«È stata una sfortunata eventualità che tu ti sia imbattuto in Lorimaar stamattina», disse Gwen quando Jaan se ne fu andato. «Non c’era nessuna ragione per immischiarti in questa faccenda e speravo di doverti risparmiare tutti i cupi dettagli. Spero che considererai queste informazioni confidenziali quando lascerai Worlorn. Lascia che siano Garse e Jaan a preoccuparsi dei Braith. Non c’è nessun altro che ci possa fare qualcosa, comunque, tranne che parlare della cosa e fare delle maldicenze sugli innocenti che stanno su Alto Kavalaan. E soprattutto, non parlarne ad Arkin! Lui detesta i Kavalari ed in un attimo potrebbe arrivare su Kimdiss». Si alzò in piedi. «Per il momento, suggerirei di parlare di argomenti più piacevoli. Abbiamo pochi momenti da trascorrere insieme; posso farti da guida turistica per poco, perché poi devo ritornare al mio lavoro. Non c’è ragione per permettere a quei macellai di Braith di rovinarci i pochi giorni che abbiamo».
«Come vuoi tu», rispose Dirk, ansioso di farle piacere, ancora scosso dall’intera faccenda di Lorimaar e dei falsuomini. «Hai in mente qualcosa?».
«Ti potrei condurre di nuovo nelle foreste», gli disse Gwen. «Cambiano e cambiano continuamente. Ci sono centinaia di cose affascinanti da vedere nei boschi: laghi pieni di pesci più grandi di noi, montagne che sono nidi di insetti più grandi di questa casa, mentre gli insetti sono più piccoli di un’unghia; poi c’è un’incredibile sistema di caverne che è stato scoperto da Jaan dall’altra parte delle montagne… Jaan è uno speleologo nato. Comunque direi che per oggi è meglio andarci piano. È inutile versare altro sale nelle ferite di Lorimaar, altrimenti lui ed il suo teyn ci cacceranno lo stesso e Jaan si troverà nei guai. Oggi ti farò vedere le città. Anche loro hanno un fascino ed una macabra bellezza. Come ha detto Jaan, Lorimaar non ha ancora pensato ad andare a cacciare lì».
«Va bene», disse Dirk, con scarso entusiasmo.
Gwen si vestì in fretta e lo condusse fino al tetto. Gli scooter aerei erano ancora là dove li avevano lasciati loro il giorno prima. Dirk si piegò per prenderli, ma Gwen gli prese di mano le sottili strisce di metallo e le gettò sui sedili di dietro della manta grigia. Poi prese gli stivali da volo e le apparecchiature di controllo e le buttò davanti. «Oggi niente scooter», disse lei. «Dovremo fare un percorso troppo lungo».
Dirk annuì, poi tutti e due piroettarono al di sopra delle ali dell’auto e si misero sui sedili anteriori. Il cielo di Worlorn gli dava l’impressione di star tornando da una spedizione e invece stava partendo.
Il vento gridava attorno all’aerauto e Dirk tenne un momento l’asta di controllo in modo che Gwen avesse tempo di legarsi i lunghi capelli neri dietro. Anche la sua zazzera grigio-bruna andava da tutte le parti come se fosse presa da folli convulsioni mentre correvano per il cielo, ma era così concentrato nei suoi pensieri che nemmeno se ne accorgeva, non gli davano nemmeno fastidio.
Gwen mantenne l’apparecchio alto al di sopra delle montagne e si diresse verso sud. Il placido Comune con le tonde colline erbose ed i fiumi tortuosi si stendeva in distanza alla loro destra, fin dove il cielo scendeva a toccarlo. Lontano sulla sinistra, quando le montagne si abbassarono, riuscirono a scorgere il bordo delle foreste. Anche da così in alto si vedevano le aree infestate dai soffocatori… gialli cancri che si stendevano in mezzo al verde scurissimo.
Camminarono per quasi un’ora. Dirk era perduto nei suoi pensieri e cercava di mettere una cosa assieme all’altra senza riuscirci. Alla fine Gwen lo fissò con un sorriso. «Mi piace volare con l’aerauto», disse. «Anche con questa, Mi fa sentire libera e pulita, al di fuori di tutti i problemi che ci sono laggiù. Capisci cosa voglio dire?».
Dirk annuì. «Sì. Non sei la prima a dire una cosa del genere. C’è un mucchio di gente che ha le stesse sensazioni. Anch’io».
«Sì», disse lei. «Di solito ti portavo a spasso, ti ricordi? Su Avalon? Avrei volato per ore ed ore, dall’alba a! tramonto e tu te ne stavi seduto con un braccio fuori dal finestrino e guardavi lontano ed in basso con lo sguardo sognante sul viso». Lei sorrise ancora.
Lui se ne ricordava. Quei viaggi erano stati specialissimi. Non avevano mai parlato molto, solo ogni tanto si guardavano e tutte le volte che i loro occhi si incontravano, ridevano. Era inevitabile; anche se lui cercava di non farlo, quella risata arrivava sempre. Ma adesso sembrava tutto terribilmente lontano e perduto.
«Perché hai pensato a questo?», chiese lui.
«Sei stato tu che me lo hai fatto pensare», disse lei e fece un gesto. «Te ne stai seduto comodamente. Ah, Dirk. Tu stai barando, lo sai. Penso che tu l’abbia fatto apposta, per farmi pensare ad Avalon, per farmi sorridere e per farmi desiderare di abbracciarti ancora. Bah».
E risero assieme.
E Dirk, quasi senza pensarci, si avvicinò all’altro sedile e le mise un braccio attorno. Lei lo guardò in faccia brevemente, poi si strinse nelle spalle ed il cipiglio si trasformò in un sospiro rassegnato ed alla fine in un sorriso riluttante. E non si scostò.
Andarono a vedere le città.
La città del mattino era una tenera visione color pastello incastonata in un’ampia valle verde. Gwen fece posare l’aerauto al centro di una piazza a terrazzi e percorsero a piedi i grandi viali per un’ora. Era una città graziosa, ricavata da delicati marmi venati di rosa e pallide pietre. Le strade erano larghe, a curve sinuose, gli edifici bassi e parevano delle fragili strutture di legno levigato e di vetri sporchi. Dappertutto trovarono piccoli parchi ed ampi viali, e in ogni luogo c’era dell’arte: statue, dipinti, murali sui marciapiedi e sui lati delle costruzioni, giardini rocciosi ed alberi-scultura ancora vivi.
Ma ormai i parchi erano desolati ed era cresciuta un’erba selvatica verdazzurra. Rampicanti neri strisciavano lungo i marciapiedi, le colonne ai margini del parco erano state quasi tutte spogliate ed i più robusti alberi-scultura erano cresciuti formando immagini grottesche che i loro creatori non si sarebbero mai sognati.
Un fiume azzurro che si muoveva lentamente divideva e suddivideva la città, muovendosi da una e dall’altra parte seguendo un corso sinuoso e ritorto come le strade lungo le sue rive. Gwen e Dirk si sedettero per un po’ presso l’acqua, all’ombra di un ponte pedonale di legno cesellato ed osservarono il riflesso di Grasso Satana che galleggiava rosso e pigro sull’acqua. E mentre erano lì seduti, lei gli raccontò di come era un tempo la città, ai giorni del festival, prima che entrambi venissero su Worlorn. L’aveva costruita il popolo di Kimdiss, disse lei, e l’avevano chiamata Dodicesimo Sogno.
Forse adesso la città stava sognando. Se così era, questo sarebbe stato il suo sogno finale. Le sue sale a volta echeggiavano vuote, i suoi giardini erano giungle cupe che presto sarebbero diventate cimiteri. Dove un tempo le strade risuonavano di risa, ora l’unico suono era il rugginoso fruscio delle foglie morte soffiate via dal vento. Se Larteyn era una città morente, rifletté Dirk mentre se ne stava seduto sotto il ponte, allora Dodicesimo Sogno era una città morta.
«Arkin voleva mettere qui la base della nostra operazione», disse Gwen. «Però noi abbiamo opposto il nostro veto. Se lui ed io dovevamo lavorare assieme, era certo meglio che abitassimo nella stessa città ed Arkin avrebbe voluto che fosse Dodicesimo Sogno. Per me non andava bene e non so se mi abbia perdonato. I Kavalari hanno costruito Larteyn come una fortezza ed i Kimdissi hanno fatto questa città come un’opera d’arte. Nei vecchi giorni era anche più bella, immagino. Hanno smantellato gli edifici migliori ed hanno tolto le sculture più belle dalle piazze quando è finito il festival».
