Ksjusa era una ragazza molto bella, aveva tipici lineamenti russi. Era alta, bionda, ben fatta, con la faccia piena di lentiggini e gli occhi di un colore blu scuro e profondo.
Aveva la mia stessa età e viveva con una zia, una brava donna che tutti noi chiamavamo zia Anfisa.
Fin da piccolo sono stato circondato da adulti e bambini handicappati, come il mio caro amico Boris, il macchinista, che ha fatto la fine tragica di cui ho già parlato. Molti malati mentali abitavano nella nostra zona, e hanno continuato a trasferirsi in Transnistria fino agli anni Novanta, quando la legge che vietava di tenere in casa i malati mentali è stata abolita.
Adesso mi accorgo che la cultura siberiana ha sviluppato dentro di me un profondo senso di accettazione delle persone che al di fuori della mia società nativa vengono definite anormali, anomale, non normali. Per me, appunto, non si trattava mai di un’anomalia.
Sono cresciuto con i malati mentali e ho imparato da loro molte cose, così sono arrivato alla conclusione che hanno dentro una purezza naturale, qualcosa che non si può sentire se non si è liberati completamente dal peso terrestre.
Ksjusa era una mia amica speciale.
Ricordo il giorno in cui l’ho vista per la prima volta. Stava camminando verso casa nostra col suo passo un po’ timido e allo stesso tempo forte e deciso: sembrava un animale selvatico che zampetta nel bosco. Io ero seduto insieme a mio nonno, sulla panchina. Quando lei si è avvicinata, mio nonno l’ha guardata per un po’ e poi ha detto, come se parlasse con qualcuno che io non riuscivo a vedere:
«Grazie per aver mandato un altro angelo in mezzo a noi peccatori».
Ho capito che si trattava di una bambina «Voluta da Dio», come si dice da noi, una che in altri posti sarebbe stata chiamata semplicemente matta.
Era affetta da una forma d’autismo, ed era cosi da sempre.
«Lei ha sofferto per tutti noi, come Nostro Signore Gesù Cristo», mi ha detto il nonno. E io ero d’accordo con lui, non tanto perché capivo il motivo della sofferenza di Nostro Signore, ma semplicemente perché avevo imparato che nella mia famiglia, per sopravvivere e avere possibilità di prosperare, bisognava essere sempre d’accordo con il nonno, anche nei casi che oltrepassavano il limite delle capacità intellettuali, altrimenti non si andava avanti.
Come tanti bambini e adulti Voluti da Dio, Ksjusa era molto spesso a casa nostra: entrava e usciva quando voleva lei, a volte stava fino a tarda notte, finché zia Anfisa non veniva a riprenderla.
Ksjusa era espansiva, persino chiacchierona certe volte. Le piaceva raccontare a tutti le ultime notizie che aveva sentito in giro.
L’avevano educata i criminali, cosi era cosciente che gli sbirri erano i cattivi e quelli che vivevano nella nostra zona erano i buoni, e tutti noi eravamo una famiglia.
Questa cosa aveva creato un’atmosfera di protezione intorno a lei, e lei si sentiva libera di esistere.
Anche quando è cresciuta, Ksjusa ha continuato a entrare in casa nostra liberamente come prima: senza chiedere il permesso a nessuno si metteva a cucinare quello che le pareva, oppure andava nell’orto ad aiutare mia zia, о stava li a guardare mia mamma fare la calza.
Spesso io e lei andavamo sul tetto, dove mio nonno teneva i suoi colombi. A lei piacevano molto i colombi, quando vedeva il modo in cui zampettavano e mangiavano, rideva e allungava le mani, come a volerli toccare tutti quanti.
Insieme a mio nonno li facevamo volare. Prima nonno prendeva una colomba femmina, piccola e povera di colori e di piuma, e la lanciava; quella cominciava a salire in aria, volava sempre più in alto, e quando diventava piccola come un puntino nel cielo nonno dava in mano a ognuno di noi un maschio bello grande, con la piuma ricca e lucida, un vero spettacolo di colombo. Dopo il segnale di nonno lo lanciavamo in alto, e quello allora saliva verso la colomba, facendo capriole per attirare la sua attenzione. Sbatteva forte le ali, faceva un rumore tipo il battito delle mani. Dovevate vedere come rideva Ksjusa in quel momento, era lei il vero spettacolo.
Le piaceva imitare i gesti e le frasi del nonno. Quando vedeva un bel colombo, qualche nuovo acquisto, si metteva le mani sul petto proprio come faceva nonno Boris, uguale uguale, e con la sua stessa tonalità di voce diceva, come cantando:
— Ma che meraviglia di colombo è questo, è sceso qua direttamente da Dio!
Scoppiavamo tutti a ridere, per come riusciva a cogliere bene il modo di gesticolare del nonno e la particolarità della sua pronuncia siberiana, e lei rideva insieme a noi, capendo di aver fatto qualcosa di bello.
Ksjusa non aveva i genitori, e nemmeno altri parenti, sua zia non era una vera zia, si faceva chiamare cosi per semplificare le cose. Zia Anfisa aveva un passato da klava о zentrjaska о sachamaja: così nel gergo criminale chiamano le donne ex carcerate che una volta tornate in libertà si sistemano con l’aiuto dei criminali, trovano un lavoro normale, fanno finta di vivere una vita onesta per distogliere da sé l’attenzione della polizia. Per i criminali in difficoltà — che so, ricercati о evasi — sono come un punto d’appoggio nel mondo civile, è grazie a loro che comunicano con gli amici e riescono a ottenere vari aiuti per i quali c’è bisogno della mediazione di una persona pulita e insospettabile. Queste donne sono molto rispettate nel mondo criminale, e spesso mandano avanti affari criminali secondari, come piccoli traffici о vendita di merce rubata. Secondo il regolamento criminale non possono sposarsi, perché sono e devono restare le spose del mondo criminale. L’ex Urss è piena di queste donne: la gente dice di loro che non si sono sposate perché in passato hanno avuto delle brutte esperienze con gli uomini, ma la verità è un’altra. Vivono in posti isolati, fuori città, in quartieri tranquilli, nei loro appartamenti non c’è nessuna traccia di quel mondo a cui sono legate in maniera stretta e definitiva. L’unico segno visibile della loro identità può essere un tatuaggio sbiadito in qualche parte del corpo.
Gli indirizzi di queste donne non si trovano su nessun elenco, e in ogni caso non serve a niente conoscerli, devi essere mandato da qualcuno, da un criminale autorevole; non ti apriranno mai la porta se non sono state avvertite in tempo del tuo arrivo, о se non riconoscono la firma sul tuo braccio.
Zia Anfisa prima di trasferirsi in Transnistria viveva in una piccola città della Russia centrale, e ogni tanto ospitava i criminali nel suo appartamento. Andavano da lei appena usciti di galera almeno per due ragioni: per passare del tempo insieme a una donna capace di amare cosi com’è abituato un criminale, e per chiedere aiuto per la nuova vita, ritrovare gli amici e avere informazioni sul mondo criminale.
Una sera era arrivato da lei un uomo in fuga, ricercato da tempo dalla polizia. Insieme alla sua banda aveva fatto parecchie rapine alle casse di risparmio, ma un giorno qualcosa era andato storto e i poliziotti erano riusciti a rintracciarli. Era cominciata una fuga violenta: i criminali, scappando e cercando di far perdere le tracce, si erano divisi, spartendosi il bottino. Ognuno era andato per la sua strada, ma — da quel che ne sapeva Anfisa — solamente due di loro ce l’avevano fatta a fuggire, gli altri sei erano stati uccisi negli scontri con la polizia. Il gruppo aveva sulla coscienza più di trenta morti, tra agenti e guardie giurate, quindi per la polizia era quasi una questione d’orgoglio non lasciarsi scappare neanche uno dei rapinatori e dare a tutti una punizione esemplare, per far passare alla gente la voglia di andare in giro ad ammazzare sbirri.
Questo ricercato si era presentato da Anfisa insieme a una bambinetta di pochi mesi. Aveva raccontato che il suo progetto di fuga attraverso il Caucaso, la Turchia e la Grecia era andato in fumo sul nascere: la polizia aveva fatto irruzione nel suo appartamento e un agente gli aveva ucciso la moglie (la madre della bambina) ma lui era riuscito a scappare, e adesso era arrivato da lei, da Anfisa, mandato da un amico.
Aveva lasciato ad Anfisa — insieme a una borsa piena di soldi, qualche diamante e tre lingotti d’oro — la sua bambina, chiedendole di prendersene cura. Lei aveva accettato, e non solo per i soldi: Anfisa non poteva avere bambini e, come ogni donna che desidera averne, non aveva saputo resistere.
L’uomo le aveva detto che se voleva vivere tranquilla doveva sparire. Le aveva consigliato di andare in Transnistria, nella città di Bender, terra di criminali, dove lui aveva gli agganci giusti e dove nessuno poteva trovarla e farle del male.
Quella notte stessa Anfisa, con una borsa piena di soldi e di roba da mangiare e con la piccola tra le braccia, era partita per la Transnistria. Più tardi aveva saputo che il padre della bimba era stato ucciso in una sparatoria con la polizia, mentre tentava di raggiungere il Caucaso.
Anfisa non sapeva neanche il nome della bambina, in mezzo a tutto quel casino l’uomo aveva dimenticato di dirle come si chiamava sua figlia. Così aveva deciso di darle il nome della santa protettrice dei genitori, Santa Ksenja: «Ksjusa», appunto, come la chiamavamo noi affettuosamente.
Fin dall’inizio Anfisa aveva capito che Ksjusa era diversa dagli altri bambini, ma questo non le ha mai impedito di essere fiera di lei: avevano un bellissimo rapporto quelle due, erano una vera famiglia.
Ksjusa andava sempre per i fatti suoi, solo lei sapeva dove, e dappertutto trovava porte aperte e gente che le voleva bene.
Il suo autismo a volte era più evidente del solito: in certi momenti si bloccava e rimaneva ferma per parecchio tempo, guardando lontano, come se stesse concentrandosi su qualcosa di molto distante. In quei momenti niente poteva svegliarla, farla tornare in sé. Poi usciva improvvisamente da quello stato e ricominciava a fare quello che stava facendo prima.
Nella nostra zona abitava un vecchio dottore che aveva una sua teoria su Ksjusa, e sui suoi momenti d’assenza.
Era un medico speciale, e un uomo che amava la letteratura e la vita. Mi prestava molti libri, soprattutto scrittori americani vietati in Unione Sovietica, e anche delle traduzioni non censurate di classici europei, come ad esempio Dante.
Ai tempi di Stalin era stato messo in un lager perché aveva nascosto nel suo appartamento una famiglia di ebrei che, come tanti ebrei in quegli anni, erano stati dichiarati nemici del popolo. Per collaborazione con i nemici del popolo si era beccato una condanna pesante di carattere politico e, come molti prigionieri politici in quegli anni, era stato mandato in un lager insieme ai prigionieri comuni, che odiavano quelli politici. Già sul treno verso il lager si era dimostrato utile alla comunità fuorilegge aggiustando le ossa rotte di un criminale importante, picchiato selvaggiamente dai militari di guardia. Nel lager era stato dichiarato ufficialmente leptla, dottore dei criminali.
Dopo diversi anni di lager aveva sviluppato un rapporto cosi stretto con la comunità criminale, pur non essendo un criminale, che quando era stato liberato non si era più sentito appartenere al mondo civile. Quindi aveva deciso di continuare a vivere nella comunità criminale e per questo motivo era venuto in Transnistria, nella nostra zona, dove aveva un amico.
Questo dottore era un individuo molto interessante perché complicato, fatto a strati: un medico, un intellettuale che aveva conservato la finezza e la raffinatezza di una persona con un’istruzione universitaria, ma anche un uomo con un passato da galeotto, amico di criminali, di cui parlava perfettamente la lingua e a cui somigliava quasi in tutto.
Bene, parlando di Ksjusa lui diceva che era molto importante non disturbarla mentre era immobile, ma soprattutto era necessaria una cosa: quando lei tornava alla realtà, tutto intorno a lei doveva essere come al momento del distacco.
Quindi noi ragazzi sapevamo che non bisognava toccarla, quando entrava in quello stato. Lo sapevamo, e cercavamo con tutte le nostre forze di proteggere la nostra Ksjusa da ogni possibile trauma, ma come succede spesso tra giovani qualche volta abbiamo pure esagerato, seguendo i consigli del dottore.
Una volta ad esempio stavamo facendo un giro in barca: eravamo in tre più Ksjusa, risalivamo il fiume controcorrente, e a un certo punto si è spento il motore. Abbiamo messo i remi in acqua, ma dopo qualche minuto ho notato che Ksjusa era cambiata, stava seduta con la schiena diritta e la testa ferma, come una statua, e fissava l’ignoto… Allora noi, poveri deficienti, ci siamo messi a remare come matti controcorrente, perché avevamo paura che se al risveglio di Ksjusa il paesaggio intorno cambiava, la sua salute veniva gravemente danneggiata.
Abbiamo remato come disperati per quasi un’ora, facevamo i turni ma eravamo sfiniti lo stesso, la gente ci guardava dalla riva cercando di capire cosa stavano facendo ’sti imbecilli su una barca in mezzo al fiume, proprio dove la corrente è più forte, e perché continuavano a remare controcorrente per restare sempre allo stesso punto.
Quando Ksjusa si è svegliata abbiamo tirato tutti un bel sospiro e siamo tornati subito a casa, anche se lei continuava a chiedere di andare ancora un po’ più avanti…
Volevamo un casino di bene alla nostra Ksjusa, era la nostra sorellina.
Quando sono uscito dal carcere dopo la mia seconda condanna minorile, ho fatto festa per una settimana. Poi mi sono fatto un giorno intero di sauna, mi sono addormentato sotto il vapore caldo, profumato dall’estratto di pino, che mi ha inchiodato alla branda di legno bollente. Dopo sono andato a pesca con i miei amici.
Abbiamo preso quattro barche e delle reti lunghe, e siamo andati lontano: abbiamo risalito il fiume fin sotto le colline, dove cominciavano le montagne. Li il fiume era molto più largo, a volte non si vedeva la riva opposta, e la corrente era meno forte: tutta una pianura piena di piccoli laghi tra boschi selvatici e campi, e un profumo di fiori ed erbe portato dal vento che a respirarlo ti sentivi in paradiso.
Pescavamo di notte e ci rilassavamo di giorno, facevamo il fuoco e preparavamo la zuppa di pesce oppure il pesce cot-to nella terra, i nostri piatti preferiti. Parlavamo tanto, io raccontavo quello che avevo visto in galera, le storie quotidiane del carcere, la gente che avevo incontrato e le cose interessanti che avevo sentito raccontare dagli altri. I miei amici mi mettevano al corrente di quello che era successo nella nostra zona mentre ero in prigione: chi se n’era andato, chi era stato messo dentro, chi era morto, chi si era ammalato о era sparito; i casini capitati da noi о le grane con qualcuno di un’altra zona, le risse scoppiate durante la mia assenza. Qualcuno raccontava della sua condanna precedente, qualcun altro di quello che aveva sentito dire dai suoi parenti tornati dalla galera. Così passavamo le giornate.
Dopo una decina di giorni siamo tornati a casa.
Ho legato la mia barca al molo. Era una bella giornata, faceva caldo, anche se tirava po’ di vento. Ho lasciato in barca tutto: la mia borsa con il sapone, lo spazzolino da denti e il dentifricio, ho lasciato lì anche le mie ciabatte, volevo camminare senza avere niente tra le mani. Mi sentivo bene, come ci si sente quando sei cosciente di essere veramente libero.
Ho messo il mio cappello a otto triangoli storto sul lato destro della testa, ho infilato le mani in tasca, toccando con la destra il mio coltello a scatto, ho raccolto un filo d’erba aromatica in riva al fiume e l’ho stretto tra i denti.
E così, a piedi scalzi, in compagnia dei miei amici, con passo rilassato sono partito verso casa.
Già nella prima via del nostro quartiere abbiamo capito che era successo qualcosa: la gente usciva dalle case, le donne con i bambini piccoli tra le braccia andavano dietro agli uomini, si era formata una fila immensa di persone. Seguendo la folla, aumentando il passo abbiamo raggiunto la coda della fila, chiedendo subito cos’era accaduto. Zia Marfa, una donna di mezz’età, moglie di un amico di mio padre, ci ha risposto con una faccia spaventatissima, quasi terrorizzata:
— Figlioli, che disgrazia ci è capitata, che disgrazia… Il Signore ci sta punendo tutti quanti…
— Ma cos’è successo, zia Marfa? E morto qualcuno? — ha chiesto Mei.
Lei lo ha fissato con uno sguardo pieno di dolore e ha detto una cosa che non dimenticherò mai:
— Ti giuro su Gesù Cristo che quando è morto in galera mio figlio non stavo così male…
Poi si è messa a piangere e a farfugliare qualcosa, ma non si capiva niente, abbiamo colto solo tre parole, «residuo di aborto», un insulto molto pesante per noi, perché oltre a offendere la persona che viene chiamata così offende il nome della madre, che secondo la tradizione siberiana è sacro.
Quando una donna, una madre, insulta il nome di un’altra madre, significa che la persona a cui è rivolto quell’insulto ha fatto qualcosa di veramente orribile.
Cosa stava succedendo? Non ci capivamo niente.
Per di più in pochi istanti tutte le donne presenti nella fila si sono messe a urlare, piangere e sputare maledizioni insieme a zia Marfa. Gli uomini, come previsto dalla legge siberiana, le lasciavano urlare e mantenevano la calma: soltanto gli sguardi pieni d’ira, le strette fessure degli occhi quasi chiusi dalla rabbia, indicavano il loro stato d’animo.
A zia Marfa si è avvicinato zio Anatolij, un vecchio criminale che da giovane aveva perso l’occhio sinistro in una rissa e per questo era soprannominato «Ciclope». Era alto e robusto e non portava mai la benda su quel buco dove una volta c’era stato il suo occhio: preferiva mostrare a tutti quel vuoto nero e spaventoso.
Ciclope aveva il compito di occuparsi di zia Marfa e di badare alla sua famiglia, mentre il marito — che era il suo migliore amico — era in galera. Così si usa tra criminali siberiani: quando uno deve scontare una lunga condanna, chiede a un amico, una persona di cui si fida, di aiutare la sua famiglia a tirare avanti, di controllare che la moglie non lo tradisca con qualcun altro (cosa quasi impossibile nella nostra comunità), di vigilare sull’educazione dei figli.
Abbracciando zia Marfa, Ciclope cercava di calmarla, ma lei continuava a gridare sempre più forte, e le altre donne facevano lo stesso. Così hanno cominciato a piangere pure i bambini piccoli, e poi anche quelli un po’ più grandi.
Sembrava un inferno: veniva da piangere pure a me, anche se nemmeno sapevo il motivo di tutta quella disperazione.
Ciclope ci ha guardati, e ha capito dalle nostre facce che nessuno ci aveva ancora detto niente. Ha mormorato con la voce triste e piena di rabbia:
— Qualcuno ha violentato Ksjusa… Ragazzi, è un mondo di bastardi questo!
— Ma stai zitto, Anatolij, non far arrabbiare ancora di più Nostro Signore! — lo ha interrotto nonno Filat', un vecchissimo criminale che tutti chiamavano «Inverno», ma non ho mai capito perché.
Si diceva che da ragazzo Filat' avesse derubato Lenin in persona. Cioè, lui e la sua banda avevano fermato alla periferia di San Pietroburgo la macchina di Lenin e di alti membri del partito. Lenin — raccontavano — non aveva voluto consegnare ai rapinatori la macchina e i soldi, e Inverno allora lo aveva picchiato sulla testa: dopo quel trauma a Lenin era venuto il suo famoso tic, insomma aveva cominciato a girare involontariamente la testa verso sinistra. Ho sempre creduto poco in questa storia, chissà cosa c’era di vero, però era divertente vedere persone adulte che raccontavano queste cose convinte che fossero vere.
Insomma, Inverno era una vecchia autorità che poteva dire la sua e tutti lo ascoltavano. Toccava a lui rimproverare Ciclope perché aveva parlato con troppa rabbia, lasciandosi scappare bestemmie che un criminale siberiano educato non dovrebbe mai pronunciare.
— Chi sei, ragazzo, per chiamare questo mondo «un mondo di bastardi»? Lo ha creato Nostro Signore, ed è pieno anche di uomini giusti. Vuoi mica offendere tutti loro? Bada alle tue parole, perché una volta volate via non tornano indietro.
Ciclope teneva la testa bassa.
— E vero, — ha continuato nonno Filat', - ci è capitata una grande disgrazia e ingiustizia, non siamo riusciti a proteggere l’angelo del Nostro Signore e adesso Lui ce la farà pagare. Magari tu stesso domani ti beccherai una lunga condanna, qualcuno morirà per mano degli sbirri, qualcun altro perderà la fede nella Madre Chiesa… Il castigo ci aspetta tutti, perché il peccato è di tutti. Anch’io, vecchio come sono, sarò punito in qualche modo. Però adesso non è tempo di perdere la testa, dobbiamo dimostrare al Signore che siamo attenti ai Suoi segnali, dobbiamo aiutarlo a compiere la Sua giustizia… — il resto del discorso di Inverno me lo sono perso, perché mi ero messo a correre fortissimo verso casa di Ksjusa.
Tutte le porte e le finestre erano spalancate.
Zia Anfisa si spostava per casa come un fantasma: aveva la faccia bianca, gli occhi gonfi di lacrime e le mani che tremavano talmente che trasmettevano un tremito in tutto il corpo. Non urlava e non diceva niente, si limitava a fare un verso lungo e sottile, come quello dei cani quando sentono un dolore fisico.
Trovarmela davanti in quello stato mi ha fatto paura. Sono rimasto per un attimo come paralizzato, poi lei è venuta verso di me e con le sue mani tremolanti mi ha preso per la faccia, per le guance, mi ha guardato piangendo e sussurrando qualcosa di cui io non riuscivo a capire il senso, perché ero come avvolto nella nebbia. Non sentivo niente, nelle mie orecchie andava aumentando un rumore tipo un fischio, come quando vai sott’acqua scendendo sempre più giù. Mi è venuto un violento mal di testa, ho chiuso gli occhi schiacciandomi le tempie più forte che potevo, e in quel momento sono tornato alla realtà e ho capito il senso di quella domanda che continuava a sussurrarmi zia Anfisa:
— Perché?
Semplicemente, un corto e tagliente «Perché?»
Stavo male, non mi sentivo più i piedi. Ho perso le forze, doveva vedersi che non stavo niente bene, perché mentre cercavo di camminare per raggiungere la stanza di Ksjusa ho sentito due miei amici tenermi su per i fianchi, stringermi i gomiti. Passo dopo passo mi sono reso conto che stavo barcollando, come ubriaco, mi era venuto un male nuovo dentro il petto, sentivo un peso nel cuore e nei polmoni, non riuscivo a respirare. Tutto girava intorno a me, cercavo di tenere fisso lo sguardo, ma la giostra che avevo in testa diventava sempre più veloce, sempre più veloce… a un tratto, però, sono riuscito a cogliere l’immagine di Ksjusa. Era sfocata, ma scioccante anche nella sua imprecisione: stava sul letto come una neonata, con le ginocchia che le arrivavano alla faccia, le mani strette intorno. Chiusa, completamente chiusa. Volevo guardarla in faccia, volevo fermare il mio capogiro, ma non sono riuscito a controllarmi, ho visto una forte luce e ho perso i sensi, cadendo tra le braccia dei miei amici.
Mi sono risvegliato fuori, nel cortile, circondato dai miei amici. Uno mi ha dato da bere un po’ d’acqua, mi sono alzato in piedi e mi sono sentito subito bene, forte, come dopo un lungo riposo.
La gente intanto aveva riempito il cortile, c’era una lunga fila vicino al cancello e sulla strada, tutti chiedevano in continuazione perdono a zia Anfisa, le donne continuavano a piangere e a urlare maledizioni contro i violentatori.
