Noi ragazzi di Fiume Basso vivevamo davvero seguendo le leggi criminali siberiane, avevamo un robusto sentimento religioso ortodosso, con un’influenza pagana molto forte, e venivamo chiamati da tutto il resto della città «Educazione siberiana» per i nostri modi di fare. Non dicevamo parolacce, non offendevamo mai il nome di Dio о della madre, non parlavamo senza rispetto di una persona anziana, di una donna incinta, di un bambino piccolo, di un orfano о di un disabile. Eravamo abbastanza inquadrati e a dire la verità non avevamo bisogno delle parolacce per sentirci adulti come i nostri coetanei di altri quartieri, perché eravamo trattati come se facessimo veramente parte della comunità criminale, eravamo una vera banda, composta da minorenni, con la gerarchia del modello criminale e con le responsabilità che i criminali adulti ci avevano dato.
Il compito che avevamo era fare le sentinelle. Andavamo in giro per la nostra zona, passavamo tanto tempo ai confini con gli altri quartieri e comunicavamo agli adulti ogni movimento anomalo. Se nel quartiere passava un tipo sospetto, un poliziotto, un infame, un criminale di un altro quartiere, le nostre autorità adulte lo sapevano in pochi minuti.
Quando arrivavano i poliziotti, di solito gli bloccavamo la strada, ci mettevamo seduti о sdraiati davanti alle loro macchine costringendoli a fermarsi. Quelli uscivano e ci spostavano a calci nel sedere о tirandoci per le orecchie, noi facevamo la lotta con loro. Di solito sceglievamo il più giovane e ci buttavamo addosso a lui in tanti, qualcuno lo picchiava, qualcuno si attaccava a un braccio mordendolo, un altro si aggrappava alla schiena e gli portava via il cappello, un altro ancora gli strappava i bottoni della divisa о gli tirava fuori la pistola dalla custodia. Andavamo avanti così finché lo sbirro non andava in esaurimento, о finché i suoi colleghi non cominciavano a picchiare sul serio.
I più sfortunati di noi si beccavano delle manganellate in testa, perdevano un po’ di sangue e via.
Una volta un mio amico ha tentato di rubare la pistola dalla custodia di un poliziotto, quello gli ha bloccato la mano in tempo, solo che l’ha stretta così forte che il mio amico ha premuto il grilletto e involontariamente gli ha sparato nella gamba. Appena abbiamo sentito lo sparo ci siamo messi a correre da tutte le parti, e mentre correvamo quegli imbecilli hanno iniziato a spararci dietro. Per fortuna non hanno colpito nessuno di noi, ma correndo sentivo le pallottole passarci vicine. Una è finita contro il marciapiede, staccando un pezzo di cemento che mi ha colpito in faccia. La ferita era piccola e per niente profonda, dopo non mi hanno dato neanche un punto, però per qualche strana ragione da quel buco usciva un casino di sangue e quando siamo arrivati davanti a casa del mio amico Mei, sua mamma, zia Irina, mi ha preso in braccio e ha cominciato a correre verso casa dei miei, gridando per tutto il quartiere che i poliziotti mi avevano sparato in testa. Inutilmente cercavo di calmarla, era troppo presa dalla corsa, e alla fine, a qualche metro da casa, attraverso il sangue che mi copriva gli occhi, ho visto mia mamma diventare pallida come la morte, con un aspetto già da funerale. Quando zia Irina si è fermata davanti a lei, io mi sono girato come un serpente per liberarmene e ho fatto un salto dalle sue braccia, atterrando in piedi.
Mia mamma mi ha guardato la ferita e mi ha detto di entrare in casa e poi ha dato a zia Irina un calmante, per toglierle l’agitazione.
Si sono sedute vicine sulla panchina nel cortile, bevendo valeriana e piangendo tutte e due. Io allora avevo nove anni.
Un’altra volta i poliziotti sono usciti tutti dalle macchine, per sbarazzarsi di noi in fretta. Ci hanno preso per le gambe о per le braccia e ci hanno lanciato sul bordo della strada; noi ci alzavamo e tornavamo al centro, e gli sbirri ricominciavano uguale. Per noi era un gioco infinito.
Uno dei miei amici ha approfittato di un attimo di distrazione di uno sbirro e ha tirato giù il freno a mano della sua macchina. Eravamo in cima a una piccola collina, su una strada che portava al fiume, cosi la macchina è partita come un missile e i poliziotti l’hanno guardata impietriti ma con le facce arrabbiatissime fare tutto il percorso, entrare in acqua e _ ~ sparire come un sottomarino. A quel punto siamo spariti anche noi più in fretta del solito, per non beccarci troppe botte.
Oltre alle sentinelle facevamo anche i messaggeri.
Siccome nella comunità siberiana non si usa comunicare attraverso il telefono, che è considerato un mezzo insicuro e soprattutto un simbolo disprezzabile, è molto sviluppata la cosiddetta «strada»: cioè la comunicazione attraverso un misto di messaggi passati a voce, scritti nelle lettere о codificati nelle forme di alcuni oggetti.
Un messaggio a voce si chiama «soffietto». Quando un criminale adulto vuole fare un soffietto chiama un minorenne qualsiasi, anche suo figlio, e gli dice il contenuto del messaggio in lingua criminale fenja, che proviene dall’antica lingua degli antenati dei criminali siberiani, il popolo degli Efei.
I messaggi detti a voce sono sempre corti e hanno un significato concreto, vengono usati nei rapporti quotidiani, per questioni poco complicate.
Quando mio padre mi chiamava per affidarmi un messaggio vocale da portare a qualcuno, mi diceva: «Vieni qua, che devo fare un soffietto». Poi mi diceva il contenuto, tipo: «Vai da zio Venja e digli che qua la polvere sta come un palo», il che equivaleva a un invito immediato per discutere di una cosa importante. Io dovevo partire subito in bicicletta, salutare per bene zio Venja, dire due parole di circostanza che non c’entravano niente con il messaggio, come voleva la tradizione siberiana, ad esempio chiedergli della sua salute, e solo dopo potevo arrivare al dunque: «Porto per voi un soffietto da mio padre». Quindi dovevo aspettare che lui mi desse il permesso di riferirglielo; lui me lo dava, ma senza parlare in maniera diretta. Umilmente, per non gettare alcuna ombra di prepotenza, mi rispondeva: «Allora che Dio ti benedica, figliolo» о «Che lo Spirito di Gesù Cristo sia con te», facendomi capire che era pronto ad ascoltare. Io riferivo il messaggio e aspettavo la sua risposta. Il fatto è che non potevo andare via senza una risposta, anche se zio Venja о chi per lui non aveva niente da dire doveva comunque inventarsi qualcosa. «Di’ a tuo padre che affilerò i tacchi, vai con Dio», mi diceva lasciando intendere che accettava l’invito e sarebbe passato al più presto. Se non voleva dire niente, diceva: «Come la musica per l’anima, cosi è per me una buona soffiata, torna a casa con Dio, che Lui dia a tutta la vostra famiglia salute e vita lunga». A quel punto facevo anch’io gli auguri di rito e me ne tornavo a casa il più in fretta possibile. Più eri veloce, più venivi apprezzato come messaggero, meglio eri ricompensato. A volte riuscivo a rimediare una banconota da venticinque rubli (a quei tempi una bici ne costava cinquanta), altre volte un dolce о una bottiglia di acqua gasata con lo sciroppo.
Anche nella consegna delle lettere avevamo una nostra piccola parte.
Le lettere potevano essere di tre tipi: la ksiva (che nella lingua criminale significa documento), la maljava (piccolina) e la rospìca (firma).
La ksiva era una lettera lunga e importante in lingua criminale. Veniva scritta molto di rado, da criminali autorevoli e vecchi, soprattutto per far arrivare gli ordini dentro il carcere, influenzare la politica di gestione delle galere, fomentare le rivolte о convincere a risolvere in un certo modo una situazione calda. Una lettera simile veniva passata di mano in mano, di galera in galera, e per l’importanza del suo contenuto non veniva mai affidata a un messaggero qualunque, solo a persone molto vicine alle autorità criminali. Noi minorenni non abbiamo mai portato lettere del genere.
La maljava, invece, era la tipica lettera che noi portavamo quasi sempre, avanti e indietro. Di solito veniva mandata dalla galera per comunicare con il mondo criminale fuori, senza essere controllati dal sistema carcerario. Era una lettera piccola, sintetica, sempre in lingua criminale. In un giorno ben preciso, ogni secondo martedì del mese, noi andavamo fuori dalla prigione di Tiraspol'. I prigionieri quel giorno «sparavano i fuochi», cioè, usando gli elastici delle mutande, lanciavano come con la fionda le loro lettere oltre il muro della prigione e noi le raccoglievamo. Ogni lettera aveva un indirizzo in codice, una parola о un numero.
