5

Attraversarono la Grande Pianura, a piedi, cosa più facile a dirsi che a farsi. I giorni erano più lunghi delle notti e il venticello primaverile diventava sempre più dolce e tiepido. Infine, da lontano, scorsero la loro meta: la barriera, ancora indistinta per la neve e la distanza, la muraglia che attraversa il continente in tutta la sua lunghezza. Falk rimase immobile, osservando le Montagne.

— Lassù sui monti c'è Es Toch — disse Estrel, guardando con lui. — Spero che lì ciascuno di noi trovi quello che cerca.

— Lo temo più spesso che non lo speri… Eppure sono contento di essere in vista dei monti.

— Dobbiamo muoverci da qui.

— Chiederò al Principe se ci lascia andare domani. Ma prima di lasciarla si girò a guardare verso est, verso il deserto che si estendeva oltre i giardini del Principe, come guardasse indietro a tutta la strada che avevano percorso assieme.

Ora sapeva ancor meglio che mondo misterioso e vuoto abitassero gli uomini in quel periodo della loro storia. Per giorni e giorni egli e la sua compagna avevano marciato senza mai vedere tracce di presenze umane.

All'inizio del loro viaggio procedevano cauti avanzando nel territorio dei Samsit e delle altre popolazioni di Cacciatori di Bestiame, che Estrel definiva predatori quanto i Basnasska. Poi si inoltrarono in una zona più arida e dovettero per forza ripercorrere vie già utilizzate per trovare l'acqua; eppure quando vi erano tracce di persone passate da poco o di abitanti dei luoghi, Estrel stava all'erta e a volte cambiava addirittura direzione per evitare anche il rischio di essere visti. Aveva una conoscenza generica, ma a volte anche specifica della vasta zona che stava attraversando. A volte, quando il terreno diventava impraticabile e non sapevano dove dirigersi, diceva: — Aspetta l'alba — e scostandosi un po' pregava per un attimo il suo amuleto, poi tornava, si avvolgeva nel sacco a pelo e dormiva tranquilla. La strada che sceglieva il mattino dopo risultava sempre giusta. — Istinto di Vagabonda — sosteneva quando Falk ammirava la sua intuizione. — Comunque, fintanto che ci teniamo vicini all'acqua e lontano dagli esseri umani, siamo sicuri.

Ma una volta, a molti giorni di cammino dalla caverna, seguendo l'ansa di uno stretto fiumiciattolo incassato in una vallata, si imbatterono così all'improvviso in un villaggio che le guardie locali li circondarono prima che potessero correr via. Una pioggia battente aveva nascosto qualsiasi segno o suono di quel luogo prima che vi giungessero. Ma gli stranieri non usarono loro violenza, anzi, si dimostrarono disposti a ospitarli per un giorno o due, e Falk ne fu contento perché camminare e accamparsi nella pioggia costituiva un grande disagio.

Gli uomini di questa tribù o popolo si chiamavano gli Apicultori. Gente strana, progredita e armata di laser, vestita tutta allo stesso modo, uomini e donne: lunghe e pesanti camicie gialle con una croce marrone disegnata sul petto; si dimostrarono ospitali quanto incapaci di comunicare. Ai viaggiatori offrirono letti nei loro baraccamenti — costruzioni lunghe e basse, poco solide, di legno e argilla — e cibo in quantità al desco comune; ma parlarono così poco sia agli stranieri sia tra loro, da sembrare quasi una comunità di muti. — Si sono votati al silenzio. Fanno giuramenti e riti, non si sa per quale ragione — disse Estrel con il calmo e olimpico disdegno che pareva provare per quasi tutte le specie di uomini. I Vagabondi devono essere orgogliosi, pensò Falk. Ma gli Apicultori superarono le sue aspettative; a lei non rivolsero la parola nemmeno una volta. Parlavano con Falk. — La tua femmina vuole un paio delle nostre scarpe? — quasi fosse un cavallo ed essi avessero notato che aveva bisogno di scarpe. Le loro donne avevano nomi maschili, si vestivano come uomini e ci si rivolgeva a loro come a uomini. Ragazze solenni, con occhi chiari e labbra silenti, che vivevano e lavoravano come uomini in mezzo a giovani e uomini non meno solenni e sobri. Pochi Apicultori avevano superato la quarantina e nessuno era sotto i dodici. Era una strana comunità, come un esercito accampato in baracche invernali in mezzo alla più profonda solitudine, nella tregua di qualche inspiegabile guerra; strani, tristi, ammirevoli. L'ordine e la frugalità della loro vita fecero ricordare a Falk la sua casa nella Foresta, e il senso di una dedizione nascosta ma indefettibile, integrale, gli riuscì stranamente riposante. Avevano una tale sicurezza, questi bei guerrieri asessuati, nonostante non dicessero mai allo straniero di che fossero così sicuri.