Io, in quel momento, ero preso da un solo desiderio: quel lo di sapere chi aveva potuto fare un gesto simile.
Un nostro amico, «Strabico» — soprannominato così perché da piccolo aveva gli occhi storti ma poi si erano aggiustati, insomma erano cambiati, mentre il suo soprannome no — si è avvicinato a noi ragazzi e ci ha detto che nonno Kuzja ci aspettava tutti da lui per un chodnjak, che è una specie di grande riunione tra criminali di tutti i livelli dove sono obbligati a presentarsi anche i minorenni.
Gli abbiamo chiesto se sapeva chi era stato a violentare Ksjusa, e com’era successo.
— Tutto quello che so, — ci ha detto, — è che l’hanno trovata nel quartiere Centro due donne della nostra zona. Vicino al mercato. Buttata tra i cassonetti dell’immondizia, svenuta.
Come segno di rispetto, le riunioni si tengono sempre nelle case dei vecchi criminali che hanno fatto il nodo: grazie alla loro esperienza sono in grado di dare consigli preziosi, ma essendosi ritirati e non avendo più responsabilità sono in un certo senso fuori dal gioco. Facendo le riunioni in case non loro, tutti i criminali con qualche responsabilità possono dire quello che pensano senza essere legati alla legge dell’ospitalità, secondo la quale il padrone di casa deve evitare di contraddire l’ospite. Cosi possono discutere liberamente, evitando di oltrepassare i limiti del buon senso.
Quando siamo arrivati a casa di nonno Kuzja, la porta era aperta, spalancata come sempre. Siamo entrati senza chiedere permesso, anche questa è una regola di buon comportamento: non si deve mai chiedere a un criminale vecchio e autorevole il permesso d’entrare in casa sua, perché secondo la sua filosofia lui non ha niente di suo, niente gli appartiene in questa vita, solo il potere della parola. Neppure la casa in cui abita è sua: vi dirà sempre di essere un ospite. Nonno Kuzja, poi, ospite lo era veramente, perché viveva nella casa di sua sorella minore, una simpatica vecchietta, nonna Ljusja.
In casa c’erano tanti criminali di Fiume Basso, anche mio zio Sergeij, fratello minore di mio padre. Abbiamo salutato i presenti stringendo la mano e baciandoli tre volte sulle guance, come si fa in Siberia. Nonna Ljusja ci ha fatti sedere e ha portato una grossa damigiana di kvas. Abbiamo aspettato che arrivassero tutti, poi il nostro Guardiano, Trave, ha fatto segno che potevamo cominciare.
Lo scopo di quelle riunioni è risolvere insieme una situazione anomala nella zona, in maniera che tutti siano d’accordo sulla soluzione e ognuno contribuisca secondo le sue possibilità.
Come ho già detto, ogni zona ha un Guardiano. Ed è lui il responsabile dell’applicazione delle leggi criminali davanti alle massime autorità, che non partecipano mai a riunioni come quelle. Quello del Guardiano è un compito molto difficile, perché devi tenerti sempre al corrente della situazione nella tua zona, e se succede qualcosa di grave le autorità ti «chiedono» — come si dice in gergo criminale —, cioè ti puniscono. Nessuno dice mai «punire», si dice «chiedere» per qualcosa. Si può chiedere in tre modi: leggero, e allora si dice «chiedere come a un fratello»; più pesante, e si dice «mettere la cornice»; о in modo definitivo e molto pesante, che cambia la vita del criminale decisamente in peggio, quando proprio non la elimina alla radice, «chiedere come dal Gad».
Di solito le vecchie autorità non risolvono i singoli problemi personalmente: a questo serve appunto il Guardiano, che viene scelto da loro e in qualche modo li rappresenta, almeno finché si comporta come si deve. Ma se la situazione è difficile e superiore alle sue capacità, il Guardiano può rivolgersi a un’autorità e, alla presenza di alcuni testimoni scelti tra i criminali comuni, presentare il caso senza fare i nomi delle persone coinvolte. Si fa cosi per garantire l’imparzialità nel giudizio; se il Guardiano si permette di nominare qualcuno о fa in qualche modo capire di quale persona si tratta, il vecchio può punirlo, e rinunciare lui stesso a quel caso per passarlo a un altro, di solito una persona lontana da lui, con cui ha pochi legami. Tutto questo per assicurare al processo della giustizia criminale la massima imparzialità: cosi non si tiene conto di niente al di fuori della legge criminale.
E chiaro che quando capita qualcosa il Guardiano è il primo interessato a voler risolvere tutto in maniera efficace e veloce, per non far diventare il caso troppo complicato, per non coinvolgere le autorità.
Trave era un vecchio rapinatore educato alla vecchia maniera. Per dare inizio alla riunione ha salutato alla siberiana, come si usa da noi, e cioè ringraziando Dio per aver dato a tutti la possibilità di essere presenti.
Parlava lentamente, ma con voce profonda, sembrava che a parlare fosse un orso e non un uomo. Noi lo ascoltavamo, ogni tanto qualcuno faceva un triste sospiro, a sottolineare la situazione pesante che avevamo davanti.
Il senso del discorso di Trave era semplice: era successa una cosa gravissima, già una violenza su una donna è una cosa inammissibile per la comunità criminale siberiana, ma una violenza su una donna Voluta da Dio è una violenza nei confronti di tutta la tradizione siberiana.
— Avete una settimana di tempo, — ha concluso guardando noi ragazzi. - Dovete trovare il colpevole, о i colpevoli se sono stati in tanti, e ammazzarli.
Quell’incarico spettava a noi. Siccome Ksjusa era minorenne, le regole del nostro quartiere imponevano che fossero i minorenni a fare le indagini e a occuparsi dell’esecuzione finale.
Non ci avrebbero lasciati soli, anzi ci avrebbero dato una grossa mano, ma davanti alle altre comunità dovevamo comparire solamente noi, per far capire come funziona la nostra^ legge.
E la regola siberiana: gli adulti non si mettono mai a fare qualcosa che riguarda i minorenni; possono aiutarli, dare consigli, sostenerli, ma tocca a loro esporsi. Anche nelle nostre risse non ci sono adulti, invece i ragazzi degli altri quartieri possono chiamarli a dare rinforzo. In Siberia un adulto non si permette mai di alzare le mani su un minorenne, altrimenti perde la sua dignità criminale, e allo stesso tempo anche il minorenne deve stare al suo posto e non rompere l’anima agli adulti.
Insomma, per far capire agli altri che la nostra legge è forte, noi ragazzi siberiani dobbiamo dimostrare che siamo capaci di occuparci di noi stessi.
— Per cominciare, andrete di quartiere in quartiere alla ricerca d’informazioni, — ci ha detto Trave. - E questi vi saranno utili, — ha concluso allungandoci un pacco di soldi. Erano diecimila dollari, una gran bella cifra.
La riunione era finita, e con la benedizione del nostro branco ora potevamo partire per la città.
Ma prima che uscissi di casa, nonno Kuzja mi ha chiamato con un gesto, come faceva sempre quando aveva qualcosa da dirmi «occhio nell’occhio», come si dice da noi.
— Ehi, Kolima, vieni un po’ qua.
L’ho seguito fino al tetto, nella casetta dove teneva i colombi. Sono entrato dopo di lui. Si è girato di scatto e mi ha guardato come se mi stesse misurando:
— Tu vai in città, e controlla che tutto sia a posto. Lascia parlare gli altri, stai solamente a sentire. E fai attenzione, soprattutto con gli ebrei e gli ucraini… — ha spostato uno strato di fieno che ricopriva il pavimento e mi ha indicato una piccola fessura tra i listelli di legno. - Alza l’asse che balla e prendi quello che trovi. Non separartene mai, e se qualcuno si mette in mezzo a voi, usala. L’ho caricata io —. Poi è uscito fuori, lasciandomi da solo davanti alla piccola botola. Ho alzato l’asse e ho trovato una Nagant, la mitica pistola a tamburo amata e usata dai nostri vecchi criminali.
Quello che mi aveva detto nonno Kuzja aveva un significato preciso nel linguaggio criminale: ricevere una pistola caricata da un criminale autorevole è come avere il permesso di usarla in qualunque situazione. Sei protetto, non devi preoccuparti delle conseguenze. In molti casi, se la situazione diventa calda, basta dire «Ho una pistola caricata da…» e tutto si risolve a tuo favore, perché a quel punto andare contro di te equivale ad andare contro la persona che ti ha caricato la pistola.
Fuori dalla casa di nonno Kuzja ci aspettavano due autisti adulti, due giovani criminali della nostra zona che avevano ricevuto l’ordine di portarci dove volevamo ma di non intervenire se non in caso di vita о di morte.
Prima di salire nelle macchine abbiamo parlato un po’, per fare un minimo di piano strategico. Abbiamo deciso che i soldi li teneva Gagarin, il più grande tra tutti noi, a cui toccava anche la responsabilità di parlare con la gente; noi invece ci saremmo divisi in due gruppi: il primo copriva le spalle a Gagarin, e il secondo, mentre lui parlava, andava in giro a ficcare il naso negli affari degli altri, per trovare una traccia.
— E la prima volta che ci tocca fare il mestiere degli sbirri, — ha detto Gagarin.
Ci siamo fatti sopra due risate, poi siamo partiti per fare il giro di Bender. In realtà c’era poco da ridere: era come scendere all’inferno.
In macchina Mei mi ha detto che si sentiva un po’ agitato e mi ha dato una pistola, dicendomi:
— Dài, lo so che come al solito sei venuto solo con la lama. Ma questa è una faccenda seria, tienila anche se ti dà fastidio, fallo per me.
Gli ho detto che ero già a posto, e lui si è tranquillizzato, facendomi pure l’occhiolino:
— Allora sei passato da tuo zio…
Io mi sentivo troppo importante per spifferare subito (e in modo cosi semplice) il segreto della pistola che avevo dietro, e allora mi sono limitato a sorridere e a cantare piano:
— «Mamma Siberia, risparmiami la vita…»
Siamo arrivati in Centro, nel locale tenuto da un vecchio criminale, Pavel', Guardiano della zona. Pavel' non era siberiano e non viveva secondo le nostre regole, dunque con lui dovevamo essere diplomatici, ma senza esagerare: arrivavamo pur sempre dalla zona più vecchia e importante nel mondo criminale, Fiume Basso, ci meritavamo rispetto per il so lo fatto di essere siberiani.
Pavel' era nel locale con un gruppo di amici, gente del sud della Russia che non seguiva regole precise se non quelle del dio denaro, gente che esibiva la ricchezza, che portava vestiti alla moda e molto oro — catene, braccialetti, anelli. A noi quest’abitudine non piaceva: secondo la tradizione siberiana un criminale degno ha addosso solamente i suoi tatuaggi, il resto è umile, come insegna il Signore.
Abbiamo salutato, entrando. Dal tavolo dove il padrone giocava a carte con i suoi amici si è alzato un uomo di circa trent’anni, magro, pieno d’oro, con una giacca rossa profumata come una rosa di primavera o, come direbbe mio zio Sergeij, «come una troia in mezzo alle gambe». Ci ha parlato in tono molto aggressivo: già alle prime battute, secondo il nostro regolamento, si sarebbe tranquillamente guadagnato una lama.
Era un provocatore: gli uomini come lui sono come i cani, che abbaiano per spaventare i passanti. Hanno solamente questa funzione. Un criminale educato ed esperto lo sa e li ignora, non li guarda neanche, così si capisce subito che lui non è un fraer, un buffone.
Siamo passati oltre e ci siamo diretti al tavolo, lasciando il coglione a urlare e bestemmiare.
Il vecchio Pavel' ci ha guardati con attenzione e ci ha chiesto in una maniera molto grezza cosa volevamo.
Gagarin aveva alle spalle tre condanne minorili e un anno prima aveva ammazzato due sbirri, e nei suoi diciassette anni di vita aveva già accumulato abbastanza esperienza per sapere come parlare a gente come quella, così gli ha riassunto subito i termini della situazione.
Gli ha detto dei soldi, e della necessità di trovare i colpevoli.
In un attimo tutto è cambiato. Pavel' si è alzato e con un movimento brusco si è aperto la camicia, mostrando il petto ricoperto di tatuaggi e di catene d’oro. Contemporaneamente si è messo a urlare:
— Non si può perdonare chi ha fatto un gesto simile, giuro su Dio che se lo trovo lo ammazzo con le mie mani!
Gagarin, tranquillo e calmo come un morto il giorno del suo funerale, gli ha detto che non c’era bisogno di ammazzarlo, questo lo avremmo fatto noi, però far girare la voce e darci una mano a trovarlo sarebbe stato utile, poi gli ha ripetuto che avremmo ricompensato con molti soldi chi ci poteva aiutare.
Pavel' ci ha assicurato che avrebbe fatto di tutto per risalire al bastardo, poi ci ha offerto qualcosa da bere, ma noi abbiamo chiesto il permesso di andarcene, dato che dovevamo fare ancora un bel po’ di giri.
Uscendo abbiamo notato che stavano già cominciando ad arrivare davanti al locale macchine e motorini: evidentemente il vecchio Pavel' aveva radunato quelli della sua zona, per spiegare la questione.
La seconda tappa era il quartiere Ferrovia. I criminali di Ferrovia si occupavano principalmente di furti negli appartamenti. La loro era una comunità multietnica, con delle regole criminali che valevano anche nella maggior parte delle galere delTUnione Sovietica. Tutto si basava sul collettivismo; le massime autorità, i Ladri in legge, gestivano i soldi di tutti.
Insomma, Ferrovia era — come ho già raccontato — una zona di Seme nero, la casta che ufficialmente governava il mondo criminale russo per via del gran numero dei suoi adepti e soprattutto dei suoi sostenitori.
Tra il Seme nero e noi esisteva da sempre una specie di tensione, loro si definivano i padroni del mondo criminale ed erano molto presenti sia in galera che fuori, ma le basi della loro tradizione criminale, gran parte delle regole e persino i tatuaggi, erano copiati da noi Urea.
La loro casta era cresciuta all’inizio del secolo, sfruttando un momento di grande debolezza sociale del Paese, pieno di gente disperata, vagabondi e criminali di basso livello contenti di andare in galera solamente per avere la possibilità di mangiare gratis e dormire sotto un tetto. A poco a poco erano diventati una comunità potente, però con tanti difetti, come riconoscevano persino molte autorità di Seme nero.
A Ferrovia tutto era organizzato pili о meno come da noi. Esisteva un Guardiano responsabile di quello che succedeva nella sua zona, e che doveva rendere conto ai Ladri in legge. Ed esisteva un controllo di chi entrava e usciva dal quartiere.
Ai confini di Ferrovia, infatti, la nostra macchina è stata fermata da un posto di blocco di giovani criminali.
Per far capire che eravamo tranquilli, siamo stati ad aspettare in macchina finché uno di loro non si è avvicinato e si è messo a parlare con Gagarin. Gli altri stavano appoggiati alle macchine, fumando, e ogni tanto buttavano un’occhiata distratta su di noi, ma cosi, come per caso.
Uno di loro lo conoscevo, l’avevo accoltellato nella rissa in Centro. Dopo però tutto si era sistemato e, secondo il regolamento, una volta aggiustata, la cosa non doveva più essere neppure ricordata. Quello mi ha guardato, io l’ho salutato da dentro la macchina e lui allora ha fatto un gesto preciso: come se sentisse ancora male al fianco dove io gli avevo dato la coltellata. Poi si è messo a ridere, e mi ha fatto un segno con il dito indice che significava più о meno «stai attento». Un gesto scherzoso, come per dirmi che non ce l’aveva con me. Un gesto buono, anche: quello che di solito si fa quando vuoi far capire che non hai niente di personale contro qualcuno con cui hai avuto una grana in passato. Un modo per riconoscere che quello che era successo era una cosa inevitabile nella situazione in cui ci trovavamo in quel momento.
Gli ho risposto con una ghignata, e poi gli ho fatto vedere le mani: le ho mostrate vuote, con i palmi in su; un gesto positivo, che si fa per sottolineare la tua umiltà e semplicità e indifferenza verso quello che accade.
Mentre io scambiavo gesti di benevolenza e buona educazione con il tipo, Gagarin spiegava a uno di loro il motivo della nostra visita. Quelli hanno chiamato qualcuno al cellulare, e dopo qualche minuto è arrivato un ragazzo con il motorino. Era la nostra guida, doveva portarci dal Guardiano della zona, «Barbos», soprannominato così perché era nano, e barbos è il nome che si usa per chiamare in maniera scherzosa i cani piccoli e deboli.
Barbos era una persona eccezionale, molto istruito, intelligente, furbo e con un raro senso dell’umorismo che gli permetteva di scherzare su tutto, persino sulla sua statura. Ma aveva anche un lato del carattere non cosi positivo: si arrabbiava molto facilmente e in quarantasei anni di vita aveva accumulato ben quattro condanne per omicidio.
Raccontavano un sacco di cazzate sul suo conto. Ad esempio, che sua madre era una strega e lo aveva reso immortale dandogli da mangiare cenere di diamanti. О che lui aveva divorato suo fratello gemello nella pancia della madre, e per questo lei lo aveva maledetto, bloccandogli la crescita.
Mio zio, che lo conosceva da sempre, diceva che da ragazzo Barbos andava dal macellaio per allenarsi a colpire la gente in testa con una spranga di ferro: picchiava le bestie scuoia-te appese ai ganci, e cosi ha perfezionato la sua tecnica con la spranga fino a quando non è diventato un abile assassino.
Era molto strano che nella comunità di Seme nero, dove l’omicidio era quasi disprezzato come crimine, quantomeno dalle massime autorità, uno come lui fosse riuscito a raggiungere una posizione cosi importante nella gerarchia; secondo me il ruolo di Guardiano gli era stato dato per tenere tutti buoni in un periodo delicato per Seme nero, che negli ultimi tempi era un po’ allo sbando e sembrava aver bisogno di un uomo di polso.
Seguendo il tipo in motorino, siamo entrati nelle vie secondarie dietro la ferrovia. Improvvisamente il ragazzo si è fermato e ci ha indicato una porta aperta. Siamo scesi dalle macchine e in quell’istante dalla porta è uscito Barbos, in compagnia di tre giovani criminali.
Si è avvicinato a noi, ci siamo salutati. Seguendo le regola siberiane, come padrone di casa si è interessato per prima cosa della salute di alcuni vecchi di Fiume Basso. Ogni volta, dopo le nostre risposte, si faceva il segno della croce e ringraziava il Signore per aver mostrato la Sua benevolenza verso i nostri anziani. Dopo le formalità, ci ha chiesto il motivo della nostra visita.
Gagarin gli ha spiegato in breve tutto quanto, e quando ha detto dei soldi offerti come ricompensa per l’informazione giusta sul violentatore, la faccia del nano è cambiata, diventando come una lama affilata, tutta tirata dalla rabbia.
Ha chiamato uno dei suoi, gli ha detto qualcosa all’orecchio e subito dopo si è scusato con noi, assicurandoci che in breve ci avrebbe spiegato tutto. Dopo qualche minuto il suo uomo è tornato con una piccola borsa sportiva, che ha consegnato a Barbos. Barbos l’ha data a Gagarin, che l’ha aperta e mostrata a tutti noi: dentro c’erano pacchi di dollari e due pistole.
— Sono diecimila, mi permetto di aggiungerli ai vostri per la testa di quel bastardo… Quanto alle pistole, — il nano ha sorriso con grande cattiveria, — anche quelle sono per voi, quando lo troverete scaricategli addosso il piombo da parte di tutti i ladri onesti della nostra zona, dato che a farlo personalmente non ci azzardiamo. Questa giustizia è vostra.
Non potevamo rifiutare, sarebbe stato scortese, perciò l’abbiamo ringraziato.
Mentre uscivamo dal quartiere eravamo contenti dell’accoglienza e del gesto di Barbos, però io stavo male. Mi sentivo sempre peggio: il pensiero di Ksjusa continuava a martellarmi, qualcosa mi diceva che quella era stata una ferita troppo profonda, mi accorgevo di pensare a lei quasi come a una morta.
La visita successiva dovevamo farla in una zona chiamata «Barn», una sigla che sta per Bajkal-Amur Magistral', una ferrovia che collegava il famoso lago Bajkal con il grande fiume siberiano.
Vicino alla linea ferroviaria avevano costruito un’autostrada, e negli anni Settanta avevano tirato su nuove città industriali dove era venuta ad abitare molta gente, destinata a lavorare per assicurare il progresso al Paese socialista. Tutte queste città erano identiche tra loro, composte da cinque о sei quartieri chiamati microquartieri, e nelPinsieme rappresentavano un paesaggio tristissimo: le case erano fatte tutte allo stesso modo, palazzi di nove piani schierati su tre file con piccoli giardinetti davanti dove l’erba non cresceva mai e gli alberi non sopravvivevano più di una stagione per la mancanza di sole. In quei fazzoletti di terra c’era pure un’area giochi per i bambini, con giocattoli mostruosi fatti di residui di ferro e cemento, pieni di angoli taglienti e dipinti alla maniera comunista, cioè con un colore solo, indipendentemente da quello che dovevano rappresentare, proprio come nell’idea di società comunista, dove tutti sono obbligati a essere uguali agli altri. Anche se Madre Natura aveva fatto il coccodrillo verde e il leone giallo, venivano verniciati entrambi di rosso, così sembravano l’opera di qualche pittore matto. Tutti questi animali giocattolo, che dovevano servire a divertire i bambini, erano incementati nell’asfalto, e dopo le prime piogge si coprivano di ruggine. Il rischio di prendersi il tetano tagliandosi era altissimo.
Questa bella iniziativa dei costruttori delle città nuove la gente l’aveva subito battezzata «addio figli», per i numerosi traumi infantili che si verificavano ogni giorno. Così, dopo qualche anno, chi veniva ad abitare li per prima cosa smantellava ’ste aree giochi, per assicurare un’infanzia sana e felice ai piccoli.
I posti così, dove la natura era stata eliminata e scambiata con uno stupido e grottesco progetto di autoesaltazione umana, a quelli come me procuravano tristezza e dolore.
Insomma, nella nostra città Barn era la zona dov’erano state costruite case di nove piani abitate da poveracci, da disperati: per lo più teppisti, e quelli che in Siberia chiamano «fuori limite», cioè i delinquenti che a causa della loro ignoranza non sono in grado di seguire le leggi di una vita criminale onesta e degna.
A Barn la tossicodipendenza era diventata quasi una forma sociale. La droga girava sempre, giorno e notte, i ragazzi cominciavano a farsi all’età di dodici anni e a fatica arrivavano alla maggiore età, e quei pochi già a diciott’anni sembravano vecchi, senza denti, con la pelle che somigliava al marmo. Compivano crimini dibasso livello, furti, scippi, ma anche molti omicidi.
Su Barn si raccontavano storie che facevano gelare il sangue e spaventavano per la dismisura dell’ignoranza e della disperazione a cui può arrivare l’uomo: neonati buttati fuori dalla finestra dalle madri, figli che brutalmente ammazzano i genitori, fratelli che ammazzano fratelli, ragazze minorenni costrette a prostituirsi dai loro fratelli о padri о zii.
Era una zona abbastanza multietnica, c’erano tanti moldavi, zingari, ucraini, gente del sud della Russia e qualche famiglia del Caucaso. Tutti loro erano uniti da una cosa sola: la totale incapacità di vivere in maniera umana.
A Barn non valeva nessuna legge e non esisteva una persona che potesse assumersi la responsabilità, davanti ai criminali onesti, di tutto il casino che succedeva li dentro.
Per questo motivo la gente che viveva H era definita zakontacenaja, cioè contaminata. Secondo le regole criminali con loro^non si può avere a che fare come con le persone normali. E proibito avere qualsiasi contatto fisico, non si può salutarli, né a voce né con una stretta di mano. Non si può usare nessun oggetto che prima sia stato usato da loro. Insieme a loro non si può mangiare, bere, condividere la tavola e la casa. In galera — l’ho già detto — i contagiati vivono in un angolo a parte, in molti casi li fanno dormire sotto le brande e mangiare con piatti e cucchiai marchiati con un buco in mezzo. Li obbligano a portare vestiti sporchi e strappati, inoltre non gli permettono di avere le tasche, che vengono tolte о scucite. Ogni volta che usano la latrina devono farci bruciare dentro della carta, perché secondo le credenze criminali solamente il fuoco può ripulire una cosa entrata in contatto con un contagiato.