Queste lettere venivano scritte da un po’ tutti i prigionieri e usavano la «strada» della prigione, quel sistema di comunicazione da cella a cella di cui ho già parlato: attraverso delle corde montate di notte da una finestra all’altra venivano «mandati i cavalli», cioè vari pacchi, messaggi, lettere eccetera. Tutte le lettere venivano poi raccolte da una squadra di prigionieri che si trovava nei blocchi più vicini al muro, dove le finestre non avevano lamiere spesse ma solo le classiche sbarre di ferro. Da li, delle persone chiamate «missilisti» lanciavano le lettere una dopo l’altra oltre il muro. Venivano pagati per questo dalla comunità criminale e non avevano nessun altro compito in prigione, si esercitavano tutti i giorni sparando oltre il muro pezzi di stracci con cui si lavano i pavimenti.
Per lanciare una maljava si faceva il «missile», un piccolo tubo di carta che aveva una lunga coda morbida, di solito fatta con i fazzoletti di carta (molto difficili da procurarsi in prigione): questo tubo si piegava da una parte, formando una specie di gancio che si fissava a un’estremità dell’elastico; poi si stringeva con le dita e si tirava, nel frattempo un’altra persona accendeva la coda di carta morbida e quando quella prendeva fuoco il tubicino veniva sparato.
La coda in fiamme ci permetteva d’individuare la lettera quando cadeva per terra. Bisognava correre il più in fretta possibile, per spegnere il fuoco e non far bruciare il tubicino con dentro la preziosa lettera. Eravamo quasi sempre almeno in dieci, e in mezz’ora riuscivamo a raccogliere anche più di cento lettere. Tornando a casa, le distribuivamo alle famiglie e agli amici dei prigionieri. Eravamo pagati per questo lavoro.
Ogni comunità criminale aveva il suo giorno preciso in cui lanciare le lettere, una volta al mese. In alcuni casi, se c’era una lettera molto urgente, tra criminali si usava aiutarsi l’un l’altro, anche se si apparteneva a comunità diverse. Cosi a volte le lettere di membri di altre comunità finivano insieme alle lettere dei nostri criminali, e noi le portavamo comunque al destinatario. О meglio, valeva la regola che a consegnarla doveva essere quello che l’aveva raccolta da terra: era una regola che serviva per evitare i litigi tra di noi. In casi come questi non eravamo pagati, ma di solito ci davano qualcosa. Portavamo le lettere a casa del Guardiano di zona, uno dei suoi aiutanti le prendeva e le metteva in cassaforte: dopo passava la gente, diceva una parola о un numero in codice, e lui, se trovava una lettera segnata con lo stesso codice, la consegnava al destinatario. Questo servizio non era pagato e rientrava nelle responsabilità del Guardiano; se succedevano casini con la posta, spariva qualche lettera о nessuno di noi andava a raccoglierla sotto la prigione, il Guardiano poteva essere punito severamente, anche finire ammazzato.
La rospica, cioè «la firma», era un tipo di lettera che girava sia in prigione che fuori. Poteva essere una specie di lasciapassare fornito da un’autorità criminale, che assicurava la permanenza tranquilla e l’accoglienza fraterna di un criminale nei posti dove non conosceva nessuno, ad esempio nelle galere lontane dalla sua regione о in città dove si recava per viaggi d’affari. Come ho già detto, la firma veniva anche tatuata direttamente sulla pelle.
In altri casi la rospica si usava per diffondere informazioni importanti, ad esempio per convocare a una grande riunione di autorità criminali tutti quelli che avevano un qualche potere, о per far arrivare apertamente e senza rischi un ordine destinato a più persone; grazie al linguaggio cifrato, infatti, anche se la firma finiva nelle mani della polizia non succedeva niente.
Lettere cosi io le ho consegnate un paio di volte: erano normali, sempre aperte. Le autorità criminali non chiudono mai le loro lettere, e non solo perché sono in codice, ma anche e soprattutto perché il contenuto non deve mai gettare un’ombra su di loro, di solito ha un carattere dimostrativo, per esibire i poteri delle leggi e spargere una specie di carisma criminale.
Una volta ho consegnato una firma con un ordine che proveniva dalle galere della Siberia, ed era indirizzato alle galere dell’Ucraina. Ai criminali ucraini veniva ordinato di rispettare in carcere alcune regole, ad esempio venivano proibite le relazioni omosessuali e le punizioni di singoli detenuti tramite umiliazioni fisiche о di carattere sessuale. In calce a quella lettera avevano messo le loro firme trentasei autorità criminali siberiane. La firma capitata nelle mie mani era una delle tante copie di quel documento, destinato a essere riprodotto e diffuso tra tutti i criminali in prigione e in libertà nel territorio dell’Urss.
Un’altra forma di comunicazione, chiamata «lancio», avveniva attraverso la consegna di certi oggetti.
In pratica veniva dato a un messaggero qualsiasi, anche minorenne, un oggetto che nella comunità criminale aveva un significato particolare. Il compito del messaggero era portarlo al destinatario dicendo chi lo mandava, non c’era bisogno di aspettare una risposta.
Un coltello rotto significava la morte di qualcuno della banda, una persona vicina, ed era un gran brutto segno. Una mela tagliata a metà era un invito a dividere il bottino. Un pezzo di pane secco dentro un fazzoletto di stoffa, invece, era un avvertimento preciso: «Attento, le forze dell’ordine sono vicine, c’è stata una svolta importante nel caso che ti riguarda». Un coltello avvolto in un fazzoletto era un invito all’azione per un assassino a pagamento. Un pezzo di corda con un nodo stretto in mezzo significava: «Non sono responsabile di quello che sai». Un po’ di terra dentro un fazzoletto voleva dire: «Ti prometto che manterrò il segreto».
Esistevano significati più semplici e significati più complessi, «buoni» — ad esempio a scopo di protezione — e «brutti» — offese о minacce di morte.
Se qualcuno sospettava che una persona avesse rapporti che compromettevano la sua dignità criminale, magari con la polizia о con altre comunità criminali (senza il permesso della propria), gli recapitavano una piccola croce insieme a un chiodo, о in casi estremi un topo morto, a volte con in bocca una monetina о una banconota, segno inequivocabile della promessa di punizione estrema. Quello era il «lancio brutto», il peggiore: morte sicura.
Se invece volevi invitare un amico a far festa, per divertirsi, bere e passare il tempo in allegra compagnia, gli mandavi un bicchiere vuoto. Quello era un «lancio buono».
Io portavo spesso messaggi di questo genere, mai niente di brutto. Più che altro comunicazioni organizzative, inviti, promesse.
Tra i compiti che avevamo c’era anche quello di cercare di organizzarci in maniera decente per portare avanti il glorioso nome del nostro quartiere: in parole semplici, dovevamo essere capaci di seminare il caos tra i minorenni degli altri quartieri.
La cosa andava fatta nel modo giusto, perché la nostra tradizione vuole che la violenza sia sempre motivata, anche se poi il risultato finale non cambia, perché una testa spaccata resta una testa spaccata.
Con noi lavoravano i vecchi, i criminali anziani che si erano ritirati e vivevano grazie al sostegno dei criminali più giovani. Da eccentrici pensionati, si occupavano di noi minorenni e della nostra identità criminale.
Ce n’erano tanti nel quartiere, e tutti provenivano dalla casta degli Urea siberiani: seguivano la vecchia legge, disprezzata dalle altre comunità criminali perché obbligava a una vita umile e degna, piena di sacrifici, dove al primo posto si mettevano ideali come la moralità e il sentimento religioso, il rispetto verso la natura e verso la gente semplice, i lavoratori e tutti quelli che venivano usati о sfruttati dal governo e dalla classe dei ricchi.
I ricchi noi li chiamavamo con un’antica parola siberiana, upiri, creature della mitologia pagana che abitano nelle paludi e nei boschi profondi e si nutrono di sangue umano: veri e propri vampiri siberiani.
Per questo la nostra tradizione c’impediva di compiere crimini basati sull’accordo preso con la vittima, perché era considerato indegno comunicare con i ricchi e i rappresentanti del governo, che potevano essere solo aggrediti о uccisi, ma mai minacciati о costretti ad accettare accordi. Quindi reati come l’estorsione, il racket о il controllo di attività illecite attraverso taciti accordi con la polizia e il Kgb erano decisamente disprezzati. Si facevano solamente rapine e furti, nei traffici illeciti non si prendeva nessun accordo con nessuno, insomma erano gestiti in maniera autonoma.
Ma le altre comunità non ragionavano cosi, soprattutto le nuove generazioni si comportavano alla maniera europea e americana; era gente priva di moralità che rispettava solamente i soldi e a tutti i costi cercava di creare un sistema criminale a piramide, una specie di monarchia criminale, a differenza del nostro sistema che poteva essere paragonato a una rete, dove tutti sono legati tra loro e nessuno ha potere personale, ognuno fa la sua parte nell’interesse comune.