«Tu hai votato per Larteyn?», disse Dirk. «Per abitarci?».
Lei scosse il capo. I suoi capelli, che adesso non erano legati, oscillarono leggermente e toccarono Dirk che sorrise. «No», disse lei. «Jaan lo voleva ed anche Garse. Io… be’, nemmeno io ho votato per Dodicesimo Sogno. Non avrei mai potuto abitare qui. Il sentore di putredine è troppo forte. Sono d’accordo con Keats, sai. Non c’è niente che sia così melanconico come la morte della bellezza. C’era molta più bellezza qui di quanta ce ne sia mai stata a Larteyn, anche se Jaan brontolerebbe a sentirmelo dire. Questo è il posto più triste, quindi. Inoltre, a Larteyn c’è un po’ di compagnia, perlomeno, anche se si tratta di Lorimaar e della sua banda. Qui non è rimasto nessuno, tranne i fantasmi».
Dirk guardò dall’altra parte dell’acqua, dove il grande sole rosso, dissanguato e catturato, ballonzolava misteriosamente sulle onde lente. E quasi si riuscivano a vedere i fantasmi di cui lei aveva parlato, spiriti che si affollavano presso le rive da entrambi i lati e cantavano lamenti per cose da gran tempo perdute. E ce n’era anche un altro, uno spettro unicamente suo: un barcaiolo di Braque, che scendeva lungo il fiume, spingendo un lungo palo nero. Veniva per Dirk, quel barcaiolo, e si avvicinava, si avvicinava. E la barca nera che guidava era bassa sull’acqua, piena fino all’orlo di vuoto.
Così si alzò e spinse via Gwen, senza dir niente, ma voleva andarsene via. Ed essi fuggirono dai fantasmi, verso il terrazzo dove li attendeva l’aerauto grigia.
Poi furono di nuovo in alto, per un secondo interludio di vento e di cielo e pensieri silenziosi. Gwen volò ancor più a sud e poi ad est e Dirk si guardava attorno, pensava ed era tranquillo. Ogni tanto lei lo avrebbe guardato e, senza volerlo, avrebbe sorriso.
Alla fine giunsero al mare.
La città del pomeriggio era stata costruita lungo la riva di una baia frastagliata dove delle onde crestate verdescuro si rompevano contro pontili putridi. Un tempo si era chiamata Musquel-Marina, disse Gwen mentre le giravano attorno in lente spirali avvolgenti. Anche se era stata costruita con le altre città di Worlorn, c’era un’aria di antico lì attorno. Le strade di Musquel erano come serpenti dalla schiena spezzata, tortuosi viali rappezzati su cui si sporgevano torri di mattoni multicolori. Era una città di mattoni. Mattoni azzurri, mattoni rossi, gialli, verdi, arancioni, mattoni dipinti, a strisce ed a pallini, mattoni messi assieme con cemento nero come l’ossidiana, oppure rosso come Satana nel cielo, sbattuti assieme in pazzesche forme contrastanti. Anche più vistosi erano i tendoni dipinti delle bancarelle dei mercanti ancora allineate nelle strade di transito ed abbandonate sui deserti moli di pietra.
Atterrarono su di un molo che pareva più robusto degli altri, per un po’ ascoltarono i frangenti, poi si avviarono per la città. Tutto vuoto… tutta polvere. Le strade erano spazzate dal vento ed abbandonate, le cupole e le torri a cipolla erano vuote ed il grande sole grasso nel cielo dipingeva tutto con i suoi colori un tempo allegri. I mattoni si sbriciolavano; la polvere era dappertutto, multicolore e faceva tossire. Musquel non era una città costruita bene ed adesso era morta come Dodicesimo Sogno».
«È primitiva», disse Dirk in mezzo alle rovine. Si trovavano nel punto di incontro di due viali dove era stato scavato un profondo pozzo circondato da pietre. Sotto sbatteva l’acqua nera. «Pare tutto di epoca prespaziale e si direbbe che la cultura fosse dello stesso tipo. Braque è una cosa del genere, ma non a questo punto. Posseggono qualcosa della vecchia tecnologia, brandelli e accenni, per ciò che la loro religione non vieta. Si direbbe che Musquel non avesse niente».
Gwen annuì, facendo scorrere la mano sulla parte superiore del pozzo, lanciando una manciata di polvere e pietruzze a cadere nell’oscurità. La giada-e-argento scintillava di rosso cupo al suo braccio sinistro e colpiva gli occhi di Dirk che doveva di nuovo chiudere le palpebre e chiedersi perché. Che cos’era? Un marchio di schiavitù, o un segno d’amore, che cosa? Ma cacciò via quei pensieri, perché non voleva sentirli.
«Il popolo che ha costruito Musquel aveva pochissimo», stava dicendo Gwen. «Venivano dalla Colonia Dimenticata, che è a volte chiamata anche Lethelandia dagli altri abitanti dei mondi esterni. Ma quelli che ci abitano la chiamano Terra. Su Alto Kavalaan, i suoi abitanti sono chiamati la Gente Perduta. Chi sono, come hanno raggiunto il loro mondo, da dove sono venuti…». Lei sorrise e si strinse nelle spalle. «Nessuno lo sa. Erano già qui prima dei Kavalari, comunque, e può darsi che ci fossero già prima della Mao Tse-tung, che la storia ricorda come la prima nave che abbia attraversato il Velo Tentatore. I Kavalari tradizionali sono sicuri che la Gente Perduta sia formata da falsuomini e da demoni Hrangani, ma essi hanno dato la prova di poter avere rapporti fecondi con gli altri umani provenienti dai mondi meglio conosciuti. Ma la Colonia Dimenticata è soprattutto un globo solitario, che non ha molti interessi nello spazio. Hanno una cultura dell’età del bronzo, sono più che altro pescatori e badano a se stessi».
«Mi stupisce, allora, che siano venuti fin qui», disse Dirk, «o che si siano dati da fare a costruire una città».
«Eh», lei disse sorridendo e staccando delle pietruzze dai mattoni sgretolati per gettarle in fondo al pozzo in cui facevano dei piccoli tonfi. «Ma tutti dovevano costruire una città, tutte e quattordici le culture dei mondi esterni. L’idea era questa. Lupania aveva trovato la Colonia Dimenticata alcuni secoli prima, così Lupania e Tober si sono messi d’accordo ed hanno portato qui la Gente Perduta. Loro non posseggono delle navi spaziali. Sul loro mondo facevano i pescatori, così hanno fatto i pescatori anche qui. È stata sempre Lupania, assieme al Mondo dell’Oceano Nerovino che hanno preparato un mare per loro. Pescavano con delle reti intrecciate usando delle barchette. Erano omuncoli neri e donne nude fino in vita e friggevano il pescato in forni all’aperto per i visitatori. Avevano bardi e cantanti di strada che rendevano allegri i loro viali. Tutti facevano una sosta a Musquel durante il festival, per sentire i loro strani miti e per mangiare il pesce fritto, oltre ad affittare le barche. Ma non credo che la Gente Perduta amasse molto questa città. Dopo un mese che il festival era finito se ne erano già andati tutti. Non si sono portati via nemmeno i banchetti e si possono ancora trovare dei coltelli da pescatori, abiti e delle ossa se si va in giro a cercare per le case».
«Tu ci sei andata?».
«No. Ma l’ho sentito dire. Kirak Rossacciaio Cavis, il poeta che abita a Larteyn, è stato qui una volta, ha girovagato un po’ ed ha scritto delle canzoni».
Dirk si guardò attorno, ma non c’era niente da vedere. Mattoni che svanivano e strade vuote, finestre senza vetri come le orbite di migliaia di occhi ciechi, tende di bancarelle dipinte che svolazzavano rumorosamente nel vento. Niente. «Un’altra città di fantasmi», commentò.
«No», disse Gwen. «No, io non la penso così. La Gente Perduta non ha mai dato la sua anima a Musquel, o a Worlorn. I loro fantasmi se ne sono tutti andati a casa con loro».
Dirk rabbrividì ed improvvisamente la città gli parve anche più vuota di prima. Più vuota del vuoto. Era una strana idea. «Ma l’unica città in cui c’è della vita è Larteyn?», chiese.
«No», disse lei, voltandosi dall’altra parte. Camminarono assieme per i viali, ritornando verso la costa. «No, ti mostrerò della vita, adesso, se vuoi. Vieni».
Erano di nuovo in aria e correvano nell’oscurità che si andava addensando. Avevano consumato quasi tutto il pomeriggio per raggiungere Musquel e per visitarla. Grasso Satana era basso sull’orizzonte occidentale ed uno dei suoi quattro attendenti gialli era già sceso fuori vista. Era di nuovo il tramonto, di fatto oltre che nell’apparenza.
