una sola eyn-kethi; ma un uomo che riusciva a portare una donna da fuori era ricompensato con degli onori e sedeva al consiglio dei capi ed acquisiva, forse più importante di tutto, la donna.

Questa era la ricostruzione probabile degli eventi, commentava Vikary, verità evidenti, che avevano prodotto l’attuale società Kavalar. Jamis-Leone Taal, percorrendo il suo mondo molte generazioni più tardi, era stato a tal punto un figlio della propria cultura da non riuscire nemmeno a concepire un mondo in cui le donne vivessero in uno stato diverso da quello che lui aveva visto; e quando fu costretto a pensarla diversamente dai racconti popolari che aveva raccolto, pensò che l’idea era intollerabilmente peccaminosa. Quindi riscrisse tutta la letteratura orale nel momento in cui plasmò il suo ciclo di Demoncanti. Trasformò Kay Ferro Fabbro in un uomo gigantesco dalla voce di tuono, fece della Peste Dolorosa una ballata sulla malvagità delle eyn-kethi, e creò l’impressione generale che il mondo fosse sempre stato quello che lui aveva trovato. Più tardi ì poeti costruirono sulla base che lui aveva lasciato.

Le forze che avevano prodotto la società delle granleghe di Alto Kavalaan erano scomparse da tempo. Al giorno d’oggi, le donne e gli uomini erano più o meno nello stesso numero, le epidemie erano ormai delle fumose favole, la maggior parte dei pericoli che si nascondevano sulla superficie del pianeta erano stati piegati. Tuttavia le coalizioni di granlega continuavano. Gli uomini combattevano duelli, studiavano la nuova tecnologia, lavoravano alle fattorie, all’interno delle fabbriche e navigavano sulle navi spaziali Kavalar, mentre le eyn-kethi vivevano in vaste caserme sotterranee, facendo le compagne sessuali di tutti gli uomini della granlega, lavorando a qualsiasi cosa i consigli degli altolegati ritenessero sicuro e adatto, ed avevano bambini, anche se adesso erano meno. La popolazione Kavalar era strettamente controllata. Altre donne vivevano in maniera un po’ più libera sotto la protezione della giada-e-argento, ma non erano molte. Una betheyn doveva venire dall’esterno della granlega, il che in pratica significava che un giovanotto ambizioso dovesse sfidare e uccidere un altolegato di un’altra coalizione, oppure reclamare una eyn-kethi di una granlega nemica ed affrontare un difensore scelto dal consiglio. La seconda via portava raramente a! successo; gli altolegati dei consigli sceglievano invariabilmente il più esperto dei duellatori per difendere la eyn-kethi. In effetti, la designazione era un onore singolare. Un uomo che riusciva a guadagnarsi una betheyn acquisiva immediatamente i suoi aitinomi ed il posto tra i governanti. Si diceva che dava al suo kethi il dono dei due sangui: il sangue della morte, un nemico ucciso, ed il sangue della vita, una nuova donna. La donna godeva lo stato di giada-e-argento fino a che il suo altolegato non veniva ucciso. Se veniva ucciso da uno della sua granlega, la donna diventava una eyn-kethi; se l’uccisore era uno di fuori, la donna passava a lui.

Questo era lo stato assunto da Gwen Delvano quando si era stretta al polso il braccialetto di Jaan.

Dirk rimase sveglio per gran tempo, pensando a tutto ciò che aveva letto con gli occhi fissi al soffitto e diventando sempre più arrabbiato man mano che ci pensava. Quando la prima luce dell’alba cominciò a filtrare lentamente dalla finestra che aveva sul capo, aveva deciso. In un certo senso non aveva più nessuna importanza se Gwen ritornava da lui o no, ma doveva assolutamente lasciare Vikary e Janacek e tutta la stramaledetta società di Alto Kavalaan. Ma da sola lei non sarebbe mai riuscita a rompere col passato, per quanto lo desiderasse. Benissimo allora, Arkin Ruark aveva ragione; lui avrebbe aiutato Gwen. L’avrebbe aiutata ad essere libera. E dopo ci sarebbe stato tempo per pensare alla loro relazione.

Alla fine, dopo aver preso una decisione precisa, Dirk si addormentò.


Quando si svegliò era mezzogiorno. Si svegliò di soprassalto, con la sensazione di essere colpevole. Si sedette sul letto, sbatté gli occhi e si ricordò che aveva promesso a Gwen di salire quel mattino e adesso la mattina era passata e lui aveva dormito più del solito. Si alzò in fretta e si vestì, si guardò attorno per trovare Ruark… il Kimdissi se ne era andato e non c’era niente che gli facesse capire dove era andato, o per quanto tempo… poi andò all’appartamento di Gwen, con la tesi di Vikary ben stretta sotto il braccio.

Bussò e venne ad aprirgli Garse Janacek.

«Sì?», disse il Kavalar con la barba rossa, aggrottando la fronte. Era nudo fino alla vita, indossava solo un paio di pantaloni molto comodi ed il solito braccialetto di ferro-e-pietraluce al braccio destro. Dirk capi subito perché Janacek non indossava le camicie con il collo a V, che parevano piacere tanto a Vikary; la parte sinistra del suo torace, dall’ascella al petto, recava una cicatrice lunga e tormentata, liscia e dura.

Janacek seguì il suo sguardo. «Un duello andato male», scattò lui. «Ero troppo giovane. Non capiterà più. Allora, di cosa ha bisogno?».

Dirk arrossì. «Voglio vedere Gwen», disse.

«Non è qui», disse Janacek, con gli occhi di ghiaccio, duri e privi di amicizia. Fece per chiudere la porta.

«Aspetti». Dirk fermò la porta con la mano.

«C’è altro? Che cos’è?».

«Gwen. Era inteso che ci saremmo visti. Dove si trova?».

«Nella foresta, t’Larien. Sarei grato che lei si ricordasse che Gwen è un’ecologa, mandata qui dagli altolegati di Ferrogiada per svolgere un lavoro importante. Gwen ha abbandonato il lavoro per due giorni interi per scarrozzare lei avanti ed indietro. Adesso, come è giusto, è tornata al lavoro. Lei ed Arkin Ruark hanno preso i loro strumenti e se ne sono andati nella foresta».

«Non mi aveva detto niente ieri sera», insistette Dirk.