Già quando io ero minorenne in molte comunità crimina li i singoli membri dovevano meritarsi il diritto alla parola, altrimenti erano trattati come persone inesistenti. Invece nella nostra comunità il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi.
La differenza tra l’educazione che avevamo ricevuto noi e l’educazione (o l’assenza di educazione) dei membri di altre comunità creava un vuoto, una distanza immensa tra di noi. Per questo, anche se non ne eravamo consapevoli, sentivamo il bisogno di far valere i nostri principi e le nostre leggi, e di costringere gli altri a rispettarle, a volte anche con la violenza.
In città facevamo sempre casino, quando andavamo in un altro quartiere spesso finiva in rissa, con sangue per terra, bastonate e coltellate da tutte le parti. Avevamo una fama bestiale, tutti avevano paura di noi e molte volte eravamo aggrediti proprio per via di questa paura, perché si trova sempre qualcuno che vuole andare contro gli istinti naturali, tentare il destino, cercare di vincere la propria paura buttandosi contro il motivo che la provoca.
Non sempre finiva in rissa, certe volte grazie alla diplomazia riuscivamo a convincere qualcuno a cambiare idea, allora tutto si limitava a qualche schiaffo che volava dalle due parti, e a quel punto si cominciava a parlare. Era bello quando finiva cosi. Ma più spesso finiva nel sangue, e in una catena di relazioni rovinate con un intero quartiere, relazioni che dopo la loro morte era molto difficile rianimare.
I nostri vecchi ci avevano insegnato bene.
Come prima cosa, bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici.
Poi bisognava credere in Dio e in Suo Figlio Gesù, e amare e rispettare gli altri modi di credere in Dio diversi dal nostro. Ma la Chiesa e la religione non dovevano mai essere considerate una struttura. Mio nonno diceva che Dio non ha creato i preti, ma solamente uomini liberi, e che comunque esistono anche preti buoni: in quel caso non è peccato andare nei luoghi dove loro svolgono la loro attività, ma è senz’altro peccato pensare che davanti a Dio i preti abbiano più potere di altri uomini.
Infine, non dovevamo fare agli altri quello che non volevamo fosse fatto a noi: ma se un giorno eravamo obbligati a farlo, doveva esserci un buon motivo.
Uno dei vecchi con cui parlavo tanto di queste cose, voglio dire della nostra filosofia di vita e della nostra primitiva ignoranza, diceva che secondo lui il nostro mondo era pieno di persone che seguivano strade sbagliate, e che dopo aver fatto un passo falso si allontanavano sempre più dalla retta via. Lui era dell’idea che in molti casi era inutile cercare di farli ritornare sulla strada giusta, perché erano troppo lontani, e l’unica cosa che rimaneva da fare era sospendere la loro esistenza, «toglierli dalla strada».
— Uno che è ricco e potente, — diceva il vecchio, — camminando sulla sua strada sbagliata rovina tante vite, mette nei guai tante persone che in qualche maniera dipendono da lui. L’unico modo per far tornare tutto al suo posto è ucciderlo, e cosi distruggere il potere che ha costruito sul denaro.
Io ribattevo:
— E se anche l’omicidio di questa persona fosse un passo falso? Non sarebbe meglio evitare di avere contatti con lui e basta?
Il vecchio mi guardava stupito, e rispondeva con tale convinzione che mi girava la testa:
— Ragazzo, chi ti credi di essere, Gesù Cristo? Soltanto Lui può fare miracoli, noi dobbiamo solo servire Nostro Signore… E quale servizio migliore di togliere dalla faccia del mondo i figli di Satana?
Era troppo buono, quel vecchio.
Insomma, per via dei nostri vecchi eravamo sicuri di essere nel giusto. «Piangano quelli che ci vogliono male, — pensavamo, — perché Dio è con noi»: avevamo mille modi tutti particolari per giustificare le nostre violenze e i nostri comportamenti.
Il giorno del mio tredicesimo compleanno, però, mi è successa una cosa che mi ha fatto venire qualche dubbio.
Tutto è cominciato cosi: la mattina di quel freddo e gelido giorno di febbraio, il mio amico Mei si è presentato a casa mia chiedendomi di accompagnarlo dall’altra parte della città, nel quartiere Ferrovia, dove per ordine del Guardiano della nostra zona doveva portare un messaggio a un criminale.
Il Guardiano gli aveva detto che poteva farsi accompagnare da una sola persona, non di più, perché portare messaggi in gruppo è maleducato, è considerata un’esibizione di violenza, quasi una minaccia. E Mei purtroppo aveva scelto me.
Io non avevo nessuna voglia di trascinarmi fin là nel freddo, tanto più il giorno del mio compleanno: avevo già fissato l’appuntamento per quella sera con tutto il branco per fare una festa a casa di mio zio, che era vuota perché lui era in galera. Mi aveva lasciato casa sua e io potevo farci tutto il casino che volevo: bastava tenerla pulita, dare da mangiare ai suoi gatti e bagnargli i fiori.
Quella mattina volevo occuparmi dei preparativi per la festa, e quando Mei mi ha chiesto di accompagnarlo mi sono sentito proprio giù di morale. Ma non potevo rifiutare, sapevo che era troppo stordito e che da solo avrebbe combinato qualche guaio. Cosi mi sono vestito, abbiamo fatto colazione insieme e siamo partiti per il quartiere Ferrovia. C’era troppa neve, non si poteva usare la bicicletta, cosi siamo andati a piedi. Il pullman io e i miei amici non lo prendevamo mai perché ci toccava aspettarlo troppo, si faceva più in fretta a piedi. Camminando di solito si parlava di tante cose, di quello che succedeva nel quartiere о in città. Ma con Mei era molto difficile parlare, perché Madre Natura lo aveva reso incapace di creare frasi comprensibili. Diceva cose che io non ho il coraggio di tradurre dal russo all’italiano perché non saprei come seguire il filo, anzi l’assenza di filo, del discorso.
Le nostre conversazioni avevano una forma di dialogo che era tenuto su esclusivamente da me, con corti inserimenti suoi tipo «Da», «А-ha», «M-m-m» e altre unità minime di suono che lui riusciva a emettere senza nessuna fatica.
Ogni tanto Mei si fermava improvvisamente, si bloccava, e la sua faccia diventava una specie di maschera di cera tutta colata da una parte: significava che non aveva capito di cosa stavo parlando. Allora dovevo fermarmi immediatamente anch’io e partire con le spiegazioni: solo allora Mei tornava ad avere la sua faccia di sempre e riprendeva a muoversi, a camminare.
Non che la sua faccia di sempre fosse un granché: era attraversata da una cicatrice ancora fresca e al posto dell’occhio sinistro aveva un buco. A conciarlo cosi era stato un incidente: aveva fatto tutto da solo, maneggiando in modo maldestro la carica di un proiettile antiaereo che gli era esploso a pochi centimetri dal viso. Il calvario dei microinterventi chirurgici per ricostruirgli il volto non era ancora terminato, e Mei all’epoca girava ancora con quell’orrendo, enorme buco nero al posto dell’occhio mancante. L’occhio finto, di vetro, l’avrebbe messo solo tre anni più tardi.
Mei era così in tutto, non aveva un collegamento tra il corpo e la mente, quando pensava doveva stare fermo, altrimenti non riusciva ad arrivare a una conclusione decente, e se stava facendo un qualsiasi movimento non era in grado di pensare. Per questo io, un po’ per scherzo un po’ sul serio, lo chiamavo «asino»: un gesto molto cattivo e indegno da parte mia, lo riconosco, ma se mi permettevo un simile comportamento era solo perché mi toccava sopportarlo dalla mattina alla sera, e spiegargli tutto come a un bambino. Lui non si offendeva, ma diventava serio di colpo, come se stesse pensando al misterioso motivo per cui gli davo del somaro. Una volta mi ha scioccato, quando dal niente, in una situazione che non c’entrava nulla con il fatto che di solito lo chiamavo «asino», improvvisamente mi ha detto:
«Ho capito perché mi chiami cosi! Perché secondo te ho le orecchie troppo lunghe!»
A quel punto si è incazzato e si è messo a difendere le dimensioni delle sue orecchie.
10 non ho risposto niente, mi sono limitato a guardarlo.
Era irrecuperabile, e aggravava la situazione fumando e bevendo come un vecchio alcolizzato.
Insomma, io e Mei quella mattina di febbraio camminavamo per le strade coperte di neve. Quando c’è poca umidità la neve è molto secca e fa un rumore ridicolo, quando ci cammini sopra è come se stessi camminando sui cracker.
11 mattino era pieno di sole e il cielo vuoto prometteva una giornata buona, ma tirava un vento leggero e costante che avrebbe potuto ribaltare le previsioni.
Abbiamo deciso di attraversare il quartiere Centro e di fermarci a mangiare un boccone in un posticino — una via di mezzo tra un bar e un ristorante — gestito da zia Katja, la mamma di un nostro buon amico che era morto l’estate prima, annegato nel fiume.