Questa volta prese i comandi Dirk, inarrestabile, mentre Gwen se ne stava seduta accanto a lui con la mano in quella di lui e gli indicava la direzione. Il giorno se ne era quasi andato tutto e lui aveva ancora tante cose da dire, tante cose da decidere. Eppure non aveva ancora fatto niente. Tra poco, però, promise a se stesso mentre volavano, tra poco.
L’aerauto ronzava pianissimo, quasi non si sentiva, rispondeva al suo tocco leggero. La terra sotto si faceva scura ed i chilometri passavano. Avanti, gli aveva detto Gwen, avrebbero trovato gente viva, ad ovest, sempre ad ovest, verso il tramonto.
La città della sera era un’unica costruzione d’argento, con i piedi ancorati sulle colline ondulate, lontano ed il capo tra le nuvole, due chilometri più su. Era una città di luci, coi fianchi metallici e privi di finestre che scintillavano di una luminosità al calor bianco. La luce si arrampicava lungo il fuso svettante, corruscante, lampeggiante, ad ondate. Cominciava dal lontano fondo, dove la città era profondamente ancorata alla roccia primeva, poi saliva, si arrampicava e diventava sempre più decisamente brillante man mano che la città si innalzava e si affusolava come un ago gigantesco. L’onda di luce saliva più in fretta e più in alto, su per quell’incredibile salita, fino a raggiungere quella spira coronata di nuvole in un bagliore di gloria accecante. Ed in quel momento altre tre ondate avevano già ricominciato a salire.
«Sfida», Gwen disse il nome della città mentre si avvicinavano. Il suo nome e le sue intenzioni. Era stata costruita dalle urbanità dei di-Emereli, sul cui pianeta le città sono nere torri d’acciaio incastonate in pianure ondulate. Ogni città Emereli era una nazione, tutta in una sola torre e la maggior parte degli Emereli non abbandonava mai la torre in cui era nata. Ma Gwen disse anche che quelli che lo facevano diventavano sovente i più grandi vagabondi dello spazio. Sfida era tutte le torri degli Emereli in una, bianco-argentea invece di nera, due volte più altezzosa e tre volte più alta… Era la filosofia arcologica dei di-Emereli fatta diventare metallo e plastica… Energia di fusione, tutta automatica, computerizzata ed autoriparante. Gli Emereli la vantavano immortale, la prova finale della gloria tecnologica del Margine (o almeno della tecnologia degli Emereli) scintillava come la tecnologia di Newholme, o di Avalon, o addirittura di Vecchia Terra.
C’erano dei tratti scuri orizzontali nel corpo della città: ponti di atterraggio, ognuno a dieci livelli dall’altro. Dirk attraccò ad uno di quelli e quando lui si avvicinò la fessura scura si illuminò. L’apertura era almeno dieci metri d’altezza; non ebbe alcuna difficoltà a scendere sul vasto ponte del centesimo livello.
Appena uscirono, una voce bassa e profonda parlò loro venendo da nessun luogo particolare. «Benvenuti», disse. «Io sono la Voce di Sfida. Vi posso far da guida?».
Dirk guardò indietro da sopra la spalla e Gwen rise. «Il cervello della città», gli spiegò. «Un supercomputer. Te lo avevo detto che questa città è ancora viva».
«Posso farvi da guida?», ripeté la voce. Veniva dalle pareti.
«Può darsi», disse Dirk per provare. «Direi che abbiamo un po’ fame. Ci puoi dare da mangiare?».
La voce non rispose, ma un pannello sulla parete si spostò di parecchi metri e ne uscì un silenzioso veicolo pneumatico che si fermò presso di loro. Salirono su ed il veicolo si mosse attraverso un’altra parete che si apriva compiacente.
Correvano su morbidi pneumatici a pallone attraverso una successione di corridoi bianchi ed intatti, superarono innumerevoli porte numerate, mentre la musica suonava conciliante attorno a loro. Dirk fece una breve osservazione sullo stridente contrasto delle luci bianche con la debole luce del cielo serale di Worlorn ed immediatamente i corridoi divennero di un debole azzurro attenuato.
L’auto con le grosse ruote, li lasciò ad un ristorante ed un robocameriere che aveva una voce uguale a quella della Voce offrì loro il menù e la lista dei vini. Tutte e due le liste erano ampie, non limitate alla cucina di di-Emereli, o ai mondi esterni, ma comprendeva piatti famosi o vini di vendemmie pregiate provenienti da tutti i mondi sparsi della razza umana, compresi alcuni di cui Dirk non aveva mai sentito parlare. Ogni piatto aveva il suo nome originale stampato in caratteri piccoli sul menù. Guardarono la lista per un bel po’. Alla fine Dirk scelse drago di sabbia arrostito nel burro, proveniente dal Mondo di Jamison e Gwen ordinò caviale azzurro in formaggio, proveniente da Vecchio Poseidone.
Il vino che scelsero era bianco, liscio. Il robot lo portò ghiacciato, in un cubo di ghiaccio che ruppe davanti a loro. Il vino era ancora liquido e freddissimo. Questo, insistette la Voce, era il modo giusto di servirlo. La cena fu portata su piatti caldi fatti di osso e d’argento. Dirk staccò una gamba artigliata dalla sua portata, pelò le squame ed assaggiò la carne bianca e burrosa.
«È incredibile», disse, annuendo in direzione del piatto. «Sono stato per un certo tempo sul Mondo di Jamison ed i Jamisiani adoravano il loro drago di sabbia arrostito. Questo è buono proprio come quelli che ho assaggiato laggiù. Surgelato? Surgelato e poi portato qui? Diavolo, deve essere stata necessaria una flotta agli Emereli per trasportare tutto il cibo che doveva servire quaggiù».
«Non è surgelato», risposero. Non era Gwen, benché lei osservasse Dirk con un sorriso divertito. La Voce gli rispose: «Prima del festival la nave commerciale Piatto Azzurro Speciale ha visitato quanti più mondi ha potuto, raccogliendo e conservando dei campioni del loro cibo migliore. Il viaggio, programmato da lungo tempo, richiese quarantatré anni standard, sotto la guida di quattro capitani ed altrettanti equipaggi. Alla fine la nave arrivò su Worlorn e gli esemplari raccolti furono clonati e riclonati nelle cucine e nei bioserbatoi di Sfida per poter dare il cibo a molte persone. Così si ebbe la moltiplicazione dei pani e dei pesci, non fatta da un falso profeta, ma dagli scienziati di di-Emereli».
«Ha un tono fin troppo tronfio», disse Gwen con un risolino.
«Sembra un discorso già preparato», disse Dirk. Poi si strinse nelle spalle e continuò a mangiare, come pure Gwen. Mangiarono da soli fatta eccezione per il robocameriere e per la presenza della Voce. Erano in mezzo al grande ristorante fatto per contenere centinaia di persone. Tutto attorno a loro, vuoti ma immacolati, c’erano gli altri tavoli in attesa con le loro tovaglie rosso cupo e le posate d’argento scintillante. I clienti erano usciti dieci anni prima; ma la Voce e la città avevano pazienza infinita.
Più tardi, dopo il caffè (nero e spesso con panna e spezie, una miscela proveniente da Avalon di nostalgica memoria), Dirk si senti rilassato e turgido, forse nella forma migliore da quando era sceso su Worlorn. Jaan Vikary e la giada-e-argento — brillava cupa e splendida nella luce smorzata del ristorante, lavorata in maniera squisita eppure stranamente svuotata dal suo senso di minaccia e dal suo significato — non gli parevano più tanto importanti adesso che era di nuovo con Gwen. Era di fronte a lui, che beveva dalla sua tazza di porcellana cinese bianca e sorrideva con il suo sorriso di tanto tempo fa. Pareva così vicina, così simile a quella Jenny che lui aveva conosciuto ed una volta aveva amato, la signora della gemma mormorante.
«Bello», lui disse ed annuì, per indicare con un cenno tutto ciò che li circondava.
Ed anche Gwen annuì. «Bello», convenne lei, sorridendo, e Dirk sentì dolore per lei. Ginevra dai grandi occhi verdi e i neri capelli senza fine, per lei a cui aveva voluto bene, la sua perduta anima amica.
Dirk si piegò in avanti e fissò il fondo della sua tazza. Non c’erano presagi da trarre con i fondi del caffè. Lui doveva parlarle. «Questa sera è stato tutto bello», disse. «Come su Avalon».
Quando lei mormorò qualcosa con cui si dichiarava d’accordo, lui continuò. «Abbiamo lasciato qualcosa laggiù, Gwen?».