— Per la procreazione provvedono catturando donne selvagge, le usano come scrofe e allevano in gruppo il frutto di questi accoppiamenti. Adorano qualcosa che viene chiamato il Dio Morto e tentano di placarlo con sacrifici, sacrifici umani. Non rappresentano nulla, e non le vestigia di qualche antica superstizione — disse Estrel quando Falk spese qualche parola in favore degli Apicultori. A causa della sua sottommissione, a volte correva il rischio di essere trattata come una creatura di specie inferiore. L'arroganza, in una persona così passiva, era toccante e a un tempo divertente per Falk che a volte la stuzzicava un poco. — Be', anche te ti ho vista alla sera borbottare al tuo amuleto. Le religioni sono varie…

— Certo, — rispose, ma con un tono più dolce.

— Mi chiedo contro chi siano armati.

— Contro i loro Nemici, non v'è dubbio. Come se fossero in grado di combattere contro gli Shing. E come se gli Shing si curassero di combattere contro di loro.

— Vuoi riprendere il viaggio, vero?

— Sì, non mi fido di questa gente. Nascondono troppe cose.

Quella sera andò a prender commiato dal capo della comunità, un uomo dagli occhi grigi di nome Hiardan, un po' più giovane di lui. Hiardan accettò i suoi ringraziamenti con la solita laconicità, poi gli disse nei modi semplici e misurati che distinguevano gli Apicultori: — Credo che tu ti sia comportato in modo assolutamente franco con noi. Di questo ti sono grato. Ti avremmo accolto più liberamente e ti avremmo parlato di argomenti noti solo a noi se fossi venuto da solo.

Falk esitò prima di rispondere. — Mi dispiace. Ma non sarei giunto fin qui se non fosse per la mia guida e amica. E… voi vivete qui tutti assieme, Signore Hiardan. Siete mai stati soli?

— Raramente — rispose l'altro. — La solitudine è la morte dell'anima: l'uomo è l'umanità stessa. Così si dice da noi. Ma da noi si dice anche: "Riponi la tua fiducia solo nei fratelli o nei compagni di arnia che conosci sin dall'infanzia". Ecco la nostra regola. È l'unica sicura.

— Ma io non ho congiunti, perciò non ho sicurezza, Signore — replicò Falk e salutando militarmente, come era costume degli Apicultori, si accomiatò. L'indomani mattina, sul far del giorno, proseguì verso ovest assieme a Estrel.

Di quando in quando durante il cammino videro altri villaggi o accampamenti, ma nessuno grande e tutti dispersi, più o meno cinque o sei in un raggio di cinque, seicento chilometri. Falk ammise fra sé e sé che in alcuni si sarebbe fermato. Era armato, mentre quella gente sembrava del tutto inerme: un paio di tende mobili, da nomadi, lungo un fiumiciattolo semighiacciato, un pastorello solitario su un enorme pendio collinare che pascolava vacche rossastre mezzo selvagge, oppure, molto più in là sul terreno ondulato, uno svolazzo di fumo azzurrognolo che si perdeva nello sterminato cielo grigio. Aveva abbandonato la Foresta per cercare, se mai ve ne fossero, notizie che lo riguardavano, un accenno a cos'era mai, qualcosa che gli facesse capire cos'era stato negli anni di cui non serbava memoria; come poteva venirne a capo se non osava rischiare di fare domande? D'altro canto Estrel aveva paura a fermarsi anche nel più sperduto, nel più misero di questi villaggi della prateria. — Non hanno simpatia per i Vagabondi — soleva ripetere — né per alcuno straniero. Quelli che vivono così soli sono pieni di terrore. Nel loro terrore arriverebbero anche ad accoglierci, a darci cibo e riparo; ma poi nella notte verrebbero a imprigionarci, a ucciderci. Non puoi andar da loro, Falk — e qui lanciò un'occhiata ai suoi occhi — a dirgli sono dei vostri… Sanno benissimo che siamo qui; ci tengono d'occhio. Se ci vedono partire domani non ci torceranno un capello. Ma se non ci vedono andar via, oppure se cerchiamo di andare da loro, avranno paura. È la paura che uccide.

Il volto acceso dal vento e stanco dal viaggio, il cappuccio spinto all'indietro, l'infuocato vento dell'ovest, pungente e impetuoso, che gli giocava tra i capelli, Falk stava seduto vicino al fuoco da campo, al riparo di una collina a pan di zucchero. Teneva le braccia attorno alle ginocchia. — Verissimo — disse, con tono meditabondo, lo sguardo fisso al lontano filo di fumo.

— Magari è questo il motivo per cui gli Shing non uccidono nessuno. — Estrel intuiva il suo umore e cercava di rincuorarlo, di deviarne i pensieri.

— E perché? — le chiese, consapevole del suo intento, ma senza alcuna reazione.

— Perché non hanno paura.