Andavamo spesso a trovarla, e per non farla sentire sola le raccontavamo come stavano le cose nella nostra vita. Lei ci voleva bene, anche perché il giorno in cui suo figlio è annegato eravamo insieme e quella storia, anche se era segnata da un enorme dolore, ci aveva uniti tutti quanti.
Il corpo di Vitalic (cosf si chiamava il nostro amico) non era stato trovato subito. Le ricerche erano state difficili perché due giorni prima, cento chilometri più su, era crollata una grossa diga.
Questa è un’altra storia, ma è una storia che va raccontata.
Era estate, e faceva molto caldo. La diga ha ceduto di notte, e io mi ricordo che mi sono svegliato perché ho sentito un rumore spaventoso, come di una tempesta in arrivo.
Siamo usciti dalle case e abbiamo capito che il rumore veniva dal fiume. Siamo andati a vedere e abbiamo trovato un disastro: gigantesche ondate d’acqua bianca, come di schiuma, arrivavano sempre più forti, sbattevano contro la riva e si portavano via barche e battelli.
Qualcuno aveva con sé una pila e con quella illuminava il fiume, c’erano tanti oggetti nell’acqua che giravano come dentro a una grande lavatrice: mucche, barche, tronchi d’albero, botti di ferro, stracci e pezzi di stoffa che sembravano lenzuola. Qua e là, in quel disastro d’acqua, spuntavano dei mobili. Si sentivano delle urla.
Il nostro quartiere per fortuna si trovava sulla riva alta, e l’onda di piena non ci era arrivata addosso in maniera devastante: era tutto allagato anche da noi, le case e le cantine erano piene d’acqua, ma senza grossi danni.
Il giorno dopo il fiume era sporchissimo, e noi abbiamo deciso di prenderci l’impegno di pulirlo, di togliere quello che riuscivamo usando le nostre forze. Avevamo a disposizione alcune barche a motore risparmiate dall’ondata, perché quando la diga aveva ceduto si trovavano a riva.
Anche le mie barche si erano salvate. Ne avevo due, una grossa e pesante, che usavo per trasportare grandi carichi (passavamo tutta l’estate a devastare i giardini di mele e i magazzini alimentari in territorio moldavo…), e un’altra piccola e stretta, che usavo per andare a pesca di notte. Era veloce e maneggevole, con quella barca «guidavo la rete», cioè mi spostavo in continuazione controcorrente, cercando di chiudere con la rete da pesca la parte centrale del fiume, dove passava la maggior parte del pesce.
La barca più piccola si era salvata perché si trovava a casa mia, dovevo farci dei lavoretti. L’altra invece perché era in un rimessaggio a riva: da un pezzo avevo chiesto al custode di riverniciarmela con una lacca speciale. Si chiamava Ignat, il custode, era un uomo buono e povero. Doveva verniciarmela da un mese, quella barca, ma non trovava mai il tempo: doveva sempre fare qualcosa di più urgente о ubriacarsi fino a perdere i sensi.
In tutto avevamo otto barche e ci siamo divisi in quattro squadre, due barche per squadra, quattro ragazzi per barca.
Il lavoro era organizzato in modo da tenere il fiume sempre «chiuso» da due barche, che pescavano l’immondizia: una squadra, armata di lunghi bastoni con grandi ganci di ferro sulla punta, recuperava rami e tronchi, corpi di animali e vari oggetti di grandi dimensioni. Il tutto veniva legato allo scafo con le corde, e quando non c’era più spazio per altri relitti l’equipaggio tornava verso riva, dov’era atteso da altri ragazzi che entravano in acqua e scaricavano tutto quanto. Sulla riva, già dal mattino presto avevano cominciato a bruciare tanta legna, facendo un enorme falò. Così buttavamo i relitti sulle braci: dopo mezz’ora anche i tronchi più fradici si seccavano e, bagnati con un po’ di benzina, finalmente prendevano fuoco.
Verso mezzogiorno il fuoco era diventato enorme, non ti potevi più avvicinare senza morire di caldo. Faticando in tanti e con grande difficoltà abbiamo buttato tra le fiamme il corpo di una mucca, oltre a varie carcasse di pecore, cani, galline, oche.
Poi, verso le quattro di pomeriggio, abbiamo ripescato il primo corpo umano.
Era un uomo di mezza età, vestito, con la testa spaccata. Cadendo in acqua travolto dall’onda doveva aver sbattuto contro qualcosa di duro, una pietra о un tronco.
Un’altra squadra invece era armata di retini, e pescava dal fiume i piccoli oggetti che galleggiavano in superficie: barattoli di conserve, bottiglioni, frutta e verdura fresca di vario tipo, mele con pesche, angurie con patate, e poi giocattoli di bambini, palette e secchielli di plastica, fotografie, tanta carta, giornali e documenti, tutto in un’enorme ratatouille.
E poi c’erano tante, tantissime bottiglie di acqua con sciroppo, minerale e naturale, perché qualche chilometro più su c’era la fabbrica dell’acqua sciroppata con i macchinari per l’imbottigliamento e i depositi. L’onda era passata anche da li, spazzando via tutto il contenuto del magazzino.
Abbiamo deciso di recuperarle tutte quante, quelle bottiglie, di metterle da parte e di distribuirle poi tra tutti quelli che avevano partecipato alla pulizia del fiume. Ma già nella prima ora di lavoro ne avevamo ripescate talmente tante che non sapevamo più dove metterle. Allora due nostri amici le hanno portate via dalla riva con grandi carriole, per liberare il posto per le altre, e le hanno lasciate nei cortili della gente che abitava lì vicino. Hanno riempito di bottiglie tutta la prima via del quartiere, circa cinquanta case, e quando ripassavano di li con le carriole piene, la gente gridava:
«No, qui non ci sta più niente, ragazzi, andate nella prossima casa!»
Il fiume dalla nostra parte è molto stretto e profondo, e dunque molto pericoloso. A causa della forte corrente si formano parecchi mulinelli, che possono raggiungere grandi dimensioni, anche più di tre metri di diametro.
Quando l’onda era passata da noi, la maggior parte della sporcizia che aveva portato con sé era rimasta sui bordi del fiume, radunata in grandi mucchi che galleggiavano in acqua, in attesa che li prendessimo. Abbiamo lavorato tutto il giorno senza fermarci un attimo e abbiamo smesso solo a sera, quando per via del buio non si vedeva più niente.
Avevamo incasinato per bene la riva, quasi non si poteva più passare: dove mettevi il piede, trovavi qualcosa.
Ci siamo fermati a dormire davanti al fuoco.
Prima di dormire abbiamo mangiato, qualcuno si era portato qualcosa da casa, da bere ne avevamo in abbondanza: credo di aver bevuto più acqua con lo sciroppo quella sera che in tutta la mia vita.
Alla fine eravamo tutti a terra, illuminati dal fuoco. Facevamo gare di rutti, vista tutta quell’acqua gasata che ci eravamo scolati.
A una decina di metri da noi c’era il cadavere dell’uomo che avevamo ripescato nel pomeriggio. Gli abbiamo messo tra le mani una croce e una candela, per non farlo arrabbiare. Qualcuno gli ha anche portato un bicchiere d’acqua minerale e un pezzo di pane, seguendo la tradizione siberiana di offrire sempre qualcosa ai morti.
Abbiamo deciso che il giorno dopo era meglio chiedere aiuto alla gente degli altri quartieri, dato che il fiume era ancora pieno di roba e anche di altri cadaveri. Con il caldo i corpi sarebbero andati in putrefazione, e a quel punto ci sarebbe toccato lavorare in un inferno. Credevamo che con l’aiuto di altri ragazzi saremmo riusciti a ripulire il fiume in fretta.
Il giorno dopo, verso le dieci, sono arrivati i rinforzi. Molti ragazzi del Centro, qualcuno di Caucaso e di Ferrovia: erano venuti tutti per aiutarci, e noi eravamo contenti.
Perché non rischiassero di cadere in acqua (tanti di loro non sapevano nuotare, non erano cresciuti sul fiume come noi), li abbiamo fatti lavorare a riva. Portavano via la roba con le carriole о nei sacchi.
Molte bottiglie d’acqua gasata le abbiamo vendute alla gente che veniva in macchina a caricarsele, per poi rivenderle nei negozi. Gli facevamo un prezzo basso, basandoci non sulla quantità di bottiglie che gli davamo, ma sui giri che quel li riuscivano a fare con la macchina: un giro cinquanta rubli, e caricate quanto potete. Se erano veloci guadagnavano il triplo. Era un affare per tutti, noi sgomberavamo in fretta la riva ricavandoci pure qualche soldo, loro prendevano a quasi niente merce che poi rivendevano.
A lavorare con noi c’era anche Vitalic.