Lei lo guardò dappertutto e sorseggiò il caffè. «Non è una bella domanda, Dirk e tu lo sai. Si lascia sempre qualcosa. Se si trattava di qualcosa con cui incominciare. Se non lo era, be’, allora poco male. Ma se si trattava di qualcosa di autentico, un pezzo d’amore, una coppa di odio, di disperazione, risentimento, brama. Una cosa qualsiasi. Ma doveva essere qualcosa».
«Non lo so», disse Dirk t’Larien sospirando. I suoi occhi guardarono giù e più in basso. «Allora, forse, tu sei l’unica realtà che io ho avuto».
«Triste», disse lei.
«Sì», disse lui. «Immagino di sì». Alzò gli occhi. «Io ho lasciato un mucchio di cose, Gwen. Amore, odio, risentimenti, tutto questo. Come hai detto tu. Brama». Rise.
Lei sorrise appena. «Triste», disse di nuovo.
Lui non voleva lasciar cadere l’argomento. «E tu? Hai lasciato qualcosa, Gwen?».
«Sì. È inutile negarlo. Qualcosa. Ed è continuato a crescere sempre di più».
«Amore?».
«Sei pressante», disse lei gentilmente, abbassando la tazza. Il robocameriere al suo fianco gliela riempì di nuovo, di nuovo con panna e spezie. «Ti avevo chiesto di non farlo».
«Ma devo», disse lui. «È abbastanza difficile starti così vicino e parlare di Worlorn, o dei costumi dei Kavalari, o dei cacciatori. Io non voglio parlare di queste cose!».
«Lo so. Due vecchi amanti che stanno assieme e parlano. È una situazione comune, una tentazione comune. Tutti e due hanno paura e non sanno se devono provare a riaprire le vecchie porte e non sanno se quell’altro vuole risvegliare i pensieri sonnolenti di un tempo o se li voglia lasciare andare. Tutte le volte che penso a qualche cosa di Avalon e sto quasi per dirlo, mi chiedo: "chissà se lui vuole che ne parli, o forse sta pregando perché io non ne faccia cenno?"».
«Immagino che dipenda da ciò che tu stai per dire. Una volta ho cercato di far ricominciare tutto. Te ne ricordi? Subito dopo che te ne sei andata. Ti ho mandato la mia gemma mormorante. Tu non hai mai risposto, non sei mai venuta». La sua voce era piatta, con un sapore leggero di rimprovero e di dispiacere, ma non c’era rabbia. Aveva perduto la sua rabbia in qualche posto, da poco.
«Non hai mai pensato perché?», chiese Gwen. «Io ricevetti la gemma e piansi. In quel periodo ero ancora sola, non avevo ancora incontrato Jaan e desideravo ardentemente qualcuno. Sarei ritornata se tu mi avessi chiamata».
«Ma io ti ho chiamata. Tu non sei venuta».
Un sorriso cattivo. «Ah, Dirk. La gemma mormorante arrivò in una scatoletta con allegata un’annotazione. "Per piacere", diceva l’annotazione, "ritorna da me subito. Ho bisogno di te, Jenny". Ecco che cosa diceva. Ho pianto, ho pianto a lungo. Se tu avessi scritto "Gwen", se tu avessi amato soltanto Gwen, cioè me… Ma no, si trattava sempre di Jenny, anche dopo, anche adesso».
Dirk se ne ricordò e batté gli occhi. «Sì», ammise dopo un breve silenzio. «Credo di aver scritto proprio così. Mi dispiace. Non l’avevo mai capito. Ma adesso sì. È troppo tardi?».
«L’ho già detto. Nei boschi. Troppo tardi, Dirk, è tutto morto. Ci faremmo solo del male se tu insisti».
«Tutto morto? Tu hai detto di aver lasciato qualcosa, qualcosa che è cresciuto. L’hai detto un momento fa. Ti devi convincere, Gwen. Io non voglio farti male, o farmi male. Quello che voglio…».
«Io lo so cosa vuoi. Non può essere. Se ne è andato».
«Perché?», chiese lui. Allungò un dito attraverso il tavolo ed indicò il suo braccialetto. «Per quello? Giada-e-argento nei secoli dei secoli, non è così?».
«Forse», disse lei. Le mancò la voce, come se fosse incerta. «Non lo so. Noi… cioè, io…».
Dirk si ricordò tutte le cose che gli aveva detto Ruark. «So che non è facile parlarne», disse lui dolcemente, con attenzione. «Ed avevo promesso di aspettare. Ma ci sono cose che non possono aspettare. Tu avevi detto che Jaan è tuo marito, giusto? Ma che cos’è Garse? Che cosa significa betheyn?».
«Moglie acquisita», disse lei. «Ma tu non capisci. Jaan è diverso dagli altri Kavalari, più forte, più saggio e più modesto. Lui sta facendo cambiare le cose, lui da solo. I vecchi vincoli, di betheyn verso l’altolegato, i nostri vincoli non sono così. Jaan non ci crede in queste cose, come non crede che si debbano cacciare i falsuomini».
«Lui crede in Alto Kavalaan», disse Dirk, «e nel codice del duello. Può darsi che sia atipico, ma è pur sempre un Kavalar».
Era la cosa più sbagliata che potesse dire. Gwen si limitò a ridere e si risollevò. «Pfui», disse. «Adesso mi pari Arkin».
«Davvero? Magari Arkin ha ragione, dopo tutto. Un’altra cosa. Tu dici che Jaan non crede in molte delle vecchie superstizioni, giusto?».
Gwen annuì.
«Bene. Allora, che mi dici di Garse? Non ho avuto molte possibilità per parlargli assieme. Indubbiamente, Garse è ugualmente illuminato».
Lei rimase immobile. «Garse…», cominciò. Si fermò e scosse il capo dubbiosa. «Be’, Garse è più conservatore».
«Sì», disse Dirk. Parve che improvvisamente avesse capito tutto. «Sì, penso che lo sia e questa è una grossa fetta del tuo problema, non è così? Su Alto Kavalaan non si fa uomo e donna. No, là si usa uomo e uomo con magari una donna, ma in questo caso la donna non è tremendamente importante. Tu magari ami, Jaan, ma non te ne importa poi molto di Garse Janacek, non è vero?».
«Sono molto affezionata a…».
«Ma dav-vero?».
Il viso di Gwen si indurì. «Piantala», disse.
La sua voce lo spaventò. Si tirò indietro, improvvisamente e malinconicamente conscio del modo in cui si era quasi sdraiato sul tavolo, pressando Gwen, spingendola, colpendola, attaccandola e tentandola, eppure era venuto per volerle bene e per aiutarla. «Mi dispiace», borbottò.
Silenzio. Lei lo fissava, il labbro inferiore le tremava, mentre cercava di darsi un contegno e di riacquistare forza. «Tu hai ragione», disse lei alla fine. «In parte, per lo meno. Io non sono… ecco… non sono completamente felice con i miei». Fece una risatina ironica, forzata. «Immagino di mentire a me stessa. Pessima idea, mentire a se stessi. Lo fanno tutti, però, chiunque. Io porto la giada-e-argento e mi dico di essere più di una quasi-moglie, più delle altre donne Kavalari. Perché? Solo perché lo dice Jaan? Jaan Vikary è un brav’uomo, Dirk, davvero, sotto molti aspetti è l’uomo migliore che io abbia conosciuto. Lo amavo e forse lo amo ancora. Non lo so. In questo momento sono molto confusa. Ma sia che lo ami o che non lo ami, io gli devo molto. Obblighi e debiti, questi sono i vincoli Kavalari. L’amore è l’unica cosa che Jaan abbia preso su Avalon ed io non sono completamente sicura che lui abbia imparato a maneggiarlo. Avrei voluto essere il suo teyn se avessi potuto. Ma lui aveva già un teyn. Tra l’altro, neanche Jaan sarebbe andato così contro le abitudini del suo mondo. Hai sentito quello che ha detto sui duelli… e tutto perché ha fatto delle ricerche su certi vecchi computer ed ha scoperto che uno dei loro antichi eroi popolari aveva le tette». Fece un sorriso amaro. «Immagina cosa sarebbe capitato se mi avesse presa per teyn! Avrebbe perso tutto, proprio tutto. Ferrogiada è relativamente tollerante, sì, ma ci vorranno secoli prima che una granlega sia pronta per una cosa del genere. Nessuna donna ha mai portato il ferro-e-pietraluce».