«Non ha nessun dovere di informare lei di quello che ha intenzione di fare», disse Janacek. «Del resto non ha bisogno di avere il suo permesso per le sue cose. Non ci sono vincoli tra di voi».

Ricordando la lite che aveva spiato la sera prima, Dirk diventò improvvisamente sospettoso. «Posso entrare?», disse. «Vorrei restituire questo a Jaan e parlarne con lui», aggiunse, mostrando a Garse la tesi rilegata in cuoio. Per la verità sperava di poter vedere Gwen, di scoprire se la tenevano lontana da lui. Ma non era certo facile dire una cosa del genere; Janacek sprizzava ostilità da tutti i pori e non era certo la cosa migliore cercare di spingerlo da parte.

«Al momento Jaan non è in casa. Non c’è nessuno oltre a me. E anch’io sto per andarmene». Allungò una mano e strappò via la tesi dalle mani di Dirk. «Comunque prenderò questa roba. Gwen non avrebbe dovuto dargliela».

«Ehi!», disse Dirk. Ebbe come un impulso. «La storia era molto interessante», disse in fretta. «Non posso entrare e parlarne con lei? Un secondo o due… non voglio farle perdere tempo».

All’improvviso Janacek parve cambiare idea. Sorrise, lo lasciò passare e gli fece strada nell’appartamento.

Dirk gettò un rapido sguardo all’intorno. Il soggiorno era deserto, il caminetto era freddo; non c’era niente che sembrasse fuori posto o mancante. Anche la sala da pranzo, che era visibile attraverso un arco aperto, era vuota. Tutto l’appartamento era tranquillo. Nessun segno di Gwen o di Jaan. Da ciò che lui poteva vedere, pareva che Janacek gli avesse detto la verità.

Incerto, Dirk girò per la stanza, fermandosi presso la cappa con le cariatidi. Janacek lo osservò senza parlare, poi si voltò ed uscì, per ritornare poco dopo. Si era messa la sua cintura di maglia metallica con il fodero e si stava abbottonando una camicia sbiadita.

«Dove sta andando?», chiese Dirk.

«Fuori», rispose Janacek con un breve ghigno. Sbottonò la falda del fodero e trasse la pistola a laser, controllò il quadrante di carica sul lato del calcio, poi la rinfoderò e la trasse di nuovo fuori — un movimento continuo e controllato della mano destra — e guardò Dirk. «Le faccio paura?», chiese.

«Sì», disse Dirk. Si allontanò dalla cappa.

Janacek riprese a sorridere. Fece scivolare il laser nella fondina. «Sono piuttosto bravino con il laser da duello», disse, «anche se, per la verità, è meglio il mio teyn. Naturalmente io posso usare solo la mano destra. La sinistra mi fa ancora male. La pelle cicatrizzata mi tira ed anche i muscoli del torace non si muovono con la stessa facilità di quelli dalla parte destra. Però non mi interessa granché. Io sono soprattutto un mandestro. Il braccio destro è sempre meglio del sinistro, capisce». Continuava a tenere la mano destra sulla pistola mentre parlava e le pietreluce incastonate nel ferro nero scintillavano come piccoli occhi sul suo braccio.

«Certo che è stata una brutta ferita».

«Ho fatto uno sbaglio, t’Larien. Forse ero troppo giovane, ma il mio era un errore che a quell’età non avrei dovuto fare. Errori come quello possono essere una cosa molto seria e, del resto, sono riuscito a cavarmela con poco». Guardava Dirk fissamente. «Si dovrebbe fare molta attenzione a non fare mai sbagli».

«Ah!», disse Dirk con un sorriso innocente.

Per un po’ Janacek non disse niente. Poi, alla fine disse: «Credo che lei sappia di cosa sto parlando».

«Davvero?».

«Sì. Lei non è un uomo poco intelligente, t’Larien. E nemmeno io. I suoi trucchetti da ragazzino non mi divertono. Lei non ha niente da discutere con me, ad esempio. Lei voleva semplicemente introdursi in questa stanza per qualche sua ragione».

Il sorriso di Dirk svanì. Annuì. «Va bene. Un trucco pidocchioso, chiaro, lei lo ha capito benissimo. Volevo vedere se c’era Gwen».

«Le avevo già detto che era uscita per andare nella foresta, a lavorare».

«Non le credo», disse Dirk. «Altrimenti ieri sera mi avrebbe detto qualcosa. Lei cerca di tenermi lontano da Gwen. Perché? Che cosa succede?».

«Niente che le possa interessare», disse Janacek. «Veda di capirmi, t’Larien, se crede. Forse per lei, come per Arkin Ruark, io sono un bruto. Lei può pensarlo se vuole. Non me ne frega granché. Ma non sono un bruto. Ecco perché la mettevo in guardia dal commettere errori. Ecco perché l’ho fatta entrare, anche se sapevo benissimo che non aveva niente da dirmi. Perché io avevo da dirle qualcosa».

Dirk si appoggiò allo schienale del divano ed annuì. «Va bene Janacek, vada avanti».

Janacek aggrottò la fronte. «Il suo problema, t’Larien, è che lei sa poco e capisce anche meno sia Jaan che me e il nostro mondo».

«So più di quel che pensa».

«Davvero? Ha letto le cose che ha scritte Jaan sui Demoncanti ed indubbiamente le hanno detto qualcosa. E allora cosa significa? Lei non è un Kavalar, direi, eppure se ne sta qui in piedi davanti a me e le leggo il giudizio che ha ormai espresso negli occhi. Ma con quale diritto? Chi è lei per giudicare? Lei ci conosce appena. Le voglio fare un esempio. Non più di un secondo fa lei mi ha chiamato Janacek».

«Questo è il suo nome, non è così?».

«Questa è una parte del mio nome, l’ultima parte, la minore e la più piccola parte di ciò che io sono. È il nome che mi sono scelto, il nome di un antico eroe dell’Unione Ferrogiada che visse una vita lunga ed edificante, molte volte onorevole, difendendo la sua granlega ed il suo kethi nell’altaguerra. Naturalmente so benissimo perché lei mi chiama così. Sul suo mondo e secondo il vostro sistema di dare i nomi, è normale chiamare quelli con cui ci si sente distanti o verso cui si prova ostilità solo con l’ultima parte del nome… un intimo lei lo chiamerebbe con il primo nome, non è vero?».