— Può darsi. — Lo aveva fatto pensare, e non erano pensieri molto allegri. Infine disse: — Bene, poiché si dà il caso che debba andar da loro a porgli tutte le mie domande — questo è lo scopo del mio viaggio — se mi uccidono avrò la soddisfazione di sapere che gli facevo paura…

Estrel scosse la testa. — No. Non uccidono.

— Neanche gli scarafaggi? — chiese lui, scaricando su di lei il malumore derivato dalla stanchezza. — Cosa fanno agli scarafaggi nella loro Città, li disinfettano e poi li lasciano liberi, come i Cancellati di cui mi hai parlato?

— Non lo so — rispose Estrel. Prendeva sempre seriamente le sue domande. — Ma per loro è legge rispettare la vita, e le leggi le osservano.

— Non rispettano le leggi degli uomini. E perché mai dovrebbero, se non sono neanche uomini?

— È proprio per questo che nel loro comportamento c'è rispetto per la vita, non ti pare? Mi hanno insegnato che non ci sono state guerre sulla terra, né fra i vari mondi dacché sono venuti gli Shing. Sono gli esseri umani che si uccidono l'un l'altro!

— Non vi è essere umano che potrebbe farmi quello che hanno fatto gli Shing. Io amo la vita, la amo perché è una cosa molto più difficile e insicura della morte; e la qualità più difficile e insicura di tutte è l'intelligenza. Gli Shing hanno rispettato le loro leggi e mi hanno lasciato in vita, ma mi hanno ucciso l'intelligenza. Non è forse un assassinio questo? Hanno ucciso l'uomo che ero, il bambino che sono stato. E farsi gioco della mente di un uomo a tal punto, è forse rispetto? La loro legge è una pura truffa e il loro rispetto un raggiro.

Sconcertata dalla collera che l'aveva preso, Estrel inginocchiata vicino al fuoco infilava sullo spiedo i pezzi di un coniglio che lui aveva ucciso. La rossa chioma polverosa le incorniciava di riccioli il capo chino; aveva un'espressione paziente e distaccata. Come sempre, riuscì a riavvicinarlo a sé pentito e preso dal desiderio. Erano molto uniti, eppure egli non riusciva mai a capirla; si chiedeva se erano così tutte le donne. Pareva una stanza inaccessibile di una casa smisurata, un cofanetto di cui non aveva la chiave. Non gli nascondeva nulla, eppure il suo riserbo rimaneva intatto, impenetrabile.

Uno sconfinato crepuscolo si andava allargando sulla terra, una distesa di erba zuppa d'acqua per miglia e miglia. La fiammella del loro fuoco bruciava di un rosso dorato nella limpida oscurità della notte.

— È cotto, Falk — disse la morbida voce di lei.

Egli si alzò e le si fece appresso, accanto al focolare. — Amica mia, amore mio — le sussurrò, prendendole la mano per un momento. Sedettero uno vicino all'altra a dividere il cibo, poi il sonno.

Inoltrandosi verso ovest la prateria diventava sempre più asciutta, l'aria sempre più limpida. Estrel piegò un po' a sud per evitare una zona che diceva fosse abitata, o fosse stata abitata, da una popolazione nomade delle più selvagge, i Centauri. Falk si fidò di lei; non aveva nessuna voglia di ripetere l'esperienza dei Basnasska. Al quinto o sesto giorno di cammino giunsero a una regione collinare e si inoltrarono su un terreno asciutto, elevato, piatto e brullo perennemente spazzato dal vento. Le screpolature del suolo si riempivano d'acqua durante le piogge, ma l'indomani erano di nuovo secche. D'estate la zona doveva essere semideserta; perfino in primavera aveva un aspetto desolato.

Mentre avanzavano incontrarono per ben due volte antiche rovine, nulla più di tumuli e monticelli, ma allineati secondo una spaziosa geometria di strade e piazze. In quei luoghi il terreno era tutto percorso da cunicoli pieni di cocci di ceramica, frammenti di vetro colorato e di plastica. Dovevano essere passati due o tremila anni da quando erano scomparsi gli ultimi abitanti. E nessuno era più venuto ad abitare in quella steppa sterminata, buona solo per il pascolo, dopo la diaspora nelle stelle, di cui i documenti frammentari e spesso poco attendibili non indicavano con esattezza la data.

— Si stenta a credere — sbottò Falk mentre costeggiavano la seconda delle città sepolte — che qui bambini abbiano giocato, e… donne steso i panni… secoli fa. Un'altra era. Molto più lontani da noi che i mondi della stella più lontana.

— L'Era delle Città — replicò Estrel — l'Era della Guerra… non ho mai sentito parlare di posti del genere, da nessuno della mia gente. Probabilmente siamo andati troppo a sud, e ci stiamo dirigendo verso il Deserto Meridionale.

Cambiarono pertanto direzione, sempre verso ovest ma un po' più a nord, e l'indomani mattina furono bloccati da un ampio fiume, con acque arancione, turbinoso, non molto profondo, ma pericoloso da attraversare; perdettero tutto il giorno a cercare un guado.