«Perché?», disse Dirk. «Non capisco. Tutti voi continuate a parlare di… donne nutrici e come-mogli e di donne che si nascondono nelle caverne con la paura di uscire, e roba del genere. E non riesco proprio a crederci. Comunque, come mai su Alto Kavalaan sono così contorti? Che cos’hanno contro le donne? Perché è così tremendo che sia stata una donna a fondare Ferrogiada? C’è un sacco di gente che è donna, sai».
Gwen fece un sorriso smorto e si soffregò leggermente le tempie con due dita, come se avesse mal di testa e sperasse di farlo andar via con un massaggio. «Avresti dovuto lasciar finire Jaan», disse lei. «Allora avresti saputo tutto quello che sappiamo noi. Aveva appena cominciato a scaldarsi. E non era ancora nemmeno arrivato alla Piaga Dolorosa». Sospirò. «È tutta una lunga storia, Dirk ed in questo momento io non ho la dannata energia necessaria. Aspetta che si ritorni a Larteyn. Vedrò di recuperare una copia della tesi di Jaan, in modo che tu te la possa leggere da solo».
«Va bene», disse Dirk. «Ma ci sono delle cose che non potrei leggere in una tesi. Pochi minuti fa tu stavi dicendo che non eri sicura di amare ancora Jaan. È sicuro che tu non ami Alto Kavalaan. Penso che tu odii Garse. Ma allora, perché ti fai questo?».
«Tu hai l’abilità di riuscire a fare domande odiose», disse lei acida. «Ma prima di rispondere permettimi di correggerti su alcuni punti. Può darsi che odii Garse, come dici tu. A volte sono assolutamente sicura di odiare Garse, anche se una simile affermazione ucciderebbe Jaan, se la sentisse. Ci sono altre volte, invece… non ti stavo mentendo prima, quando ti dicevo che provo molto affetto per lui. Quando sono arrivata la prima volta su Alto Kavalaan, avevo gli occhi pieni di rugiada, di un’innocenza assoluta. Naturalmente Jaan mi aveva già spiegato tutto prima, con molta pazienza, in modo completo ed io avevo accettato tutto. Dopo tutto io venivo da Avalon e non si può cambiare immediatamente modo di pensare, ti pare? Si ha un modo di pensare terrestre. Avevo studiato tutte le strane culture umane sparse tra le stelle e sapevo che chiunque affronti un viaggio spaziale deve essere pronto ad adattarsi ampiamente ai diversi sistemi sociali ed alle varie morali. Sapevo che le abitudini sessuali erano diverse e non è detto che quelle di Avalon fossero più sagge di quelle di Alto Kavalaan. Io penso di essere stata molto saggia.
«Ma non ero pronta per i Kavalari, oh no. Finché vivo non dimenticherò mai più un solo secondo della paura e dello chock del mio primo giorno e della mia prima notte nella granlega di Ferrogiada, come betheyn di Jaan Vikary. Soprattutto la prima notte». Rise. «Jaan mi aveva avvisato, si capisce e… Diavolo, non ero ancora pronta ad essere spartita. Che posso dire? È stato brutto, ma sono sopravvissuta. Garse mi ha aiutata. Era onestamente preoccupato per me e molto di più per Jaan. Si potrebbe addirittura dire che fu tenero. Avevo fiducia in’lui; ascoltava e capiva. Ed il giorno dopo è incominciato il suo abuso verbale. Ero spaventata ed urtata, Jaan era terrorizzato e gloriosamente adirato. Trascinò Garse in mezzo alla stanza la prima volta che mi chiamò vacca-betheyn. Dopo di che, Garse se ne stette zitto per un po’. È uno che spesso interrompe le sue cose, ma non smette mai. Sotto questo punto di vista è una persona davvero notevole. Lui sfiderebbe e ucciderebbe chiunque osasse insultarmi la metà di quanto mi insulta lui. Lui sa benissimo che le sue battute fanno arrabbiare Jaan e provocano scenate terribili… o almeno le provocavano. Adesso Jaan è diventato sordo a queste cose. Ma lui continua. Può darsi che non sia capace di smettere, oppure mi detesta di tutto cuore, o forse gode a infliggermi una pena. Se è così, non gli devo aver dato troppa gioia in questi ultimi anni. Una delle prime cose che decisi fu di non permettergli mai più di farmi piangere. Non ho più pianto. Nemmeno quando ha delle uscite che mi fanno venir voglia di spaccargli la testa in due con un’ascia. Io sorrido, stringo i denti e cerco di pensare a qualcosa di spiacevole da rispondergli. Un paio di volte sono riuscita a restituirgli il colpo, ma di solito ne esco come uno scarafaggio pestato.
«Eppure, malgrado tutto ci sono stati anche dei momenti diversi. Tregue, piccoli cessate il fuoco nella nostra guerra senza fine, attimi di un calore sorprendente e di tenerezza. Il più delle volte succede di notte. Quando questi momenti arrivano mi colpiscono sempre. Sono troppo intensi. Una volta, puoi anche non crederci, ho detto a Garse che l’amavo. Lui mi rise dietro. Lui non mi amava, disse forte, solo che io ero cro-betheyn con lui e mi trattava secondo gli obblighi che gli erano imposti dal vincolo che esisteva tra di noi. Questa è stata l’ultima volta in cui sono stata sul punto di piangere. Ho fatto tutti gli sforzi per resistere ed ho vinto. Non ho pianto. Gli ho gridato qualcosa e poi sono corsa nel corridoio. Abitavamo sotto terra, sai. Tutti abitano sotto terra su Alto Kavalaan. Non indossavo niente oltre al mio braccialetto e correvo impazzita, poi un tale ha cercato di fermarmi… un ubriaco, un idiota, un cieco che non poteva vedere la giada-e-argento, non so. Ero talmente furiosa che gli ho estratto la pistola che aveva al fianco e gli ho spaccato la faccia. Era la prima volta che colpivo un altro essere umano per la rabbia. Poi sono arrivati Jaan e Garse. Jaan pareva calmo, invece era molto sconvolto. Garse era quasi contento e pronto a combattere. Come se l’uomo che io avevo assalito non fosse stato già abbastanza insultato, Garse venne a dire che avrei dovuto raccogliere tutti i denti che gli avevo buttato giù e restituirglieli, perché ne avevo combinate già più che a sufficienza. Furono fortunati se riuscirono ad evitare un duello».
«Ma come hai fatto a trovarti immischiata in una situazione simile, Gwen?», domandò Dirk. Cercava di mantenere salda la voce. Era arrabbiato con lei, si sentiva ferito per lei, eppure stranamente — o forse non tanto stranamente — eccitato. Era tutto vero, tutto quello che gli aveva detto Ruark. Il Kimdissi era un buon amico di Gwen ed era suo confidente; non c’era da meravigliarsi che lei lo avesse fatto chiamare. La sua vita era misera, era una schiava e lui avrebbe potuto mettere a posto tutto, lui. «Tu avresti dovuto immaginare cosa ti aspettava».
Lei si strinse nelle spalle. «Mentivo a me stessa», disse, «ed ho lasciato che Jaan mentisse a me, anche se penso che lui creda onestamente a tutte le amorose falsità che mi ha detto. Se avessi la possibilità di tornare indietro… Ma non posso. Io ero pronta per lui, Dirk, ed avevo bisogno di lui e lo amavo. E lui non poteva darmi il ferro-e-pietraluce. Quella era una cosa che aveva già dato, così mi ha concesso la giada-e-argento ed io la ho accettata, solo per stargli vicino, con una vaghissima conoscenza di cosa questo volesse dire. Non era molto che avevo perso te. Non volevo che finisse così anche con Jaan. Così mi sono messa quel grazioso braccialetto e dissi molto forte: «io sono più che una betheyn, come se così fosse diverso. Dà il nome ad una cosa, ed in qualche modo esisterà. Per Garse, io sono la betheyn di Jaan e la sua cro-betheyn e questo è tutto. I nomi definiscono i vincoli ed i doveri. Cos’altro ci potrebbe essere? Per qualsiasi altro Kavalar è la stessa cosa. Quando io cerco di crescere, di superare l’ostacolo dei nomi, ecco lì Garse che mi urla: betheyn! Jaan è diverso, solo Jaan. E certe volte senza volerlo, mi scopro a chiedermi quali siano i suoi veri sentimenti».
Portò le mani sulla tovaglia e si trasformarono in due piccoli pugni, l’uno di fianco all’altro. «È sempre la solita storia, Dirk. Tu volevi trasformarmi in Jenny ed io mi sono salvata rifiutando quel nome. Ma a me piace uno sciocco che ho preso con giada-e-argento ed ora sono una semi-moglie ed anche se nego tutto le parole non cambiano niente. Sempre la solita storia!». La sua voce tremava, teneva i pugni così stretti che le nocche le erano diventate bianche.