Le persone che sono state definite contagiate una volta non hanno nessuna possibilità di togliersi di dosso quel marchio, lo portano per tutta la vita; per questo in libertà sono costrette a vivere con i propri simili, perché nessun altro vuole averli vicini.
Tra loro sono frequenti i rapporti omosessuali, soprattutto tra i giovani tossicodipendenti, che spesso si prostituiscono nelle grandi città della Russia e vengono molto apprezzati negli ambienti omosessuali per la loro giovane età e le loro modeste esigenze. A San Pietroburgo tanti cittadini benestanti abusano di loro, e poi li pagano con una cena in qualche birreria о facendogli passare la notte in una stanza d’albergo, dove possono dormire in un letto caldo e lavarsi sot-to la doccia. L’età di questi ragazzi oscilla tra i dodici e i sedici anni: verso i diciassette, dopo quattro anni passati nel «sistema» — come si chiama in gergo criminale la tossicodipendenza — sono definitivamente bruciati.
Secondo le regole criminali, un contagiato non può essere mai picchiato con le mani: se c’è bisogno lo si picchia con i piedi о meglio ancora con un bastone, una spranga. Non si può però accoltellarlo, perché la morte da coltello è considerata quasi un segno di rispetto verso il nemico, una cosa che la vittima si deve meritare. Se un criminale onesto accoltella un contagiato, anche lui viene contagiato per sempre e la sua vita è rovinata.
Insomma, trattando con la gente di Barn era necessario stare attenti e sapere come comportarsi, altrimenti si rischiava di perdere la propria posizione nella comunità.
A Barn c’era un posto chiamato «il Palo». Li avevano piazzato un vero e proprio palo di cemento, messo là chissà quando per qualche linea elettrica che non avevano mai finito. Intorno a quel palo si radunavano i criminali che in quel momento rappresentavano il potere nella zona: era una specie di trono del re, insomma. Il potere cambiava talmente spesso che i criminali onesti di Fiume Basso chiamavano in tono scherzoso il processo di guerre tra i contagiati «il giro intorno al palo».
A Barn, non essendoci nessun codice, nessuna morale criminale, le guerre tra i delinquenti erano molto violente, sembravano le scene caotiche di un film dell’orrore. I clan si raccoglievano intorno a un criminale anziano, che con l’aiuto dei suoi guerrieri, tutti tossici e minorenni, cercava di prendere il controllo del giro di droga nella zona eliminando fisicamente gli avversari, e cioè i membri del clan che in quel momento gestiva la droga, e dunque era il più potente. Usavano armi da taglio, perché da fuoco ne avevano poche e comunque non erano capaci di maneggiarle bene, non essendo stati educati al rapporto con le pistole e i fucili. Nel corso della loro guerra ammazzavano anche le donne e i bambini appartenenti ai clan contro cui combattevano: la loro ferocia non aveva limiti.
Entrati nel quartiere, ci siamo subito diretti verso il Pa lo. Con le nostre macchine abbiamo attraversato una serie di vie che solo a vederle mettevano tristezza e angoscia, ma anche un po’ di sollievo, se pensavi a quanto eri fortunato a non essere nato in quel posto.
Il Palo era in mezzo a una piazzetta, intorno c’erano delle panchine, e anche un tavolo da scuola con una sedia di plastica. Sulle panchine stavano seduti dei ragazzi, una quindicina in tutto, e sulla sedia di plastica c’era un vecchio dall’età indefinibile, tanto era rovinato.
Siamo scesi dalle macchine. Secondo il regolamento dovevamo fare i prepotenti, quindi abbiamo preso i bastoni che avevamo nei bagagliai e siamo partiti verso di loro. Nell’aria si sentiva tensione, che quando ci siamo fermati a pochi metri da loro è diventata puro terrore. Era importante non avvicinarsi troppo, tenere le distanze, per sottolineare la nostra posizione nella comunità criminale. Loro stavano zitti e con gli sguardi bassi, sapevano come dovevano comportarsi con la gente onesta. Secondo il regolamento, loro non potevano parlare per primi, gli era permesso solo rispondere alle eventuali domande. Senza salutarli, Gagarin si è rivolto al vecchio, dicendogli che cercavamo chi aveva violentato una ragazza vicino al mercato, e che davamo ventimila dollari a chi ci avrebbe aiutato a trovarlo.
Il vecchio è saltato giù dalla sedia in un momento, si è avvicinato a una panchina e ha tirato per il collo un ragazzino con la faccia deturpata da una grossa bruciatura. Quello si è messo a urlare disperatamente, dicendo che non c’entrava niente, ma il vecchio ha preso a picchiarlo sulla testa fino a farlo sanguinare, gridandogli:
— Figlio di una troia, bastardo! Lo sapevo che alla fine la violentavi, pezzo di merda!
Anche gli altri ragazzi sono saltati giù dalle panchine, e hanno cominciato a pestare tutti insieme il loro compagno.
Lasciandolo nelle loro mani, il vecchio si è girato verso di noi, come se volesse dire qualcosa. Gagarin gli ha ordinato di parlare, e lui ha subito cominciato a sputare parole (mischiate con varie bestemmie e offese che nella nostra zona gli avrebbero fatto meritare la morte) il senso delle quali era quello che già avevamo compreso: a violentare la ragazza era stato proprio il ragazzino con la faccia deturpata.
— Eravamo insieme al mercato, — ha detto il vecchio, — l’ho visto seguire la tipa, gli ho gridato di non farlo, ma lui è sparito, non l’ho più visto, non so cos’è successo dopo.
La sua storia era cosi stupida e ingenua che nessuno di noi ci ha creduto neanche per un attimo.
Gagarin gli ha chiesto di descrivergli la ragazza, e il vecchio è andato in palla, ha cominciato a sussurrare qualcosa d’incomprensibile, facendo gesti con le mani, come a disegnare nell’aria una figura femminile.
Dopo un attimo ho visto solo il bastone che teneva Gagarin in mano precipitare con una forza e una velocità spaventosa sulla testa del vecchio, che è svenuto, perdendo sangue dal naso.
Gli altri hanno smesso all’istante di picchiare il falso violentatore — che non sarebbe stato neanche capace di farsi una sega, talmente pena faceva la sua debole e demoralizzata presenza — e sono scappati da tutte le parti.
Sotto il Palo è rimasto solo il vecchio con la testa fracassata, sdraiato nel suo sangue, e il ragazzo che intendevano usare come capro espiatorio in cambio dei soldi. Quella scena e il pensiero di quel tradimento facevano stare male ancora di più il mio cuore, già triste e disperato di suo.
Senza ottenere niente, dunque, abbiamo lasciato la zona, sperando che quelli che erano scappati avrebbero cominciato le ricerche del vero violentatore, per poi venderlo a noi.
Abbiamo deciso di andare in un posto chiamato «Il Fischietto di nonna Masa». Era una casa privata, dove una vecchia cucinava e gestiva una specie di ristorante per criminali. Si mangiava molto bene, e l’atmosfera era familiare e calda.
Nonna Masa da giovane aveva lavorato in ferrovia, e portava ancora al collo il fischietto che usava per segnalare la partenza dei treni: da qui il nome del posto.
Aveva tre figli, che stavano scontando condanne pesanti in tre diverse galere della Russia.
Al Fischietto la gente andava per mangiare un boccone ma anche per passare una serata tranquilla, per parlare di affari, giocare a carte, e pure per nascondere qualcosa in cantina, che era piena di roba lasciata dai criminali, una specie di deposito bancario: in alcuni casi la nonna dava anche la ricevuta, un pezzo di carta — accuratamente strappato dal suo quaderno — dove scriveva con la sua calligrafia quasi perfetta qualcosa tipo:
«La mano onesta (e cioè un criminale) ha voltato (nel gergo significa «depositare qualcosa con cura») nel caro dentino (indica un posto sicuro) una frusta con i funghi sott’olio più tre teste di vena verde (che sarebbe un fucile automatico con silenziatore e cariche, pili tremila dollari). Che Dio ci benedica e allontani il male e i pericoli dalle nostre povere anime (un modo di augurare la fortuna criminale, auspicare un buon fine per un affare fatto insieme). Povera Madre (un modo di chiamare la donna che ha i figli о il marito in galera: nella comunità criminale è una specie di definizione sociale, come può esserlo vedova, о scapolo) Masa».
Nonna Masa faceva dei buonissimi pel'meni, che sono dei ravioli grandi ripieni di molta carne, un piatto siberiano diffuso in tutto il territorio sovietico. Quando decideva di cucinarli faceva girare la voce un paio di giorni prima: mandava in giro i ragazzi senza tetto che ospitava in casa sua in cambio di un aiuto in cucina e di qualche commissione. I ragazzi prendevano le biciclette e partivano, passando in tutti i posti dove si radunava la gente giusta, per informarla su quel lo che stava cucinando nonna Masa.
Oltre a far questo, i ragazzi facevano circolare anche le ultime notizie: se volevi far sapere qualche fatto in giro, bastava offrirgli pochi soldi о un paio di pacchetti di sigarette e in due о tre ore la città già sapeva tutto. Erano molto utili anche nella lotta contro la polizia: se per caso succedeva qualche casino in un quartiere di Bender e la polizia arrivava per arrestare qualcuno, i ragazzi spargevano la voce e le persone interessate si mobilitavano per liberare l’arrestato о per fare una piccola sparatoria con i poliziotti, giusto cosi, per puro piacere.
A noi adesso serviva l’aiuto dei ragazzi di nonna Masa per far sapere in giro delle nostre ricerche e della nostra onesta offerta, ma eravamo anche un po’ stanchi e avevamo fame.
Quando siamo arrivati al Fischietto stava già scendendo il buio. Lei ci ha accolti come sempre, con un sorriso e parole buone, chiamandoci «figlioli» e baciandoci sulle guance. Per lei eravamo tutti bambini, anche quelli più grandi. Ci siamo seduti a un tavolo e lei si è seduta con noi: faceva sempre cosi con tutti, parlava un po’ prima di portare da mangiare. Le abbiamo raccontato della nostra disgrazia, lei ci ha ascoltati fino in fondo, poi ha detto che già sapeva la storia dai suoi ragazzi. Siamo stati un po’ in silenzio mentre lei, con lo straccio che aveva sempre tra le mani, si asciugava le lacrime dalla faccia piena di rughe. A guardarla, quella faccia, ti sembrava di stare davanti all’incarnazione di Madre Terra.
Nonna Masa ha cominciato a portarci le posate e qualcosa da bere, nel frattempo noi abbiamo chiamato uno dei suoi ragazzi, un tipo magro, piccoletto, senza un occhio e con i capelli bianchi come la neve, che era il più in gamba di tutti e si chiamava «Begunok», che vuol dire «quello che corre veloce». Era molto serio, ogni impegno preso per lui era una promessa. Gli abbiamo chiesto di spargere la voce tra quelli che conosceva in città, ma soprattuto di battere tutti i locali dove si radunava la gente per bere e passare il tempo insieme. Mei gli ha infilato in mano un pacchetto di sigarette e una banconota da cinque dollari, e dopo un secondo abbiamo sentito la sua bicicletta allontanarsi a tutta velocità.
Abbiamo cenato in silenzio, senza fare il casino che facevamo di solito. Avevo un sacco di fame ma non riuscivo a mangiare, mentre masticavo il cibo sentivo un peso nei polmoni, per ingoiare un boccone ero costretto a bere, così dopo un po’ mi sono ritrovato mezzo ubriaco, con i pensieri pesanti, nei quali stavo affogando. Gli altri erano messi più о meno come me, la cena procedeva lentamente, senza entusiasmo, gli occhi dei miei compagni diventavano sempre più appannati dall’alcol, c’era davvero un’aria da funerale.
A un certo punto, in mezzo ai respiri pesanti e ai lamenti sussurrati, uno di noi ha cominciato a piangere, ma molto piano, vergognandosi per quella manifestazione di debolezza. Era il più piccolo della banda, aveva tredici anni e si chiamava Lècha, soprannominato «Tomba» per via del suo aspetto cadaverico (era magro e sempre malato, e oltretutto costantemente di cattivo umore). Aveva tentato d’impiccarsi già una decina di volte, ma era sempre stato salvato da qualcuno di noi. Una volta si era addirittura sparato al cuore con la pistola di suo zio, ma la pallottola gli aveva solamente forato un polmone, provocandogli un grave danno alla salute già vacillante di suo. Un’altra volta, ubriaco marcio, si era buttato nel fiume tentando di annegare, ma non ci era riuscito perché sapeva nuotare molto bene, e l’istinto di sopravvivenza aveva avuto la meglio. Non aveva mai provato a tagliarsi le vene solo perché gli faceva senso vedere il sangue: anche nelle risse non usava mai il coltello, picchiava solamente con un tirapugni e una spranga di ferro.
Tomba era un ragazzino con tanti problemi, ma nonostante tutto s’inseriva bene nella nostra compagnia, ed era come un fratello per tutti noi. La sua tendenza suicida era un fantasma nascosto dentro la sua mente, nessuno di noi poteva sapere con precisione quando usciva fuori, e cosi a badare a lui c’era sempre un ragazzo pili grande, Vitja, soprannominato «Gatto» perché sua madre raccontava che quando era appena nato, la loro gatta Lisa aveva partorito quattro gattini e di notte entrava nella sua culla e lo allattava, e cosi — sempre secondo il racconto di sua madre — lui era diventato per metà gatto. Quei due, Tomba e Gatto, giravano sempre insieme e la loro occupazione principale era la pesca e i furti delle barche a motore; erano gli esperti del fiume, conoscevano tutti i punti particolari — dove l’acqua era ferma о veloce, dove la corrente girava al contrario, dove il fondale era più profondo — e sapevano sempre con esattezza assoluta dove trovare il pesce in ogni periodo dell’anno. Non sono mai tornati da una pesca con le barche vuote, mai.
Nelle feste, e ogni volta che si beveva insieme, il pianto improvviso di Tomba era un segnale sicuro che in breve tempo lui avrebbe cercato di fare i conti con la propria esistenza: allora, secondo un regolamento da noi stabilito e approvato da Tomba stesso (che da sobrio nonostante tutti i suoi problemi psicologici aveva una grande voglia di vivere), gli toglievamo l’alcol, e in casi estremi arrivavamo anche a legarlo con una corda alla sedia.
Cosi anche quella volta, al Fischietto, mentre Tomba cercava di smettere di piangere pulendosi la faccia con un fazzoletto, Gagarin ha fatto un gesto al Gatto, che ha subito sostituito la bottiglia di vodka di fronte a Tomba con una bevanda dolce frizzante chiamata Burattino, una specie di Coca-Cola sovietica. Tomba ha smesso di piangere e si è scolato la bottiglia di Burattino, facendo alla fine un lungo e triste rutto.
Gagarin stava parlando con i nostri autisti, Makar chiamato «Lince» e Ivan detto «la Ruota». Avevano poco più di vent’anni, e tutti e due avevano appena terminato di scontare una condanna di cinque anni. Erano amici per la pelle, come si dice in Italia. Insieme avevano fatto molte rapine, e nell’ultima, dopo una sparatoria con la polizia, la Ruota era rimasto ferito e Lince non aveva voluto abbandonarlo: si era fatto arrestare anche lui, pur di restargli a fianco. Nella nostra missione, secondo le regole, loro non potevano aiutarci a comunicare con i criminali delle varie zone della città, ed era un peccato: sarebbe stato molto utile visto che eravamo tutti minorenni, e i criminali che non abbracciavano la nostra fede siberiana prendevano come un’offesa personale l’idea di trattare con i minori. Però Lince e la Ruota potevano consigliarci come muoverci, come trattare con gente che seguiva regole diverse dalle nostre, come sfruttare le particolarità di ogni persona e delle differenti comunità. Era importante, faceva parte della nostra educazione questo rapporto continuo tra giovani e adulti che spiegavano ogni singola situazione secondo la legge seguita dai nostri vecchi.
Mentre Gagarin ascoltava quello che avevano da dirgli Lince e la Ruota, gli altri hanno cominciato a parlare tra di loro: forse il pianto di Tomba ci aveva risvegliati tutti, e in qualche modo ci era servito per tornare a essere uniti e presenti.
All’improvviso Mei si è messo a raccontarmi una storia che ripeteva da quando aveva dieci anni ogni volta che era ubriaco; una sua fantasia infantile. Aveva conosciuto — sosteneva lui — una ragazza in riva al fiume, e le aveva promesso di portarla al cinema. Poi avevano fatto l’amore, e quando arrivava a quel punto della storia commentava sempre con le parole:
«Era come scopare una principessa». Poi partivano le descrizioni dettagliate del loro rapporto sessuale, dove Mei si presentava come un amante vigoroso ed esperto. La storia finiva con lei che piangeva sulla sua spalla e gli chiedeva di restare ancora un po’, e lui che, suo malgrado, doveva abbandonarla, perché faceva tardi per la pesca.
La balla più incredibile e stupida del mondo, ma dato che Mei era un amico lo ascoltavo con finto interesse e vera pazienza.
Mi parlava con tale trasporto che il suo unico occhio diventava sottile come una cicatrice. Accompagnava quel racconto con ampi gesti delle sue gigantesche mani, e ogni volta che una sua mano passava sopra la bottiglia di vodka io dovevo tenerla, per non farla cadere.
Osservando la nostra cena, mi sentivo come poteva sentirsi Giuda stando alla stessa tavola con Gesù Cristo. Anzi, no, mi sentivo inutile, un demente, un buono a nulla. Ero anch’io abbastanza ubriaco.
La cena, come succedeva sempre, si è trasformata in una specie di riunione di ubriachi. Non la smettevamo più di bere, e nonna Masa, per non farci ubriacare troppo, continuava a portarci i piattini con i cibi che da noi si usano come accompagnamento alla vodka.
Verso mezzanotte è tornato Begunok, con una notizia: un gruppo di ragazzi del quartiere Caucaso, proprio nelle ore in cui Ksjusa era stata violentata, aveva visto girare in Centro degli sconosciuti.
— Gente che, vicino alle cabine telefoniche, — ha detto Begunok serio, — dava fastidio a una ragazza.
Senza aspettare altro, siamo corsi alle macchine.
Caucaso era un quartiere vecchio quasi quanto il nostro. Si chiamava cosi perché molti dei suoi abitanti venivano dal Caucaso, ma anche per la sua posizione: stava su una serie di colline. I criminali di Caucaso appartenevano a diverse comunità, ma a governare su tutte era la cosiddetta «Famiglia Georgiana». Poi venivano gli armeni, che formavano il Kamascatoj, la criminalità organizzata armena, e infine gente di molte regioni: Azerbaigian, Cecenia, Daghestan, Kazakistan e Uzbekistan.
Georgiani e armeni andavano d’accordo, uniti anche dal fatto di essere due popoli caucasici di religione cristiana ortodossa, invece gli altri abitanti della zona erano musulmani о atei, ma di tradizione islamica. La comunità criminale dei georgiani e degli armeni aveva una struttura famigliare: per diventare un’autorità non c’era bisogno di guadagnarsi il rispetto degli altri come tra noi siberiani, bastava nascere nella famiglia giusta. I clan erano composti dai membri delle famiglie, e si occupavano di vari affari criminali, traffici illeciti, racket, piccoli furti e omicidi.
Per il loro modo di gestire le cose i georgiani non erano ben visti dalla nostra comunità: spesso i nostri criminali rifiutavano di comunicare con loro solamente perché quelli si presentavano come figli о parenti di qualche persona autorevole. Tra i siberiani un comportamento così è inaccettabile, perché da noi ognuno è valutato per quello che rappresenta come persona, le sue radici vengono al secondo posto; in Siberia ci si appella alla protezione della famiglia quando proprio non puoi farne a meno, solamente in caso di vita о di morte.
Insomma, per questi e altri motivi noi avevamo parecchie grane con la gente di Caucaso: se ci beccavamo da qualche parte in città, finiva in rissa e ogni tanto ci scappava qualche morto.
Due anni prima un nostro amico, Mitja detto «Giulie», che in gergo significa «piccolo criminale», ha accoltellato un georgiano perché quello lo aveva offeso parlando la lingua georgiana in sua presenza. Giulie lo aveva avvertito, dicendogli che stava comportandosi in maniera oltraggiosa, e quello gli aveva fatto capire che intendeva continuare a parlare georgiano perché disprezzava i russi, che aveva chiamato «occupanti». Era una provocazione di tipo politico, Giulie ha reagito accoltellandolo e lui più tardi è morto in ospedale. Dopo la sua morte i georgiani si sono rivolti ai vecchi criminali di Seme nero per ottenere giustizia, però il verdetto è stato contro di loro, perché secondo la legge criminale il georgiano aveva commesso due gravi errori: primo, si era dimostrato scortese con un altro criminale senza nessun motivo; secondo, si era permesso di fare un discorso politico, condannato dal regolamento criminale come una grave forma di offesa all’intera comunità criminale, perché la politica è roba da sbirri, e i criminali non devono avere niente a che a fare con quella merda.
Dopo quel verdetto i georgiani però non si sono per nulla calmati, hanno cercato di vendicarsi un paio di volte: prima hanno sparato a un nostro amico di nome Vasja, che per fortuna se l’è cavata, e poi in una delle discoteche della città hanno cercato di ammazzare Giulie. Hanno provocato una rissa per spingerlo a uscire fuori dalla discoteca, dove poi lo hanno aggredito in tanti. Quella volta per fortuna eravamo con lui, e ci siamo buttati in mezzo al casino coprendogli le spalle.
Mentre ci picchiavamo, abbiamo notato che contro Giulie continuavano a mandare dei «torpedo»: così si chiama un sistema per ammazzare una persona in particolare durante una rissa, fingendo che si tratti di un incidente. Alcuni, due о tre, vanno addosso come per sbaglio a quella persona — la vittima, definita «cliente» — e nella confusione danno la possibilità a un altro — il torpedo — di colpirla con precisione per ucciderla, dopo di che tutti si buttano di nuovo nella mischia e alla fine, se il torpedo è stato abile, nessuno si è accorto di niente e tutto è stato eseguito in modo veloce e professionale. La morte del cliente viene trattata come una normale conseguenza della rissa, e quindi dimenticata subito dopo, perché la rissa è considerata un modo estremo di ottenere soddisfazione e ogni partecipante sa fin dall’inizio i rischi che corre. Però se durante il casino qualcuno viene scoperto mentre manda avanti un torpedo, secondo il regolamento deve essere ucciso per aver violato le regole della rissa: quel gesto insomma viene letto come un autentico assassinio. L’omicidio premeditato di un collega, un criminale, è considerato una vigliaccheria. La dignità criminale dell’omicida muore in quel preciso momento e, come dice la legge criminale, «quando muore la dignità criminale, muore anche il criminale stesso».
Quella volta eravamo molti meno di loro. Volevano massacrarci e mandare il torpedo contro Giulie ma, purtroppo per loro, dopo un paio di minuti di questo circo accuratamente preparato per noi, sono intervenuti i ragazzi del Centro, il quartiere dove ci trovavamo. Esercitando il diritto di «proprietari» della zona, hanno ordinato di porre fine alla rissa.
Proprio in quel momento il torpedo dei georgiani si è buttato contro Giulie davanti a tutti, cercando di accoltellarlo, ma Giulie è riuscito a parare il colpo. Il torpedo è caduto a terra e si è messo a urlare qualcosa nella sua lingua, ignorando le richieste dei padroni della zona di calmarsi e mettere via il coltello. Alla fine ha persino tagliato la mano a un ragazzo del Centro, che gli aveva semplicemente chiesto di dargli il suo coltello.