Quando furono sull'altra riva il paese si fece più arido di prima. Passando il fiume avevano riempito le borracce; finora l'acqua aveva costituito un problema per l'eccessiva abbondanza piuttosto che per la scarsità, perciò Falk se ne era preoccupato poco o nulla. Il cielo era di nuovo sereno, il sole splendeva tutto il giorno; per la prima volta dopo centinaia di miglia non dovevano resistere al vento freddo mentre procedevano e dormivano all'asciutto e al caldo. La primavera avanzava veloce e radiosa sulla terra asciutta; all'alba splendeva la stella del mattino e sotto i loro piedi c'era un tappeto di fiori di campo. Ma una volta attraversato quel fiume non incontrarono più corsi d'acqua per tre giorni di seguito.

Lottando con le acque impetuose del fiume, Estrel s'era buscata un colpo di freddo. Non ne fece parola, ma ora non aveva più il suo passo instancabile e il volto incominciò a farlesi più smorto. Fu presa da un attacco di dissenteria. Poco dopo si accamparono. Alla sera, distesa accanto al fuoco di sterpi che avevano acceso, si mise a piangere; non molto, solo un paio di singhiozzi senza lacrime, ma già troppo per una che celava ogni emozione dentro di sé.

A disagio, Falk cercò di confortarla, prendendole la mano; scottava per la febbre alta.

— Non toccarmi — disse allarmata. — No, no. L'ho perso, l'ho perso, come faccio adesso?

Egli vide solo allora che la catena e l'amuleto di pallida giada non le pendevano più dal collo.

— Devo averlo perso attraversando il fiume — disse già più padrona di sé, lasciandosi prendere la mano.

— Perché non me l'hai detto…

— A che scopo?

Ma non c'era risposta. Si tranquillizzò, ma lui sentì la sua angoscia repressa, febbrile. Durante la notte peggiorò e al mattino stava malissimo. Non riuscì a mandar giù neppure un boccone e, benché divorata dalla sete, il suo stomaco non tollerava il sangue di coniglio, l'unica cosa che riuscì a procurarle. Cercò di metterla più comoda che poteva, poi, prendendo le borracce vuote, andò in cerca d'acqua.

Erba, miglia e ancora miglia di erba, tagliente, disseminata di fiori multicolori, poi arbusti spinosi che dondolavano leggermente, fino a dove il cielo si confondeva con la terra splendente e nebbioso per la distanza. Il sole brillava caldo; da terra si levavano cantando le allodole del deserto. Falk procedeva ad andatura sostenuta, dapprima fiducioso, poi con determinazione, compiendo una lunga curva verso nord e a est del loro campo. Le piogge della settimana precedente si erano già perse nelle viscere della terra e non c'era nemmeno un rivolo. Non c'era assolutamente acqua. Dovette procedere a lungo, spingendosi a ovest nel campo. Ripiegando da est sulla via del ritorno scrutava ansiosamente in cerca del campo quando vide qualcosa da un ampio altipiano a miglia di distanza verso ovest, una massa indistinta, uno scuro movimento che potevano essere alberi. Un attimo dopo scorgeva nei pressi il fuoco del campo: una corsa a balzi, benché stanco e col sole al tramonto che gli martellava gli occhi col suo bagliore e una bocca che pareva di gesso.

Estrel aveva tenuto il fuoco acceso per indicargli la via del ritorno. Era distesa lì accanto nel logoro sacco a pelo. Quand'egli arrivò non alzò nemmeno la testa.

— Ci sono alberi non troppo lontano da qui verso ovest; ci sarà dell'acqua. Questa mattina ho fatto un percorso sbagliato — disse. Riunì le loro cose e preparò i fagotti. Dovette aiutarla ad alzarsi; le prese il braccio e s'avviarono. Si trascinò al suo fianco per un miglio, poi un altro, curva, con uno sguardo spento. Giunsero a uno dei tondi rigonfiamenti del terreno — Ecco — disse Falk. — Lì vedi? Sono alberi, perciò ci deve essere acqua.

Ma Estrel era caduta sulle ginocchia, poi s'era coricata sul fianco nell'erba, piegata dal dolore, con gli occhi chiusi. Non riuscì più a muovere un passo.

— Si tratta di due o tre miglia al massimo, mi pare. Faccio un bel falò qui e tu riposi; io riempio le borracce e ritorno subito; sono certo che c'è acqua e non ci metterò molto. — Rimase immobile mentre lui raccoglieva tutti gli sterpi che poteva, accendeva il fuoco e ammucchiava dell'altra legna verde perché lei potesse alimentarlo facendo fumo. — Torno presto — le disse e si allontanò. Lei balzò a sedere pallida e tremante, urlando: — No, non lasciarmi! Non puoi lasciarmi sola, non andare…

Non volle intender ragione. Stava molto male ed era terrorizzata oltre il limite del possibile. A Falk non fu possibile lasciarla lì, mentre si faceva notte; forse avrebbe dovuto, ma non gli sembrò il caso. La sollevò, le passò il braccio dietro le spalle, e mezzo tirandola, mezzo portandola, si incamminarono.