«Noi possiamo cambiare tutto», disse Dirk in fretta. «Ritorna con me». La sua voce era inane, piena di speranza, disperata, trionfante, preoccupata; era tutte queste cose al tempo stesso.
In un primo momento lei non rispose. Riaprì i pugni, molto lentamente, dito dopo dito e si fissò le mani solennemente, respirando a fondo, voltando e rivoltando le mani come se si trattasse di stranissimi oggetti che qualcuno le aveva messo davanti perché lei li osservasse. Poi stese le mani sul tavolo e ve le premette, sollevandosi in piedi. «Perché?», disse e la sua voce era ritornata calma e controllata. «Perché, Dirk? In modo che tu mi possa far tornare Jenny? È per questo? Perché una volta ti ho voluto bene e allora potrebbe essere rimasto qualcosa?».
«Sì! No, cioè. Mi mandi in confusione». Si alzò anche lui.
Lei sorrise. «Eh, ma una volta amavo anche Jaan e la cosa è più recente ancora. E verso di lui adesso ho ben altri legami, tutti gli obblighi della giada-e-argento. Con te, ecco, solo ricordi, Dirk». Dato che lui non rispondeva — lui stava in piedi ed aspettava — Gwen si diresse verso la porta. Lui la seguì.
Il robocameriere li intercettò e bloccò l’uscita, con il volto che era un ovoide metallico senza espressione. «Il conto», disse il coso. «Mi serve il numero del vostro conto festival».
Gwen aggrottò le sopracciglia. «Schedatura di Larteyn, Ferrogiada 797-742-677», mitragliò lei. «Registra tutti e due i pranzi alio stesso codice».
«Registrati», disse il robot spostandosi per lasciarli passare. Usciti loro il ristorante diventò buio.
La Voce aveva lasciato la macchina pronta per loro. Gwen le disse di riportarli allo spiazzo d’atterraggio e la macchina si avviò per i corridoi improvvisamente pieni di colori allegri e di musica vivace. «Quel dannato computer ha registrato tensione nelle nostre voci», disse lei un po’ arrabbiata. «Adesso cerca di rallegrarci».
«Non sta facendo un bel lavoro», disse Dirk, ma sorrise dicendolo. Poi: «Grazie per la cena. Ho convertito gli standard in cedole del festival prima di arrivare, ma non ho portato granché, temo».
«Ferrogiada non è povera», disse Gwen. «E in ogni caso non c’è molto da pagare qui su Worlorn»,
«Mmm. Sì. Credevo che non si pagasse niente, fino ad adesso».
«Programmazione del festival», disse Gwen. «Questa è l’unica città che funzioni ancora come prima. Le altre sono tutte chiuse. Una volta all’anno i di-Emereli mandano un uomo a raccogliere i soldi dalle banche. Però tra poco raggiungerà il punto in cui il viaggio costerà di più di ciò che riuscirà a raccogliere».
«Mi stupisco che non sia già così».
«Voce!», disse lei. «Quante persone abitano oggi a Sfida?».
Le pareti risposero. «Al momento ho trecentonove residenti legali e quarantadue ospiti, compresi voi. Se volete potete diventare residenti. La tariffa è assai ragionevole».
«Trecentonove?», disse Dirk. «Dove?».
«Sfida è stata costruita per contenere venti milioni di persone», disse Gwen. «È ben difficile incontrare qualcuno, eppure sono qui. E così anche nelle altre città, anche se non ce ne sono tanti come a Sfida. La vita è facile quaggiù. Anche morire sarebbe facile, se gli altolegati di Braith pensassero di andare a caccia nelle città invece che nelle foreste. Questa è stata sempre la più grande paura di Jaan».
«Ma chi sono?», chiese Dirk incuriosito. «Come vivono? Non capisco bene. Sfida deve sprecare una fortuna ogni giorno?».
«Si. Un patrimonio in energia sprecato, buttato via. Ma questo era sottinteso per Sfida, Larteyn e per tutto il festival. Spreco, uno spreco insolente, per provare che il Margine era ricco e forte, spreco su grande scala, come non si era mai visto nello spazio dominato dall’uomo: un intero pianeta modellato e poi abbandonato. Vedi? Se si deve dire la verità, qui a Sfida esiste solo una vita fatta di vuoti movimenti. L’energia è ricavata da reattori a fusione e viene sprecata in fuochi d’artificio che nessuno vede. Vengono prodotte tonnellate di cibo tutti i giorni nelle incommensurabili fattorie automatiche, ma se ne mangiano solo poche manciate… eremiti, adepti di culti religiosi, bambini perduti che sono diventati selvaggi, tutta la feccia che è rimasta dal festival. La città continua a mandare una barca ogni giorno a Musquel per acquistare il pesce. Ma il pesce non c’è mai, si capisce».
«Ma la Voce non riscrive il programma?».
«Ecco il punto cruciale! La Voce è un idiota. In realtà non è in grado di pensare, né può riprogrammarsi. Ah, sì, gli Emereli volevano impressionare la gente e la Voce è certo una gran cosa. Ma in verità è piuttosto primitiva se la paragoniamo ai calcolatori dell’Accademia di Avalon o alle Intelligenze Artificiali di Vecchia Terra. Questa non sa pensare, o cambiare granché. Fa quello che le è stato detto e gli Emereli le avevano detto di andare avanti, di combattere contro il freddo il più a lungo possibile. Ed è quello che fa».
Gwen fissò Dirk. «Come te», disse, «va sempre avanti addirittura oltre la propria resistenza, quando tutto ha perduto un senso. E va e va, per ottenere niente, quando tutto è già morto».
«Ah?», disse Dirk. «Ma fino a che tutto non è morto, si deve darci dentro. Ecco il punto, Gwen. Non c’è nessun altro modo, ti pare? Direi che ammiro la città, anche se è un idiota troppo cresciuto, come dici tu».
Lei scosse il capo. «Tu vorresti».
«E c’è di più», disse lui. «Tu seppellisci tutto troppo in fretta, Gwen. Può darsi che Worlorn stia morendo, ma non è ancora morto. E noi, be’, nemmeno noi siamo ancora morti. Penso che tu ci creda a ciò che hai detto prima al ristorante, su Jaan e su di me. Decidi cosa deve succedere, a me, a lui. Decidi quanto ti pesa quel braccialetto addosso», lo indicò col dito, «e quale è il nome che ti piace di più, o meglio, chi è il più adatto a fornirti un nome che tu senta tuo. Capisci? Poi raccontami cosa è morto e cosa è vivo!».
Si sentì molto soddisfatto dopo questo discorsetto. Di certo, pensò lui, lei capirà che era molto più facile che lui abbandonasse Jenny in favore di Gwen, piuttosto che Jaantony Vikary la facesse diventare una teyn donna, invece di una semplice betheyn. Pareva chiarissimo. Ma lei si limitò a fissarlo senza dire niente, finché non raggiunsero lo spiazzo d’atterraggio.
Poi lei uscì dalla macchina. «Quando noi quattro dovemmo scegliere dove abitare qui su Worlorn, Garse e Jaan votarono per Larteyn e Arkin per Dodicesimo Sogno», disse lei. «Io non votai per nessuno dei due posti. E nemmeno per Sfida, con tutta la sua vita. Non mi piace vivere in una piccionaia. Tu vuoi sapere cosa sia morto e cosa sia vivo? Vieni, allora, ti farò vedere la mia città».
Poi si trovarono di nuovo fuori, con Gwen che teneva le labbra strette seduta dietro i comandi e l’improvviso freddo dell’aria che li circondava. Sfida era un fuso scintillante che spariva dietro di loro. Ormai l’oscurità era profonda, come era stata la notte in cui il Tremito dei Nemici Dimenticati aveva portato Dirk t’Larien su Worlorn. C’erano soltanto dieci o dodici stelle nel cielo e la metà almeno era nascosta dalle nubi rotolanti. Tutti i soli erano tramontati.
La città della notte era vasta e intricata, con poche luci sparse qua e là che foravano il buio e pareva incastonata, come un gioiello incastrato nel velluto nero. Unica tra le città, era sistemata nella foresta al di là delle montagne ed apparteneva a questi luoghi, alle foreste di soffocatori, alberi spettrali e vedovi azzurri. Dall’oscurità della foresta si alzavano le sottili torri bianche come fantasmi che si lanciassero verso le stelle, collegate una con l’altra da graziosi ponti girevoli che scintillavano come ragnatele ghiacciate. Cupole basse stavano come sentinelle solitarie tra una rete di canali le cui acque catturavano le luci delle torri ed il bagliore di rare stelle cadenti ed attorno alla città c’erano molti edifici strani che parevano mani scarnite, piegate ad angolo, che volessero aggrapparsi al cielo. Gli alberi, da quel che si vedeva, erano alberi di un altro mondo; non c’era erba, ma un tappeto spesso di muschio debolmente fosforescente.