Dirk annuì. «Più o meno. Non è una cosa tanto semplice, ma ci è andato abbastanza vicino».

Janacek sorrise appena; gli occhi azzurri parevano scintillare. «Vede, io che capisco il suo popolo, molto bene. Inoltre seguo i suoi principi… io la chiamo t’Larien perché provo dell’ostilità verso di lei e questo è un modo di fare corretto. Tuttavia lei non ricambia in maniera corretta. Lei si rivolge a me come se fossi Janacek, senza pensarci nemmeno un momento, senza preoccuparsene nemmeno un poco, imponendomi il suo sistema di dare i nomi».

«Allora come dovrei chiamarla? Garse?».

Janacek fece un gesto di stizza, di impazienza. «Garse è il mio vero nome, ma non è adatto, detto da lei. Secondo l’uso Kavalar l’uso di questo nome da solo indicherebbe un rapporto che in verità non esiste tra di noi. Garse è un nome per il mio teyn e la mia cro-betheyn, per i miei kethi, non per quelli che vengono da un altro mondo. Per la verità lei dovrebbe chiamarmi Garse Ferrogiada e dovrebbe chiamare il mio teyn Jaantony Ferrogiada. Questi sono nomi tradizionali e corretti tra uguali, il Kavalar di un’altra casa, uno con cui sono in termini di semplice conoscenza. Le concedo il beneficio di molti dubbi». Sorrise. «Ora, lei capisce t’Larien, le dico tutto questo solo per spiegarle. Chissà cosa me ne importa se lei mi chiama Garse o Garse Ferrogiada, oppure signor Janacek! Mi chiami come cavolo preferisce ed io non accuserò insulto. Ho sentito dire che il Kimdissi Arkin Ruark mi chiama addirittura Garsey, eppure mi sono trattenuto dall’irrefrenabile impulso di pungerlo per vedere se si gonfia.

«Questi fatti di cortesia e di indirizzamento… non mi serve certo sentire Jaan che mi viene a dire che si tratta di roba vecchia, vincoli derivati da giorni nello stesso tempo più complessi e più primitivi e che sono ormai morti ai giorni attuali. Adesso i Kavalari guidano le navi spaziali da stella a stella, parlano e commerciano con creature che un tempo avrebbero sicuramente sterminato perché erano dei demoni, fabbricano addirittura pianeti, come è stato fatto per Worlorn. L’Antico Kavalar, la lingua delle granleghe parlata per migliaia di anni, non lo parla quasi più nessuno anche se resistono ancora alcuni termini e continueranno ad essere usati, perché danno il nome a realtà che altrimenti potrebbero essere nominate solo in modo goffo o non potrebbero essere nominate affatto nelle lingue dei viaggi spaziali… realtà che svanirebbero all’istante se fossero chiamate con i vostri nomi, se non fossero più usati i termini dell’antico Kavalar. Tutto è cambiato, anche noi di Alto Kavalaan siamo cambiati, Jaan dice che dovremmo cambiare ancora di più se vogliamo scrivere il nostro destino nella storia dell’uomo. Così le vecchie regole dei nomi e dei nomelegati sono state infrante e perfino gli altolegati parlano in maniera frivola e Jaantony alto-Ferrogiada si fa chiamare Jaan Vikary».

«Questo non importa», disse Dirk, «ma lei dove vuole arrivare?».

«Voglio arrivare a dare delle spiegazioni, t’Larien, una spiegazione semplice ed elegante di ciò che lei pensava di aver capito della nostra cultura, di come lei adatti i suoi giudizi e le sue valutazioni a noi con ogni parola e con ogni sua azione. Ecco il punto. Ci sono delle cose più importanti, si capisce, ma lo schema è sempre lo stesso; lei continua a fare il solito errore, un errore che non dovrebbe fare. Il prezzo potrebbe essere più alto di quello che lei è disposto a pagare. Lei crede che io non sappia ciò che sta cercando di fare?».

«Che cosa sto cercando di fare?».

Janacek sorrise ancora, con gli occhietti piccoli e duri, mentre piccole rughe si formavano agli angoli. «Lei sta cercando di portare via Gwen Delvano al mio teyn. Vero?».

Dirk non disse niente.

«È la verità», disse Janacek. «E non è la verità. Perché io non lo permetterei mai. Io non lo permetterò. Sono legato con ferro-e-pietraluce a Jaantony alto-Ferrogiada e non me lo dimenticherò. Siamo teyn-e-teyn, noi due. Non c’è vincolo tra quelli che conosce lei che sia così forte».

Dirk si scoprì a pensare di Gwen ed alla abissale goccia rossa piena di memorie e di promesse. Pensò che era un peccato che non potesse dare la gemma mormorante a Janacek perché la stringesse un istante, in modo che l’arrogante Kavalar potesse saggiare quando era stato forte il vincolo che aveva unito Dirk alla sua Jenny. Ma sarebbe stata una cosa inutile. La mente di Janacek non avrebbe avuto alcuna risonanza con gli schemi esperincisi nella pietra; per lui sarebbe stata semplicemente una gemma. «Ho amato Gwen», disse tagliente. «Dubito che voi abbiate dei vincoli più forti di questo».

«Davvero? Be’, lei non è un Kavalar e non lo è nemmeno Gwen. Voi due non capite il ferro-e-pietraluce. La prima volta che ho incontrato Jaantony eravamo tutti e due giovanissimi. Per la verità io ero anche più giovane. A lui piaceva giocare di più coi bambini piccoli che con quelli della sua età e veniva frequentemente al nostro asilo. Fin dal primo momento l’ho tenuto in grande stima, come può fare solo un ragazzo, perché lui era più anziano di me e perciò più vicino a diventare un altolegato ed anche perché mi guidava in avventure in strani corridoi e caverne e mi raccontava delle storie affascinanti. Quando fui più vecchio, capii perché veniva coi bambini più giovani tanto spesso e ne rimasi colpito e me ne vergognai. Lui aveva paura di quelli della sua età, perché lo beffeggiavano e spesso lo picchiavano. Eppure c’era un legame tra di noi, fin dal tempo in cui io seppi queste cose. Può chiamarla amicizia se vuole, ma sarebbe sbagliato, vorrebbe dire imporre i suoi concetti al nostro modo di vivere ancora una volta. Era qualcosa di più della vostra amicizia di abitanti di un altro mondo, c’era già il ferro tra di noi, anche se non eravamo ancora teyn-e-teyn.