Al successivo rigonfiamento del terreno vide di nuovo gli alberi, per nulla più vicini. Il sole tramontava lontano, davanti a loro, con un bagliore dorato sopra la sterminata distesa di terra. La teneva in braccio, adesso, e ogni minuto doveva fermarsi, posarla, e sedersi accanto a lei a tirare il fiato per riprender forza. Gli pareva che se solo avesse avuto un po' d'acqua, tanto per inumidirsi le labbra, non sarebbe stato così pesante.

— C'è una casa — le mormorò con voce secca, fischiante. Poi di nuovo: — C'è una casa tra gli alberi. Non molto lontano… — Questa volta lo udì, si girò fiaccamente, lottando contro di lui e gemendo — Non andarci. Non andare lì. Non nelle case. I Ramarren non devono andare nelle case, Falk… — Scoppiò a piangere debolmente in una lingua sconosciuta, quasi chiedendo aiuto. Lui si trascinò avanti, piegato sotto il suo peso.

Nel tardo crepuscolo brillò improvvisamente una luce dorata che gli colpì gli occhi: una luce che splendeva da alte finestre, dietro ad alti alberi neri.

Si levò un rumore stridulo, fragoroso, proveniente da dov'era la luce. Aumentava, si avvicinava. Avanzò faticosamente, poi si fermò alla vista di ombre che gli correvano incontro uscendo dall'oscurità; erano loro che facevano quel fragore assordante, stridente. Massicce figure nere che gli arrivavano fino alla cintola lo circondavano, caracollandogli intorno mentre restava lì, immobile, col peso inerte di Estrel sulle braccia. Non aveva la possibilità di impugnare la rivoltella, né osava muoversi. Le luci brillavano sempre con la stessa fermezza alle alte finestre, a poche centinaia di passi. Gridò: — Aiuto! Aiuto! — ma dalla sua gola usciva solo un sussurro raschiante.

Risuonarono altre voci, che chiamavano imperiosamente da una certa distanza. Le scure ombre bestiali si ritrassero, in attesa. Lo raggiunsero delle persone, mentre lui, sempre con Estrel addosso, era caduto in ginocchio. — Prendete la donna — disse una voce maschile; un'altra proferì chiara: — Cos'abbiamo mai? Un altro paio di burattini animati? — Gli intimarono di alzarsi, ma lui non se ne dette per inteso e continuò a mormorare: — Non fatele del male… è ammalata.

— Vieni, dunque! — Rapide mani imperiose lo costrinsero a obbedire. Si lasciò prendere Estrel. Era così stordito dalla fatica che per un bel po' non si rese conto di cosa succedesse e dove fosse. Comunque gli fecero bere acqua fresca a volontà, e fu ciò che capì, ciò che gli interessava.

Era seduto ora. Qualcuno di cui non capiva la lingua cercava di fargli bere un bicchiere pieno di liquido. Prese il bicchiere e bevve. Era un intruglio che bruciava, e aveva un forte sapore di ginepro. Un bicchiere, un bicchierino verde lattiginoso; fu la prima cosa che notò. Non beveva da un bicchiere da quando era partito dalla Casa di Zove. Scrollò il capo, sentendosi il liquore scendere giù per la gola, salirgli al cervello; poi levò gli occhi verso l'alto.

Si trovava in una stanza, una stanza enorme. Il pavimento era tutto di marmo lucidissimo e rispecchiava vagamente la parete più lontana, sulla quale o nella quale splendeva un grandissimo disco di luce gialla, soffusa. Il calore che il disco irradiava gli riscaldava il viso sollevato. A metà strada fra lui e il cerchio di luce un'altra sedia, massiccia, si ergeva sul pavimento nudo; accanto alla sedia, immobile, di profilo, stava accovacciata una bestia scura.

— Cosa sei?

Lo vedeva di profilo, il naso, la mascella, la mano nera posata sul bracciolo della sedia. Aveva una voce fonda, dura come la pietra. Non parlò in Galaktika, che ormai parlava da tanto tempo, ma nella sua lingua originaria, quella della Foresta, benché con un'inflessione diversa. Rispose lentamente, dicendo la pura verità.

— Non so cosa sono. Quel che sapevo di me mi fu tolto sei anni fa. Imparai il comportamento degli uomini in una Casa della Foresta. Ora vado a Es Toch per cercare di sapere il mio nome e la mia natura.

— Vai nel Posto della Menzogna per apprendere la verità? Pagliacci e pazzi se ne trovano un po' dappertutto su questa povera Terra, ma questo li batte tutti per follia o falsità. Cosa ti condusse nel mio Regno?

— La mia compagna…

— Non mi dirai che è stata lei a portarti qui?

