A metà degli anni Cinquanta il governo sovietico ha vietato di tenere in casa le persone malate di mente, costringendo i parenti a trasferirle a forza in istituti speciali. Questa triste realtà ha spinto molti genitori, che non avevano voluto separarsi dai loro bambini, a cercare dei posti dove il braccio della legge non arrivava. Cosi, nel giro di dieci anni, la Transnistria si è riempita di famiglie che venivano da tutta l’Urss, perché sapevano che nella tradizione criminale siberiana le persone malate nello spirito о nel corpo sono considerate sacre, definite messaggeri di Dio e chiamate «Voluti da Dio».
Sono cresciuto tra di loro, tra i Voluti da Dio, molti sono diventati miei amici: non mi sembravano normali, per me erano normali, come tutti gli altri.
Loro non sanno odiare, sono capaci solo di amare e di essere se stessi, e se sono violenti hanno una violenza che non è mai spinta dalla forza dell’odio; questo è importante, perché cosi si comportano solo loro e i bambini piccoli, ma i bambini crescono e diventano molto spesso stronzi adulti, invece con i malati non succede cosi.
Boris era nato in Siberia, e abitava nel nostro quartiere con sua madre, zia Tatjana. Alla nascita era un bambino normale, ma una notte gli sbirri erano arrivati a casa dei suoi: il padre era un criminale, e aveva rapinato un treno blindato, portando via molti diamanti. Gli sbirri volevano sapere dove aveva nascosto i diamanti e chi altro era stato a rapinare il treno, l’uomo non parlava, allora gli sbirri avevano preso il piccolo Boris, che aveva sei anni, e con il calcio del fucile lo avevano picchiato sulla testa, per far parlare suo padre. Il padre non aveva parlato e alla fine lo avevano fucilato.
Boris, avendo subito un forte trauma, non è più cresciuto mentalmente, è sempre rimasto all’età di sei anni.
La madre si era trasferita in Transnistria con lui, abitavamo vicini e lui era sempre a casa nostra. Mio nonno gli voleva un sacco di bene, e anch’io. Facevamo volare i colombi insieme, andavamo al fiume, rubavamo le mele nei giardini dei moldavi, pescavamo con le reti le notti d’estate…
Lui aveva una fissa, si credeva un macchinista. In città, lontano dalla nostra zona, vicino alla ferrovia, c’era un vecchio treno a vapore esposto come un monumento, fermo sui binari tagliati. Boris ci saliva sopra e faceva finta di essere il capo macchinista. Giocava, insomma. Noi andavamo con lui, ci mettevamo tutti insieme in cabina e lui s’incazzava se entravamo con le scarpe, perché nel suo treno Boris camminava scalzo, aveva pure una scopa per pulire tutto e gestiva quel lo spazio come una casa.
I macchinisti della stazione gli volevano bene, gli avevano persino regalato un vero cappello da macchinista, somigliava a quello degli ufficiali marinai, bianco sopra, con un bordo verde e con la visiera nera di plastica. Aveva anche lo stemma d’oro delle ferrovie, che brillava al sole tanto che si vedeva da lontano. Lui era molto orgoglioso di quel regalo, quando si metteva il cappello diventava subito serio e cominciava a parlare con noi come parlano gli addetti della ferrovia con i passeggeri, tipo «Rispettabili compagni» о «Cittadini, per cortesia, chiedo la vostra attenzione», era troppo bella, quella trasformazione.
Mio padre una volta gli aveva regalato una maglietta che qualcuno gli aveva dato in prigione, quand’era stato dentro per un anno in Germania. Su questa maglietta di una qualche associazione umanitaria erano disegnate due colombe: dietro una c’era la bandiera tedesca, dietro l’altra la bandiera russa, e in tutte e due le lingue c’era scritto «Pace, amicizia, collaborazione». Boris l’aveva presa in mano ed era rimasto mezz’ora fermo immobile a guardarla. Era scioccato dai colori, perché da noi a quei tempi non c’erano vestiti colorati, tutto era abbastanza grigio, alla moda sovietica. Invece quel vestito brillava di colori accesi, e Boris lo aveva fatto subito diventare il suo capo preferito. Andava sempre in giro con quella maglietta, ogni tanto si fermava improvvisamente, la tirava su con le mani e guardava il disegno, sorridendo e sussurrando qualcosa.