Anche se era del Centro, eravamo molto amici con lui. Veniva spesso a fare il bagno con noi nel fiume, era un ottimo nuotatore. Faceva gare di canottaggio, aveva un fisico allenato e una buona resistenza, quando nuotavamo insieme non si stancava mai, poteva andare controcorrente per ore.
Visto che era cosi in gamba, lo abbiamo messo a dirigere la squadra dei ragazzi che slegavano gli oggetti dalia barca vicino a riva. Bisognava saper nuotare bene, perché la barca non poteva avvicinarsi a riva pili di tanto. Una volta sganciato, l’oggetto veniva portato a riva da cinque о sei nuotatori; era un’operazione difficile perché sott’acqua non si vedeva niente, era tutto sporco di terra e foglie e altra merda, e insomma non si capiva neanche com’era fatto quello che si stava trasportando. Un ragazzo si era ferito il giorno prima, mentre trasportava un tronco gli si era conficcato nel polpaccio un ramo, aveva perso tanto sangue in acqua, e prima ancora di realizzare cosa gli era successo era svenuto. Per fortuna gli altri se n’erano accorti subito e lo avevano portato a riva immediatamente e tutto era finito bene.
A mezzogiorno sono arrivati alcuni parenti delle persone che erano scomparse nel fiume. Hanno fatto un giro intorno al corpo dell’annegato, finché una donna non l’ha riconosciuto:
«E mio marito», ha detto.
Era accompagnata dal fratello di lui e da altri due uomini, amici di famiglia. C’era anche una bambina di dieci anni, una ragazzina molto piccola, con i capelli e gli occhi neri che hanno tante moldave.
La donna ha cominciato a piangere, urlando e buttandosi sul corpo del morto. Lo abbracciava, lo baciava. Anche la sua bambina ha cominciato a piangere, ma piano, come se si vergognasse di noi.
Alla fine i moldavi si sono presentati e hanno anche detto il nome del morto, che ora non ricordo più.
Il fratello dell’annegato ha cercato di tranquillizzare la donna, l’ha portata in macchina, ma lei continuava a piangere e a urlare anche da li.
I tre uomini hanno caricato il corpo sul sedile posteriore della loro macchina. Hanno ringraziato e ci hanno offerto dei soldi, ma noi li abbiamo rifiutati. Qualcuno di noi gli ha riempito il bagagliaio di bottiglie, e loro ci hanno guardati con una domanda negli occhi.
«Così risparmierete sulle bibite il giorno del funerale», gli abbiamo detto.
A quel punto sono esplosi in mille ringraziamenti. La donna si è messa a baciarci le mani e noi, per sottrarci a tutti quei baci, siamo tornati al lavoro.
Altra gente, intanto, cercava i propri morti. Qualcuno di loro ci ha offerto il suo aiuto e noi l’abbiamo accettato: poveracci, speravano di assistere al recupero dei corpi dei loro cari. Ma non è semplice trovare un morto annegato, di solito per almeno tre giorni i corpi stanno sott’acqua, e solamente dopo, quando cominciano a putrefarsi e si riempiono di gas, risalgono in superficie. Era stato un puro caso se avevamo trovato il corpo di quel povero moldavo, doveva essere stato spinto a galla da una forte corrente, e se non lo avessimo acchiappato subito sarebbe certo tornato sott’acqua.
Vitalic con altri cinque ragazzi stava trascinando a riva un albero con tanti rami che spuntavano dall’acqua: si capiva che sotto doveva essere enorme.
Avevano deciso di girarlo al contrario, con la chioma verso riva, per dare più punti d’appiglio a quelli che dovevano afferrarlo da terra.
Mentre lo stavano girando, Vitalic è rimasto impigliato con un piede tra quei rami. E riuscito a urlare, ad avvertire gli altri che era rimasto incastrato, ma improvvisamente l’albero ha funzionato come un’elica: si è ribaltato con tutto il suo peso portando Vitalic sott’acqua.
Non riuscivamo a crederci.
Tutti si sono buttati in acqua per tirarlo fuori, ma lui non c’era già più, né attaccato all’albero né altrove, nel raggio di molti metri.
A quel punto abbiamo immediatamente chiuso con la rete la zona H intorno, per evitare che la corrente lo portasse via. Poi abbiamo cominciato a esplorare il fondale.
Ci buttavamo nell’acqua sporca, dove non si vedeva niente, rischiando di andare a sbattere contro qualcosa. Uno di noi infatti è stato colpito da un tronco, ma per fortuna non troppo forte.
Di Vitalic, però, nessuna traccia.
Dopo dieci minuti di inutili ricerche, ci siamo guardati con rabbia.
Mi ricordo che continuavo a tuffarmi in acqua: scendevo giù, fino al fondo, cinque о sette metri, e cercavo con le mani nel vuoto.
A un certo punto ho trovato qualcosa, una gamba! L’ho stretta forte, appoggiandola al mio corpo, e piegandomi ho puntato i piedi sul fondale; mi sono dato una bella spinta, come se liberassi di colpo una molla, dopo di che in un attimo mi sono ritrovato in superficie.
Soltanto lì ho capito che avevo afferrato la gamba di Mei. La sua testa spuntava dall’acqua e lui mi guardava con una faccia stupita.
Mi sono arrabbiato e l’ho colpito con un pugno in testa. Lui mi ha risposto nello stesso modo, e mi ha fatto parecchio male.
Non siamo riusciti a trovarlo, il corpo di Vitalic, nella prima ora di ricerche.
Eravamo tutti stanchi e nervosi, molti si sono messi a litigare tra loro: volavano le offese, ognuno voleva scrollarsi di dosso la colpa scaricandola sugli altri. In momenti come quelli, di slealtà totale verso tutti, cominci a vedere quali sono le vere facce delle persone, e ti viene uno schifo per quel lo che sei e per dove ti trovi.
Io non sentivo più le braccia e le gambe, non riuscivo più a nuotare, allora sono tornato a riva e mi sono sdraiato.
Non ricordo come, ma mi sono addormentato.
Quando mi sono svegliato era sera. Qualcuno mi stava chiedendo se stavo bene. Era il mio amico Gigit, aveva una bottiglia di vino in mano.
Gli altri erano seduti davanti al fuoco e si stavano ubriacando.
Mi sono sentito di nuovo pieno di forze e ho chiesto a Gigit se il corpo di Vitalic era stato trovato. Lui ha fatto un segno negativo con la testa.
Allora sono andato dagli altri e gli ho chiesto perché si ubriacavano, quando il corpo del nostro amico stava ancora nel fiume.
Mi hanno guardato con indifferenza, qualcuno era ciucco marcio, i più erano stanchi e depressi.
«Sentite, — ho detto, — io adesso vado a mettere le reti alla Falce».
La Falce era un posto a una ventina di chilometri più giù, sul fiume. La chiamavano cosi perché in quel punto il fiume faceva una curva larga che assomigliava a una falce. In quell’ansa l’acqua si fermava e allagava la riva, cosi la corrente sembrava quasi ferma.
Tutto quello che portava via la corrente prima о poi arrivava li. Bloccando con la rete il passaggio sul fondo, si poteva recuperare il corpo di Vitalic.
L’unico problema era che con l’alluvione il fiume si era riempito di tutta quella roba, e allora bisognava cambiare la rete in continuazione, altrimenti si riempiva troppo e rischiavi di romperla, mentre la tiravi su.
Con me sono venuti anche Mei, Gigit, Besa e Muto. Siamo andati con le mie due barche, con la mia rete e con quella di Mei.
Le reti che vengono usate per pescare gli annegati dopo vanno buttate via, о conservate solo per essere usate in un’altra occasione triste.
Io avevo una decina di reti diverse per usi diversi, le migliori erano quelle da fondo, che potevano sopportare grandi pesi e stare in acqua tanto tempo. Avevano tre strati sovrapposti, per un maggior effetto di cattura, ed erano molto spesse.
Ho preso la migliore rete da fondo che avevo e siamo partiti.
Abbiamo buttato la rete tutta la notte, la pulivamo in continuazione dalla sporcizia: c’era di tutto sul fondo del fiume, tante carcasse di animali diversi. Ma il peggio erano i rami, perché quando s’infilavano nella rete era difficile toglierli e rompevano le maglie.
Fino a mattina abbiamo avuto le mani fradice, non facevamo in tempo ad asciugarle che si bagnavano di nuovo, perché appena finivi di pulire la rete da una parte era già piena dall’altra, allora correvi di là, e appena la svuotavi dovevi tornare dov’eri prima.
A un certo punto è arrivato Gagarin con gli altri, per darci il cambio. Eravamo stanchi, cascavamo dal sonno. Ci siamo buttati subito a terra, nell’erba, e ci siamo addormentati all’istante.
Verso le quattro di pomeriggio, Gagarin e gli altri hanno trovato il corpo di Vitalic.
Era tutto pieno di graffi e di tagli, il piede destro era rotto, con un pezzo d’osso che fuoriusciva. Vitalic era blu, come tutti gli annegati.