— Stava male; cercavo dell'acqua. Sta…

— Non dire altro. Sono contento che tu non abbia detto che è stata lei a portarti qui. Sai che posto è questo?

— No.

— Questa è l'Enclave del Kansas e io ne sono il padrone. Sono il signore, il suo Principe e Dio. Da me dipende quel che succede qui. Vi giochiamo uno dei grandi giochi. Si chiama il Re del Castello. Ha regole antichissime, e sono le uniche che mi vincolino. Il resto è alla mia mercé.

Quando si levò dalla sedia un tiepido morbido sole gli splendeva dietro da pavimento a soffitto, da parete a parete. Al di sopra della stanza, molto più su, volte e travi opache trattenevano la ferma luce dorata riflessa tra le ombre. La luce contro cui si stagliava il suo profilo metteva in risalto un naso aquilino, una fronte spaziosa che sfuggiva all'indietro, una corporatura alta e possente, ma sottile, maestosa di portamento, dai movimenti bruschi. Falk si mosse un poco e l'animale mitologico steso accanto al trono si stirò ringhiando. Il liquore al ginepro gli aveva volatilizzato ogni pensiero; avrebbe dovuto pensare che era la pazzia a far sì che quest'uomo si definisse re, ma pensava invece che era stato il potere sovrano a farlo impazzire.

— E non sai come ti chiami?

— Quelli che mi hanno accolto mi chiamavano Falk.

— Andare alla ricerca del proprio vero nome: quale strada migliore di questa da percorrere? Nessuna meraviglia dunque se ti portò al mio cancello. Ti prendo come giocatore del Gioco — disse il Principe del Kansas. — Non succede ogni sera che un uomo con occhi che sembrano gioielli venga a bussare alla mia porta. Respingerlo sarebbe troppo prudente e scortese; e cos'è la regalità se non rischio e misericordia? Ti chiamano Falk, io no. Nel Gioco sarai Opale. Sei libero di muoverti. Fermo, Grifone.

— Principe, la mia compagna…

— … è una Shing o un burattino o una donna: a che scopo la tieni? Tranquillo, uomo; non si replica ai re così velocemente. So perché la tieni. Ma non ha nome e non gioca nel Gioco. Le mie mandriane se ne sono prese cura, e non intendo più parlare di lei. — Così dicendo il Principe si avvicinava a lui a grandi, lenti passi sul pavimento nudo. — Il nome di chi mi accompagna è Grifone. Hai mai sentito nei vecchi Canoni e Leggende di quell'animale chiamato cane? Grifone è un cane. Come vedi ha poco in comune con quegli animaletti gialli guaiolanti che scorazzano per le pianure, benché siano parenti. La progenie di costui si è estinta, come la regalità. Opale, cosa desideri sopra ogni cosa?

Il Principe fece queste domanda con acuta, improvvisa genialità, guardando Falk diritto negli occhi. Stanco, confuso, e deciso a dire la verità, Falk rispose: — Andare a casa.

— Andare a casa… — Il Principe del Kansas era scuro come il profilo che delineava la sua persona, come l'ombra che proiettava, un vecchio alto più di due metri, color giaietto, col viso affilato come una spada. — Andare a casa… — Si era scostato un poco per studiare un lungo tavolo vicino alla sedia di Falk. Solo ora Falk vide che il piano del tavolo era incassato in una cornice alta parecchi centimetri e conteneva una rete di fili d'oro e d'argento dove erano infilate delle perle che potevano passare da un filo all'altro e, in certi punti, cambiare il livello. Ce n'erano a centinaia, dalla misura di un pugnetto infantile a quella di un semino di mela, e di vario materiale: argilla, pietra, legno, metallo, osso, plastica, vetro, ametista, agata, topazio, turchese, opale, ambra, berilio, cristallo, granata, smeraldo, diamante. Era un telaio crea-forme come quelli di Zove, di Buckeye e degli altri della Casa. Proveniente dalla grande cultura di Davenant, e ormai antichissimo anche sulla Terra, l'oggetto fungeva da indovino, da calcolatore elettronico, da strumento di disciplina mistica, da giocattolo. Falk nella sua breve seconda vita non aveva avuto tempo di imparare molto sui crea-forme. Una volta Buckeye aveva fatto notare che ci volevano da quaranta a cinquant'anni per imparare a maneggiarli; e il suo, tramandatole dall'antichità come oggetto di famiglia, aveva solo una trentina di centimetri di superficie, con venti o trenta perle…

Un prisma di cristallo andava a colpire una sfera di ferro con un tintinnio leggero ma nitido. Il turchese schizzava a sinistra e un doppio anello di osso verniciato, adorno di granate, disegnava cerchi verso destra e verso il basso, mentre un opale di fuoco splendeva per un attimo al punto morto della cornice. Mani sottili, nere, forti balenavano sopra i fili, facendo con i gioielli un gioco di vita e di morte. — Così — disse il Principe — vuoi andare a casa. Ma sta' a guardare! Sai leggere la cornice? Vastità. Ebano e diamante e cristallo, tutti gioielli di fuoco: e l'Opale tra di loro, che va avanti, che va oltre. Oltre la Casa del Re, oltre la Prigione della Parete di vetro, oltre le colline e le depressioni di Kopernico, ecco, la pietra vola verso le stelle. Romperai la cornice, la cornice del tempo? Guarda qui!