A quel punto, diciamo dopo tre secondi, i georgiani sono stati attaccati in massa dalla gente del Centro, una trentina, e massacrati senza pietà.
Noi ci siamo scusati, spiegando la situazione, e ci siamo ritirati in buon ordine, portando a casa un sacco di botte e numerosi tagli.
Una volta arrivati a Fiume Basso abbiamo raccontato tutto al Guardiano. Per ottenere giustizia sui georgiani serviva un testimone esterno, non uno di noi. Per fortuna tre persone del Centro hanno testimoniato davanti alle vecchie autorità di aver visto il torpedo con i loro occhi.
Cosi dopo una settimana i siberiani hanno mandato nel quartiere Caucaso una spedizione punitiva, finita con la morte di otto georgiani che avevano partecipato al complotto contro Giulie.
Ovviamente questa brutta storia ha peggiorato parecchio i nostri rapporti con i georgiani, che già erano difficili.
I georgiani hanno cominciato a dire in giro che noi siberiani eravamo degli assassini e delle persone ingiuste.
Noi sapevamo di aver ragione e che la situazione si era risolta a nostro favore; del resto non ce ne fregava più di tanto.
A differenza dei georgiani, gli armeni erano nostri buoni amici. Erano molto più umili e semplici dei georgiani, chissà, forse anche per ragioni storiche, visto che sono stati sempre dominati da qualcuno; anche i loro nobili, che appartenevano a famiglie importanti, non erano arroganti о accecati dall’orgoglio. Con molti di loro facevamo affari. Gli armeni avevano grandi traffici, gestivano una parte del mercato delle pietre preziose insieme alla comunità criminale ebraica.
Io personalmente avevo legami con un ragazzo armeno di nome Spartak, nipote di un vecchio criminale chiamato Armen, buon amico di mio nonno, erano stati per molto tempo insieme nello stesso lager in Siberia.
Con le macchine ci siamo diretti verso un locale del quartiere Caucaso che si chiamava «Labirinto». Era una specie di bar-trattoria, con una sala dove si poteva giocare a biliardo e a carte.
Begunok era stato preciso: ci aveva detto che le persone che gli avevano raccontato la storia delle cabine telefoniche erano i figli del gestore di quel locale. Ed erano georgiani.
Siamo arrivati al Labirinto verso le due di notte, davanti era pieno di macchine e si sentivano fin da fuori le grida dei giocatori d’azzardo. Erano urla in georgiano, mescolate a una valanga di parolacce russe con finali modificati alla georgiana.
Siamo usciti dalle macchine — i nostri autisti ci avevano detto che avrebbero tenuto i motori accesi per sicurezza — e siamo entrati tutti insieme.
A ripensarci adesso mi viene la pelle d’oca: un branco di minorenni, di mocciosi, che non solo se ne vanno in giro spavaldamente in un quartiere pieno di gente che vuole la loro morte, ma che entrano pure in un locale stracolmo di criminali veri, ben pili pericolosi di loro. Eppure in quel momento non avevamo nessun timore: avevamo un compito da svolgere.
Appena abbiamo messo piede nel Labirinto ci è venuto incontro il figlio maggiore del gestore, un ragazzo di nome Mino. Lo conoscevo di vista, sapevo che era un tipo tranquil lo che si faceva gli affari suoi. Ci ha salutati, stringendo le mani a ciascuno di noi, poi ci ha invitato ad accomodarci a un tavolo. Ci siamo seduti e lui ha chiesto a una ragazza di portare vino e pane georgiano, offriva lui. Senza che neanche glielo chiedessimo ha cominciato a raccontarci quello che aveva visto in Centro.
Era con degli amici, tra cui tre ragazzi armeni, uno dei quali gestiva un banchetto di fiori al mercato, non lontano da lì. Stavano vicino alle cabine telefoniche (dove di solito la gente si dà appuntamento per incontrarsi), quando hanno visto una decina di giovani, ubriachi о drogati, che davano fastidio a una ragazza, attaccando briga in maniera molto maleducata e minacciosa. Uno degli armeni gli ha chiesto di smetterla e di lasciarla in pace, ma loro l’hanno insultato e uno gli ha pure mostrato la pistola, ordinandogli di levarsi dai piedi.
— A quel punto, — ci ha detto Mino, — abbiamo preferito ritirarci. E vero, abbiamo lasciato la ragazza nelle mani di quei balordi, ma solo perché non sapevamo bene chi erano. Avevamo paura che poi veniva fuori che magari erano legati alla gente del Centro, e chissà, potevano anche togliere il banchetto di fiori al mio amico…
Secondo la descrizione di Mino, però, la ragazza non sembrava essere la nostra Ksjusa.
Intanto la cameriera ci aveva portato al tavolo vino georgiano con il pane tipico, cotto in modo particolare, appiccicato ai muri del forno. Era buono, e noi abbiamo bevuto e mangiato con grande piacere insieme a Mino, parlando di tante cose. Anche dei rapporti tra noi e i georgiani.
Lui sosteneva che avevamo ragione noi, e che i suoi connazionali si erano comportati in maniera vergognosa, da traditori.
— E poi siamo tutti cristiani, no? — diceva. - Crediamo in Gesù Cristo. E siamo tutti criminali, anche, e la legge criminale vale per tutti, georgiani, siberiani, armeni…
Ci ha raccontato che la comunità georgiana da un po’ di tempo era spaccata in due. Una parte appoggiava un ricco e giovane georgiano di famiglia nobile che si faceva chiamare «il Conte». Questo Conte seminava l’odio verso i russi, impediva ai georgiani di sposarsi con russi e armeni, per sostenere la razza pura. Mino lo chiamava «Hitler» ed era molto arrabbiato con lui, diceva che aveva indebolito l’intera comunità. Il resto dei georgiani sosteneva invece un vecchio criminale che conoscevamo anche noi, perché veniva spesso a Fiume Basso: nonno Vano. Era un uomo saggio, aveva fatto tanta galera in Siberia ed era molto rispettato dalla comunità criminale. Piaceva soprattutto ai vecchi: tra i giovani non era tanto popolare perché impediva di godersi la bella vita, e faceva discorsi contro il nazionalismo che ai ragazzi non piacevano per niente.
Dal racconto di Mino abbiamo capito che la situazione era pili difficile di quanto poteva sembrare a prima vista, perché il distacco passava attraverso le famiglie, e molti figli, fratel li e padri si erano schierati da parti diverse della barricata. Una guerra in quelle condizioni era impossibile, allora tutto era come sospeso, il che secondo Mino era ancora più pericoloso di una guerra aperta.
A un certo punto nel locale sono entrate cinque persone. Erano giovani, non avevano più di venticinque anni, e si sono rivolti a Mino in georgiano. Lui si è alzato subito ed è andato da loro.
Sembravano abbastanza incazzati, e un paio di volte ho notato che c’indicavano. Prima hanno detto delle cose tutti insieme, poi si è messo a parlare il loro capo, un ragazzo magro con gli occhi che schizzavano fuori dalle orbite ogni volta che alzava la voce.
Mino però era tranquillo, stava appoggiato al bancone con un bicchiere di vino in mano e li ascoltava guardando il pavimento con faccia indifferente.
Il capo ha improvvisamente finito di parlare e se ne sono andati via tutti e cinque. Mino allora è corso verso il nostro tavolo e ci ha spiegato con voce spaventata che erano giovani della banda del Conte:
— Hanno detto che se non lasciate subito il quartiere tornano in tanti e vi ammazzano.
Dopo la calda accoglienza di Mino, quella minaccia sembrava una cosa irreale.
Muto, uno di noi, prima di alzarsi dal tavolo ha detto:
— Posso scommetterci la mano destra, fuori ci hanno preparato un’imboscata.
Muto era soprannominato cosi perché non parlava mai, ma quando parlava diceva quasi sempre cose vere. Una volta sono stato con lui tre giorni a pescare, e in tre giorni non ha pronunciato neanche un suono, giuro, neanche uno.
Gagarin ha dato il segnale di «prepararsi» a uscire dal locale. Tutti hanno messo le mani sotto il tavolo e uno dopo l’altro si sono sentiti i rumori dei caricatori delle pistole.
Mei mi ha dato una spinta, chiedendomi di prendere la pistola che mi stava allungando, ma io con la faccia indifferente l’ho rifiutata.
— Quando ti ammazzeranno, — ha commentato, — t’infilerò il tuo inutile coltello nel culo.
10 ho misteriosamente sorriso.
Abbiamo salutato Mino, che ci supplicava di usare l’uscita di sicurezza, ma noi siamo usciti dall’ingresso principale, da dove eravamo entrati.
Nel piazzale davanti al locale c’erano una quindicina di persone che ci aspettavano, riunite sotto il faro.
Mel e Gagarin sono andati avanti; dopo di loro с’ero io con Muto, poi gli altri. Ho visto Mei tirar fuori la sua Tokarev e contemporaneamente Gagarin nascondere dietro la schiena la mano con la sua Makarov. Io stringevo nella tasca della giacca la Nagant di nonno Kuzja.
Ci avevano bloccato la strada verso le macchine. I nostri autisti erano usciti fuori, e si erano messi a fumare tranquillamente seduti sul cofano.
Ci siamo fermati a qualche metro dai georgiani.
11 ragazzo magro, il loro capo, è venuto avanti, sfidandoci:
— Per voi è finita, non avete via di scampo.
Parlava con grande sicurezza. Nelle sue mani ho visto una pistola e dietro di lui c’era un altro con una doppietta.
— Se non volete guai, avete una sola possibilità: lasciare le armi e arrendervi.
Poi s’è messo anche a scherzare:
— Non siete un po’ troppo piccoli per giocare con le pistole?
In tutta tranquillità Gagarin gli ha spiegato il motivo della nostra visita, e ha sottolineato che non aveva niente a che fare con i rapporti tra georgiani e siberiani.
— E comunque, — ha ricordato Gagarin, — secondo la legge criminale in casi simili vengono pure fermate le guerre.
Ha fatto l’esempio di San Pietroburgo, quando per la caccia a un pedofilo che violentava e uccideva i bambini, si era fermata la sanguinosa guerra tra due bande — quella del quartiere Ligovka e quella dell’isola Vasil'ev — che si erano unite per la caccia al maniaco.
I georgiani a quel punto erano abbastanza confusi.
Ho notato che mentre Gagarin parlava al loro capo, molti avevano abbassato le armi e le loro facce erano diventate un po’ pensierose, vero segno dell’inizio di una sconfitta ottenuta solo con le parole, senza usare le armi.
Il georgiano però non si dava per vinto.
— E allora, — ha chiesto improvvisamente, — perché non vi siete rivolti al nostro Guardiano? Perché siete venuti di nascosto come serpenti?
Da una parte aveva ragione, dovevamo presentarci al loro Guardiano, perché fare le ricerche alle sue spalle era contro il regolamento criminale. Ma non teneva conto di due cose.
Primo: eravamo minorenni, e secondo la legge a noi «non c’era da chiedere niente», solo altri minorenni avrebbero potuto «chiederci», gli adulti non avevano nessun diritto su di noi. Per rispetto e piacere personale, noi potevamo anche seguire le regole e la legge criminale degli adulti, ma finché non eravamo maggiorenni, non facevamo parte della comunità criminale. Se un Guardiano, per dire, avesse portato il nostro caso a una vecchia autorità, questo gli avrebbe riso in faccia: tra siberiani in casi simili si usa dire che «i ragazzi sono come i gatti, vanno dove vogliono».
Il secondo errore che aveva commesso il georgiano era molto più grave, e rivelava che lui era una persona poco esperta nelle trattative, assolutamente incapace di applicare la diplomazia criminale. Ci aveva insultati.
L’insulto viene considerato da tutte le comunità un errore tipico della gente debole e poco intelligente, priva di dignità criminale. Per noi siberiani ogni tipo d’insulto è un reato, in altre comunità si fanno anche delle distinzioni, ma in generale un insulto è la via più diretta per la lama del coltello.
L’insulto contro una singola persona può essere «approvato»: cioè, se io ho insultato qualcuno e per questo mi hanno portato davanti a un anziano autorevole, dovrò spiegargli il motivo per cui l’ho fatto, e lui deciderà come sarò punito. La punizione avviene in ogni caso, ma se l’insulto è approvato non mi ammazzano e non mi «abbassano», cioè rimango me stesso e me la cavo con un avvertimento. L’insulto è approvato se ti è scappato per ragioni personali e in forma non grave: se ad esempio hai chiamato «stronzo» uno che ha fatto un danno alla tua proprietà. Se invece hai offeso il nome di sua madre, molto facilmente ti faranno saltare sulla lama.
Sono perdonati gli insulti fatti in stato di furia о di disperazione, quando qualcuno è accecato da un forte dolore, tipo se gli muore la madre о il padre о un amico molto vicino. In questo caso non si parla neanche di giustizia, si dice «era fuori di sé» e la cosa finisce li.
L’insulto però non è approvato quando si litiga per motivi di gioco d’azzardo о affari criminali, о per amore, о per relazioni d’amicizia: in quei casi l’uso di parolacce e frasi offensive può portare alla morte sicura.
Ma l’insulto più grave in assoluto è quello chiamato baklanka, quando viene offeso un gruppo о una comunità intera. Non ci sono spiegazioni che tengano: ti meriti la morte о l’abbassamento, cioè il trasferimento definitivo nella comunità degli abbassati, dei contagiati, come quelli che vivevano nel quartiere Barn.
Cosi fin da piccoli noi abbiamo imparato a «filtrare le parole», ad avere sempre il controllo di quello che ci usciva di bocca, per non commettere, neanche involontariamente, un errore. Perché secondo la regola siberiana, la parola volata via non può più tornare indietro.
L’insulto che ci aveva rivolto quel georgiano era abbastanza grave: aveva detto «siete venuti come serpenti», e quindi aveva offeso tutti quanti.
Cosi abbiamo recitato la tipica scena che in gergo si chiama «acquisto». E uno dei tanti trucchi che si usano tra criminali per concludere in modo favorevole una trattativa; noi siberiani siamo maestri in questi trucchi. Il principio dell’«acquisto» è quello di convincere l’avversario del suo torto, e farlo cedere piano piano, per poi terrorizzarlo definitivamente e prendere il totale controllo sulla situazione, che in gergo si dice appunto «acquistare».
Tutta la nostra banda, seguendo l’esempio di Gagarin, ha dato le spalle ai georgiani. Questo gesto li ha fatti disperare, perché significava che gli avevamo tolto tutti i diritti della comunicazione criminale, anche quello di far scoppiare una rissa.
Si usa dare la schiena alle persone definite «rifiuti», ai poliziotti о agli infami. Insomma, a quelli che disprezzi a tal punto da pensare che non meritano nemmeno una pallottola. Ma se dai la schiena a un altro criminale, è un’altra storia: stai lanciando un segnale preciso, gli stai dicendo che il suo comportamento lo ha espulso dalla dimensione della dignità criminale.
D’altra parte girarsi è sempre un rischio, perché un vero criminale non aggredirà mai qualcuno che gli sta dando le spalle, ma se è uno che s’intende poco di relazioni criminali, о se è un infame, ti puoi beccare una pallottola nella schiena.
Stando sempre voltati, Gagarin ha spiegato ai georgiani che avevano commesso un grave errore di comportamento: avevano offeso i minorenni di un altro quartiere mentre stavano svolgendo un compito sacro per la loro comunità, un compito che doveva essere rispettato da ogni comunità criminale.
— Rinuncio alla responsabilità di condurre trattative con voi, — ha aggiunto. - E se volete spararci alla schiena fate pure. Altrimenti ritiratevi. Nei prossimi giorni presenteremo la questione alle autorità di Fiume Basso, per chiedere giustizia.
Gagarin ha concluso con un colpo da maestro: ha chiesto i loro nomi. In questo modo ha sottolineato un altro errore commesso dai georgiani, poco grave ma abbastanza significativo. I criminali dignitosi si presentano, si salutano e si augurano ogni bene anche prima di ammazzarsi.
Il georgiano non ha risposto subito: era evidente che l’acquisto stava funzionando. Poi si è presentato come il fratel lo di un altro, un criminale giovane molto vicino al Conte, e ha detto:
— Per questa volta vi lascio andare, ma solo per non complicare le relazioni già difficili tra le nostre comunità.
— Beh, — l’ha rimbeccato Gagarin con ironia, — mi pare che tu hai fatto già abbastanza per appesantire la situazione: tua e di chi sta sopra di te.
Senza salutarli siamo andati verso le nostre macchine. Quando siamo ripartiti erano ancora lì, sotto il faro, a parlottare tra di loro. Evidentemente non riuscivano ancora a capire cos’era successo.
Ma tutto gli si sarebbe chiarito ben presto.
Per l’esattezza tre giorni dopo, quando Gagarin, io, Mei e Muto abbiamo fatto formalmente «richiesta» a nonno Kuzja per offesa del gruppo e minacce.
Dopo le trattative diplomatiche con i criminali di varie zone della città, quei balordi sono stati puniti dagli stessi georgiani, stanchi del pesante boicottaggio da parte delle comunità di altri quartieri. So di preciso che della gente del Centro ha minacciato di chiudere tutti i negozi che i georgiani gestivano nella loro zona.
Il ragazzo magro che aveva parlato con noi è scomparso nel nulla. Qualcuno diceva che era stato sepolto in una doppia tomba: era cosi che si nascondevano i cadaveri scomodi, mettendoli nella stessa tomba di un altro. Era un modo sicuro per far sparire la gente. Nella tomba di un vecchietto qualsiasi potevano esserci più persone date per disperse dalla loro stessa comunità.
Lasciato Caucaso, abbiamo puntato verso il Centro, dove volevamo raccogliere altre informazioni sugli strani aggressori visti da Mino e dai suoi amici. Bisognava scoprire se c’entravano qualcosa con il nostro tristissimo e disperato caso.
La strada tra Caucaso e il cuore di Bender passava da un quartiere chiamato Balka, che in russo significa semplicemente «trave di legno», ma in gergo criminale vuol dire cimitero. Si era guadagnato quel nome per il semplice fatto che una volta li si trovava il vecchio cimitero ebraico polacco. E proprio attorno al cimitero — mi raccontava mio nonno — era nato e poi si era allargato, dagli anni Trenta in poi, il quartiere ebraico.
Non potevo passare per Balka senza ricordare ogni volta la storia bellissima e terribile che mi raccontava mio nonno. E che adesso racconto a voi.
La guida spirituale della comunità ebraica di Balka era un anziano che si chiamava Moisa. Secondo la leggenda era stato il primo ebreo ad arrivare in Transnistria, e grazie al suo carattere e alla forte personalità si era guadagnato la stima di tutti. Aveva tre figli maschi e una figlia femmina, come si dice da noi «da sposare», cioè una giovane donna che non aveva nessun compito sociale tranne quello di badare alla casa e imparare a obbedire al futuro marito, crescere i suoi figli e, sempre come diciamo noi, a «tossire nel pugno», cioè dimostrare sottomissione totale.
La figlia del rabbino si chiamava Zilja, ed era una ragazza molto bella, con due grandi occhi azzurri. Aiutava la madre a gestire un negozio di stoffe in Centro, e parecchi clienti entravano solo per la gioia di stare un attimo con lei. Molte famiglie ebraiche avevano fatto al rabbino domanda di matrimonio per i loro figli, ma lui non accettava nessuno, perché tanti anni prima, quando Zilja era appena nata, aveva già promesso la sua mano a un giovane di Odessa, figlio di un suo amico.
Tra ebrei si usava fare matrimoni combinati, su iniziativa dei padri delle famiglie interessate a unire la loro stirpe; in queste tristi occasioni gli sposi non sapevano niente l’uno dell’altra, e raramente erano d’accordo con la scelta dei loro genitori, ma non osavano contraddirli e soprattutto non osavano andare contro le tradizioni: anche perché chi lo faceva sarebbe stato espulso dalla comunità per sempre. Così accettavano con grande dolore il loro destino, e tutta la loro vita diventava un’eterna tragedia. Era un’usanza così nota che anche tra noi siberiani ironizzavamo sull’infelicità delle donne ebree, chiamando qualunque situazione disperata e triste «moglie ebrea».
Zilja sembrava già bell’e convinta. Come un’ebrea perfetta accettava, senza ribellarsi al padre, l’idea del matrimonio con un uomo che aveva vent’anni più di lei e — a quanto si diceva — anche molti difetti.
Finché un giorno nel negozio non è entrato Svjatoslav', un giovane criminale siberiano appena arrivato in Transnistria. Faceva parte della banda di un famoso criminale chiamato «Angelo», che per più di dieci anni aveva terrorizzato i comunisti rapinando treni in Siberia. Svjatoslav' era rimasto ferito in uno scontro a fuoco, e i suoi amici lo avevano mandato in Transnistria per la convalescenza. Gli avevano dato del denaro per la comunità dei siberiani, che lo aveva accolto senza problemi. Svjatoslav' non aveva famiglia, i suoi genitori erano morti. Per farla breve, Svjatoslav' si è innamorato di Zilja, e anche lei si è innamorata di lui.
Per non andare contro le regole umane, si è presentato a casa del rabbino Moisa e gli ha chiesto la mano di sua figlia, ma quello lo ha trattato male, pensando che era un poveraccio perché aveva un aspetto modesto, e seguendo la legge siberiana non manifestava il suo benessere.
Dopo aver subito quelPumiliazione, Svjatoslav' si è rivolto al Guardiano di Fiume Basso, che a quei tempi era un criminale di nome Sidor, chiamato «Zampa di lince», un anziano Urea siberiano. Dopo aver ascoltato la questione, Zampa di lince ha pensato che l’ebreo poteva essersi comportato cosi perché forse aveva avuto dei dubbi sulle possibilità economiche di Svjatoslav', e allora gli ha suggerito di non disperarsi, di tornare dal rabbino con dei gioielli da offrire in regalo alla figlia.
L’usanza siberiana vuole che sia lo sposo stesso a fare domanda di matrimonio, ma accompagnato da qualcuno di famiglia о in casi estremi da un vecchio amico. Cosi, per rispettare la legge, Zampa di lince ha proposto a Svjatoslav' di accompagnarlo lui stesso in quel suo secondo tentativo. Si sono presentati a casa del rabbino con molti gioielli preziosi, e hanno spiegato nuovamente la questione, ma per la seconda volta il rabbino li ha maltrattati, permettendosi persino di offender li. Prendendo i gioielli in mano ha fatto finta di bruciarsi il palmo, facendoli cadere per terra, e quando gli ospiti gli hanno domandato che cosa Г aveva scottato, lui ha risposto:
«Il sangue umano di cui sono coperti».
I due siberiani se ne sono andati, sapendo già cosa fare. Zampa di lince ha dato a Svjatoslav' il permesso di portare a vivere nel quartiere siberiano la figlia del rabbino, se lei era d’accordo.
La bella Zilja è fuggita di casa la notte stessa. Per la legge siberiana non doveva portare nessun bene dalla casa del padre all’infuori di se stessa, cosi Svjatoslav' le aveva procurato persino dei vestiti per la fuga.
II giorno dopo il rabbino ha mandato dei criminali ebrei a trattare con i siberiani. Zampa di lince ha spiegato a quegli uomini che secondo la nostra legge ogni persona che raggiunge i diciotto anni è libera di fare quello che vuole, ed è un grande peccato opporsi, soprattutto quando si parla della formazione di una nuova famiglia e di amore, che sono due cose volute da Dio. Gli ebrei hanno voluto dimostrare la loro prepotenza e hanno minacciato di morte Zampa di lince. A quel punto lui non ci ha più visto, ne ha ammazzati tre all’istante con una sedia di legno; all’ultimo ha rotto un braccio e lo ha mandato dal rabbino Moisa con queste parole:
«Chi nomina la morte non sa che quella è più vicina a lui».
Dopo, si è scatenato l’inferno. Moisa, trovandosi davanti a siberiani di cui non sapeva niente, se non che erano assassini e rapinatori molto uniti tra loro, non aveva possibilità di sfidarli sul loro terreno, così ha chiesto aiuto agli ebrei di Odessa.