E la città aveva una canzone.
Non somigliava a nessuna delle musiche che Dirk aveva sentito. Dava i brividi ed era selvaggia e quasi inumana. Si impennava e ricadeva e si spostava costantemente. Era una cupa sinfonia fatta di vuoto, di notti senza stelle e sogni agitati. Era fatta di lamenti, sussurri ed ululati ed una strana nota bassa che non poteva essere altro che il suono della tristezza. Per tutte queste cose, era musica.
Dirk fissò Gwen con lo stupore dipinto in faccia. «Ma come?».
Lei ascoltava mentre volavano, ma la domanda riuscì a strapparla alla melodia che galleggiava attorno e sorrise un poco. «La città è stata costruita da Cupalba ed i Cupoli sono delle strane persone. C’è un’apertura tra le montagne. I loro Controllori del Tempo vi hanno convogliato i venti. Poi hanno costruito le spirali e sulla cresta di ogni spirale hanno praticato un’apertura. Il vento suona la città come se fosse uno strumento. La stessa canzone senza fermarsi mai. I dispositivi di controllo del tempo spostano i venti e ad ogni spostamento ci sono delle torri che fanno sentire la loro nota, mentre altre cadono nel silenzio.
«La musica… la sinfonia fu scritta su Cupalba, secoli fa, da una compositrice che si chiamava Lamiya-Bailis. Si dice che sia suonata da un computer che fa funzionare le macchine a vento. La cosa strana, però, e che i Cupoli non hanno mai usato dei computer ed hanno una tecnologia piuttosto povera. Durante il festival si raccontava anche un’altra storia. Diciamo, una leggenda. Raccontavano che Cupalba fosse un mondo pericolosamente vicino al limite della sanità mentale e che la musica di Lamiya-Bailis, la più grande dei sognatori Cupoli, avesse spinto tutta la cultura del suo mondo verso la follia e la disperazione. Per punizione, si dice, mantennero vivo il suo cervello ed adesso è qui, profondamente sepolto tra le montagne di Worlorn, agganciato alle macchine a vento che suonano il suo capolavoro senza mai potersi fermare, per sempre». Gwen tremò. «O almeno finché l’atmosfera non si gelerà. Nemmeno i Controllori del Tempo di Cupalba possono impedire che questo succeda».
«È come…», Dirk era perduto nelle ondate della melodia e non riusciva a trovare le parole. «È perfettamente adatta, direi», riuscì alfine a dire. «Una canzone per Worlorn».
«È adatta adesso», disse Gwen. «È una canzone che parla di crepuscoli e della notte che deve arrivare, dice che non ci sarà mai più un’altra alba, mai più. È una canzone definitiva. Nei giorni ruggenti del festival questa canzone era fuori posto. Kryne Lamiya — la città si chiama così, anche se a volte la chiamano la Città Sirena, nello stesso modo in cui Larteyn è anche chiamata Fortezza di Luce — bene, non è mai stata una città molto popolare. Sembra grande, ma in realtà non lo è. È stata costruita per alloggiare solo un centomila persone e non è mai stata riempita per più di un quarto. Come la stessa Cupalba, immagino. Quanti sono i viaggiatori che si spingono fino a Cupalba, fino al limite del Grande Mare Nero? E quanti sono quelli che ci vanno d’inverno, quando il cielo di Cupalba è quasi completamente vuoto, e non sì vede niente se non la luce di poche galassie lontane? Non molti. Ci vogliono delle persone molto particolari per queste cose. Anche qui, non tutti amano Kryne Lamiya. La gente dice che la canzone li disturba. E non finisce mai. I Cupoli non hanno nemmeno costruito le stanze a prova di suono».
Dirk non disse niente. Stava guardando le spirali incantate e le sentiva cantare.
«Vuoi atterrare?», chiese Gwen.
Lui annui e lei scese a spirale. Trovarono una piazzuola di atterraggio all’aperto sul fianco di una delle torri. Al contrario delle terrazze di Sfida e di Dodicesimo Sogno, questa non era completamente vuota. C’erano due altre auto ferme ad arrugginire. Una era un’auto sportiva dalle ali tozze ed una goccia leggera nero-argentea. Entrambe erano abbandonate da gran tempo. La polvere accumulata dal vento era spessa sul tettuccio e sulla cupola ed i cuscini all’interno dell’auto sportiva stavano marcendo. Dirk le provò tutte e due, tanto per provare. La macchina sportiva era morta, bruciata, tutta la potenza era svanita già da diversi anni. Ma la piccola goccia si scaldava ancora non appena la si toccava ed il cruscotto si accendeva e lampeggiava; evidentemente era rimasta una debole riserva d’energia. L’enorme manta volante di Alto Kavalaan era più grande e più pesante di tutti e due i relitti messi assieme.
Dalla zona di atterraggio si avviarono lungo una galleria dove c’era una luce bianco-grigia che roteava e girava formando pallide forme sui muri a seconda del suono della sinfonia. Poi si arrampicarono su di un terrazzo che avevano visto mentre si avvicinavano.
All’esterno la musica li circondava da tutte le parti e li chiamava con una voce ultraterrena, li toccava, giocava con i loro capelli, rombava e faceva loro cenni d’intesa come un’onda appassionata. Dirk prese la mano di Gwen nella sua ed ascoltò fissando gli occhi ciechi oltre le torri e le cupole ed i canali, verso le foreste e le montagne ancora più in là. Il vento-musica pareva trascinarlo mentre se ne rimaneva là. Gli parlava piano, dicendogli di saltare, gli pareva… per far finire tutto, tutta quella stupida, indegna ed in definitiva insignificante futilità che lui chiamava vita.
Gwen glielo lesse negli occhi. Gli strinse la mano e quando lui la guardò lei disse: «Durante il festival, più di duecento persone hanno commesso suicidio a Kryne Lamiya. Dieci volte il numero di qualsiasi altra città. Malgrado il fatto che questa città aveva la popolazione più bassa di tutte».
Dirk annuì. «Sì, non mi è difficile capirlo. La musica».
«Un’elegia della morte», disse Gwen. «Eppure, sai, la Città Sirena non è affatto morta, non come Musquel o Dodicesimo Sogno. Questa vive ancora, testardamente, anche se solo per esaltare la disperazione e la vuotezza della stessa vita a cui si aggrappa. Strano, eh?».
«Ma perché hanno dovuto costruire un posto simile? È bellissimo, ma…».
«Io ho una teoria», disse Gwen. «I Cupoli sono dei nichilisti con un umorismo nero, Soprattutto, ed ho idea che Kryne Lamiya sia la loro battuta amara rivolta ad Alto Kavalaan, Lupania, Tober e gli altri mondi che hanno spinto per fare quel festival del Margine. I Cupoli sono venuti, certo, ma hanno costruito una città che sapesse dire come tutto fosse inutile. Tutto inutile… il festival, la civiltà degli uomini, la stessa vita. Pensaci! Che trappola per un tronfio turista che ci capita per caso!». Tirò indietro la testa e rise selvaggiamente e Dirk provò improvvisamente una breve fitta di paura, come se Gwen fosse improvvisamente impazzita.
«E tu volevi abitare qui?», disse.
La risata di Gwen si interruppe improvvisamente, come era incominciata; il vento si era portato via le risa. Lontano sulla loro destra una torre ad ago suonò una breve nota penetrante che vagò come il lamento di un animale ferito. La torre dove loro si trovavano rispose con un triste basso lamento simile ad una sirena da nebbia, lento, lentissimo. La musica mulinava attorno a loro. Più lontano, Dirk credette di poter sentire il battere di un unico tamburo, brevi rombi sordi, regolarmente spaziati.
«Sì», rispose Gwen. «Io volevo abitare qui». Il suono di sirena svanì; quattro spirali di giunchi al di là del canale, tenute assieme da ponti ripidissimi, cominciarono ad ululare senza sosta, ogni nota era più alta di quella che la precedeva, finché diventarono inudibili. Il tamburo continuava senza cambiare: boom, boom, boom.