Lo sfrecciare e il baluginare delle perle splendenti si mescolarono negli occhi di Falk. Aggrappato al bordo del grande telaio mormorò: "Non so leggerlo…

— È il gioco che stai facendo tu, Opale, che tu lo sappia leggere o no. Bene, molto bene. Questa notte i miei cani abbaiavano a un mendicante, ed egli si è dimostrato un principe di luce stellare. Opale, quando verrò a chiedere acqua dai tuoi pozzi e riparo entro le tue mura, mi accoglierai? Sarà una notte ben più fredda di questa… E ci vorrà molto tempo prima di allora. Vieni da molto, moltissimo tempo fa. Sono vecchio io, ma tu lo sei ancor più; saresti dovuto morire un secolo fa. Ti ricorderai di qui a un secolo che hai incontrato un re nel deserto? Muoviti, muoviti, ti ho detto che sei libero di muoverti qui dentro. C'è chi ti può servire se ne hai bisogno.

Falk attraversò la stanza fino ad arrivare a un portone nascosto da una tenda. Al di là della porta, in un'anticamera, un ragazzo era in attesa; ne chiamò poi altri. Senza mostrar sorpresa, senza il minimo servilismo, deferenti solo nell'aspettare che fosse Falk a parlare per primo, gli procurarono un bagno, abiti nuovi, cibo e un letto pulito in una stanza tranquilla.

Nella Gran Casa dell'Enclave del Kansas visse tredici giorni in tutto, mentre l'ultima spruzzata di neve e gli improvvisi acquazzoni primaverili spazzavano le terre deserte che confinavano con i giardini del Principe. Estrel, che si riprendeva a poco a poco, era alloggiata in una delle molte case minori che si ergevano dietro all'edificio principale. Era libero di stare con lei quando voleva… libero di fare tutto quello che desiderava. Il Principe governava il suo dominio con potere assoluto, ma il suo governo non era affatto un'imposizione: era piuttosto accettato come un onore; le sue genti accettavano di essergli soggette probabilmente perché pensavano che nell'affermare l'innata ed essenziale grandezza di uno, riaffermavano anche la loro qualità di uomini. Non erano più di duecento, mandriani, giardinieri, fabbricanti e riparatori, le loro mogli, i loro figli. Era un regno piccolissimo. Eppure dopo un po' di giorni a Falk parve evidente che anche se non vi fossero stati sudditi, anche se fosse vissuto del tutto solo, il Principe del Kansas non avrebbe perduto nessuna delle sue qualità regali. Una volta ancora si trattava di qualità.

Questa curiosa realtà, questa singolare validità del dominio del Principe lo affascinò e lo assorbì a tal punto che per giorni e giorni quasi scordò il mondo esterno, quel mondo disperso, violento, incoerente che aveva percorso in lungo e in largo. Ma al tredicesimo giorno, parlando con Estrel di rimettersi in cammino, cominciò a chiedersi quale relazione esistesse tra l'Enclave e tutto il resto. Disse: — Credevo che gli Shing non tollerassero alcuna forma di sovranità tra uomo e uomo. Perché mai dovrebbero permettergli di difendere i suoi confini, permettergli di chiamarsi Principe, Re?

— E perché non dovrebbero lasciarlo vaneggiare? Quest'Enclave del Kansas è un territorio sterminato, ma brullo e vuoto di abitanti. Perché il Signore di Es Toch dovrebbe interferire in quello che fa lui. Immagino che per loro sia come un bambino stupido e vanaglorioso, che parla a vanvera.

— Lo ritieni tale?

— Be', hai visto ieri, quando è venuto quell'aereo?

— Ma certo.

Un aeromobile, il primo che Falk vedeva, benché riconoscesse il rombare del motore, aveva attraversato il cielo proprio sopra la casa, molto in alto, ma rimanendo in vista per qualche minuto. I domestici del Principe erano corsi fuori per i giardini sbattendo padelle e campanelle, cani e bambini s'erano messi a urlare, il Principe dall'alto di un balcone elevato s'era messo solennemente a sparare una serie di assordanti petardi, fino a quando l'aeromobile non fu scomparso in un occidente tenebroso.

— Sono sciocchi non meno dei Basnasska, e il vecchio è pazzo.

Benché il Principe non avesse mai voluto vederla, la sua gente era stata gentilissima con lei; perciò il tono di amarezza che Falk sentì nella sua dolce voce lo sorprese non poco. — I Basnasska hanno totalmente dimenticato le vecchie tradizioni degli uomini — disse allora. — Questi invece le ricordano anche troppo bene. — Rise. — Comunque l'aeromobile se ne è andato.