I capi della comunità ebraica di Odessa, gente molto ricca e potente, hanno organizzato una riunione per scoprire da quale parte stava la verità, e come poteva essere fatta giustizia. A quella riunione erano presenti tutti, compreso Svjatoslav', Zilja e Moisa.
Dopo aver ascoltato le due parti, gli ebrei hanno provato a dare la colpa a Svjatoslav', accusandolo di aver rapito la figlia di Moisa, ma i siberiani hanno risposto che secondo la legge siberiana lei non era stata rapita, perché se n’era andata di sua volontà, e a dimostrarlo era il fatto che aveva lasciato nella casa paterna ogni cosa che la legava a quel posto.
Moisa ha replicato che invece una cosa se l’era portata via: un nastrino colorato con cui si legava i capelli. Era vero, Zilja aveva dimenticato di toglierselo, e la moglie di Moisa l’aveva notato.
Un particolare così piccolo è riuscito a girare la situazione contro i siberiani. Secondo le nostre regole, ora bisognava restituire subito la ragazza al padre. Ma c’era un ma.
Zilja — hanno detto i siberiani — si era già sposata con Svjatoslav', e per farlo si era convertita alla fede ortodossa ed era stata battezzata con la Croce Siberiana: quindi, stando alle nostre leggi, su di lei non potevano più allargarsi i poteri dei genitori, visto che erano di fede diversa dalla sua.
Però, se Moisa voleva convertirsi anche lui alla fede ortodossa, la sua parola a quel punto avrebbe avuto un altro peso…
In preda alla rabbia, Moisa ha tentato di colpire Svjatoslav' con un coltello, ferendolo.
E li ha commesso un errore gravissimo: ha violato la pace in una riunione criminale, cosa che andava punita con l’impiccagione immediata.
Moisa, per togliersi la vita, ha deciso di usare quel nastro di stoffa che sua figlia portava nei capelli. E morto maledicendo Zilja e suo marito, augurando ogni male ai loro figli, ai figli dei loro figli e a tutti quelli che gli volevano bene.
Poco dopo, Zilja si è ammalata. Stava sempre peggio, nessuna medicina riusciva a guarirla. Svjatoslav' allora l’ha portata in Siberia, per farla vedere a un vecchio sciamano della tribù dei Nency, popolo di aborigeni siberiani che con i criminali siberiani, gli Urea, avevano legami molto stretti.
Lo sciamano ha detto che la ragazza soffriva perché uno spirito cattivo la teneva sempre nel gelo della morte, togliendole il calore della vita. Per fermare lo spirito, bisognava bruciare il posto che lo legava ancora a questo mondo. Così Svjatoslav', tornato in Transnistria, ha dato fuoco con l’aiuto di altri siberiani alla casa del rabbino Moisa, e in un secondo tempo anche alla sinagoga.
Zilja è guarita e loro due hanno vissuto ancora per tanto tempo nel nostro quartiere. Hanno avuto sei figli: due assassini di poliziotti, che sono morti in galera da giovani; un ragazzo che è andato a vivere a Odessa, e con il tempo ha messo in piedi un grande traffico di vestiti contraffatti (questo è stato il più fortunato di tutti i suoi fratelli); gli altri tre invece vivevanovnel nostro quartiere, si occupavano di rapine, e il più piccolo, Zora, faceva parte della banda guidata da mio padre.
Da vecchi, Svjatoslav' e Zilja sono andati a finire la loro vita nella Taiga, come da sempre avevano desiderato.
Dopo l’incendio alla sinagoga da parte dei siberiani, molti ebrei hanno abbandonato il quartiere. Gli ultimi di loro sono stati deportati dai nazisti ai tempi della Seconda guerra mondiale, e di quella comunità è rimasto solamente il vecchio cimitero.
Abbandonato a se stesso per anni, è diventato un posto desolato, dove si buttava l’immondizia, e i ragazzini andavano ad azzuffarsi. Le tombe sono state saccheggiate da alcuni rappresentanti della comunità moldava, che arrivavano a fare quest’oltraggio ai morti solamente per ricavare ornamenti di pietra da usare come decorazioni dei cancelli delle loro case: da questa usanza è nato un modo di dire molto offensivo, secondo cui «l’anima di un moldavo è bella come il cancello di casa sua».
Negli anni Settanta dentro il vecchio quartiere ebraico hanno cominciato a costruire le case gli ucraini. Li vivevano molte ragazze leggere, con cui spesso facevamo dei festini. Per possedere una ragazza di Balka bastava offrirle da bere, perché non avendo un’educazione rigida come le ragazze di Fiume Basso quelle prendevano i rapporti sessuali come un divertimento, ma come spesso succede in questi casi il loro comportamento troppo aperto si trasformava in una forma di malessere, e molte di loro rimanevano intrappolate nella loro stessa libertà sessuale. Di solito cominciavano ad avere rapporti all’età di quattordici anni, о anche prima. Verso i diciotto ognuna di loro era già conosciuta da tutta la città, agli uomini faceva comodo avere donne sempre pronte ad andare a letto con loro, senza chiedere niente in cambio. Era un gioco, che durava finché l’uomo non si stufava di una e passava a un’altra.
Diventando adulte, molte delle ragazze di Balka si rendevano conto della loro situazione e sentivano un grande vuoto, desideravano formare anche loro una famiglia, trovare un marito e diventare come tutte le altre donne, però ormai non era più possibile: la comunità le aveva marchiate per sempre, nessun uomo degno avrebbe mai potuto sposarle.
Quelle povere anime, accorgendosi che non potevano più provare le emozioni positive date da una vita semplice, si suicidavano in una quantità spaventosa. Questo fenomeno delle ragazze suicide era abbastanza scioccante per la nostra città, e quando molti uomini si sono accorti dell’origine di quella disperazione, hanno rifiutato di avere rapporti con loro, per non partecipare al processo di distruzione di quelle vite.
Conoscevo un vecchio criminale del Centro chiamato Vitja, detto «Canguro» perché in gioventù era stato ferito alle gambe in una sparatoria e da allora aveva una camminata tutta particolare, fatta di tanti piccoli salti. Era proprietario di numerosi night in varie città della Russia, e da sempre aveva un debole per le ragazze di Balka. Ebbene, dopo i primi casi di suicidio Canguro è stato il primo a intuire la vera portata del problema, e ha promesso davanti a molte persone di non cercare più la loro compagnia, proponendo anche di parlarne apertamente con i famigliari delle ragazze. Ma gli ucraini avevano una strana idea della dignità: lasciavano che le loro figlie si mettessero in situazioni compromettenti, poi però facevano finta di non saperne niente e s’incazzavano se qualcuno gli diceva la verità. Per questo motivo molti di loro hanno preso male l’iniziativa di Canguro e di quelli che la pensavano come lui, dicendo che si trattava di un complotto per portare disonore nel loro quartiere. In seguito ci sono stati pessimi sviluppi: alcuni padri sono arrivati a uccidere con le loro stesse mani le figlie, solamente per far vedere agli altri che non accettavano nessun tipo d’interferenza.
La situazione non faceva che peggiorare, anche a causa dello spaventoso consumo di alcol della gente del quartiere. Gli ucraini bevevano tanto, come tutto il resto della popolazione sovietica, certo, ma loro in maniera particolarmente smodata, senza il filtro della tradizione e senza l’ombra di una moralità. In Siberia l’alcol si beve seguendo regole ragionevoli per non danneggiare in modo irreparabile la propria salute: per questo la vodka siberiana è fatta solamente di grano, ed è purificata dal latte, che trattiene i residui della lavorazione, in modo che il prodotto finale abbia una purezza perfetta. Inoltre la vodka dev’essere bevuta solamente mangiando (in Siberia si mangia tanto e i piatti sono molto conditi, perché si bruciano parecchi grassi per resistere al freddo e conservare le vitamine durante l’inverno): se si mangiano i piatti giusti, si può arrivare a consumare un litro di vodka a persona senza problemi. Invece in Ucraina bevono vodka di diverse qualità, estraggono l’alcol dalle patate о dalla zucca, e le sostanze zuccherine rendono subito ubriachi. I siberiani non si ubriacano mai troppo, non svengono e non vomitano, gli ucraini invece si ubriacano fino a perdere i sensi, e ci mettono anche due giorni a riprendersi da una sbornia.
Cosi, il modo di vivere di Balka — il quartiere un tempo ebraico e poi ucraino — somigliava a una festa continua, però una festa dall’aria triste, con dentro una nostalgia per qualcosa di semplice e umano che quella gente non riusciva più ad avere.
Mio nonno diceva sempre che questo succede quando gli uomini vengono dimenticati da Dio: rimangono vivi, ma non sono più vivi. Io invece pensavo che si trattava di una forma estrema di degrado sociale di cui soffriva l’intera comunità. Forse perché i giovani arrivati a vivere nella nostra città si erano staccati violentemente dai loro genitori ed erano rimasti abbandonati a se stessi: senza nessuna forma di controllo, si erano bruciati dandosi a ogni vizio. E senza l’appoggio dei vecchi, educavano male i loro figli.
I figli maschi degli ucraini infatti avevano una brutta reputazione di mammoni, e di persone incapaci di fare qualcosa di utile per sé о per gli altri. A Bender nessuno si fidava di loro perché avevano l’abitudine di raccontare un sacco di bugie per farsi belli, ma lo facevano con tale goffaggine che nessuno poteva cascarci: ci limitavamo a trattarli come dei poveri scemi. Alcuni di loro hanno persino tentato di prosperare inventandosi delle leggi inesistenti: ad esempio che un fratello poteva costringere la sorella a prostituirsi. Lo sfruttamento della prostituzione era da sempre considerato un reato indegno di un criminale: la gente processata per quel tipo di crimine veniva ammazzata in galera; spesso anche in libertà, a dire il vero, ma era raro che uscissero vivi dalla prigione. Gli ucraini non capivano nemmeno questo fatto, giravano per i quartieri della città cercando inutilmente di entrare nei locali: tutte le porte per loro erano sempre chiuse, dato che i soldi che volevano spendere erano guadagnati in maniera indegna. Loro tiravano avanti senza chiedersi niente, creando un distacco sempre più profondo tra la loro comunità e il resto della città.
II quartiere Balka era attraversato da una sola strada, dove c’era il chiosco di un vecchio criminale ucraino di nome Stepan che vendeva sigarette, bevande e ogni tanto qualche droga, di solito roba da fumare. Da lui si potevano comprare anche armi e munizioni provenienti dalle basi militari ucraine, che si procurava con l’aiuto di suo fratello maggiore, militare di carriera.
Stepan era paralizzato a metà, perché una volta aveva bevuto alcol chimico destinato a uso tecnico. Raccontava sempre quel giorno terribile scherzandoci sopra: mentre sentiva che la parte sinistra del suo corpo stava per perdere la sensibilità — diceva — aveva fatto in tempo a spostare il suo «membro onorario» sul lato destro, salvandolo.
10 mi fermavo spesso a fare due chiacchiere con lui, perché mi faceva piacere vedere come riusciva a mostrare la sua voglia di vivere e il suo buon umore anche nella sua abbastanza disperata situazione. Restava seduto tutto il giorno sulla sedia a rotelle, sotto un grande ombrellone, davanti al chiosco, a parlare con la gente che passava. Aveva una figlia — forse l’unica brava ragazza che c’era in quel quartiere — che lo accudiva, e che studiava per diventare architetto. Sua moglie lo aveva lasciato poco prima che lui rimanesse paralizzato; era scappata con il suo amante, un infermiere giovane. Io rispettavo Stepan per il semplice fatto che era riuscito a educare sua figlia rimanendo se stesso, una persona semplice e ignorante, ma a giudicare dai risultati una brava persona, capace di trasmettere la sua bontà naturale agli altri.
11 suo chiosco era sempre aperto, di giorno lo gestiva lui, ogni tanto con l’aiuto della figlia, di notte c’era il suo fedele aiutante, un ragazzo di nome Kiril, che tutti chiamavano «Nixon» perché era fissato coi presidenti americani. Molti dicevano che era ritardato, ma io credo che lui semplicemente si prendeva il suo tempo per fare le cose. Stepan lo pagava con cibo e sigarette. Nixon fumava, e lo faceva in modo spettacolare: sembrava un attore. Aveva anche un cane, un bastardino brutto, piccolo e assolutamente antipatico, che con un muso umile e buono ti mordeva le caviglie quando meno te l’aspettavi. Nixon lo chiamava «il mio segretario», о in alcune occasioni «caro signore»; altro nome, quel cane non aveva.
Se attaccavi discorso con Nixon, lui prendeva a parlare male dei comunisti, diceva che volevano distruggere il suo Paese, li chiamava «sporchi terroristi», sosteneva che non si fidava di nessuno tranne che del suo «segretario», che in quelle occasioni dimostrava la sua fedeltà sbattendo contro la gamba del padrone la sua piccola coda schifosamente spelacchiata.
«Gli arabi hanno rotto i coglioni, — diceva, — e Fidel Castro bisognerebbe ammazzarlo ma è impossibile. E lo sai perché? Quello si è nascosto in Siberia protetto dai comunisti. A Cuba hanno messo un sosia che non gli assomiglia per niente, perché ha la barba troppo finta e fuma i sigari senza inspirare il fumo».
Nixon era fatto così. «E la bandiera americana lo sai cosa rappresenta? — chiedeva. - Te lo dico io, un comunista morto. Le stelle sono il suo cervello andato in pezzi dopo che gli hanno sparato in testa, e le strisce bianche e rosse sono la sua pelle insanguinata».
Ce l’aveva anche con i neri, diceva che la loro presenza aveva fermato il progresso della democrazia, e confondeva Martin Luther King con Michael Jackson, sostenendo che «era un negro buono, gli piaceva ballare e cantare», ma altri negri lo avevano ucciso solo perché quello un giorno aveva voluto diventare bianco.
Quando ci siamo avvicinati al chiosco, abbiamo trovato Nixon seduto come sempre sulla sua poltrona presidenziale, che giocava a Tetris. Sono uscito dalla macchina per primo, e lui, quando mi ha visto, si è messo a correre verso di me per salutarmi, come faceva con quelli che gli stavano simpatici. L’ho abbracciato e gli ho chiesto di svegliare Stepan, visto che si trattava di una cosa urgente. Lui allora si è subito messo a correre verso casa sua, che era a poche decine di metri da H.
Va detto che Nixon non sopportava la presenza del mio amico Mei: per motivi inspiegabili diceva che era una spia, una volta gli aveva anche dato due botte con una spranga, perché era spaventato a morte da lui. Cosf avevo detto a Mei di restare in macchina e di non farsi vedere, per non creare casini nel cuore della notte. Però, mentre Nixon era andato a chiamare Stepan, Mei era uscito dalla macchina per fare i suoi bisogni nei cespugli vicini. E mentre Mei urinava, pro-ducendo un rumore simile a quello di una seria cascata, Nixon è arrivato, spingendo la sedia a rotelle dov’era seduto Stepan, ancora mezzo addormentato.
Siccome io conoscevo Stepan meglio degli altri, a parlare con lui sono rimasto solo io, insieme a Muto; gli altri aspettavano nelle macchine о bevevano birra davanti al chiosco.
Stepan doveva aver capito che era in gioco una cosa importante, perché non scherzava come al solito. Mi sono scusato per averlo svegliato a quell’ora, e gli ho raccontato la nostra triste storia. Mentre parlavo vedevo la metà viva della sua faccia diventare una specie di maschera, come quelle che usano i giapponesi per rappresentare i loro demoni.
Era arrabbiato. Quando ho accennato alla ricompensa, lui ha fatto un gesto di disprezzo con la mano e ha detto che aveva qualcosa da darci. Ha chiamato Nixon e gli ha dato un ordine: quello è sparito ed è tornato dopo qualche minuto con una scatola di cartone tra le mani. Stepan me l’ha passata, dicendo che lui era una persona umile e povera e non poteva darci niente di più, però nel suo piccolo questa era la cosa più bella e utile che avesse.
Ho aperto la scatola: dentro c’era una Steckin con silenziatore e stabilizzatore, e sei caricatori pieni. Un’arma magnifica e abbastanza cara: l’unica pistola fatta in Urss che potesse sparare a raffica, con venti colpi nel caricatore.
L’ho ringraziato e gli ho detto che se lui era d’accordo gliela pagavo volentieri, ma Stepan ha rifiutato dicendo che andava bene cosi, purché raccontassi del suo gesto ai nostri vecchi. Mi ha promesso che avrebbe tenuto le orecchie aperte, e che se sentiva qualcosa d’interessante mi faceva sapere subito. Prima di andarmene, ho tentato almeno di pagare quello che avevano consumato i ragazzi al suo chiosco, qualche birra, sigarette e roba da mangiare, ma di nuovo non c’è stato verso. Allora ho infilato un po’ di soldi nella tasca di Nixon, che tutto contento ci ha salutato con la mano come un bambino, mentre noi salivamo sulle macchine.
Duecento metri più avanti ci aspettava Mei, che per evitare lo scontro con Nixon era passato attraverso i cespugli ed era arrabbiato, perché nel buio si era graffiato tutta la faccia.
La pistola di Stepan non la voleva prendere nessuno, perché — come è saltato fuori — ognuno ne aveva già con sé almeno un paio. Allora l’ho presa io.
Ci stavamo avvicinando al Centro, e il buio della notte diventava sempre più trasparente: stava spuntando il giorno, il secondo giorno delle nostre ricerche.
In macchina ho dormito un po’, senza sognare niente di preciso, come se fossi caduto in un vuoto. Quando mi sono svegliato eravamo già in Centro, le macchine erano ferme nel cortile di una casa. Tranne me e Mei, che stava ancora dormendo, i ragazzi erano tutti fuori, parlavano con due persone vicino a un portone.
Sono uscito dalla macchina e mi sono avvicinato agli altri. Ho chiesto a Tomba che stava succedendo e lui mi ha risposto che quei due con cui stava parlando Gagarin erano aiutanti del Guardiano del Centro.
— E cos’hanno detto?
— Che non sanno niente di quello che è successo davanti alle cabine telefoniche. Che non hanno mai sentito parlare di sconosciuti che hanno importunato una ragazza nel loro quartiere.
Poco dopo i due si sono allontanati.
— E allora? — ho chiesto a Gagarin.
— Per loro a questo punto è una sfida, ammettere di non saperne niente è come ammettere di essere fuori dai giochi. Possono anche pagarla cara, se le cose stanno cosi. Insomma, ci hanno chiesto di dargli il tempo per verificare tutto. E di non informare il Guardiano, per ora. Hanno assicurato la loro completa collaborazione. Abbiamo appuntamento per mezzogiorno sotto il ponte vecchio.
Cosi siamo risaliti in macchina e abbiamo deciso di andare a fare colazione in un locale chiamato «Blinnaja» nel quartiere La Riva.
La Riva si trovava nella parte più bella della città, dove c’era un grande parco sul fiume con spiagge e posti dove ti potevi rilassare e trascorrere piacevolmente le ore. I ristoranti, i locali e i night più cari della città stavano tutti IL C’era anche una bisca clandestina, dove si entrava solamente su invito.
Il quartiere era gestito da vari criminali di Bender, ed era una specie di attrazione turistica: veniva molta gente da Odessa, ricchi ebrei e vari commercianti, perché andava molto di moda respirare un po’ di profumo di criminalità esotica. Ma ai veri criminali della città era vietato risolvere questioni personali alla Riva; se qualcuno creava qualche problema о faceva un po’ di casino era solo una sceneggiata fatta apposta per gli ospiti, per fargli credere di essere finiti in un posto malfamato: un modo per farli sentire un po’ in pericolo, giusto per alzargli l’adrenalina. In realtà, nessuno ha mai fatto niente di serio in quel quartiere.
Alla Blinnaja facevano le crepe più buone di tutta la città. Le crepe in Russia si chiamano blinì, e ognuno li fa a modo suo: i più buoni sono quelli dei cosacchi del Don, che aggiungono lievito nell’impasto e poi bruciano velocemente il tutto sulle padelle roventi, unte con il burro, così i blini vengono spessi e molto grassi, croccanti e con un gusto indimenticabile.
Lì alla Blinnaja si mangiavano alla maniera siberiana, con la panna acida mischiata col miele, bevendo tè nero con il limone.
Eravamo abbastanza stanchi, nel locale c’era un po’ di gente, abbiamo ordinato una cinquantina di blini, tanto per iniziare (un russo consuma in media almeno quindici blini alla volta, e quelli come Mel e Gagarin anche il triplo). In tre minuti il piatto era vuoto. Li abbiamo riordinati più volte. Prendevamo il tè direttamente dal samovar fisso sul tavolo, ogni tanto passava il cameriere ad aggiungerci l’acqua. Da noi è così: il tè in molti locali si beve a volontà, ogni persona, indipendentemente da quello che ordina, può bere tanto tè quanto ce ne sta dentro di lui, ed è gratis.
Mangiando e bevendo, abbiamo fatto il punto della situazione. Il morale del gruppo era abbastanza alto, come del resto il nervosismo e il desiderio di giustizia.
— Non vedo l’ora di spezzargli la colonna vertebrale, a quel bastardo che l’ha violentata, — ha detto Muto.
Ho pensato che la nostra situazione doveva essere davvero particolare, visto che era la seconda volta in due giorni che Muto parlava.
E subito dopo ho pensato che eravamo proprio una strana compagnia. Ho pensato alle storie che ognuno di noi aveva alle spalle. Gigit e Besa, soprattutto.
Gigit era figlio di un criminale siberiano e di una donna armena, morta quando lui aveva poco più di sei anni, ammazzata da uno dei suoi fratelli, perché sposando un criminale siberiano aveva offeso il nome della famiglia.
Era un ragazzo in gamba, con un forte senso della giustizia: nelle risse si buttava sempre tra i primi e per questo aveva addosso un sacco di cicatrici. Un paio di volte era rimasto ferito abbastanza gravemente, e una di quelle volte gli avevo donato il mio sangue, che è compatibile con tutti i gruppi: da allora aveva la fissa che eravamo diventati fratelli di sangue e cercava di guardarmi le spalle in ogni occasione, nei momenti di bisogno spuntava sempre. Eravamo amici, ci capivamo con mezza parola. Era uno tranquillo, gli piaceva leggere, con lui si poteva parlare anche di letteratura. Tranquil lo fino a un certo punto, però. Aveva ucciso a martellate un ragazzo del Centro perché quello aveva cercato di abbassar lo agli occhi di una ragazza su cui voleva far colpo, una con cui Gigit aveva avuto un rapporto prima di amore e poi di buona amicizia.
Besa era un vero duro. Aveva un anno meno di me, ma ne dimostrava parecchi di più, perché aveva già molti capel li bianchi. Non era nato nella nostra zona, veniva dalla Siberia. Sua madre, zia Svetlana, era a capo di una piccola banda di rapinatori, con cui faceva tumej, e cioè rapine da una città all’altra. Rapinavano la gente ricca, i politici locali, ma soprattutto i cosiddetti «industriali nascosti»: gente che si occupava di produzione e commercio illegale, legata ai direttori delle grandi fabbriche. Il fatto che fosse una donna a gestire una banda era abbastanza comune in Siberia: le donne con un ruolo criminale sono dette con affetto «mamma», «mamma gatta», «mamma ladrona», e vengono ascoltate sempre; il loro parere è considerato una soluzione perfetta, una specie di pura saggezza criminale.
La madre di Besa era finita parecchie volte in galera, e Besa era nato nel carcere femminile a regime speciale di Magadan, in Siberia. Nato in galera, aveva visto per la prima volta la libertà a otto anni. La sua educazione carceraria era molto evidente, e aveva lasciato un segno indelebile: un bagaglio di rabbia, soprattutto.