«La volta successiva in cui Jaan ed io andammo insieme in esplorazione — eravamo molto lontani dalla nostra granlega, in una caverna che lui conosceva benissimo — io lo colsi alla sprovvista e lo picchiai finché ogni parte del suo corpo non fu ferita o gonfia. Lui non fece più visita alla mia caserma-nido per tutto l’inverno, però alla fine ritornò. Non c’era astio tra di noi. Cominciammo ad andare in giro e a cacciare assieme come prima e lui mi raccontò delle altre storie, racconti mitici e storici. Da parte mia, non mancavo mai di assalirlo ogni tanto e lo trovavo sempre impreparato e lo sopraffacevo. Dopo un po’ cominciò a contrastarmi, anche bene. Dopo un altro po’ mi riuscì impossibile sorprenderlo coi pugni. Un giorno portai fuori da ferrogiada un coltello di nascosto sotto la camicia, mi lanciai su Jaan e lo tagliai. Allora cominciammo a portare dei coltelli tutti e due. Quando raggiunse l’adolescenza, l’età in cui doveva scegliersi i nomi per sottoporsi al codice duellesco, Jaantony non era più un soggetto che si potesse facilmente prendere in giro.

«Era sempre poco simpatico. Deve sapere che era un tipo che faceva un mucchio di domande, chiedeva delle cose scomode ed aveva delle opinioni poco ortodosse. Amava la storia e criticava apertamente la religione, inoltre aveva un grande interesse, troppo, per gli abitanti di altri mondi che venivano tra di noi. Per cui dovette subire una gran quantità di duelli nel primo anno in cui raggiunse l’età duellesca. Vinse sempre. Quando, dopo pochi anni anch’io raggiunsi l’età dell’adolescenza e diventammo teyn-e-teyn, non mi restò quasi nessuno con cui combattere. Jaantony aveva spaventato tutti, per cui nessuno ci sfidava. La cosa mi scocciava parecchio.

«Da allora abbiamo duellato assieme parecchie volte. Siamo vincolati per la vita, ne abbiamo passate tante assieme e non la voglio sentire sputar sentenze e far confronti con l’insignificante «amore» che affascina voi stranieri, questo vincolo falsumano che va e viene secondo il capriccio del momento. Lo stesso Jaantony è stato malamente corrotto da questo concetto negli anni che ha passato su Avalon ed è stata anche un po’ colpa mia, perché l’ho lasciato andare da solo. È vero che su Avalon non avrei avuto nessuna funzione né collocazione, eppure avrei dovuto seguirlo. In questo ho sbagliato con Jaan. Ma non farò altri sbagli con lui. Io sono il suo teyn e sarò sempre il suo teyn e non permetterò a nessuno di ucciderlo o ferirlo, nemmeno di stranirgli la mente, o di carpirgli il nome. Questi sono i miei vincoli ed i miei doveri.

«Troppo spesso in quei giorni Jaan ha permesso che il suo nome fosse malversato da gente come lei e Ruark. Sotto molti aspetti Jaan è un uomo perverso e pericoloso ed i suoi ghiribizzi mentali ci mettono spesso in pericolo. Perfino i suoi eroi… mi venivano in mente, giorni fa, alcune delle storie che mi aveva raccontato durante la mia infanzia. Rimasi colpito dal fatto che tutti gli eroi preferiti da Jaan erano uomini solitari che alla fine venivano sconfitti. Aryn alto-Pietraluce, per esempio, che dominò un’intera epopea storica. Governò con la forza della sua personalità la più potente granlega che Alto Kavalaan abbia mai conosciuto, Monte Pietraluce; poi quando i suoi nemici fecero lega contro di lui nell’altaguerra, quando tutte le braccia erano sollevate contro di lui, egli pose spade e scudi in mano alle sue eyn-kethi e le portò in battaglia per aumentare il volume del suo esercito. I suoi nemici vennero sbaragliati ed umiliati secondo ciò che mi raccontava Jaan. Ma più tardi seppi che Aryn alto-Pietraluce non aveva conosciuto alcuna vittoria. Seppi che molte eyn-kethi della sua granlega vennero uccise quando non riuscirono più a dare alla luce nuovi guerrieri. Monte Pietraluce declinò presto in potenza e in popolazione e quarant’anni dopo l’audace sortita di Aryn, i Pietraluce caddero e gli altolegati di Taal, Ferrogiada e Bronzeopugno, catturarono le loro donne e i bambini, lasciando le caverne deserte. La verità è che Aryn alto-Pietraluce non fu altro che un fallimento ed uno stolto, uno dei paria della storia, come tutti i folli eroi di Jaan».

«Aryn mi sembra abbastanza eroico», disse Dirk acido. «Su Avalon si sarebbe detto probabilmente che aveva per lo meno eliminato la schiavitù, anche se non aveva vinto».

Janacek gli lanciò uno sguardo di fuoco: gli occhi erano scintille azzurre poste in due fessure del cranio. Si tirò la barba rossa con aria infastidita. «t’Larien, questa è una di quelle osservazioni contro cui l’avevo messa in guardia. Le eyn-kethi non sono schiave, sono eyn-kethi. Lei giudica le cose in modo sbagliato e le sue traduzioni sono false».

«Secondo lei», disse Dirk. «Secondo Ruark…».

«Ruark». Il tono di Janaceck era sprezzante. «La fonte di tutte le sue informazioni su Alto Kavalaan è dunque il Kimdissi? Vedo che ho sprecato tempo e parole con lei, t’Larien. Lei ormai è contagiato e non le interessa affatto comprendere. Non è altro che uno strumento dei manipolatori di Kimdiss. Non la disturberò più con altre conferenze».

«Bene», disse Dirk. «Mi dica solo dove si trova Gwen».

«Gliel’ho detto».

«Quando ritornerà, allora?».

«Tardi e sarà anche stanca. Sono sicuro che non avrà nessuna voglia di vedere lei».

«È lei che la tiene lontano da me!».

Janacek tacque per un istante. «Sì», disse alla fine, con la bocca atteggiata in un ampio sorriso. «È la cosa migliore, t’Larien, per lei come per Gwen, anche se non mi aspetto che lei ci creda».