— Non perché l'hanno spaventato con i loro petardi, Falk — replicò lei, seria, come se cercasse di metterlo in guardia da qualcosa.

La guardò. Evidentemente non coglieva la pazzesca, poetica dignità di quei petardi che nobilitavano perfino un aeromobile Shing attribuendogli la qualità di un'eclisse solare. Sotto l'oscura minaccia di una calamità totale, perché non sparare un petardo? Ma da quando si era ammalata, da quando aveva perso il talismano di giada, Estrel era diventata ansiosa e triste, e il soggiorno in quel luogo, che tanto piaceva a Falk, a lei riusciva penoso. Era tempo che se ne andassero. — Andrò dal Principe ad annunciargli la nostra partenza — le disse teneramente, e lasciandola sotto i salici imperlati di gemme giallo-verdi, percorse i giardini e arrivò alla casa principale. Cinque di quei grandi cani dalle spalle massicce gli trotterellarono intorno, una guardia d'onore di cui avrebbe sentito la mancanza quando se ne fosse andato.

Il Principe del Kansas era nella sala del trono, immerso nella lettura. Il disco che occupava la parete orientale della stanza emanava durante il giorno una fredda luce argentea diseguale, come di luna domestica; soltanto di notte splendeva di caldo tepore di luce. Davanti ad esso si ergeva il trono, di lucido legno marmorizzato proveniente dal deserto del sud; Falk aveva visto il Principe seduto sul trono solo la notte del suo arrivo. Sedeva ora su una delle sedie accanto al telaio crea-forme, e alle sue spalle le alte finestre di dieci metri volte a occidente erano prive di tende. Là, in lontananza, si ergevano le scure montagne dalla cima di ghiaccio.

Il Principe sollevò il viso tagliente e ascoltò ciò che Falk aveva da dire. Invece di rispondere, indicò il libro che stava leggendo, non uno di quei rotoli a rilievo stupendamente decorati della sua mirabile libreria, ma un libriccino scritto a mano, rilegato con semplicità. — Conosci questo Canone?

Falk gettò uno sguardo dove gli veniva indicato e lesse il versetto:

Quel che gli uomini temono

deve essere temuto

O desolazione!

Non ha ancora

non ancora raggiunto il limite!

— Lo conosco, Principe! Ho intrapreso questo viaggio portandone una copia nel bagaglio. Ma nella tua copia non riesco a leggere la pagina a sinistra.

— Sono i simboli in cui venne scritto originariamente, cinque o seimila anni fa: la lingua dell'Imperatore Giallo, un mio antenato. Il tuo l'hai perso per strada? Tieni questo, allora. Ma immagino che perderai anche questo; nel cercare la Strada, la strada si smarrisce. O desolazione! Perché dici sempre il vero, Opale?

— Non lo so bene. — E infatti, benché poco per volta fosse giunto alla determinazione di non mentire mai, a chiunque parlasse e per quanto improbabile sembrasse la verità, non sapeva perché fosse arrivato a questa decisione. — Usare le armi del nemico… significa stare al suo gioco…

— Oh, l'hanno vinto da tempo… Così te ne vai? Parti, dunque; è giunto il momento, infatti. Ma terrò qui la tua compagna per un po'.

— Le ho promesso che l'avrei aiutata a trovare i suoi, Principe.

— I suoi? — Rivolse verso di lui un viso duro, ombroso. — Per quale motivo la porti con te?

— È una Vagabonda.

— E io sono una noce verde, tu sei un pesce, quei monti laggiù son fatti di montone arrosto! Fa' pure a modo tuo. Di' la verità, cerca la verità. Avviandoti a ovest raccogli i frutti del mio orto fiorito, Opale, e bevi il latte dei mie mille pozzi all'ombra di felci gigantesche. Non governo forse un regno piacevole? A ovest nel buio troverai miraggi e polvere. È desiderio o lealtà che ti lega a lei?

— Abbiamo percorso un lungo cammino assieme.

— Non fidarti di lei!

— Mi ha dato aiuto, mi ha fatto sperare; siamo compagni. C'è fiducia tra noi; come posso romperla?

— Oh pazzo! Oh desolazione! — disse il Principe del Kansas. — Ti darò dieci donne che ti accompagnino al Luogo della Menzogna, con flauti e tamburi, con pillole contraccettive. Ti darò cinque buoni amici forniti di petardi. Ti darò un cane, davvero, te lo do, un cane vivo e vegeto di quelle razze estinte, perché ti sia compagno. Sai perché di cani non ne è rimasto uno? Perché erano leali, perché erano fedeli. Vai solo, uomo!

— Non posso!

— Vai con chi vuoi allora. Il gioco è fatto. — Il Principe si alzò, andò al trono sotto il cerchio della luna e sedette. Non girò mai la testa, quando Falk cercò di salutarlo.

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