Besa non aveva mai conosciuto suo padre. La madre diceva di avere trascorso una notte, per pietà, con un condannato a morte, quand’era stata trasportata con un treno nella prigione di Kurgan. Era stata messa in un blocco speciale, e appena arrivata in cella aveva ricevuto una lettera dalla cella vicina: un giovane ragazzo soprannominato «Besa», che significa «diavoletto», le chiedeva di passare la notte con lui. Per compassione e una specie di solidarietà criminale, la donna aveva accettato la richiesta del condannato a morte, e dopo aver pagato le guardie era stata portata nella sua cella. Era rimasta incinta. Trascorso qualche mese, attraverso la posta segreta dei carcerati aveva saputo che il padre biologico del figlio che portava in grembo era stato giustiziato una settimana dopo il loro incontro. Così aveva deciso di dargli il suo nome. Di quell’uomo sapeva solo che era un assassino di poliziotti, che era bello e aveva molti capelli bianchi, e Besa doveva averli ereditati, perché — come diceva sua madre — «somigliava al padre come Adamo al Dio creatore».
Da quando lo conoscevo, Besa aveva una fissa. In prigione dov’era cresciuto aveva sentito da qualche altro bambino la storia della stella del Cremlino, quella sopra la torre principale, dove c’è anche il gigantesco orologio. Secondo il racconto, quella stella pesava cinquecento chili ed era d’oro massiccio, ma ricoperta per prudenza di vernice rossa. Tra i bambini dei criminali, e soprattutto nelle carceri minorili, girano un casino di storie simili: sempre su un tesoro molto grande, nascosto in qualche posto famoso, sotto gli occhi di tutti, eppure difficilissimo da rubare; ma se ce la fai, sei a posto per sempre. La storia dei diamanti che la zarina Caterina II avrebbe nascosto nel Ponte della speranza a Mosca, insieme al corpo della sua governante, uccisa da lei stessa perché voleva rubarglieli. La storia dell’armatura d’oro del cavaliere Elja di Murom, sepolta sotto il monumento allo zar Alessandro III in un monastero vicino a Mosca.
Tutte ’ste favole venivano raccontate per far passare il tempo e per inventare qualche mistero, ma sempre legato all’attività criminale, in modo che nessuno potesse dire alla fine che era stata una perdita di tempo. Perché dopo due ore d’intrighi tra la borghesia, di descrizioni della vita al palazzo dello zar, di guerre, eroi, cavalieri, fantasmi, ladri misteriosi e omicidi eseguiti con tecniche sofisticate, c’era comunque sempre un tesoro da rubare: un tesoro che aspettava so lo che qualcuno lo andasse a prendere.
Dopo un racconto simile, nove volte su dieci gli ascoltatori chiedevano:
«Scusa, ma perché tu che sai questo segreto non lo sfrutti? Perché non metti le mani su quel tesoro?»
La risposta più spettacolare in genere era:
«Sono un criminale onesto, mi basta che mi offriate da fumare per questo racconto».
Tutti offrivano qualcosa e poi cominciavano a progettare il modo di recuperare il tesoro distruggendo i monumenti dell’architettura nazionale. Besa non faceva eccezione: anche lui aveva messo a punto un piano per smontare la stella dalla torre del Cremlino. Ogni tanto tornava su quel piano per migliorarlo un po’: ad esempio prima non sapeva neppure che nel Cremlino non si poteva entrare liberamente, e quando l’ha scoperto (grazie a me) ha deciso di falsificare i documenti delle guardie, sequestrare cinque sorveglianti prima che si presentassero sul posto di lavoro e poi entrare nel Cremlino travestiti da guardie. In un primo tempo aveva pensato di smontare la stella con una gru, che intendeva rubare in qualche cantiere. Poi ha deciso di rischiare: l’avrebbe tagliata a mano, legata a delle corde, e quindi l’avrebbe fatta cadere giù (tanto a noi non ce ne fregava niente dell’estetica, dopo la facevamo a pezzi lo stesso, per ricavarne oro), infine l’avrebbe raccolta da terra e caricata in macchina, per uscire dal Cremlino. Per evitare che la stella cadendo facesse troppo rumore bisognava — secondo il piano di Besa — coprirla con tanti stracci.
Besa non smetteva mai di preparare questo colpo del secolo, e noi avevamo l’onore di essere inseriti in questo suo progetto come aiutanti. Ne parlava seriamente, e data la particolarità della sua personalità infiammabile nessuno di noi osava contraddirlo.
Intanto, noi continuavamo la nostra umile attività criminale senza fare colpi del secolo, per il momento ci accontentavamo di partecipare a qualche piccolo traffico e cercavamo di tenere Besa sempre nella fase creativa del suo progetto, per non farlo arrivare mai alla fase decisiva, guai a quella esecutiva. Però negli ultimi tempi lui era abbastanza nervoso, perché secondo me cominciava ad accorgersi che noi non avevamo tutta ’sta voglia di fregare la stella del Cremlino.
Fuori dalla Blinnaja, con le pance piene, abbiamo deciso di dividerci. Gagarin andava in macchina con Tomba, Gatto e Gigit a girare per i locali e a parlare con i criminali del quartiere, mentre io, Mei, Muto e Besa avremmo fatto visita a un vecchio amico di mio padre, zio Fedja, che aveva una mega discoteca dall’altra parte della città e sapeva tutto di tutti, e addirittura poteva raccontarti fatti non ancora accaduti, usando la sua sensibilità criminale e la sua conoscenza della natura umana.
Zio Fedja era quello che nella comunità criminale chiamano «Santo». E una definizione di estremo rispetto. Il Santo è una persona che vive secondo regole molto severe di autocontrollo e che cerca, in ogni ambito della sua esistenza, di essere un esempio perfetto d’ideologia criminale. Il Santo vive staccato da tutti, come una specie d’eremita, ed esattamente come le autorità anziane non ha niente di suo, non può possedere nulla: anche i vestiti che indossa non sono suoi, ma un dono degli altri criminali. Ma a differenza delle autorità non ha nessun potere reale sugli altri criminali, a cui si limita a mostrare la sua vita, vissuta nel pieno rispetto delle regole criminali.
Il Santo manda tutti i suoi guadagni in galera: solo lui può distribuire le offerte direttamente a singoli detenuti senza ricorrere aiì’obscak, cioè la cassa comune dei criminali. Cosi i detenuti sono ancora più sicuri di ricevere gli aiuti. Spesso infatti il gestore dell'obscak ha difficoltà ad accontentare tutti, soprattutto nelle grandi prigioni dove ci sono più di trentamila persone e la struttura è divisa in centinaia di blocchi: è vero che in quei casi il gestore divide la cassa tra i suoi vari aiutanti, nelle diverse celle, ma è anche vero che spesso gli aiutanti non sono d’accordo tra loro e nascono delle discussioni e per questo a volte molta gente rischia di rimanere senza un aiuto materiale. A quel punto è sempre il Santo che li sostiene, perché con il suo ruolo può passare oltre qualunque tipo di conflitto interno.
Il Santo non ha nessun diritto di giudicare gli altri criminali e deve rimanere neutrale in tutti i conflitti, ma può contribuire a risolverli comunicando con tutte le parti, senza farsi coinvolgere. Però, a differenza delle autorità anziane, può toccare i soldi e compiere dei crimini personalmente.
Non si può diventare Santo per propria volontà: è un ruo lo che, come tutti i ruoli nella comunità criminale, ti viene dato sulla base delle tue capacità e delle tue doti particolari.
Quelli dei Santi sono gli incarichi più rari in assoluto nella comunità criminale: di fatto sono loro a gestire il più grande giro di denaro. Sono loro a raccogliere i soldi da tutte le comunità e a mandarli nelle prigioni in contanti, о sotto forma di aiuti materiali. Per questo motivo i Santi sono molto protetti.
In tutta Bender c’erano stati solo tre Santi. Il primo, nonno Dimjan detto «Colbacco», è morto di vecchiaia alla fine degli anni Ottanta, ed era un siberiano del nostro quartiere. Il secondo, zio Kostja detto «Bosco», anche lui del nostro quartiere, è rimasto ucciso in una grande sparatoria tra criminali e poliziotti a San Pietroburgo all’inizio degli anni Novanta. Il terzo era appunto zio Fedja, l’ultimo Santo di Bender.
Era una persona solare e molto positiva, sembrava più un monaco che un criminale. Da giovane aveva ammazzato tre poliziotti ed era stato condannato a morte, ma poi la condanna era stata commutata in ergastolo. Dopo trent’anni di carcere a regime speciale lo avevano rilasciato, giudicandolo un «soggetto idoneo al reinserimento nella società». Aveva più di cinquant’anni, a quel punto. Presto è diventato un Santo. Gestiva vari traffici e aveva un gruppo di criminali a lui fedeli, quasi tutti siberiani; vivevano insieme nella stessa casa, senza famiglie: erano completamente al servizio del mondo criminale, aiutavano la gente in galera e quella appena liberata, sostenevano le famiglie dei criminali morti e di quelli anziani. Per guadagnare, gestivano una serie di locali.
Se succedeva qualcosa in città, potevi star certo che gli uomini di zio Fedja lo sapevano. Erano anche in contatto con i carcerati rinchiusi nelle galere più lontane, persino in Siberia, e avevano la possibilità di ottenere le informazioni necessarie in pochissimo tempo.
Data la loro posizione nella nostra società, ritenevo molto importante metterli al corrente di quello che era accaduto. Anche se non avrebbe portato a niente di decisivo per le nostre ricerche, era pur sempre un segno di rispetto da parte nostra, grazie al quale potevamo sperare in un aiuto secondario, a livello di logistica о di elaborazione delle informazioni.
Così, siamo arrivati a casa del Santo. Era una specie di condominio, con un cortile e un bel giardino pieno di tavolini e panchine. Secondo l’antica tradizione, il portone era sradicato e buttato a terra, proprio davanti all’ingresso, come segno che quella casa era aperta a tutti: infatti c’era sempre qualche ospite, la gente veniva da tutte le parti dell’ex Urss a trovare il Santo e i suoi amici.
Anch’io ero stato spesso ospite in quella casa, perché mio padre era un buon amico di zio Fedja, avevano fatto degli affari insieme e avevano la stessa passione per i colombi. Mio padre gli regalava dei colombi perché lui non poteva comprare niente per sé: il Santo li teneva li ma diceva che erano di mio padre, e se parlando mi scappava un complimento a uno dei «suoi» colombi, zio Fedja mi correggeva sempre, dicendo che quei colombi non erano suoi, e che li teneva lui solamente perché a casa nostra non c’era posto.
Zio Fedja era come al solito sul tetto, dove teneva, in una costruzione apposita, «i colombi di mio padre». Mi ha visto e mi ha fatto cenno di salire, io gli ho indicato la mia compagnia e lui ha ripetuto il gesto, invitandoci tutti su. Siamo entrati in casa e abbiamo fatto tre piani di scale, salutando tutte le persone che incontravamo, finché non siamo arrivati alla porta che dava sul tetto. Prima di aprirla ci siamo tolti le armi che avevamo addosso, lasciandole sulla mensola dove c’era il secchio con il cibo per i colombi. Secondo la regola è vietato presentarsi davanti a un Santo armati. Neanche con un coltello, ed è importante sottolinearlo: perché di solito il coltello è trattato come un oggetto di culto tipo la croce, che va portata sempre addosso; eppure anche il coltello dev’essere lasciato da parte quando s’incontra un Santo, per rimarcare la posizione di ogni criminale rispetto al suo potere, che è più grande di quello della forza e del denaro.
Mentre lasciavamo le pistole e i coltelli, Mei mi ha visto posare sulla mensola la Nagant di nonno Kuzja. Ha fatto una faccia tutta stupita, perché di solito Mei sapeva sempre se io avevo un’arma nuova, e scoprire che non gliel’avevo mostrata prima gli ha fatto venire un crampo. Era quasi offeso, quando mi ha chiesto dove l’avevo presa.
— Te lo racconto dopo, — gli ho detto, — è una storia lunga.
Mi sono accorto che il suo unico occhio mi guardava con sommo disprezzo.
Ho aperto la porticina e finalmente siamo saliti per la stretta scala che portava al tetto. Zio Fedja era H, in mezzo ai colombi che stavano becchettando dei chicchi di grano, e teneva in mano una coppia di colombi. Ho notato che erano di razza Baku, quindi volavano e soprattutto «picchiavano» bene, cosi chiamiamo il modo che hanno i maschi di alcune razze di mostrare la loro agilità per attirare l’attenzione delle femmine.
Abbiamo salutato zio Fedja, i miei amici si sono presentati. Come vuole la tradizione, prima dovevo parlare un po’ di cose che non c’entravano niente con la nostra visita: non è solo una regola formale, lo si fa anche per capire lo stato d’animo dell’altro e vedere se quello è il momento giusto per discutere la questione che ti sta a cuore. Così gli ho chiesto della sua salute, ho parlato un po’ di colombi, finché lui non mi ha domandato cosa mi aveva portato lì.
— Sono venuto per una «parolina», — gli ho risposto.
Nei discorsi, soprattutto con persone importanti del mondo criminale, si usa parlare con ironia dei problemi che devi risolvere con il loro aiuto. Allo stesso modo anche le autorità non affrontano mai discorsi sulla loro vita о su qualche questione personale come se fossero cose della massima importanza: trattano se stessi con leggerezza e umiltà. Ad esempio, se chiedi a un criminale come vanno i suoi affari, lui ti risponderà in maniera ironica che i suoi affari sono tutti sot-to indagine da parte della Procura, e che lui si occupa solo di inezie, sciocchezze, cose da nulla.
Per questo ero costretto a presentare il nostro problema con un po’ d’indifferenza, dicendo che ero venuto per una «parolina», una cosa di nessun peso, poco importante.
Lui mi ha sorriso, e mi ha detto che sapeva già tutto. Mi ha chiesto di raccontargli come stavano andando le nostre ricerche. In breve, senza entrare troppo nei particolari, gli ho spiegato la situazione; lui ascoltava tranquillo, con pazienza, ma ogni tanto gli scappava un respiro pesante.
Quando ho finito è stato immobile per un po’, a pensarci su, poi improvvisamente ha detto che era meglio se scendevamo sotto a prendere un cifir seduti attorno al tavolo, perché «difficilmente la verità si trova stando in piedi».
Siamo scesi con lui, al tavolo c’erano già due vecchi criminali che zio Fedja ci ha subito presentato: erano suoi ospiti, venivano da un piccolo villaggio siberiano sul fiume Amur.
Ha avuto inizio la cerimonia del tè.
Zio Fedja si è messo personalmente a preparare il cifir. Aveva tutti i denti scuri, quasi neri: segno inconfondibile dei consumatori appassionati di cifir. Dopo aver scaldato l’acqua sulla stufa a legna, ha tolto il cifirbak dal fuoco, l’ha messo sul tavolo e ci ha buttato dentro un intero pacchetto di tè di Irkutsk.
Aspettando che il cifir fosse pronto, zio Fedja ha raccontato la nostra storia ai suoi ospiti, che lo ascoltavano con tristezza. Uno dei due, un uomo grande e grosso con la faccia tatuata, ogni volta che sentiva nominare Ksjusa si faceva il segno della croce.
Zio Fedja ha versato il cifir nel bicchiere, ha bevuto tre grossi sorsi e l’ha passato a me. Era forte e bollente e «prendeva» bene: si dice cosi quando il cifir fa subito effetto, dando una leggera sensazione di aria in testa. Abbiamo fatto girare il cifir tre volte; Mei ha bevuto l’ultimo sorso, poi ha lavato il bicchiere, come chiede la tradizione.
Alla fine zio Fedja ha messo sul tavolo un piatto pieno di caramelle, perfette per stemperare il forte gusto di cifir che rimaneva in bocca. Le mie preferite erano quelle al gusto di kljucva, una bacca molto acida che cresce su piccoli cespugli nel nord della Russia, esclusivamente nelle zone paludose. Mangiando le caramelle, abbiamo ripreso a parlare.
Zio Fedja ha detto che chi gestiva i suoi locali sapeva già tutto, e che se fosse saltata fuori qualche notizia interessante alla «Gabbia» — che era la più grande e spettacolare discoteca della città, frequentata da tantissima gente — di sicuro lui ce l’avrebbe comunicato immediatamente.
Poi ha messo sul tavolo il suo personale contributo alla causa. Uno dei suoi ospiti l’ha subito imitato, portando un pacco di dollari, ben diecimila; senza dire niente, il gigante siberiano con la faccia tatuata che si chiamava «Zoppo» ne ha aggiunti altri cinquemila.
Zio Fedja ci ha dato anche un paio di dritte: ci ha consigliatoci ripassare dal quartiere Barn.
— E difficile fare un discorso onesto con quella gente, meglio la politica del terrore, — ha detto strizzandomi l’occhio.
— Insomma, se ti scappa qualche colpo, se qualcuno di loro per caso ci rimane secco, non sarà un male, tanto si ammazzerebbero lo stesso tra di loro, prima о poi. Se gli metti paura invece cominceranno a muoversi seriamente, e chissà, in mezzo all’immondizia che abita lì forse troveranno il vostro uomo.
Poi ci ha consigliato di fare più pressione sulla gente del Centro, perché in fondo una parte della colpa ce l’aveva anche chi abitava H, se la ragazza era stata violentata nel loro territorio. Secondo lui (e gente come lui sbagliava raramente), tutti i responsabili del Centro potevano tranquillamente «scrivere le lettere a casa», cioè prepararsi a un violento scontro con l’ignoto.
Zio Fedja non ha approvato la generosa decisione di Gagarin di dare mezza giornata ai ragazzi del Centro per raccogliere informazioni all’insaputa del Guardiano.
— Per amore di Gesù Cristo, — ha commentato, — ma che c’importa se il Guardiano se la prende con loro? Farebbe so lo bene, perché sono degli incompetenti. Questa gente del Centro pensa solo a saltare sulle donne e a giocare a carte, si vestono come delle scimmie, sembrano zingari da quanto oro hanno addosso, e poi, quando nella loro zona succede qualcosa, rimangono con la merda tra le gambe a puzzare davanti a tutta la città… No, voi adesso andate direttamente dal Guardiano e gli dite che se lui non vi porta entro stasera quei deficienti che hanno combinato casino nella sua zona, mentre lui e i suoi dormivano, voi informerete della cosa tutte le autorità… Vedrete che ve li porteranno su un piattino con il bordo azzurro, vedrete…
Mentre diceva tutte ’ste cose, io già m’immaginavo la scena. Neanche voleva riceverci, il Guardiano del Centro, figuriamoci se potevamo arrivare a rimproverarlo e minacciarlo. Però, come diceva sempre la buonanima di mio zio, «chi non rischia, non beve champagne».
Ringraziando zio Fedja per l’accoglienza, i preziosissimi consigli e i soldi per aumentare la taglia, siamo andati a ricongiungerci al resto del nostro gruppo per pianificare l’appuntamento con la gente del Centro.
Il ritrovo con gli altri era al bar del vecchio Prugna, un criminale che da tanto tempo non partecipava più a nessuna attività e gestiva solamente il suo bar, cioè stava sempre seduto a un tavolino, a bere о mangiare qualcosa, mentre due giovani ragazze, le sue nipoti, lavoravano.
Prugna in città era famoso per la vita difficile e piena di dolori che aveva avuto. Non veniva da una famiglia criminale: i suoi genitori erano persone istruite, intellettuali, il padre faceva lo scienziato nel campo delle ricerche chimiche, e la madre insegnava letteratura all’università di Mosca. Alla fine degli anni Trenta, quando il regime di Stalin aveva scatenato un’ondata di terrore, i suoi erano stati arrestati e proclamati nemici del popolo. Il padre lo avevano accusato di avere rapporti con spie americane e inglesi, la madre di propaganda antisovietica. Tutta la famiglia, compresi i due bambini — Prugna, che a quel tempo aveva dodici anni, e la sua sorellina Lesja, che aveva poco più di tre anni —, era stata deportata nel lager di Vorkutà. Li i compagni comunisti, patrioti e costruttori della pace in tutta la terra, praticavano sui prigionieri politici le torture più disumane. Il padre di Prugna, che era molto debole fisicamente, era morto già in treno, per le botte e per via di una forte polmonite. Una volta arrivati a Vorkutà, la madre e i due bambini non erano stati separati, ma solo perché il blocco dei bambini non era ancora stato costruito. Avevano vissuto in quel posto per tanto tempo, vedendo morire molta gente intorno a loro, di freddo, malattie, parassiti, maltrattamenti e denutrizione.
Prugna raccontava che un giorno lui, sua sorella e sua madre erano stati portati in un posto dove operava la cosiddetta «squadra speciale d’indagatori interni»: un branco di macellai che torturavano la gente già condannata, ma non per avere informazioni, per ragioni «rieducative». La madre era stata obbligata a spogliarsi e a svestire i suoi bambini davanti alle guardie, dopo di che quelli avevano cominciato a picchiarla, mettendo i bambini in un angolo e costringendoli a guardare come veniva torturata la loro madre. Poi quegli animali hanno preso Prugna e hanno improvvisato un gioco: gli hanno detto che se la madre non rompeva con le sue mani il mignolo della sorellina, loro avrebbero rotto tutte le dita a lui, una a una. In un lungo e terribile processo di tortura, gli hanno rotto ben sei dita davanti alla madre. Lui raccontava che era terrorizzato e che continuava a urlare che non ce la faceva più, e che a un certo punto la madre, in una crisi di pazzia e disperazione, aveva preso la piccola Lesja, che teneva tra le sue braccia, e le aveva sbattuto la testa contro il muro. Poi aveva tentato di uccidere anche lui, ma gli sbirri erano riusciti a fermarla e l’avevano picchiata brutalmente. Non sarebbe mai più uscita viva da quel blocco.
Prugna era stato buttato fuori, sulla neve, a crepare al freddo, con le dita rotte e mezzo morto. Lui diceva che sperava solamente di morire il più presto possibile, e per questa ragione aveva cominciato a mangiare la neve, per congelarsi più in fretta. Vicino a quel posto in quel momento lavorava un gruppo di prigionieri comuni, criminali, che tagliavano la legna per le costruzioni delle baracche che servivano ad allargare il lager. Quando hanno visto quel bambino nella neve l’hanno raccolto e preso sotto la loro custodia. Le guardie hanno chiuso un occhio perché i prigionieri comuni nei lager — almeno all’inizio, prima che il sistema penitenziario sovietico diventasse una specie di meccanismo perfetto, una catena industriale — venivano trattati diversamente da quelli politici, l’amministrazione li temeva perché erano uniti e mol-to organizzati, e volendo potevano provocare delle vere e proprie rivolte.
Così Prugna è andato a vivere con quelli nelle baracche. Uno di loro gli ha fatto guarire le dita rotte mettendogli delle stecche di legno morbido, e fasciandole accuratamente. I criminali da quel giorno si sono presi cura di lui, l’hanno educato. L’hanno chiamato «Prugna» per il colore della sua faccia, che era sempre blu perché lui aveva sempre freddo.
A quindici anni Prugna è diventato «esecutore» della banda che lo aveva trovato e accolto. All’interno del lager era cominciata una guerra tra criminali: quelli che sostenevano le vecchie autorità — tra cui gli amici di Prugna — e quelli che si autoproclamavano nuove autorità e proponevano delle nuove regole. Questi ultimi erano in maggioranza, arrivavano dalle classi sociali più basse e appartenevano alla generazione degli orfani di guerra; rappresentavano insomma una realtà criminale mai vista prima, lì come in tutta la Russia, dov’erano rispettate caratteristiche come l’ignoranza, la ferocia, l’assenza di leggi morali. Di notte, Prugna e i suoi entravano nelle baracche degli zijani — i criminali giovani e spregiudicati — e li ammazzavano, accoltellandoli nel sonno. Prima che quelli potessero realizzare che cosa stava succedendo, avevano già fatto fuori metà della baracca.
Prugna ha ucciso tante persone; la sparo grossa, ma credo che forse si è salvato proprio per questo. Forse in quel modo, nonostante il gravissimo trauma infantile, è riuscito a restare sano di mente dando sfogo alla sua rabbia.