«Lei non ha nessun diritto».

«Secondo la sua cultura. Ma ne ho tutti i diritti nella mia. Non le sarà mai più permesso di restar solo con Gwen».

«Gwen non fa parte della vostra maledetta e bacata cultura Kavalar», disse Dirk.

«Non è nata in quella cultura, ma ha acquisito la giada-e-argento, oltre al nome di betheyn. Ormai è Kavalar».

Dirk tremava, non riusciva più a controllarsi, «E lei che ne dice di questo?», domandò, facendosi più vicino a Janacek. «Che cosa ha detto ieri notte? Ha minacciato di abbandonarvi?». Puntò il dito contro il torace del Kavalar. «Ha detto che sarebbe venuta con me, non è vero? Così lei l’ha colpita e l’ha portata via!».

Janacek aggrottò la fronte ed allontanò bruscamente la mano di Dirk. «Sicché oltre tutto ci spia. E lo fa anche male, t’Larien, comunque è una cosa offensiva. Un secondo errore. Il primo errore lo ha fatto Jaan, che le ha detto ciò che le ha detto, che ha avuto fiducia di lei e che le ha dato la sua protezione».

«Io non ho bisogno della protezione di nessuno!».

«Lo dice lei. Un orgoglio fuori posto da idiota. Solo quelli che sono fortissimi possono rifiutare le protezioni; quelli che sono deboli ne hanno assolutamente bisogno». Si girò dall’altra parte. «Non sprecherò altro tempo con lei», disse, avviandosi verso la sala da pranzo. C’era un bauletto portatile messo sul tavolo. Janacek lo aprì facendo scattare simultaneamente entrambi i chiavistelli e spalancando il coperchio. All’interno Dirk vide cinque file di banscee a spilla in ferro nero incastonate nel velluto rosso. Janaceck ne prese una. «È ben certo di non volere una di queste? Korariel?». Fece un largo sorriso.

Dirk incrociò le braccia e non lo degnò di una risposta.

Janacek aspettò un momento per sentire se rispondeva. Visto che l’altro non parlava, ripose la banscea al suo posto e chiuse la scatola. «I bambini di gelatina non sono di gusti così difficili come i suoi», disse. «Adesso devo portare queste cose a Jaan. Se ne vada».

Erano le prime ore del pomeriggio. Il Mozzo bruciava fioco al centro del cielo, assieme alle deboli luci sparse dei quattro soli Troiani che lo circondavano irregolarmente. Da est soffiava un forte vento, sembrava che stesse per diventare bufera. La polvere roteava per i viali grigi e scarlatti.

Dirk si era seduto su un angolo della terrazza, con le gambe che penzolavano verso la strada, e pensava.

Aveva seguito Garse Janacek fino al terrazzo d’atterraggio e lo aveva visto partire, portando la cassetta con le banscee e volando via con la sua macchina spigolosa, residuato bellico, con l’armatura verde oliva. Le altre due aerauto, la manta con le ali grigie e la goccia gialla, se ne erano andate. Era arenato qui su Larteyn e non aveva la minima idea di dove fosse Gwen, né sapeva ciò che le avessero fatto. Per un attimo desiderò che ci fosse Ruark lì attorno. Desiderò di poter avere un’aerauto. Indubbiamente avrebbe potuto affittarne una a Sfida, se ci avesse pensato, oppure allo spazioporto, la sera in cui era arrivato. Invece era solo e senza possibilità. Non c’erano nemmeno gli aeroscooter. Il mondo era grigio, rosso ed inservibile. Si chiese cosa potesse fare.

Improvvisamente gli venne un’idea, mentre se ne stava seduto a pensare alle aerauto. Le città del festival che aveva visto erano tutte molto diverse tra di loro, ma avevano una cosa in comune: nessuna di loro aveva spazio sufficiente per parcheggiare le aerauto di tutta la popolazione. Il che significava che le città dovevano essere collegate da una qualche rete di trasporti. Il che significava che forse lui aveva una certa possibilità di azione, malgrado tutto.

Si alzò in piedi, andò alla cabina dell’ascensore e scese nell’alloggio di Ruark, alla base della torre. Tra due piante con la corteccia nera, alte fino al soffitto, sistemate in vasi di terra, c’era uno schermo a parete, che infatti ricordava di aver già visto. Era scuro e in disuso e Dirk lo aveva visto così fin da quando era arrivato; c’era rimasta poca gente su Worlorn a cui si potesse telefonare. Ma indubbiamente c’era un servizio di informazioni. Studiò la doppia fila di pulsanti posta sotto lo schermo, ne scelse uno e lo premette. L’oscurità si trasformò in morbida luce azzurra e Dirk si sentì risollevato; la rete telefonica, per lo meno, funzionava ancora.

Uno dei pulsanti portava impresso un punto interrogativo. Provò con quello e ne fu ripagato. La luce azzurra scomparve ed immediatamente lo schermo si riempì di scritte a piccoli caratteri, un centinaio di servizi basilari, si andava dal pronto soccorso e dalle informazioni religiose fino alle notizie degli altri mondi.

Digitò la sequenza di «trasporti per i visitatori». Gli schemi attraversarono lo schermo e le speranze di Dirk svanirono una per una. C’erano possibilità di affittare aerauto allo spazioporto e a dieci delle quattordici città. Tutto chiuso. Le aerauto avevano lasciato Worlorn con la folla del festival. Altre città avevano avuto a disposizione hovercraft e battelli ad idroguida. Adesso non più. A Musquel Marina, i visitatori potevano navigare su e giù per la costa in autentiche navi spinte dal vento provenienti dalla Colonia Dimenticata. Il servizio era terminato. Il servizio di collegamento di aerobus era chiuso. Le stratolinee ad energia nucleare di Tober ed i dirigibili ad elio di Eshellin erano stati disattivati e portati via. Lo schermo gli mostrò una mappa dalle linee sotterranee ad alta velocità che erano andate dallo spazioporto verso tutte le città, m’ara mappa era tutta tracciata di rosso e la nota al fondo spiegava che cosa il rosso significasse: «Disattivato… Non più in funzione».

Non c’era più alcun mezzo di trasporto su Worlorn; l’unica era andare a piedi, si sarebbe detto. C’erano solo le cose che i visitatori ritardatari avevano portato con sé.