Boris era un tipo molto comunicativo, non era affatto timido, poteva parlare per delle ore anche con degli sconosciuti. Era diretto, diceva tutto quello che pensava. Quando faceva un discorso, ti guardava dritto negli occhi e aveva uno sguardo forte ma allo stesso tempo rilassato, non teso. Sapeva leggere, glielo aveva insegnato la vedova Nina, una donna che abitava da sola e che molto spesso noi ragazzini andavamo a trovare. La aiutavamo a sbrigare i lavori pesanti nell’orto, e lei ci offriva da mangiare qualcosa di buono. Era stata insegnante di lingua e letteratura russa, era una donna colta. Perché le faceva piacere, e con il consenso di zia Tatjana, aveva insegnato a Boris a leggere e scrivere, cosi ogni sera lui poteva leggere un passo di qualche libro a sua madre.
Boris aveva un compagno fedele, un gatto, Barsic, che gli andava dietro come un cane. Che coppia che erano quei due! Sembravano usciti da una storia comica.
Nel ’92 in Transnistria c’è stata una guerra. Dopo la caduta dell’Urss, la Transnistria è rimasta fuori dalla federazione russa e non apparteneva più a nessuno. I Paesi più vicini come la Moldavia e l’Ucraina avevano delle mire su di lei. Ma gli ucraini avevano già le loro difficoltà, per via dell’alto tasso di corruzione nel governo e nelle strutture dirigenti. I moldavi, nonostante la situazione disastrosa del Paese — assoluta povertà se non miseria di un popolo prevalentemente contadino — hanno fatto un patto con i rumeni, e usando la forza militare hanno cercato di occupare il territorio transnistriano. Secondo l’accordo, la Transnistria sarebbe stata divisa in maniera particolare: il governo moldavo avrebbe controllato il territorio, lasciando agli industriali rumeni il compito di gestire le numerose fabbriche dove si producevano gli armamenti, costruite dai russi ai tempi dell’Urss e dopo rimaste completamente sotto il controllo dei criminali, che avevano trasformato il territorio transnistriano in un vero e proprio supermercato di armi.
Così i moldavi senza nessun preavviso sono passati all’azione: i loro carri armati sono entrati nelle città di Bender e Dubasari, che si trovano sulla parte destra del fiume Dnestr', ai confini con la Moldavia. Il 22 giugno a Bender, e cioè nella nostra città, è penetrata una divisione di carri armati moldavi che ha fatto da copertura a dieci brigate militari, tra cui una di fanteria, una di fanteria speciale e due gruppi di militari rumeni. Gli abitanti di Bender hanno formato delle squadre di difesa, tanto di armi ne avevano in abbondanza. E scoppiata una breve ma molto sanguinosa guerra che è durata un’estate, dopo di che i criminali della Transnistria hanno buttato i militari fuori dalla loro terra. Poi, hanno cominciato a occupare il territorio moldavo. A quel punto l’Ucraina, per paura che i criminali vincendo la guerra portassero disordini pure sul loro territorio, ha chiesto alla Russia d’intervenire. La Russia, riconoscendo gli abitanti della Transnistria come suoi cittadini, si è presentata con un’armata per «assistere al processo di pace». Ha instaurato un regime militare, ha rinforzato i distretti di polizia, ha dichiarato la Transnistria «zona di estremo pericolo». I militari russi pattugliavano le strade con macchine blindate, imponevano il coprifuoco dalle otto di sera alle sette di mattina. Tanta gente ha cominciato a sparire nel nulla, nel fiume venivano trovati i corpi dei morti torturati. Un periodo che mio nonno chiamava «ritorno agli anni Trenta», e che è durato per molto tempo. Mio zio Sergeij è stato ammazzato dalle guardie in galera, molte persone per salvarsi hanno dovuto abbandonare la loro terra e rifugiarsi in diverse parti del mondo.