Dirk sospirò. «Capisco», disse con voce stanchissima. «Anch’io avrei voluto vivere quaggiù, immagino, ma mi chiedo quanto tempo avrei potuto vivere se lo avessi deciso. Braque assomigliava un po’ a questo posto, lo ricordava vagamente, soprattutto di notte. Forse era proprio per questo che io vivevo là. Sono molto stanco, Gwen. Molto. Penso di essermi arreso. Nei vecchi tempi, tu lo sai, ero alla continua ricerca di qualcosa… amore, tesori incantati, i segreti dell’universo, qualsiasi cosa. Ma quando tu mi hai lasciato… Non lo so, ma tutto mi è sembrato sbagliato, tutto ha cominciato ad assumere un sapore acido. E se c’era qualche cosa che in effetti andava bene, be’, io mi accorgevo che quella era una cosa poco importante, una cosa che non cambiava niente. Ero circondato di vuoto. Ho cercato a lungo di venirne fuori, ma tutto ciò che facevo mi rendeva più stanco, più apatico e cinico. Forse è proprio per questo che sono venuto qui. Tu… be’, allora ero migliore, quando ero con te. Ma non mi sono mai completamente arreso. Pensavo che forse mi potevo ritrovare ancora, se ti avessi rivista. Ma non è andata come speravo. Non so più che cosa possa funzionare ancora».
«Ascolta Lamiya-Bailis», disse Gwen, «e la sua musica ti dirà che non c’è niente che funziona, che non c’è niente che abbia un senso. Sai, io volevo vivere quaggiù. Ho votato… be’, non avevo in mente di votare in quel modo, ma ne stavamo parlando proprio mentre atterravamo, così è venuto fuori. Mi spaventava. Può darsi che tu ed io siamo ancora molto simili, Dirk. Anch’io sono molto stanca. Il più delle volte non si vede. Ho il mìo lavoro che mi tiene occupata e poi c’è Arkin che mi è amico e Jaan che mi ama. Ma poi vengo qui… oppure semplicemente mi fermo un momento e penso un momento di troppo, allora mi faccio delle domande. Le cose che ho non sono sufficienti. Non sono le cose che volevo».
Lei si voltò verso Dirk e gli prese la mano nelle sue. «Sì, ho pensato a te. Ho pensato che tutto andava meglio quando tu ed io eravamo assieme su Avalon ed ho anche pensato che forse eri ancora tu quello che amavo e non Jaan ed ho pensato che forse potevamo ancora far tornare la vecchia magia e dare un senso a tutto. Ma non lo vedi? Non è così, Dirk, e tutto il tuo darti da fare non potrà cambiare la verità. Ascolta la città, ascolta Kryne Lamiya. Ecco la tua verità. Tu pensi a me ed io qualche volta penso a te, solo perché tra di noi tutto è morto. Questa è l’unica ragione per cui sembra migliore il nostro passato. Felicità ieri e felicità domani, ma oggi mai, Dirk. Non può succedere, perché dopo tutto non è altro che un’illusione e le illusioni sembrano reali solo se viste da lontano. È tutto passato, mio sognato amore perduto, passato e questa è la cosa migliore, perché è l’unica cosa che fa tutto così bello».
Piangeva; lacrime lente scendevano tremolando dalle sue guance. Kryne Lamiya piangeva assieme a lei, le torri urlavano il loro lamento. Ma beffeggiava lei pure, come se dicesse, sì, vedo la tua pena, ma la pena non ha più significato di tutte le altre cose, la pena è vuota come il piacere. Le spirali gemettero, le grate risero come se fossero pazze ed il tamburo lontano continuava il suo rombo basso: boom, boom, boom.
Di nuovo, questa volta più forte, Dirk sentì l’impulso di saltare dal balcone verso le pietre sbiadite ed i bui canali di sotto. Un precipitare vertiginoso e poi, alla fine, riposare. Ma la città gli cantava che era folle. Riposare?, cantava, non c’è riposo nella morte. Solo il nulla. Nulla. Nulla. Il tamburo, i venti, i lamenti. Tremò, stringendo sempre le mani di Gwen. Guardò giù, verso l’abisso.
C’era qualcosa che si muoveva nel canale. Traballava e galleggiava, galleggiava con facilità e veniva verso di lui. Era una barca nera, con un unico barcaiolo al palo. «No», disse lui.
Gwen sbatté gli occhi. «No?», ripeté lei.
Ed improvvisamente vennero le parole, quelle parole che quell’altro Dirk t’Larien avrebbe detto alla sua Jenny. Quelle parole erano nella sua bocca, anche se lui non era più sicuro di riuscire veramente a crederci. Eppure le stava dicendo: «No!», disse, e lo gridava soprattutto alla città, lanciando un grido di rabbia alla musica che li derideva, la musica di Kryne Lamiya. «Maledizione Gwen, ognuno di noi ha dentro qualcosa di questa città, sì. Bisogna però verificare dove lo troviamo questo qualcosa. Tutto ciò è terrificante», lasciò andare le mani e gesticolò nell’oscurità e le sue mani indicavano tutti i luoghi, «ciò che dice è terrificante e peggiore ancora è la paura che si prova quando una parte di noi si dice d’accordo, quando si pensa che sia tutto vero, che si appartenga ad un posto come questo. Ma che si può fare? Se si è deboli, bisogna ignorarla. Fare finta che non esista sai, e forse se ne andrà via. Durante il giorno vedi di impegnarti in discorsi comuni e non pensare mai al buio che c’è fuori. Ecco come puoi farti vincere, Gwen. Alla fine tutto ciò ti inghiottirà, te e i tuoi discorsi comuni, te e gli altri stupidi, continuate a mentirvi l’uno con l’altro, spensieratamente, e la paura non aspetta altro. Tu non puoi comportarti così, Gwen, tu non puoi. Devi sforzarti. Sei un’ecologa, giusto? Di cosa tratta l’ecologia? Della vita! Tu devi stare dalla parte della vita, perché tutto ciò che tu sei lo dice. Questa città, questa maledetta città scheletrica con il suo inno alla morte, nega tutte le cose in cui credi, nega tutto ciò che tu sei. Tu sei forte, puoi fronteggiarla, combatterla e chiamarla per nome. Sfidala».
Gwen aveva smesso di piangere. «È inutile», disse lei, scuotendo il capo.
«Hai torto», rispose lui. «Su questa città e su di noi. È tutto legato assieme, capisci? Dicevi che volevi abitare qui? Bene! Vivi qui! Vivere in questa città rappresenta già di per se stesso una vittoria, una vittoria filosofica. Ma vivi qui perché sai che la vita stessa rifiuta Lamiya-Bailis, vivi qui e ridi di questa sua assurda musica, ma non vivere qui per dire che è giusta tutta questa immensa bugia piagnucolosa». Dirk riprese le mani di Gwen.
«Non lo so», disse lei.
«Io sì», disse lui, mentendo.
«Ma tu lo pensi davvero?… Pensi che possiamo nuovamente ricominciare? Meglio di prima?».
«Tu non sarai più Jenny», promise lui. «Mai più».
«Non so», ripeté lei in un sussurro bassissimo.
Lui le prese il viso con entrambe le mani e glielo sollevò in modo che lei lo fissasse negli occhi. La baciò, pianissimo, le toccò appena appena le labbra. Kryne Lamiya gemette. Il corno suonò basso e dolorosamente tutto attorno a loro, le distanti torri strillarono e si lamentarono lugubremente ed il tamburo solitario mantenne il suo rombo sordo ed insignificante.
Dopo il bacio rimasero in piedi in mezzo alla musica e si guardarono. «Gwen», disse lui alla fine, ma la sua voce non era nemmeno la metà sicura e forte come prima. «Non lo so nemmeno io, direi. Ma forse vale la pena di tentare…».
«Forse», disse lei ed i suoi grandi occhi verdi guardarono altrove e di nuovo in basso. «Sarà dura, Dirk. E poi si deve pensare a Jaan e a Garse, ci sono tanti problemi. E poi non sappiamo nemmeno se ne varrà la pena. Non sappiamo se le cose cambieranno anche di poco».
«No, non lo sappiamo», disse lui. «In questi ultimi anni avevo deciso un mucchio di volte che non importava, che era inutile provarci. Adesso non mi sento meglio, soltanto stanco, di una stanchezza infinita. Gwen, se non ci proviamo non lo sapremo mai».
Lei annuì. «Forse», disse e non aggiunse altro. Il vento soffiava forte e gelato; la musica creata dalla follia dei Cupoli si alzava e si abbassava. Entrarono nell’edificio, poi scesero le scale che si staccavano dal balcone, superarono le pareti con luci bianco-grige che sparivano e giravano e giunsero dove era posata la loro aerauto, solida e vera, che aspettava di riportarli a Larteyn.