Dirk fissò accigliato lo schermo e lo cancellò. Fu quasi sul punto di spegnere, quando gli venne un’altra idea. Digitò il codice di «Biblioteca», ottenne un segnale di richiesta e delle istruzioni. Quindi digitò «bambini di gelatina» e poi «definizione». Attese.

Dovette aspettare poco e non gli serviva certo l’enorme massa di informazioni che la biblioteca gli aveva rimandato, i dettagli della storia, della geografia e della filosofia. Prese velocemente nota delle informazioni essenziali ed ignorò il resto. Pareva che «bambini di gelatina», fosse un nomignolo dato ai seguaci di un culto pseudo religioso basato sulla droga sul Mondo dell’Oceano Nerovino. Venivano chiamati così perché trascorrevano anni vivendo nel ventre cavernoso ed umido di lumaconi gelatinosi lunghi chilometri che strisciavano in maniera infinitamente lenta sul fondo dei loro mari. Gli adepti chiamavano quelle creature Madri. Le Madri nutrivano i loro bambini con dolci secrezioni allucinogene e si credeva che fossero semisenzienti. La fede, notò Dirk, non impediva ai bambini di gelatina di uccidere il loro ospite quando la qualità dei sogni dati dalle sue secrezioni, cominciava a declinare, cosa che capitava invariabilmente quando le lumache diventavano vecchie. Liberatisi di una Madre, i bambini di gelatina ne avrebbero cercata un’altra.

Dirk cancellò velocemente i dati dallo schermo e consultò di nuovo il servizio della biblioteca. Il Mondo dell’Oceano Nerovino aveva una città su Worlorn. Si stendeva al disotto di un lago artificiale del diametro di cinquanta chilometri, sotto le stesse acque cupe e brulicanti che coprivano la superficie del mondo dei Nerovini. Si chiamava la Città nella Palude Senzastelle ed il lago era pieno di vita trasportata per il festival del Margine. Senza dubbio c’erano anche delle Madri.

Senza nessuna particolare curiosità, Dirk cercò la città su una carta di Worlorn. Naturalmente non aveva nessun modo per arrivare fin laggiù. Spense lo schermo a parete ed andò in cucina a prepararsi da bere. Ingoiò il liquido — era una specie di latte biancastro prodotto da un qualche animale Kimdissi, freddissimo, amaro, ma rinfrescante — cominciò a tamburellare con le dita con impazienza sul mobile bar. Cominciava a diventare impaziente, aveva bisogno di fare qualcosa. Si sentiva intrappolato, perché doveva aspettare che ritornasse qualcuno degli altri, perché non sapeva chi sarebbe stato a ritornare per primo, né che cosa sarebbe successo. Gli pareva di essere sballottato avanti e indietro secondo il capriccio degli altri, fin dal primo momento che era sceso dal Tremito dei Nemici Dimenticati. Del resto non era venuto per sua volontà; era stata Gwen che lo aveva chiamato con la sua gemma mormorante, anche se non aveva dato l’impressione di essere molto contenta per il suo arrivo. Per lo meno aveva cominciato a capire una cosa. Lei era rimasta intrappolata in una trama assai complessa, una trama politica ed emozionale al tempo stesso e pareva che anche lui ci fosse finito dentro, senza possibilità di uscita, circondato da cicloniche tensioni psico sessuali e culturali che riusciva a comprendere solo a metà. Era stufo di sentirsi sballottato.

Improvvisamente gli venne in mente Kryne Lamiya. Su una terrazza battuta dal vento c’erano due aerauto abbandonate. Dirk poggiò il bicchiere pensosamente, si pulì le labbra con il dorso della mano e ritornò allo schermo parete.

Si trattava solo di trovare il posto in cui erano sistemati i parcheggi a Larteyn. C’erano delle terrazze in cima a tutte le torri più grandi ed un grande garage pubblico scavato nella roccia al di sotto della città. Il garage, lo informò il servizio turistico cittadino, poteva essere raggiunto con una qualsiasi delle linee sotterranee che attraversavano Larteyn; le porte nascoste si aprivano in mezzo al dirupo a strapiombo che si ergeva al di sopra del Comune. Se i Kavalari avevano abbandonato delle aerauto all’interno della loro città conchiglia, quello era il posto in cui lui le avrebbe potute trovare.

Prese l’ascensore fino al pianterreno e poi la strada. Grasso Satana aveva superato lo zenit e stava ormai sprofondando verso l’orizzonte. Le strade di pietraluce erano sbiadite e nere dove batteva la rossa luminescenza, ma quando Dirk attraversò le tenebre tra le quadrate torri di ebano, riuscì ancora a vedere i freddi fuochi della città sotto i piedi, il rosso morbido e scintillante della roccia, che già sbiadiva, ma resisteva ancora. All’aperto, la sua persona gettava ombre, pallidi fantasmi scuri che si affollavano goffamente uno sull’altro — quasi coincidevano, ma non proprio — e si affrettavano troppo rapidamente ai suoi piedi per svegliare la pietraluce addormentata. Durante il suo giro non vide nessun altro, anche se si chiese a disagio dove fossero i Braith ed una volta passò accanto a quella che doveva essere un’abitazione. Era un edificio quadrato con il tetto a cupola e neri pilastri di ferro presso la porta e legato ad uno di quei pilastri c’era un cane mostruoso, più alto di Dirk, con occhi rossi e luminosi ed un muso lungo e senza pelo che gli ricordava un po’ quello di un topo. La creatura stava rosicchiando un osso, ma si alzò quando lui passò e grugnì con il fondo della gola. Chiunque fosse ad abitare in quel posto, chiaramente non desiderava avere dei visitatori.

Le linee sotterranee funzionavano ancora. Dirk scese e la luce del giorno scomparve ed uscì nei passaggi più bassi, dove Larteyn assomigliava ancora alle granleghe di Alto Kavalaan: stanze di pietra archeggiate con appligli di ferro lavorato, dappertutto porte di metallo, camere dietro camere. Una fortezza di pietra, aveva detto una volta Ruark. Una fortezza, che non poteva essere facilmente conquistata. Ma ormai era abbandonata.