Abbiamo chiamato la gente del nostro quartiere. Lo hanno portato a casa, da sua mamma. Siamo andati anche noi, per raccontarle com’era successo. Lei era disperata, piangeva senza fermarsi e ci abbracciava tutti insieme, stringendoci forte fino a far male. Penso che lei abbia capito da sola, о forse glielo aveva detto qualcuno dei ragazzi del Centro, quanto ci eravamo sbattuti per trovare il corpo di suo figlio.
Ci ringraziava di continuo, e mi faceva effetto sentirla dire:
«Grazie, grazie che me lo avete portato a casa».
Non riuscivo a guardarla in faccia, sapendo che non avevo fatto tutto il possibile per trovare il corpo di suo figlio.
Eravamo tutti scioccati, sconvolti. Non riuscivamo neanche a pensarlo, che il destino ci aveva tolto una persona come Vitalic.
E così, quando eravamo nei paraggi del Centro, passavamo sempre da zia Katja, la mamma di Vitalic.
Non era sposata: il suo primo compagno, il padre di Vitalic, non aveva fatto in tempo a sposarla perché era stato arruolato nell’esercito e spedito in Afghanistan, dov’era stato dato per disperso quando lei era ancora incinta.
Zia Katja gestiva quel piccolo locale che dicevo, tipo un ristorante, e viveva con un nuovo compagno, un uomo buono, criminale, che si occupava di vari traffici illeciti.
Ogni volta che andavamo a trovarla portavamo sempre dei fiori in regalo perché sapevamo che li amava moltissimo.
Un giorno ci aveva detto che le sarebbe piaciuto più di ogni altra cosa al mondo avere un albero di limoni. Noi avevamo deciso di procurarcelo, l’unico problema era che non sapevamo dove, nessuno di noi aveva mai visto un albero di limoni.
Qualcuno allora ci aveva consigliato di provare nei giardini botanici, dov’erano esposte tutte ’ste piante che crescono nei Paesi caldi. Dopo un po’ di tempo e di esplorazioni abbiamo individuato il giardino botanico più vicino: era a Belgorod, in Ucraina, sul Mar Nero, a tre ore di viaggio da casa nostra.
Siamo partiti con un gruppo organizzatissimo, eravamo una quindicina, tutti volevano partecipare all’affare dei limoni, perché tutti volevano bene a zia Katja e cercavano di aiutarla e farla contenta come potevano.
Arrivati a Belgorod abbiamo comprato un solo biglietto per il giardino botanico: uno di noi entrava, andava in bagno e passava dalla finestra quel biglietto a un altro del gruppo, e via cosi, finché non siamo entrati tutti.
Abbiamo seguito una scolaresca in visita e ci siamo avvicinati al nostro obiettivo. Era un albero non tanto grande, un po’ più alto di un cespuglio, con le foglie verdi e tre limoni gialli che dondolavano al vento.
Mei ha subito detto che i limoni erano finti, attaccati con la colla per far figura, e che quell’albero era un cespuglio qualunque. Abbiamo dovuto fermarci ed esaminare velocemente l’albero, per capire se quei dannati limoni erano veri о no. Li ho annusati tutti e tre personalmente: avevano un tipico odore di limone.
Mei si è preso una sberla da Gagarin e gli è stato impedito di parlare fino alla fine dell’operazione.
Dopo aver afferrato il vaso siamo saliti al secondo piano di un edificio ai margini del giardino. Abbiamo aperto una finestra e abbiamo buttato con cautela l’alberello sul tetto di un box auto. Da li siamo saltati giù anche noi e abbiamo fatto una corsa fino alla stazione, aggrappati a quel pesante vaso con l’albero dentro. In treno abbiamo realizzato che nonostante gli urti e gli scrolloni i limoni non si erano staccati: eravamo così contenti di non averli persi…
Zia Katja, quando le abbiamo portato il nostro regalo, si è messa a piangere dalla gioia, о forse piangeva perché aveva visto il timbro del giardino botanico sul vaso che noi, per distrazione, non avevamo eliminato. Comunque era cosi contenta che quando ha raccolto il primo limone maturo ci ha invitati tutti quanti a bere il tè col limone.
Così anche quel giorno — il giorno del mio tredicesimo compleanno, mentre io e Mei attraversavamo la città diretti al quartiere Ferrovia — abbiamo pensato di portarle una pianta, e abbiamo fatto un salto nel negozio del vecchio Bosja.
Prendevamo sempre le piante e i fiori per zia Katja da lui, gli chiedevamo di scriverci i nomi di quelle creature a noi sconosciute su un foglio di carta, per non rischiare di comprare due volte la stessa cosa.
Ogni cinque piante Bosja ci faceva un piccolo sconto о ci dava in regalo dei sacchetti con vecchi semi che ormai non servivano più a niente perché erano tutti secchi. Ma noi li prendevamo lo stesso e, strada facendo, passavamo dal distretto di polizia; se trovavamo parcheggiate le macchine dei poliziotti fuori dal cancello buttavamo i semi nei loro serbatoi: quei semi erano leggeri, non andavano subito in fondo, ed erano così piccoli che riuscivano a passare attraverso il filtro della pompa di benzina, cosi quando arrivavano al carburatore il motore si fermava. In poche parole facevamo buon uso di quello che in altre circostanze veniva buttato via.
Nonno Bosja era un bravo ebreo rispettato da tutti i criminali, anche se oltre ad avere un negozio di fiori (che non vendeva), nessuno sapeva cosa faceva di preciso, talmente segreti teneva i suoi affari. Girava voce che fosse legato alla comunità ebraica di Amsterdam e che trafficasse in diamanti. Beh, questa informazione nessuno ce l’ha mai confermata, e noi lo prendevamo sempre in giro, quando andavamo nel suo negozio, cercando di scoprire cosa combinava in realtà. Era diventata una tradizione, noi cercavamo di farlo parlare e lui ogni volta riusciva a svicolare.
Noi dicevamo:
«Allora, signor Bosja, com’è il tempo ad Amsterdam?»
E lui rispondeva con indifferenza:
«E come faccio a saperlo io, povero ebreo, che non ho neanche la radio? Ma anche se avessi una radio non la ascolterei, ormai sono cosi vecchio che non sento più niente, sto diventando sordo… Eh eh, quanto vorrei tornare ai tempi in cui ero giovane come voi, giocare, fare casino… Tra l’altro, cosa avete combinato in questi giorni?»
E finiva regolarmente che noi, come dei deficienti, gli raccontavamo gli affari nostri anziché sentire i suoi, e andavamo via dal suo negozio con la sensazione di essere stati presi in giro.
Aveva un vero talento da intortatore, e noi ci cascavamo sempre.
Il vecchio Bosja non aveva dei gran bei fiori nel suo negozio, secondo me alcuni stavano lì da anni. Il negozio era un buco stretto e buio, con gli scaffali di legno pieni di vecchie piante che nessuno comprava mai. Quando entravi ti sembrava di essere finito in mezzo a una giungla, molte piante erano cresciute così tanto che le foglie s’intrecciavano con quelle delle piante vicine, e tutte insieme formavano una specie di unico grandissimo cespuglio.
Bosja era un vecchio tutto storto e magro, portava occhiali spessi come la corazza di un carro armato e attraverso le lenti i suoi occhi sembravano mostruosamente grandi. Indossava sempre una giacca nera, camicia bianca con papillon nero al collo, pantaloni neri con le pieghe fatte con il ferro da stiro e scarpe nere belle lucide.
Nonostante l’età (era cosi vecchio che anche mio nonno lo chiamava zio), aveva capelli nerissimi, e li teneva ben curati, tagliati alla moda degli anni Trenta, sotto un leggero strato di brillantina.
Diceva sempre che la vera arma di ogni gentiluomo è la sua eleganza: con quella si poteva fare tutto — rapinare, uccidere, rubare, mentire — senza mai essere sospettati.
Quando il campanellino sulla porta del negozio suonava, Bosja si alzava dalla sedia accompagnando il movimento con un rumore che assomigliava a quello di un vecchio ingranaggio, poi usciva da dietro il bancone e partiva verso il cliente con il suo passo elegante, che con gli anni aveva perso molti colpi e adesso pareva più il trascinarsi di un uomo ferito a morte.
Andava incontro al cliente con le mani aperte come le tiene Gesù in alcune immagini sacre, in segno di accettazione e compassione. Faceva ridere come camminava, perché aveva una faccia ridicola, sorridente ma con gli occhi tristi, come quelli di un cane senza padrone.
A ogni passo lanciava un verso, uno di quei lamenti che fanno i vecchi carichi di acciacchi quando si muovono.
Nell’insieme mi faceva tristezza: un misto di malinconia, nostalgia e pena.