E stato in tante galere e ha vissuto tanto tempo anche da uomo libero, facendo sempre l’esecutore criminale. Ha sposato una brava donna, ha avuto tre figli e due figlie. Sulla mano destra, dove gli avevano rotto le dita, portava tatuato un teschio con il cappello da poliziotto. Sulla fronte una scritta, «Az vozdam», che in antica lingua russa significa «Mi vendicherò».
Non so se si è vendicato, ma non ha fatto altro che uccidere poliziotti. Aveva una collezione sterminata di distintivi degli agenti di polizia e delle forze dell’ordine che aveva fatto fuori in tutta la sua carriera: li teneva su un grande comò, nell’angolo rosso di casa sua, sotto le icone, dove c’era anche la foto della sua famiglia con una candela sempre accesa davanti.
L’ho vista coi miei occhi, quella collezione. Era impressionante. Tantissimi distintivi di tutti le epoche, dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Ottanta, alcuni sporchi di sangue, altri bucati dalle pallottole. C’erano proprio tutti: poliziotti dei distretti delle varie città della Russia, gruppi speciali di lotta contro la criminalità organizzata, agenti del Kgb, polizia penitenziaria, agenti della Procura.
Prugna diceva che erano più di dodicimila, e che non sempre però era riuscito a recuperarli. Ricordava tutto di ognuno con precisione totale: come e quando lo aveva ucciso. Mentre io li guardavo, lui non smetteva di ripetermi:
«Fissale bene, figliolo, queste facce di assassini… Le lacrime umane non cadono mai per terra, il Signore le raccoglie prima».
Diceva che aveva ordinato alle sue figlie di mandare, dopo la sua morte, quei distintivi al ministero degli Interni a Mosca, accompagnati da una lettera che aveva scritto e riscritto per tutta la vita.
Me l’ha fatta vedere, quella lettera: più che una lettera era un intero quaderno, dove raccontava un po’ di tutto, la sua storia, le ragioni della sua rabbia, il suo modo di capire il mondo. Alla fine rivelava i posti dove aveva nascosto alcuni cadaveri di poliziotti, e scriveva che stava facendo un atto generoso, perché cosi i morti potevano avere la loro tomba, e anche se erano passati tanti anni i loro famigliari sapevano dove andare a piangerli, quando a lui invece non era stata data la possibilità di piangere sulla tomba di suo padre, di sua madre e di sua sorella.
In una sezione di quel quaderno c’erano le sue poesie, molto semplici, ingenue, in qualche modo grezze, se non consideravi la storia che avevano dietro. Ne ricordo una dedicata alla sorellina, a Lesja, forse la più lunga di tutte. La chiamava «innocente angelo del Nostro dolce Signore», diceva che lei sorrideva come «sorride il cielo dopo la pioggia», che i suoi capelli «brillavano come il sole» e avevano il colore di «un campo di grano che chiede di essere raccolto». Raccontava con parole semplici e affettuose, senza seguire regole di rima, quanto le voleva bene, e le chiedeva perdono per non essere riuscito a resistere, quando i poliziotti gli rompevano le dita, perché era «piccolo, solo un bambino che aveva paura del dolore, come tutti i bambini». E le diceva che quello della madre, quando le aveva sbattuto la testa contro il muro, era stato «il gesto generoso di una madre affettuosa che diventa disperata, lo so che tu la capisci e che adesso siete insieme in Paradiso con Nostro Signore».
Da quella poesia si capiva quanto semplice e in molte cose primitiva era l’anima di Prugna, e quanto a suo modo bella e generosa.
Adesso che era vecchio e che sua moglie era morta, Prugna soffriva di solitudine. Al bar cercava sempre la compagnia degli altri, raccontava la sua vita, mostrava il ritratto a grandezza naturale della sua famiglia che teneva li.
Mi piaceva chiacchierare con lui, era sempre pronto a condividere la sua saggezza e a insegnarmi qualcosa.
E stato grazie a lui che ho imparato a sparare bene con la pistola, certo prima mi avevano insegnato mio padre, mio zio e mio nonno, ma io ero troppo magro, e avevo la mano piccola e delicata, così quando sparavo non riuscivo a controllare bene l’arma, la stringevo troppo. Lui mi ha portato sul fiume, dove si poteva sparare tranquilli nell’acqua, sicuri di non far male a nessuno, e mi ha detto:
«Rilassa la mano, ragazzo».
Usavamo la Tokarev 7,62, una pistola abbastanza grossa e potente, ma ben equilibrata e con poco ritorno della forza di sparo nella mano. Più tardi mi ha anche insegnato a sparare con il metodo macedone, molto utile per usare due pistole contemporaneamente, anche in movimento.
Insomma, da lui andavo spesso e volentieri. Anche perché sua nipote era una mia cara amica, e faceva le torte di mele più buone di tutta la città.
Quando siamo arrivati al bar di Prugna, i nostri amici non c’erano ancora. Lui era come sempre al suo tavolo, stava bevendo un tè con la torta e leggeva un libro di poesie. Appena mi ha visto l’ha messo da parte e mi è venuto incontro per abbracciarmi:
— Figliolo, come stai? L’avete preso?
Sapeva già tutto, e ho pensato che era meglio cosi: almeno evitavo di raccontare di nuovo quella storia che mi faceva un casino di male quando si traduceva in parole.
Gli ho detto che stavamo ancora cercandolo, il responsabile, e lui subito mi ha proposto aiuto, soldi e qualche ferro.
Gli ho risposto che ne avevamo già raccolti fin troppi, di soldi, e forse anche di ferri. Ma, come dicono in Siberia, «per non offendere la vecchia tigre sorda, bisogna camminare facendo un po’ di rumore», e allora ho aggiunto:
— Però, se spargi la voce tra i tuoi clienti e tieni le orecchie aperte, può essere utile. E anche la torta di tua nipote con un po’ di tè sarebbe di gran conforto.
Poco dopo eravamo tutti intorno a un tavolo a mangiare la torta e a bere un tè con il limone che era proprio quello che ci voleva dopo il cifir di zio Fedja. E quella torta… appena la mordevi ti si scioglieva in bocca.
Abbiamo commentato tra noi i consigli che ci aveva dato zio Fedja. Eravamo tutti d’accordo con le sue parole, e abbiamo capito che se fossimo andati prima da lui avremmo risparmiato un sacco di tempo.
Nel frattempo sono arrivati gli altri: sembravano stanchi, anzi esausti, Tomba sembrava ancora più morto del solito, e guardandolo mi sono accorto che aveva un leggero livido sotto l’occhio sinistro. Erano chiaramente agitati.
— Che è successo? — ho chiesto.
Gagarin ha raccontato che girando per i locali si erano scontrati naso contro naso con i coglioni di cui ci aveva parlato Mino. Erano in sette, e avevano un fuoristrada nero con targa ucraina. - Gli abbiamo chiesto di parlare, — ha detto, — e per tutta risposta ci siamo beccati una serie di spari. Uno di loro ha anche colpito Tomba in faccia con un affare giapponese.
— Con che? — ha chiesto Besa.
— Ma si, con una specie d’attrezzo da combattimento. Sapete, quelli dei film di arti marziali, quelli che si girano velocissimi tra le mani… Vabbe’, insomma, quando sono ripartiti abbiamo cercato di fermarli, abbiamo sparato sulla macchina, ma è stato inutile…
— Uno però l’ho colpito in testa, potrei giurarci, — ha aggiunto Gigit.
— La Ruota è arrivato con la macchina, ma era troppo tardi, il fuoristrada era già sparito, — ha detto Gagarin. - Allora mi sono fermato in una cabina e ho chiamato casa, ho chiesto ai nostri vecchi di organizzare posti di blocco in tutti i quartieri, di fermare quella macchina prima che abbandoni la città.
Guardando la triste faccia di Tomba picchiato con un arnese da film d’azione nippoamericano, e ascoltando quel racconto di sparatorie e inseguimenti, per un momento ho pensato che stavamo impazzendo tutti. Poi subito dopo mi è venuta voglia di fare qualcosa, di muovermi, agire. Ma, come diceva sempre la buonanima di mio zio, «la gatta non partorisce quando vuole, ma quando arriva il suo tempo».
Ho raccontato a Gagarin quello che aveva detto zio Fedja.
— Parlando con quei due qualche sospetto l’avevo avuto, — ha detto lui. - Non so, nascondevano qualcosa. Volevano sbarazzarsi di noi, gli serviva prendere tempo per fare qualcosa… Ma cosa?
Abbiamo deciso di andare lo stesso nel luogo dell’appuntamento, sotto il ponte vecchio.
— Però, Gagarin, — ho detto io, — per prudenza forse sarebbe meglio se non ci andiamo tutti. Meglio andare in tre, no? E a piedi, per poter scappare in più direzioni se scoppiano casini…
Gagarin era d’accordo:
— Giusto, ma uno di quei tre devo essere io.
— Meglio di no, — ha detto Mei, — tu sei incaricato dai vecchi, sei il responsabile della missione. Se ti succede qualcosa la situazione diventa solo più grave.
Dopo una breve discussione abbiamo deciso di andare io, Mei e Besa; gli altri dovevano aspettare nei paraggi, pronti ad agire in caso di bisogno.
In macchina abbiamo fatto un piano: io dovevo stare in mezzo e tenere sotto controllo la zona davanti e di sinistra, Mei doveva stare a destra e guardare a destra (anche perché aveva solo l’occhio destro), Besa chiudeva la fila un po’ più indietro e ogni tanto doveva chinarsi ad allacciarsi le scarpe, per verificare la situazione dietro le spalle.
Ci siamo fermati in una stradina vicino al ponte, gli altri sono rimasti ad aspettarci in macchina. Ci siamo disposti come eravamo d’accordo e siamo scesi piano verso il ponte, facendo finta di andare a passeggio.
Apposta, per far innervosire la gente che ci aspettava, eravamo in ritardo di dieci minuti.
Ma quando siamo arrivati sotto il ponte, non c’era nessuno. Abbiamo fatto un giro li intorno, poi siamo tornati alle macchine.
Adesso si che era И caso di andare a trovare il Guardiano del Centro e fargli il discorso proposto da zio Fedja. Era evidente che i suoi due aiutanti avevano fatto qualche grande cazzata, e per questo motivo ci avevano preso in giro.
Volavamo verso il Centro, sembravamo una squadriglia di aerei da guerra. Incazzati neri e con le facce truci, immaginavamo già il casino che sarebbe scoppiato in città, a missione conclusa.
Io e Mei discutevamo persino del destino del Guardiano, come se fosse nelle nostre mani.
— Lo ammazzeranno di sicuro, — diceva Mei. - Non può passarla liscia dopo questa dimostrazione di debolezza. Essere preso per il culo dai tuoi aiutanti è peggio che tradire.
— Secondo me lo abbasseranno solo, — dicevo io. - Sarà costretto a trasferirsi a Barn, dove marcirà fino al giorno in cui qualche coglione non lo ammazzerà per rubargli la catenina d’oro.
Non è molto normale che due minorenni facciano ipotesi sul futuro di un criminale autorevole ed esperto.
Nel mondo criminale è meglio riuscire a evitare di finire in certe situazioni: anche se intorno a te tutto è sbagliato e sei sicuro delle tue ragioni, prima di trasformare le tue decisioni in azioni è bene «farsi trenta volte il segno della croce», come diceva mio nonno.
Essere sulla parte pili alta dell’onda più alta che esiste nel mare è molto bello, ma quanto tempo può durare un’onda del genere? E cosa cavolo succede, quando quella bestia che stai cavalcando ti sbatte giù, come un minuscolo parassita?
Io mi faccio sempre domande cosi, quando sento che si sta avvicinando il momento di salire sopra un’onda grossa e violenta.
Certi criminali, quando intuiscono che la terra sta franandogli sotto i piedi, dimenticano tutte le belle e giuste regole e leggi, e allora comincia a volare il piombo e nessuno può assicurarti niente.
Pensavo che stavamo andando nella zona controllata da un uomo che neanche ci considerava, dato che secondo le sue regole i minorenni non contano nulla: ma che cosa poteva succedere se erano proprio questi minorenni a fargli perdere il suo potere? Non ci avrebbe certo lasciati tornare a casa tranquilli, dopo esserselo preso in culo. Forse avrebbe scatenato una guerra e a noi sarebbe toccato trasformarci da cacciatori in prede. Potevamo sembrare cattivi quanto ci pareva, e persino esserlo davvero, ma se finivamo in dieci contro un quartiere che aveva pure il Guardiano impazzito, che ce l’aveva con noi… beh, quelli ci avrebbero seccato come i maiali a Capodanno, punto e basta.
Arrivati in Centro, abbiamo trovato parcheggiate moltissime macchine davanti al locale dov’eravamo già stati all’inizio del nostro giro. Erano tutti lf, insomma, forse ad aspettarci, forse a discutere tra loro la situazione. Ho percepito dall’aria che tirava, dal vento in faccia, che eravamo già saliti sull’onda.
Uscendo dalla macchina, ho guardato Gagarin. Mi preoccupava il suo stato d’animo, dato che toccava a lui parlare per tutti noi, ed era da lui, da quello che avrebbe detto e da come l’avrebbe detto, che dipendeva il nostro futuro.
Era rilassato, e dal suo sguardo furbo ho capito che aveva un piano.
Non ci siamo detti niente tra di noi, per non fare la figura degli indecisi davanti agli altri che adesso, mentre entravamo nel locale, ci stavano guardando.
Tutta la compagnia del Centro era raccolta intorno a un tavolo a mangiare e bere, con il Guardiano Pavel' in mezzo, che con una faccia arrabbiatissima mordeva con violenza una coscia di maiale fritto, facendo schizzare grasso dappertutto. Vicino a lui c’era il provocatore che ci aveva già insultati l’altra volta: appena ci ha visti si è alzato e si è messo a urlare come un pazzo «Che cazzo volete?», mischiando la domanda con offese varie.
Noi stavamo fermi e quel buffone veniva verso di noi, ogni tanto si girava verso il tavolo per vedere la faccia del suo padrone, per capire se era contento о meno del suo comportamento. Pavel' sembrava indifferente, continuava a mangiare e a fare finta che non esistevamo.
Quando quel pagliaccio si è avvicinato a Gagarin e si è messo a urlargli qualcosa dritto in faccia, Gagarin all’improvviso l’ha preso per il collo (un collo lungo e magro, un collo da tacchino) con la mano sinistra, e con la destra, lentamente, ha estratto di tasca la sua Tokarev.
Stringendo con una mano il collo del tipo, che tentava di colpirlo con i pugni ma non ci arrivava e sembrava un insetto infilzato sull’ago, e nell’altra la pistola, Gagarin non smetteva di guardare Pavel'. Poi ha alzato la mano destra e si è fermato in quella posizione per un attimo: il buffone allora ha cominciato a strillare come un animale ferito, cercava di girare la faccia il più lontano possibile dall’immaginabile traiettoria della mano destra di Gagarin. Ma invano. Perché improvvisamente quella mano ha preso a colpirlo in faccia con la pistola con una forza e una velocità pazzesca. Una raffica di botte.
La faccia del tipo è diventata una ferita unica. Lui è svenuto, con le gambe molli, tenuto ancora per il collo da Gagarin, che continuava a picchiarlo sempre nello stesso punto. Poi Gagarin ha smesso di picchiarlo di colpo come aveva cominciato e l’ha lasciato cadere a terra come un sacco. Dopo dieci secondi ha iniziato a riempirlo di calci. Era un vero massacro.
Quando Gagarin ha finito e si è avvicinato al tavolo dov’e-ra seduto Pavel' (con una faccia da funerale e un pezzo di maiale in gola che non riusciva a mandare giù), mi sono accorto che tutti noi avevamo le armi tra le mani, anch’io.
Gagarin ha agganciato una sedia con il piede, ci si è seduto sopra e senza aspettare che passasse l’effetto della confusione tra la gente del Centro, dovuto al massacro del buffone, ha cominciato a insultare Pavel'. Usava parole molto offensive, gli parlava come si parla a una persona la cui sorte è già decisa.
Era un rischio molto alto, però se il metodo del terrore funzionava, se riuscivamo a seminare il caos tra la gente di Pavel', eravamo a posto. Nessun criminale che si rispetti vuole sostenere un Guardiano che per i suoi sbagli sta per essere rovinato: cosi lo allontanavamo dalla sua gente.
Era una decisione estrema, quella che aveva preso Gagarin, e meno male che non l’aveva condivisa con noi, perché sicuramente quasi tutti saremmo stati contrari, me compreso. Ma siccome eravamo in ballo dovevamo ballare, e ballare bene, anche, altrimenti ci buttavano fuori dalla pista.
11 senso del discorso che Gagarin faceva a Pavel' era semplice: lo rimproverava d’incompetenza, ma soprattutto lo offendeva per abbassarlo agli occhi dei suoi collaboratori.
La cosa stava funzionando, Pavel' aveva cambiato faccia, era diventato molto pallido e anche la sua maniera di stare seduto era cambiata: prima si teneva su con le spalle alte e il petto gonfio, adesso le spalle erano cadute, il petto si era sgonfiato e tutta la sua persona somigliava a una merda secca. Solo gli occhi continuavano a guardare con la stessa rabbia e lo stesso disprezzo di prima.
Gagarin gli ha detto che ci aveva trattati male sin dall’inizio solo perché eravamo minorenni, senza tener conto del fatto che in quel momento eravamo prima di tutto i rappresentanti del nostro quartiere e dell’intera comunità siberiana, che attraverso la nostra missione cercava di risolvere una situazione considerata gravissima da tutte le comunità degne di chiamarsi criminali.
Gli ha detto che aveva comunicato ai nostri vecchi quel lo che era successo quella mattina, e cioè che lui non aveva voluto parlare con noi e ci aveva mandato due suoi aiutanti che si erano dimostrati inaffidabili, visto che ci avevano dato un appuntamento a cui non si erano presentati, mettendo cosi in dubbio la sua stessa autorità. Perché i casi erano due: о lui era un Guardiano che non aveva nessun controllo sulla situazione del suo quartiere, oppure, ed era ancora peggio, cercava di nasconderci qualcosa d’importante.
— Siamo solo interessati a portare a buon fine il nostro compito, — ha detto Gagarin a tutti i presenti, — e non spetta a noi occuparci del resto. Le autorità sono informate e prenderanno le loro decisioni: è questo quello che conta.
Mentre Gagarin parlava, Pavel' lo fissava con una faccia schifata, e a un certo punto è esploso in un accesso di rabbia. Gli ha tirato addosso un fazzoletto sporco, colpendolo in pieno viso, poi si è alzato e ha ripetuto lo spettacolo dell’altra volta: si è strappato la camicia, facendo vedere il petto ricoperto di vecchi tatuaggi e di catene d’oro che scendevano fino all’ombelico, urlando in gergo criminale una valanga di parole che, lasciando da parte parolacce e insulti e offese, grosso modo significavano:
«Ma da quando in qua dei ragazzini possono discutere con i criminali adulti?»
Alla fine si è messo a ripetere sempre la stessa frase:
— Vuoi sparare a un’autorità? Allora sparami!
Gagarin era immobile, e io non riuscivo a capire che cosa stava succedendo nella sua testa.
Mi sono accorto che la gente di Pavel' stava per combinare qualcosa, uno si era allontanato dal tavolo ed era andato verso la cucina. Pavel' intanto continuava a gridare, si è avvicinato, e passandoci in rassegna ha cominciato a urlare in faccia a ciascuno di noi se avevamo ancora voglia di ammazzarlo.
Mei e gli altri stavano fermi e zitti, era molto evidente che non volevano fare un passo falso e aspettavano un ordine о un segnale da Gagarin, che era seduto immobile al tavolo, voltato di schiena.
Quando Pavel' si è avvicinato a me, e ho sentito il suo alito di vino e cipolla uscire dalla sua schifosa bocca insieme alle parole di prima, ho tirato fuori in un attimo dalla tasca della giacca la Nagant di nonno Kuzja. Puntandola contro la grassa guancia di quell’animale, spingendola così forte che la punta della canna annegava nella pelle della sua faccia, deformata dalla sorpresa, ho detto:
— Questa me l’ha caricata nonno Kuzja, hai capito? Ha detto che posso ammazzare chiunque m’impedisca di arrivare a chi ha violentato nostra sorella. Se è necessario, anche un’autorità.
Lui è rimasto immobile e mi ha fissato con occhi pieni di rabbia ma anche di tristezza.
Gagarin si è alzato dal tavolo e ha comunicato a tutti i presenti che stavamo per lasciare il quartiere e che avremmo portato Pavel' con noi, per essere sicuri che nessuno ci sparasse dietro.
Un uomo con la faccia rovinata da una lunga cicatrice che partiva dalla fronte e finiva sul collo, attraversandogli il naso e l’occhio destro, si è alzato e con molta tranquillità ci ha detto:
— Nessuno vi farà niente, eravamo già d’accordo prima del vostro arrivo. Intendevamo denunciare Pavel' alle autorità.
A poco a poco dal suo discorso è venuto fuori che Pavel', con il sostegno di alcuni che erano già stati rinchiusi in un posto sicuro, aveva progettato una serie di omicidi e atti di disordine per scatenare una guerra tra le varie comunità. Il suo fine era prendere il controllo del traffico di alcol, fino ad allora nelle mani di un gruppo di vecchi criminali di diversi quartieri.
Mentre lo sfregiato parlava Pavel' era diventato pallido, e io, che lo tenevo sotto la mia pistola, sentivo attraverso il ferro come lui tremava dentro. Era la fine, per lui: lo aveva capito una volta per tutte.
Lo sfregiato si è presentato come «Pancia». Non avevo mai sentito parlare di lui. Dal suo modo di parlare e di stare in piedi, con la schiena storta e la testa inclinata in avanti, ho capito che era uscito da poco di prigione. Lui l’ha confermato poco dopo: era stato liberato da meno di un mese — ha detto — e ha aggiunto che quand’era dentro molti si lamentavano di come Pavel' sosteneva la prigione. Mandava aiuti solo alle persone scelte da lui, non aveva mai fatto visita a nessuno e aveva incoraggiato delle guerre interne che erano state devastanti. Per questo motivo, su incarico di alcuni criminali anziani, Pancia si era infiltrato nella banda di Pavel' per controllarlo, per tenerlo d’occhio e riferire.
In poche parole avevamo davanti un Vojdot, un esecutore e investigatore criminale che rispondeva solamente alle vecchie autorità, e aveva il compito di scoprire le ingiustizie commesse dalle giovani autorità e dai Guardiani.
Era la prima volta in vita mia che vedevo una persona con quell’incarico, di solito quelli tenevano nascosta la loro identità: del resto nessuno ci assicurava che Pancia era il suo vero nome.
Pancia continuava a raccontare: diceva che Pavel' aveva assoldato un branco di giovani ucraini perché facessero casino. Nell’ultimo mese quelli avevano ammazzato due persone, e nessuno era riuscito a risalire a loro perché tutto era stato organizzato in modo che sembrasse un’aggressione fatta da un altro quartiere, l’inizio di una guerra insomma. Gli stessi metodi usati anni prima dagli sbirri.
Io non credevo alle mie orecchie, mi sembrava di essere in una situazione surreale.
— E Ksjusa, allora, perché l’hanno violentata? — ho chiesto.
— Per divertimento. Perché erano fuori di testa. Senza altre ragioni, — ha risposto Pancia. - La cosa però ha svegliato la vostra comunità, così Pavel' ha cercato di tenerli nascosti, ma quelli sono andati lo stesso a combinare casino in giro.
Li avevano visti tutti, avevano lasciato tracce ovunque. Gagarin e gli altri si erano scontrati con loro, e dopo la sparatoria quelli avevano tentato di fuggire dalla città passando per Balka: Stepan aveva segnalato la loro presenza in quel quartiere, avevano preso dal suo chiosco sigarette e birre senza pagare, riempiendo di botte Nixon che però era riuscito a ferirne uno con la sua spranga di ferro (una bella sorpresa per degli aggressori di disabili). Ma un gruppo di armeni li attendeva all’entrata di Caucaso. Loro avevano provato a passare con il fuoristrada attraverso un orto, investendo un armeno, poi erano finiti in un fiumiciattolo che passava tra Caucaso e Balka.