Il garage era su molti livelli ed era illuminato appena. C’era spazio per migliaia di macchine su ognuno dei dieci livelli. Dirk girovagò tra la polvere per mezz’ora prima di trovarne una. Era inutilizzabile. Un’altra macchina-bestia, forgiata in metallo blu-nero, nelle grottesche fattezze di un pipistrello gigante. Era più realistica e terrificante della banscea-manta piuttosto stilizzata di Jaan Vikary. Ma non era altro che uno scafo bruciato. Una delle ali da pipistrello era contorta e semifusa e della macchina rimaneva solo il corpo. I dispositivi interni, l’impianto energetico e le armi erano scomparsi e Dirk immaginò che mancasse anche la griglia gravitazionale, anche se non poteva vedere la parte inferiore del relitto. Dirk girò attorno all’apparecchio e passò oltre.

La seconda aerauto che trovò era in condizioni anche peggiori. In effetti era ben difficile chiamarla un’auto. Non rimaneva altro che un lungo telaio metallico e quattro sedili marci acquattati in mezzo ai tubi… uno scheletro senza pelle. Dirk passò oltre anche qui.

Gli altri due relitti che incontrò erano entrambi intatti, ma erano morti. Riuscì solo a pensare che i loro proprietari dovevano essere morti qui su Worlorn e le macchine li avevano aspettati negli abissi della città parecchi anni dopo che erano state abbandonate e tutta l’energia se ne era andata. Le provò tutte e due, ma nessuna delle due rispose al suo tocco e ai suoi tentativi.

La quinta macchina — ma ormai era passata un’ora — rispose anche troppo in fretta.

Era di stile completamente Kavalar, tozza, con due sedili e corte ali triangolari che parevano anche più inutili delle ali delle altre aerauto di Alto Kavlaan. Era smaltata di bianco e argento ed il tettuccio di metallo era forgiato in modo da assomigliare ad una testa di lupo. Dei cannoni a laser erano montati su entrambi i lati della fusoliera. La macchina non era chiusa; Dirk sollevò il tettuccio che si aprì facilmente. Si arrampicò dentro, chiuse la cabina e guardò fuori attraverso i grandi occhi del lupo con un sorriso storto. Poi provò i comandi. L’aerauto era ancora a piena potenza.

Aggrottò le sopracciglia, staccò i contatti e rimase seduto a pensare. Aveva trovato il mezzo di trasporto che stava cercando, ammesso che avesse avuto il coraggio di prenderlo. Ma non poteva ingannare se stesso; questa macchina non era un relitto come le altre che aveva scoperto. Era in condizioni troppo buone. Indubbiamente apparteneva ad uno degli altri Kavalari rimasti a Larteyn. Se i colori avevano un senso — Dirk non ne era sicuro — allora probabilmente apparteneva a Lorimaar o a uno degli altri Braith. Prendere quella macchina non era certo la cosa migliore che potesse fare, no di certo.

Dirk si rese conto del pericolo e ci pensò bene. Stare ad aspettare non gli piaceva affatto, ma non gli piaceva nemmeno immischiarsi in cose pericolose. Jaan Vikary o non Jaan Vikary, il furto di un’aerauto avrebbe sicuramente scatenato i Braith.

Riluttante, aprì il tettuccio ed uscì, ma non era ancora fuori che sentì le voci. Abbassò il tettuccio della macchina che si chiuse con un debole ma percettibile click. Dirk si accucciò cercando la salvezza nell’ombra a pochi metri dalla macchina lupo.

Riusciva a sentire i Kavalari che parlavano e il rumoroso battere dei loro piedi echeggianti, parecchio tempo prima di vederli. Erano solo due, ma parevano dieci dal rumore. Nel momento in cui giunsero alla luce presso l’auto, Dirk si era appiattito in una nicchia posta nella parete del garage, una piccola cavità piena di ganci dove un tempo dovevano essere stati appesi gli attrezzi. Non era certo che fosse opportuno nascondersi, ma adesso era lieto di aver scelto questa via. Le cose che Gwen e Jaan gli avevano detto sugli altri abitanti di Larteyn non lo avevano certo rassicurato.

«Sei ben certo di questo, Bretan?», stava dicendo uno dei due, quello più alto, quando Dirk li vide. Non era Lorimaar, ma la sua somiglianza era impressionante; costui aveva la stessa altezza imponente, lo stesso colorito e la faccia rugosa. Ma era un po’ più grasso di Lorimaar alto-Braith ed aveva i capelli bianchissimi, mentre l’altro li aveva soprattutto grigi, inoltre aveva dei piccoli baffi a spazzolino. Sia lui che il suo compagno, indossavano corte giubbe bianche su braghe e camicia di tessuto camaleontino che era diventato quasi nero nelle tenebre del garage. Entrambi portavano armi a laser.

«Roseph non ci frega», disse il secondo Kavalar con una voce gracchiante simile a cartavetrata. Era molto più piccolo dell’altro, più o meno dell’altezza di Dirk, ed anche più giovane, molto magro. Aveva la giubba con le maniche corte che mettevano allo scoperto le potenti braccia scure e uno spesso braccialetto di ferro-e-pietraluce. Muovendosi verso l’aerauto, fu in piena luce per un istante e parve fissare nel buio direttamente dove era nascosto Dirk. Aveva solo mezza faccia; tutto il resto era un’immane cicatrice piena di tic. Il suo "occhio" sinistro si muoveva senza posa quando voltava la testa e Dirk vi scorse le fiamme rivelatrici: una pietraluce incastonata in un’orbita vuota.

«Com’è che l’hai saputo?», disse l’uomo più vecchio mentre i due si soffermavano brevemente a lato della macchina lupo. «Roseph va matto per le fregature».

«A me non piacciono le fregature», disse l’altro, quello che si chiamava Bretan. «Roseph potrà fregare te, o Lorimaar, perfino Pyr, ma non oserà fregare me». Aveva una voce orribilmente spiacevole; c’era una crudezza raschiante che offendeva l’orecchio, ma data la profondità delle cicatrici che arrivavano fino al collo, Dirk trovò sorprendente che l’uomo riuscisse a parlare.

Il Kavalar più alto cercò di aprire la testa del lupo, ma il tettuccio non si sollevò. «Bene, se questo è vero, dobbiamo fare in fretta», disse querulo. «La chiave, Bretan, la chiave!».