Quando andavamo nel suo negozio il vecchio Bosja usciva dalla sua giungla e, senza vedere chi era entrato, partiva come al solito con l’aspetto di un santo, ma non appena ai suoi occhi apparivano le nostre facce da bastardi, lui cambiava immediatamente espressione. Per prima cosa spariva il sorriso, che veniva sostituito da una smorfia di stanchezza, come se gli mancasse il fiato, poi tutto il suo corpo diventava storto, le gambe si piegavano un po’, e facendo un gesto con le mani come a rifiutare qualcosa che gli avevamo offerto, ci dava le spalle e tornava al bancone dicendo con voce tremante e una leggera ombra di ironia, in un russo contaminato dal dialetto ebraico di Odessa:
«Sob 'ja tak zìi, opjat'prilli morocit'jajca…»
Che significava:
«Che vita mi tocca fare, — un modo di dire ebraico, che loro attaccano dappertutto, — siete di nuovo qui a rompere i coglioni…»
Quello era il suo modo di darci il benvenuto, in fondo ci voleva un casino di bene a tutti quanti.
Si divertiva anche lui, a non farsi prendere in giro da noi. Ci provavamo sempre, ma Bosja, con la sua saggezza e la sua furbizia ebraica, che nel suo caso aveva qualcosa di umile e vissuto, ci faceva cadere nella sua trappola, e certe volte lo capivamo solo più tardi, dopo che eravamo usciti. Era un genio nelle relazioni, un vero genio.
Visto che si lamentava sempre di essere cieco e sordo, lo provocavamo chiedendogli l’ora, sperando che lui guardasse l’orologio che aveva al polso. Ma lui non faceva neanche una piega, e rispondeva:
«Ma come faccio a sapere che ore sono, se sono una persona felice? Lo sapete che le persone felici non contano il tempo, perché nella loro vita ogni momento scorre con piacere?»
Allora noi gli chiedevamo perché portava l’orologio, se non lo guardava mai, se non gli importava dello scorrere del tempo.
Lui faceva la faccia stupita e guardava il suo orologio come se lo vedesse per la prima volta, e poi rispondeva con tono umile:
«… Ma questo non è mica un orologio… E più vecchio di me ormai, non so neanche se funziona…»
Lo appoggiava all’orecchio, lo teneva un po’ li e poi aggiungeva:
«… Beh, qualcosa si sente, ma non so se è il ticchettio delle lancette о quello del mio vecchio cuore che se ne sta andando…»
La moglie di Bosja era una vecchia e simpatica signora ebrea che si chiamava Elina. Era una donna molto intelligente, per tanti anni aveva fatto la maestra ed era stata l’insegnante di mio padre e dei suoi fratelli. Parlavano tutti di lei con affetto, e anche a molti anni di distanza rispettavano ancora la sua autorità. Quando mio padre ha ucciso per la prima volta due poliziotti lei lo ha riempito di sberle, e lui si è messo in ginocchio ai suoi piedi per chiederle perdono.
Bosja aveva una figlia, la ragazza più bella che abbia mai visto: si chiamava Faja e faceva anche lei la maestra, insegnava lingue straniere, inglese e francese. Era cresciuta con l’idea di essere malata, perché Bosja ed Elina le avevano proibito di fare tutto quello che facevano i bambini normali, motivando ogni divieto con le parole «Non puoi perché non stai bene». Non si era sposata e viveva ancora con i genitori, era una persona tranquilla e molto solare. Aveva un fisico da dea, fianchi e curve che sembravano disegnati, tanto erano perfetti, una bocca favolosa, piccola e con le labbra leggermente aperte, ben definite, grandi occhi neri, capelli mossi, lunghi fino al fondoschiena. Ma la cosa più spettacolare era come si muoveva, sembrava una gatta, faceva ogni gesto con una grazia tutta sua.
Ero ossessionato da lei, e ogni volta che la vedevo al negozio cercavo un pretesto per starle vicino. Andavo a parlarle delle piante о di qualunque altra cosa, per sentire la sua presenza con la pelle.
Lei mi sorrideva, parlava volentieri con me, capivo di esserle simpatico. Solo pili tardi, a sedici anni, ho trovato il coraggio di avvicinarla davvero, parlando di letteratura. Abbiamo cominciato a vederci, a scambiarci libri, e nel giro di poco tempo abbiamo sviluppato un rapporto che di solito le persone educate chiamano «intimo», ma che nel mio quartiere si definiva con ben altre parole: «sporcare le lenzuola insieme».
Ma questa è un’altra storia, che merita di essere raccontata a parte, e non qui.
Qui invece va raccontata la storia che il vecchio Bosja aveva alle spalle.
Il vecchio Bosja, ai tempi della sua gioventù, era un bander: cosi a inizio secolo si chiamavano i membri della criminalità organizzata ebraica. La parola viene da «banda», che in russo e in italiano ha lo stesso significato.
Negli anni Venti-Trenta, a Odessa, le bande ebraiche erano tra le più forti e meglio organizzate, gestivano tutti i traffici illeciti e gli affari del porto. I loro membri erano uniti da un grande sentimento religioso e da un codice d’onore, una specie di regolamento interno chiamato kosca, termine che nel vecchio dialetto ebraico di Odessa significa «parola», «legge», «regola». Andare contro la kosca era insomma un buon modo per suicidarsi.
A metà degli anni Trenta il governo sovietico cominciò a combattere sistematicamente il crimine su tutto il territorio, e a Odessa — considerata una delle città più impestate dalla malavita e dalla criminalità organizzata — furono mandate delle squadre speciali che inventarono una tattica di lotta chiamata podstava, che significa «fatta apposta». Attraverso degli infiltrati, innescavano dei conflitti interni alle bande stesse.
Donnie Brasco, il famoso gangster cinematografico interpretato da Johnny Depp, non poteva di certo immaginare che i suoi precursori sovietici sfruttassero l’attività di agenti sotto copertura non per ottenere informazioni, ma per creare artificialmente situazioni nelle quali i criminali entravano in guerra tra di loro e si ammazzavano in dosi industriali. No, Donnie Brasco non se lo sarebbe mai sognato.
In quel modo furono eliminate molte bande e comunità criminali di Odessa. Solo quella ebraica riuscì a resistere, perché tra i poliziotti non c’erano ebrei e nessuno conosceva la cultura, la lingua e le tradizioni ebraiche al punto da poter fingere di essere uno di loro.
Quando poi a Odessa il potere della polizia crebbe e cominciò a minacciare anche gli ebrei, loro unirono le forze organizzandosi in due grandi bande composte da migliaia di membri. Una, la più famosa, era guidata dal leggendario criminale Benja Krik, detto «il Re», e si occupava principalmente di rapine e furti; l’altra era capeggiata da un vecchio criminale di nome Buba Bazic, detto «lo Strabico», e seguiva solamente i traffici finanziari illeciti.
Queste due strutture funzionavano perfettamente, tanto che la polizia non riuscì a fare niente contro di loro: molto presto s’impadronirono di Odessa, e la comunità ebraica divenne tra le più potenti nel sud dell’Urss, soprattutto in Ucraina.
Nell’ottobre del 1941, quando entrarono a Odessa le forze di occupazione tedesche e rumene, la maggior parte degli ebrei furono deportati nei campi di concentramento e sterminati.
I criminali si unirono alle squadre partigiane, nascondendosi nelle gallerie sotterranee che attraversavano tutta la città e arrivavano al mare. Colpivano il nemico di notte, con azioni di sabotaggio: facevano esplodere le linee ferroviarie, deragliare i treni carichi di armi e provviste, bruciavano e affondavano le navi, rapivano e ammazzavano gli alti ufficiali tedeschi, spesso catturandoli mentre erano in tenera compagnia delle prostitute di Odessa, che per l’occasione si erano trasformate in abili spie.
Bosja era li, in quei sotterranei.
A volte, quando passavamo da lui in negozio, ci raccontava della resistenza di Odessa, diceva che per qualche anno avevano vissuto tutti nelle gallerie sotto la città senza mai vedere la luce del giorno. I tedeschi — raccontava — facevano esplodere in continuazione quelle gallerie per impedire ai partigiani di compiere i sabotaggi, ma loro ogni volta si scrollavano la polvere di dosso e scavavano nuovi passaggi.
Sua moglie l’aveva conosciuta in quei sotterranei, era con la sua famiglia ebrea liberata dai partigiani: si erano innamorati e sposati lì, sotto terra. Lui diceva, forse per scherzo о forse no, che quando finalmente erano usciti dalle gallerie si erano dimenticati com’era la luce del sole, e la sua giovane moglie, dopo averlo guardato per bene in faccia, gli aveva detto:
«Non mi ero mai accorta che avevi un naso così lungo!»
Volevano un figlio, ma per anni dopo la guerra non erano riusciti ad averlo, e stavano male per questo fatto. Avevano provato tutte le cure, ma inutilmente. Così un giorno avevano deciso di andare da una vecchia zingara che abitava con una nipote cieca. Dicevano che ’sta zingara sapeva curare le malattie con la magia e i metodi popolari, che era una specie di strega, ma bravissima. La zingara gli aveva detto che né lui né sua moglie avevano malattie, che soffrivano solamente di brutti ricordi. Gli aveva consigliato di abbandonare Odessa e di sistemarsi da un’altra parte, in un posto dove non avevano niente che li legasse al passato.