Tutto questo era successo nel giro di due ore, e ora quei balordi erano in ostaggio degli armeni, che secondo Pancia ci aspettavano.
Pancia diceva che dovevamo andarci insieme, perché a lui serviva che quelli gli confermassero, in presenza di tre testimoni, di essere stati pagati da Pavel': solo così poteva poi portar lo davanti alle autorità anziane, che lo avrebbero giudicato.
— Tenetevi Pavel' finché non siete sicuri che quello che vi ho detto è vero, — ha concluso.
Uno di noi, quindi, doveva cedere il suo posto a Pavel' e andare in macchina con Pancia. Senza lasciare agli altri un momento per decidere, mi sono proposto io.
Siamo finiti su una macchina guidata da un ragazzo del Centro.
— Ma tu desideri proprio tanto ammazzare quella gente? — mi ha chiesto Pancia quando siamo partiti.
Ci ho pensato un po’ su prima di rispondere:
— Non sono un gran assassino, non provo nessun gusto a uccidere. Desidero solo che sia fatta giustizia.
Pancia non mi ha risposto niente, ha solo assentito con la testa e si è girato verso il finestrino. E rimasto così, immobile e in silenzio, finché non siamo arrivati a Caucaso. Mi sembrava colpito da quello che gli avevo detto, ma non riuscivo a capire se era d’accordo о meno.
Una volta arrivati a Caucaso, siamo andati verso la casa di un vecchio armeno di nome Frunzic. Lo conoscevo, era un buon amico di mio nonno, nel 1953 era stato uno degli organizzatori della rivolta armata dei prigionieri dei Gulag siberiani. Aveva avuto una vita ben triste, ma era riuscito a conservare un carattere allegro: anche un piccolo discorso con lui ti lasciava dentro una carica d’energia.
Frunzic ci aspettava in macchina davanti al portone di casa sua con altri tre armeni: ragazzi giovani, uno era persino minorenne. Appena ci ha visti arrivare ha acceso il motore ed è partito davanti a noi, per farci strada.
Ci ha condotto a un vecchio magazzino militare al confine del quartiere, dove cominciavano i campi e un po’ di bosco. Era stato costruito dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e aveva una serie di sotterranei che venivano spesso usati da vari criminali per affari sporchi, quando era necessario fare scorrere un po’ di sangue.
Dentro c’erano una ventina di armeni, tra ragazzi e adulti, tutti armati di fucili e di Kalasnikov. Stavano attorno a un fuoristrada nero decisamente malridotto, con il parabrezza sfondato e senza la portiera destra. A bordo del fuoristrada erano seduti cinque uomini con facce da funerale, e non so per quale motivo completamente nudi.
I loro vestiti erano ammucchiati davanti alla macchina, vicino a due corpi, uno con una ferita sul collo che continuava a sanguinare, l’altro con un buco in testa da dove ormai non usciva più sangue.
Sono uscito dalla macchina subito dopo Pancia e mi sono affiancato ai ragazzi che guardavano con interesse le facce di quei cinque animali ancora vivi.
— Sono tutti nostri, ma prima tocca a Pancia, — ha detto Gagarin.
Non ho fatto in tempo a chiedermi come Pancia li avrebbe fatti parlare che ho visto Pavel' cadere a terra, colpito da un calcio fortissimo.
Lì a terra Pavel' mi è sembrato un essere pietoso. Mi ha ricordato un ragazzino grasso che una volta abitava nel nostro quartiere: si muoveva goffamente non tanto per il suo peso, ma per il suo carattere debole; era convinto di essere quasi un disabile e appena aveva l’occasione cadeva a terra, a volte apposta, per attirare l’attenzione degli altri e piangere e lamentarsi del suo stato fisico. Qualche anno dopo, quel maledetto ciccione avrebbe scoperto che la natura lo aveva dotato di un pezzo d’artiglieria lungo e potente come il fucile di precisione Dragunov, e avrebbe lasciato da parte per sempre le sue debolezze infantili. Soprattutto con le ragazze, che avrebbe cambiato con la stessa frequenza con cui un gentiluomo che segue rigide regole d’igiene personale cambia i calzini.
Mi veniva sempre da ridere quando pensavo a quel tipo, ma in quel momento quell’associazione mi ha provocato uno strano senso di rabbia. Ero arrabbiato, sì. Improvvisamente mi ero accorto che anche se eravamo a un passo dal portare a termine la nostra missione, non sentivo niente di particolare, nessuna emozione speciale, niente di niente. Sentivo so lo rabbia e stanchezza, due sensazioni quasi primitive, molto animali, ma nulla, assolutamente nulla, di umanamente elevato.
Eccolo lì, Pavel', mentre veniva picchiato dagli altri, sdraiato a terra in una posizione che mio zio avrebbe descritto così: «confondeva la propria testa con il culo». Lo guardavo e pensavo che nella vita non c’è niente di certo e sicuro, perché quella specie di rifiuto umano — che in quel momento faceva la figura di un pezzo di carne destinato a diventare una bistecca pestata — appena poco prima era pieno di sé, e aveva ancora una vera fonte di potere tra le mani.
Quando hanno smesso di picchiarlo l’hanno caricato nel bagagliaio di una macchina, come vuole la regola: visto che adesso era contagiato non poteva più condividere lo stesso spazio con i criminali onesti.
Non penso che quei cinque deficienti seduti nudi nel fuoristrada abbiano capito cosa stava per succedergli, non so che cosa gli passasse per la testa ma li guardavo e mi sembravano incoscienti, come sotto l’effetto di una droga.
Mi dispiaceva, avevo pensato tanto a quel momento, avevo immaginato la paura nei loro occhi, le parole con cui ci avrebbero supplicato di risparmiargli la vita, «Non vogliamo morire, abbiate pietà…», quelle che avrei detto di rimando, costruendo discorsi complicati destinati a fargli capire la grandezza dell’orrore che avevano compiuto e a fargli passare i loro ultimi istanti nel terrore completo, provando qualcosa di terribile che poteva assomigliare a quello che aveva provato Ksjusa. Ma vedevo solo facce indifferenti, che ci guardavano come a metterci fretta di fare quello per cui eravamo venuti. Forse era solo una mia impressione, perché i miei amici sembravano contenti, e avvicinandosi al fuoristrada con sorrisi soddisfatti tiravano fuori le pistole a scopo dimostrativo, caricandole cosi piano che si sentivano le pallottole sganciarsi dai caricatori ed entrare nelle canne, battendo contro i fermi.
Ho guardato Mei: camminava dietro Gagarin, aveva due pistole tra le mani e la sua orribile faccia era attraversata da una smorfia molto cattiva.
Ho impugnato la Nagant di nonno Kuzja e con il pollice ho tirato indietro il caricatore. Il tamburo ha fatto un giro e si è fermato con un rumore secco. Ho sentito sotto l’indice alzarsi il grilletto: era pronto, in tensione.
Nell’altra mano avevo la Steckin, e seguendo la tecnica di ricarica con la mano sinistra che mi aveva insegnato nonno Prugna l’ho afferrata, con l’indice ho tolto la sicura, ho spinto il mirino posteriore contro il bordo della mia cintura e ho sentito il meccanismo muoversi, mandando avanti la parte fissa e caricando la pallottola in canna.
Quando mi sono concentrato sul fuoristrada, per decidere a quale stronzo sparare per primo, Gagarin, senza nessun ultimo discorso о avvertimento, ha aperto il fuoco da tutte e due le pistole. Subito, quasi contemporaneamente, hanno sparato gli altri e mi sono accorto che stavo sparando anch’io.
Tomba sparava con gli occhi chiusi e molto in fretta. Ha finito prima di tutti le cariche delle sue Makarov ed è rimasto fermo cosi, con le due pistole in mano ancora alzate in direzione della macchina, a guardare come quei cinque si stavano pigliando tutta la nostra rabbia che gli arrivava addosso in forma di piombo.
Gagarin invece sparava rilassato, tranquillo, lasciando che fossero le pallottole a indovinare la loro strada, senza mirare bene.
Mei sparava come sempre in maniera disastrosa, cercando di riprodurre con la pistola la raffica di un mitra e mandando il piombo in tutte le direzioni possibili; per questo nessuno osava mai mettersi davanti a lui in una sparatoria, lo faceva solamente Gagarin, ma solo perché aveva una naturale fiducia in Mei che era paragonabile a un sesto senso.
Gatto sparava con tale dedizione e concentrazione che non si accorgeva neanche di tenere la lingua fuori; si dava da fare, s’impegnava al cento per cento.
Gigit sparava bene, con precisione totale, senza fretta; prendeva bene la mira e poi faceva partire due-tre colpi, poi di nuovo tornava a prendere con calma la mira.
Besa sparava come i pistoleri del selvaggio West, tenendo le pistole al livello dei fianchi e facendo partire i colpi con la regolarità di un orologio, di solito non centrava mai niente, però faceva la sua figura.
Io sparavo senza pensarci tanto sopra, cosi com’ero abituato, con la tecnica macedone, chiamata così perché gli antichi macedoni sapevano usare bene due spade contemporaneamente. Non prendevo la mira, sparavo dentro la macchina, nei posti dove c’erano le persone, e le vedevo morire, muoversi nelle loro ultime convulsioni, perdere la vita.
All’improvviso uno di loro ha aperto una portiera e si è messo a correre disperatamente verso il capannone, imboccando poi un tunnel di lamiera, un piccolo passaggio dove filtrava la luce del giorno, una specie di strada illuminata nel buio. Correva con così tanta forza che siamo rimasti fermi, impietriti.
Mei gli ha sparato qualche colpo dietro ma non lo ha preso. Allora Gagarin si è avvicinato a un ragazzo armeno, un minorenne, che teneva tra le mani un Kalasnikov, e gli ha chiesto il fucile «per un secondo». Il ragazzo, evidentemente impressionato da quello che aveva visto, gli ha passato il suo Kalasnikov, e io ho notato che in quel momento la sua mano tremava.
Gagarin ha poggiato il fucile sulla spalla e ha scaricato una lunga raffica in direzione del fuggitivo. Quello aveva già fatto una trentina di metri, quando le pallottole lo hanno raggiunto. Allora Gagarin è partito verso di lui, camminando come se stesse passeggiando nel parco. Quando gli è arrivato vicino, ha sparato un’altra raffica sul corpo riverso a terra, che ha fatto un ultimo movimento e poi si è fermato.
Gagarin lo ha preso per un piede e l’ha trascinato fino alla macchina, mettendolo vicino agli altri due corpi che erano li già dall’inizio del massacro.
In macchina c’erano quattro cadaveri deformati dalle ferite. Il fuoristrada era pieno di buchi e da una gomma usciva piano piano l’aria, perché un frammento della carrozzeria, staccato da qualche pallottola, era penetrato dentro il pneumatico. Sangue ovunque: schizzi, pozze che si allargavano a terra nel raggio di cinque metri, gocce che cadevano dalla macchina sul selciato, mischiandosi con la benzina, e diventavano rivoletti che correvano verso di noi, sotto i nostri piedi.
C’era un silenzio assoluto, nessuno dei presenti diceva niente, erano tutti immobili a guardare quello che era rimasto di quegli uomini.
Abbiamo lasciato il fuoristrada e i corpi lì dove avevamo compiuto quell’atto di giustizia.
Dopo siamo andati a casa del vecchio Frunzic. Pancia doveva andarsene, e prima di partire ci ha salutati in maniera calorosa e con rispetto, dicendo che avevamo fatto una cosa che andava fatta.
Frunzic ha detto che dei cadaveri si sarebbero occupati gli armeni della famiglia dell’uomo rimasto ferito nel tentativo di fermare la macchina, per loro era una specie di soddisfazione personale, e ci ha assicurato che «sopra quei cani non ci sarà neanche una croce».
Non era per niente scherzoso e allegro come al solito, Frunzic. Era serio, ma in una maniera positiva, come se volesse mostrarci che era d’accordo con noi. Parlava poco, ci ha offerto qualche bottiglia di buonissimo cognac armeno.
Abbiamo bevuto in silenzio, io cominciavo a sentire una forte e devastante stanchezza.
Gagarin ha tirato fuori il sacchetto con i soldi e ha detto a Frunzic che la ricompensa spettava a lui. Frunzic si è alzato dal tavolo, è scomparso in un’altra stanza e poi è tornato stringendo in mano un pacco di soldi, cinquemila dollari. Li ha messi nel sacchetto insieme agli altri dicendo:
— Non posso dare di più perché sono un umile anziano. Ti prego, Gagarin, porta tutto a zia Anfisa e chiedile perdono per tutti noi, peccatori e cattiva gente.
Abbiamo finito la terza bottiglia in silenzio, e quando abbiamo lasciato Caucaso era già buio, io stavo quasi per addormentarmi in macchina. Nella mia testa giravano tante cose, un misto di ricordi e di sensazioni rauche, come se mi fossi lasciato dietro qualcosa di non finito, о di eseguito male. Era un momento triste per me, non provavo nessuna soddisfazione. Non riuscivo a smettere di pensare a quello che era accaduto a Ksjusa. Impossibile sentire la pace.
Qualche tempo dopo ne ho parlato con nonno Kuzja.
— Era giusto punirli per quello che hanno fatto, — gli ho detto, — però punendoli non abbiamo aiutato Ksjusa. Quel lo che mi tortura ancora è il suo dolore, contro il quale tutta la nostra giustizia è stata inutile.
Lui mi ha ascoltato attentamente, poi mi ha sorriso e mi ha detto che io dovevo ripercorrere la strada del fratello maggiore di mio nonno, e cioè andare a vivere da solo nei boschi, in mezzo alla natura, perché ero troppo umano per vivere in mezzo agli uomini.
Gli ho restituito la Nagant, ma lui non ha voluto riprendersela, me l’ha regalata.
Dopo quasi un mese abbiamo saputo che Pavel' era stato ammazzato insieme a tre dei suoi che avevano partecipa-to al complotto contro la comunità criminale. Li avevano legati agli alberi del parco, davanti al distretto di polizia di Tiraspol', e gli avevano piantato dei chiodi in testa.
Si diceva che dietro tutta la faccenda del complotto ci fossero i poliziotti, interessati a indebolire la comunità criminale della nostra città. Sarebbero riusciti a farlo poi cinque anni dopo, mettendo tanti giovani criminali contro i vecchi, e innescando una guerra sanguinosa che ha dato inizio alla fine della nostra comunità, che infatti oggi non esiste più nella forma in cui esisteva ai tempi di questa storia.
Nonno Kuzja è morto di vecchiaia tre anni dopo, e la sua morte — insieme ad altri avvenimenti — ha provocato un terremoto nella comunità siberiana. Molti criminali di vecchia fede, scontenti del regime militare e poliziesco instauratosi nel Paese, hanno lasciato la Transnistria e sono tornati in Siberia, oppure sono immigrati in luoghi lontani.
Mio padre è andato a vivere in Grecia, dove ha scontato cinque anni di prigione, e ancora oggi abita ad Atene.
Il vecchio Prugna è ancora vivo e sta sempre nel suo bar, ultimamente è diventato sordo e per questo motivo urla quando parla. Sua nipote, quella che faceva le torte di mele più buone di tutta la città e che era una mia buona amica, si è sposata con un bravo ragazzo che vende accessori per personal computer, e insieme sono andati a vivere a Volgograd.
Zio Fedja ha preso molto male l’avvento del regime governativo in Transnistria: fino all’ultimo ha resistito cercando con tutte le sue forze di convincere i criminali a combattere, ma poi si è arreso ed è andato a vivere in Siberia, in un piccolo villaggio sul fiume Lena, dove continua a svolgere la sua attività di Santo.
Barbos è diventato una persona molto importante nella comunità criminale: è sceso a patti con la polizia e adesso ha tra le mani un enorme potere nella nostra città, dove Seme nero è di fatto l’unica casta protetta dalla polizia e odiata da tutte le altre, ma nessuno può farci niente, perché ormai sono loro a comandare, sono loro che controllano tutte le galere e gli affari criminali.
All’interno della comunità georgiana c’è stata una sanguinosa guerra, che ha portato al potere i giovani. Soprattutto a causa delle loro idee nazionaliste i georgiani hanno litigato con gli armeni, con cui sono in guerra ancora adesso. Mino è stato ammazzato nel corso di quella guerra, gli hanno sparato mentre raggiungeva l’ospedale dove la moglie aveva appena partorito un figlio che lui non ha fatto in tempo a conoscere.
Nonno Frunzic, sempre per via della guerra tra georgiani e armeni, ha preferito lasciare Bender. Come hanno fatto tanti vecchi di tutte e due le comunità coinvolte, si è dichiarato fuori dagli affari ed è andato a vivere nella sua patria, dove ora si occupa di piccoli traffici di alcol.
Stepan continua a gestire il chiosco sulla strada, ma non vende più armi, i criminali di Seme nero glielo hanno impedito, cosi adesso sopravvive smerciando sigarette e qualche partita di vodka contraffatta. Sua figlia ha terminato gli studi e ha trovato lavoro in uno studio di architetti a Mosca. Nixon aiuta Stepan con la stessa fedeltà di sempre, ce l’ha ancora con i comunisti e i neri ma ha fatto finalmente amicizia con Mei: anche se per arrivare a questo Mei ha dovuto sacrificare il suo Game Boy, gioco che è riuscito a sostituire nel cuore di Nixon il vecchio e amatissimo Tetris.
Mei dice che però negli ultimi tempi a Nixon sono venuti tanti capelli bianchi, e che sta invecchiando troppo in fretta.
Gagarin ha vissuto solo tre anni dopo questa storia: è stato ammazzato a San Pietroburgo perché era entrato in un giro d’affari con gente che godeva della protezione della polizia e dell’ex Kgb. Della sua morte si è saputo solo più tardi, quando un’amante di Gagarin ha contattato i suoi genitori dicendo che era sepolto nel cimitero di Ligovo.
Gatto si è trasferito nel sud della Russia, dove per qualche tempo ha fatto parte della banda di un criminale siberiano che rapinava tir provenienti dai Paesi asiatici. Poi ha conosciuto una ragazza di Rostov sul Don, terra di cosacchi, ed è andato a vivere con lei in campagna sul fiume Don. Ufficialmente non si occupa più di affari criminali, ha tre bambini, due maschi e una femmina, va a caccia e fa lavori di falegnameria con il padre e i fratelli di sua moglie. Mei è andato a trovarlo parecchie volte, e in quelle occasioni Gatto ha cercato invano di convincerlo a sposare la sorella minore di sua moglie.
Tomba è stato arrestato a Mosca nel corso di una rapina a un furgone blindato, e condannato a sedici anni di prigione. In galera ha ucciso due persone, così gli hanno dato l’ergasto lo e l’hanno trasferito nel carcere speciale di Ust'-llimsk, dove si trova tutt’ora. Impossibile contattarlo, per via del severo regolamento.
Gigit e Besa hanno rapinato insieme una serie di banche, dopo di che la squadra antirapina è riuscita a rintracciarli e li ha tenuti sott’occhio per un po’. A quel punto sono caduti in una trappola complicata. Su indicazione di un informatore manipolato dai poliziotti, Gigit e Besa hanno rapinato una certa banca: quella sera stessa però sono stati uccisi nella camera dell’albergo Inturist della città di Tver' dai poliziotti, che hanno portato via i soldi della rapina. Mei è partito da solo per riportare i loro corpi a casa, li ha seppelliti nel cimitero vecchio di Bender: al loro funerale non c’era quasi nessuno di noi amici, solo Mei e qualche parente.
Mei continua a vivere in Transnistria a casa dei suoi genitori, ogni tanto ci sentiamo al telefono. Non svolge più nessuna attività criminale, perché non è capace di cavarsela da solo e non ha nessuno a cui affiancarsi. Per un po’ ha fatto la guardia del corpo di un criminale autorevole di ultima generazione, ma poi si è stancato. Dopo aver frequentato un corso ha provato a insegnare aikido a un gruppo di bambini, ma non ce l’ha fatta, perché si presentava alle lezioni sempre ubriaco. Adesso non fa niente, gioca tutto il tempo alla PlayStation, esce con qualche ragazza, ogni tanto aiuta qualcuno a recuperare i suoi crediti.
Ksjusa non si è mai più ripresa. Dal giorno dello stupro non ha più comunicato con nessuno: se ne stava sempre zitta, con gli occhi bassi, e non usciva quasi mai di casa. Ogni tanto riuscivo a convincerla e la portavo a fare un giro in barca sul fiume, ma era come portarsi dietro un sacco. Prima le piaceva moltissimo andare in barca: si muoveva in continuazione, cambiava posto, si sdraiava a prua e metteva le mani in acqua, faceva un sacco di casino, s’intrappolava nelle reti da pesca, giocava con i pesci che avevamo appena pescato, parlava con loro, gli dava dei nomi. Dopo la violenza era immobile, spenta: al massimo allungava un dito per toccare l’acqua. Poi lo lasciava И e stava tutto il tempo a fissare la sua mano affondata nell’acqua, finché io non la prendevo in braccio per riportarla a riva.
Per un po’ ho creduto che piano piano si sarebbe ripresa, invece è peggiorata sempre di più, fino a smettere di mangiare. Zia Anfisa piangeva in continuazione, ha provato a portarla in diversi ospedali, da vari specialisti, ma tutti dicevano la stessa cosa: quel comportamento era da attribuire al suo vecchio disturbo mentale, non c’era niente da fare. Nei momenti peggiori, per tenerla in vita zia Anfisa le faceva iniezioni di vitamine e la alimentava attraverso la flebo.
Il giorno in cui me sono andato via dal Paese, Ksjusa era seduta sulla panchina davanti al portone di casa sua. Teneva tra le mani il suo gioco, il fiore di lana, che in Siberia viene usato come elemento decorativo per i maglioni.
Sei anni dopo questa triste storia, una notte ho ricevuto una chiamata da Mei: Ksjusa era morta. «Non si muoveva più da tanto tempo, — mi ha detto, — si è lasciata morire a poco a poco». Dopo la sua morte, zia Anfisa era andata a vivere a casa di un vicino, che aveva bisogno di qualcuno che aiutasse sua moglie con i bambini.
Io ho lasciato il mio Paese, sono passato attraverso tante esperienze e storie diverse, ho cercato di fare della mia vita quello che credevo giusto, ma sono ancora tanto incerto su molte cose che fanno girare questo mondo. Soprattutto, più vado avanti più mi convinco che la giustizia è sbagliata come concetto, almeno quella umana.
Due settimane dopo aver fatto giustizia a modo nostro, si è presentato a casa mia uno sconosciuto che ha detto di essere un amico di Pancia. Mi ha spiegato che Pancia era partito per non so dove e che non sarebbe più tornato dalle nostre parti, ma che prima di partire gli aveva chiesto di farmi avere una cosa. Mi ha dato un pacchetto, io l’ho preso senza aprirlo, e per essere educato con lui l’ho invitato a entrare e gli ho presentato mio nonno.
Quell’uomo è rimasto a casa nostra fino al giorno dopo, ha bevuto e mangiato con mio nonno discutendo di varie questioni criminali: di etica, assenza di educazione tra i giovani, di com’erano cambiate le comunità criminali nel tempo, e soprattutto dell’influenza dei Paesi europei e americani, che stava distruggendo la giovane generazione di criminali russi.
Io ero sempre vicino a loro due, e quando svuotavano la bottiglia correvo in cantina a riempirla dalla botte.
Dopo che l’ospite se n’è andato ho aperto il pacchetto di Pancia. Ci ho trovato dentro un coltello chiamato finka, che significa finlandese, la tipica arma dei criminali di San Pietroburgo e del nord ovest della Russia. Era un’arma usata, come dicono da noi e anche da voi era «vissuta», con un bel manico in osso bianco. C’era anche un foglio di carta, dove Pancia aveva scritto a matita:
«La giustizia umana è orribile e sbagliata, per questo motivo solamente Dio può giudicare. Peccato che in alcuni casi noi siamo obbligati a superare le sue decisioni».