Boris non sapeva niente di questa situazione, perché la sua mente di bambino non contemplava la realtà, tanto più la realtà fatta di violenza brutale e di logiche politico-militari.
Lui voleva guidare il suo treno, e lo faceva anche di notte, perché come altri treni in tutto il mondo, pure il suo treno a volte andava avanti di notte… Una sera, mentre andava verso la ferrovia, i militari gli hanno sparato alla schiena come dei vigliacchi, senza neanche uscire dalla macchina blindata, e l’hanno lasciato morto sulla strada.
Quando l’ho saputo mi sono sentito subito adulto, qualcosa dentro di me è morto per sempre: l’ho avvertito molto bene, è stata una sensazione quasi fisica, quando attraverso il tuo corpo ti rendi conto che certe idee, fantasie, comportamenti, non li riavrai mai più, per colpa del peso che ti è caduto sulle spalle.
Mio nonno è impallidito e tremava dalla rabbia, non è stato così male neanche quando hanno ammazzato mio zio, suo figlio. Continuava a ripetere che quella gente era maledetta, che la Russia stava diventando un inferno, perché gli sbirri ammazzavano gli angeli.
Mio padre e altri uomini del quartiere sono andati nella zona degli sbirri, e a notte fonda, quando si sono spente le luci nelle loro baracche, hanno scaricato lì dentro un inferno di piombo. Era un manifesto della rabbia cieca e totale, un disperato grido di dolore. Hanno ammazzato qualche sbirro, ne hanno feriti un casino, ma cosi purtroppo hanno solo fatto vedere a tutta la Russia che la presenza della polizia da noi era davvero necessaria.
Nessuno sapeva cosa succedeva veramente in Transnistria, le notizie in televisione presentavano le cose in maniera tale che, dopo aver guardato quella merda, anche a me veniva il dubbio che tutto quello che conoscevo fosse irreale.
Mi ricordo il corpo di Boris quando lo hanno portato a casa, raccogliendolo dalla strada. Era la cosa più triste che avessi mai visto.
Sulla faccia gli era rimasta un’espressione di paura e dolore che non gli avevo mai visto prima. La sua maglietta con le colombe era bucata dai proiettili e piena di sangue. Teneva il suo cappello da macchinista ancora stretto tra le mani. La posizione del corpo era scioccante: per morire si era messo come i neonati, le ginocchia al petto, stringendosi tutto. Si capiva che negli ultimi istanti doveva aver sentito un dolore forte. Gli occhi erano spalancati e gelidi, conservavano una paura disperata che si trasformava in una specie di domanda: «Perché mi sento cosi male?»
L’abbiamo sepolto nel cimitero del nostro quartiere.
C’era il mondo, al suo funerale, gente arrivata da tutta la Transnistria. Da casa sua al cimitero si è formata una grande fila e secondo una vecchia tradizione siberiana la sua bara è stata portata fino alla tomba passando di mano in mano, tra la gente… Tutti baciavano la sua croce, molti piangevano, chiedevano con rabbia giustizia. La sua povera madre guardava tutto e tutti con occhi impazziti.
Un anno dopo, le cose sono peggiorate. Gli sbirri si sono messi a eliminare i criminali alla luce del sole, a sparare per strada. Io ho avuto la mia seconda condanna minorile e, quando sono uscito, non riconoscevo più il posto dov’ero nato. Dopo mi sono capitate molte cose, ma passando tra tutte le esperienze ho continuato a pensare che la legge siberiana aveva ragione: nessuna forza politica, nessun potere imposto con una bandiera vale tanto quanto la libertà naturale di una singola persona. Quanto la libertà naturale di Boris.