Bretan dall’unico occhio fece uno strano rumore, qualcosa che era a metà tra un grugnito e un gorgoglìo. Tentò anche lui di aprire il tettuccio. «Mio caro teyn», gracchiò. «Avevo lasciato la testa appena accostata… io… non ci è voluto più di un istante per salire e per trovarti».

Nel buio Dirk si premette ancora di più contro la parete ed i ganci gli premevano dolorosamente la schiena tra le scapole. Bretan aggrottò la fronte e si inginocchiò, mentre il suo compagno più anziano era in piedi e guardava perplesso.

Poi improvvisamente il Braith si alzò di nuovo con la pistola a laser stretta nella mano destra, puntata in direzione di Dirk. L’occhio di pietraluce fiammeggiò leggermente. «Esci fuori e facci vedere chi sei», annunciò. «Le tracce che hai lasciato nella polvere si vedono benissimo».

Dirk sollevò silenziosamente le mani al di sopra del capo e venne fuori.

«Un falsuomo!», disse il più alto dei Kavalari. «Quaggiù!».

«No», disse Dirk precipitosamente. «Dirk t’Larien».

Quello più alto lo ignorò. «Questa è una fortuna più unica che rara», disse al compagno con il laser. «Quegli uomini di gelatina di Roseph sarebbero comunque stati una preda da poco. Questo mi pare buono».

Il teyn giovane fece di nuovo quello strano rumore e la parte sinistra della sua faccia ebbe un tic. Ma la mano che teneva il laser era fermissima. «No», disse all’altro Braith. «Purtroppo non mi pare uno che possiamo cacciare. Costui non può essere altri che quel tale di cui parlava Lorimaar». Fece nuovamente scivolare la pistola a laser nella fondina e fece un cenno a Dirk, un movimento lentissimo e voluto, che era più un movimento di spalle che di testa. «Sei maledettamente grossolano. Il tettuccio si chiude automaticamente se lo si chiude tutto. Si può aprire dall’interno, ma…».

«L’ho capito adesso», disse Dirk. Abbassò le mani. «Stavo semplicemente cercando una macchina abbandonata. Mi serviva un mezzo di trasporto».

«Sicché tu volevi rubarci la macchina».

«No».

«Sì». Pareva che ogni parola costasse un tremendo sforzo al Kavalar. «Tu sei korariel di Ferrogiada?».

Dirk esitò, ma il suo no gli rimase in gola. Qualsiasi risposta lo avrebbe cacciato nei guai.

«Non hai niente da rispondere?», disse quello con la cicatrice.

«Bretan», lo avvertì l’altro. «Ciò che dice un falsuomo non ci interessa. Se Jaantony Ferrogiada lo ha nominato korariel, allora è così. Simili animali non possono dire che cosa sono. Qualsiasi cosa dica lui, la cosa non cambia, la realtà è quella che è. Sicché se noi lo uccidiamo, rubiamo una cosa di proprietà di Ferrogiada e quelli ci lancerebbero sicuramente la sfida».

«Ti invito a considerare le varie possibilità, Chell», disse Bretan. «Questo tale, questo Dirk t’Larien, può essere un falsuomo, o no, korariel di Ferrogiada, o no. Vero?».

«Vero. Ma non è un uomo vero. Ascolta, mio teyn. Tu sei giovane, ma io ho sentito parlare di queste cose da kethi che sono morti da molto tempo».

«Comunque pensaci un po’. Se lui è un falsuomo e Ferrogiada lo ha nominato korariel, allora è certamente un korariel, che lui lo ammetta o no. Ma è proprio così? Se è così, Chell, allora tu ed io dobbiamo combattere in duello con Ferrogiada. Costui stava cercando di rubare a noi, ti ricordi? Se è proprietà di Ferrogiada, allora costui è un ladro di Ferrogiada».

L’uomo grande con i capelli bianchi annuì, riluttante.

«Se si tratta di un falsuono, ma non è korariel, allora non ci sono problemi», continuò Bretan, «dato che può essere liberamente cacciato. E se fosse un vero uomo, umano come gli altolegati, e niente affatto un falsuomo?».

Chell era molto più lento del suo teyn. Il vecchio Kavalar corrugò la fronte pensoso e disse: «Bé, non è una femmina, quindi non può essere catturato. Ma se è un umano, deve avere i diritti di un uomo ed un nome da uomo».

«Vero», convenne Bretan. «Ma non potrebbe essere korariel, per cui il suo crimine è una cosa a cui solo lui dovrà rispondere. Io sfiderei lui a duello e non Jaantony alto-Ferrogiada». Il Braith emise ancora il suo strano grugnito-gemito.

Chell annuiva e Dirk era quasi paralizzato. Il più giovane dei due cacciatori sembrava aver condotto le cose con una precisione spaventosamente efficiente. Dirk aveva detto sia a Vikary, che a Janacek, in termini precisi, che rifiutava il marcio scudo della loro protezione. In quel momento la cosa gli era risultata piuttosto facile da fare. Su un mondo sano, come Avalon, sarebbe certo stata la cosa più giusta da farsi. Su Worlorn le cose, invece, non erano così semplici.

«Dove lo portiamo?», disse Chell. I due Braith parlavano come se Dirk non fosse diverso da una macchina.

«Lo dobbiamo portare da Jaantony alto-Ferrogiada e dal suo teyn», disse Bretan con un grugnito di cartavetrata. «So più o meno dove si trova la loro torre».

Per un istante Dirk prese in considerazione l’ipotesi della fuga. Non gli parve fattibile. Loro erano in due, avevano delle armi ed anche un’aerauto. Non sarebbe andato lontano. «Va bene», disse quando quelli si mossero verso di lui. «Vi mostrerò la strada». Gli pareva che avrebbe avuto un po’ di tempo per pensare, ad ogni modo; pareva che i Braith non sapessero che Vikary e Janacek erano già alla Città nella Palude Senzastelle, certo per cercare di proteggere gli sfortunati bambini di gelatina dagli altri cacciatori.

«Facci strada, allora», disse Chell. E Dirk, che non sapeva cos’altro fare, li condusse verso i passaggi sotterranei. Mentre camminavano pensò amaramente che tutto questo era successo perché lui era stufo di aspettare. Ed ora, pareva proprio che avrebbe dovuto aspettare, dopo tutto.

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