Per molto tempo non avevano preso sul serio quel consiglio della zingara, per loro era molto difficile staccarsi dalla comunità. Solo alla fine degli anni Sessanta avevano deciso di lasciare Odessa e di trasferirsi a Bender, nella nostra città, dove Bosja aveva messo in piedi la sua piccola attività commerciale e si era dato a quei suoi misteriosi affari di cui nessuno sapeva niente di preciso, che lo avevano fatto diventare presto ricco.
Quando Bosja e sua moglie erano nell’età in cui di solito si diventa nonni, era nata Faja.
Quei tre formavano una bella famiglia e, come diceva spesso nonno Kuzja, erano «gente che sa come vivere felice».
Dunque, per tornare a noi, quel freddo mattino di febbraio io e Mei siamo passati da Bosja per prendere una pianta, e lui come sempre ci ha accolti con buone parole:
— Ohi me, ma non avete altro da fare con un freddo cosi?
Era meglio se parlavo io, perché il dialogo tra Mei e il vecchio Bosja sarebbe stato piuttosto complicato.
— Siamo qui per zia Katja. Per un affare, insomma.
Bosja mi ha guardato da sopra gli occhiali e ha detto:
— Meno male che qualcuno riesce ancora a fare affari, io è una vita che sbatto contro queste pareti e non sono riuscito a concluderne neanche uno!
Mi sono arreso subito, senza cominciare lo scambio di ironie, anche perché cercare di batterlo era come fare una gara di corsa con un ghepardo.
Come sempre, spingendo con un gesto un po’ indifferente un piattino verso di noi, ci ha offerto le sue schifose caramelle pietrificate. Sapeva bene che erano terribili, la sua era una specie di presa in giro rituale. Noi le prendevamo ogni volta, ci riempivamo le tasche e lui ci guardava sorridendo, ripetendo la frase:
«Mangiate, mangiate ragazzi, basta che non vi partano i denti…»
Quando sua moglie lo beccava mentre faceva quello scherzo crudele, si arrabbiava con lui e obbligava noi a svuotare le tasche e buttare nelPimmondizia le caramelle. Poi Elina ci portava a casa sua e ci offriva il tè con i biscotti ripieni di crema di burro, i più buoni al mondo.
Qualche mese prima avevo rivelato a Bosja il segreto delle sue caramelle e lui era rimasto stupito, perché credeva che in tutti quegli anni noi le avevamo mangiate. «Le abbiamo usate come pietre, — gli avevo detto, — per tirare con le fion-de». Contro i vetri del distretto di polizia, per la precisione: erano micidiali, soprattutto le caramelle pietrificate al gusto di lampone. Una sera avevo centrato per scherzo il ginocchio di Mei con una di quelle: era gonfiato tutto, per sei mesi erano andati avanti a scaricargli l’acqua dal ginocchio con una siringa.
Io e Mei ci siamo presi le nostre caramelle in silenzio e abbiamo scelto una piccola pianta da regalare a zia Katja.
Però non posso parlare di fionde cosi, senza spiegare per bene cos’erano, le nostre fionde.
Ognuno di noi si costruiva la sua fionda da solo, dall’inizio alla fine, per questo erano diverse tra loro e in qualche maniera rispecchiavano l’individualità dei loro padroni. Il telaio della fionda doveva essere esclusivamente di legno. Era considerato un lusso il telaio sottile, fatto di legno morbido, ma resistente. Ognuno aveva il suo segreto che teneva per sé, e se a qualcuno piaceva la fionda di un altro poteva comprarla о farsela regalare da lui in segno di amicizia.
La fionda doveva essere tenuta sempre in tasca, come il coltello, solo all’età di tredici-quattordici anni veniva sostituita dalla pistola. Ma io ho portato la mia fionda con me anche più tardi, fino ai diciotto anni.
Mio nonno in Siberia faceva le pipe per fumare tabacco usando le radici di alberi locali, о varie specie di cespugli. Con il suo aiuto avevo trovato un tipo di legno perfetto per le fionde: era il mio grande segreto strategico, i miei amici hanno cercato tante volte di farmi parlare ma io ho sempre resistito, come un bravo partigiano sovietico nella prigionia nazifascista.
Le mie fionde erano più sottili di tutte, e la parte in cui si montavano gli elastici era cortissima e stretta: questo serviva per fare dei lanci più lunghi e precisi, perché gli elastici lavoravano come un unico elastico.
Come elastici di solito usavamo le vecchie camere d’aria delle biciclette, ma spesso non assicuravano un lancio soddisfacente. Decisamente migliori erano i lacci emostatici che trovavamo nei pacchetti militari di primo soccorso: insomma, quelli che si usano per stringere le arterie, per fermare la perdita di sangue. Con i lacci, se venivano montati bene, riuscivamo ad avere una forza di lancio micidiale: a distanza di cento metri, una pietra rotonda о un bullone di ferro di diametro quattordici — о una caramella di nonno Bosja — facevano un bel buco in una finestra, e potevano ancora spaccare qualcosa dentro il salone. Ma l’elastico più micidiale di tutti era di mia invenzione: quello prelevato dalla maschera antigas del modello militare sovietico.
Anche fissare l’elastico era una specialità di ognuno di noi, io preferivo un montaggio un po’ più complicato ma sicuro, i miei elastici non saltavano mai (per questo non mi sono mai preso un colpo di elastico sul naso о nell’occhio, che fa un casino male). Io usavo un filo sottile, girato intorno all’elastico tante volte e legato con un semplice nodo da pescatore. Per sicurezza poi ci spalmavo sopra un po’ di succo di pane masticato, che creava una specie di sostanza che somigliava alla colla ma non faceva seccare il filo.
Al centro dell’elastico veniva sistemato il pezzo di cuoio dove poi si metteva l’oggetto da lanciare. Io usavo del cuoio non molto spesso ma resistente, perché se era troppo spesso faceva le crepe e poi si rompeva.
C’erano tanti piccoli trucchi per migliorare le capacità balistiche della propria fionda, ma certo dovevi avere tra le mani una buona base di partenza. Ad esempio, quando era possibile, io bagnavo sempre un po’ il telaio della fionda prima di lanciare, cosi si ammorbidiva ed ero sicuro di poterlo sfruttare al meglio senza romperlo. Poi ho cominciato a ungere tutti i legamenti della fionda: questo assicurava più precisione, perché eliminava quei piccoli movimenti di materiali secchi che potevano influenzare la traiettoria.
Sono stato io a inventare il modo per incendiare le macchine della polizia nel cortile del distretto, usando la fionda.
Quel cortile era circondato da un muro altissimo, per riuscire a buttarci qualcosa dentro dovevi avvicinarti troppo e ti beccavano subito, appena ti vedevano arrivare. Le bottiglie molotov erano troppo pesanti da lanciare, e tutte le volte che ci provavamo finivano contro il muro, non arrivavano neanche a metà. Alla fine noi ci guardavamo sempre con le orecchie basse, pensando che tutto lo sforzo che avevamo fatto per preparare quelle bottiglie si bruciava in un istante su quel muro grigio. Avevamo cominciato a perdere la fiducia in noi stessi, finché un giorno non ho messo le mani nel mobiletto dei superalcolici di mio zio. Ho trovato tante piccole bottiglie con vari liquori, insomma quelle bottigliette per nani alcolisti. Le ho svuotate un po’, tanto mio zio era in galera e in ogni caso non mi avrebbe sgridato, visto che ne stavo facendo buon uso. Ho fabbricato una mini-molotov, poi ho costruito una fionda apposta, un po’ pili robusta del solito, e dopo aver fatto le prime prove, superate alla grande, ho preparato una cassa piena di mini-molotov (che abbiamo chiamato «mignon») e una decina di fionde per lanciarle.
Siamo andati in un posto, una vecchia tipografia abbandonata vicino al distretto di polizia: da li si apriva un bel panorama sui nostri bersagli. Ci siamo posizionati per bene, e come una batteria di cannoni di guerra abbiamo lanciato il primo colpo. Sparavamo in dieci, uno tirava la fionda con la bottiglietta e da dietro un altro, sincronizzato con i compagni, accendeva la sua bottiglia e quella del vicino contemporaneamente, con due accendini pronti. Le nostre bottigliette partivano in una maniera spettacolare, mi sembrava di sentirle fischiare come pallottole: quando le vedevo attraversare il muro del distretto — e sentivo le piccole esplosioni seguite dalle grida degli sbirri e dai primi segni di fumo nero, che come fantastici draghi si alzavano in aria — mi veniva da piangere tanto ero contento e felice.
Quella postazione era ideale: prima che le nostre vittime riuscissero ad accorgersi di quello che era successo, noi avevamo già scaricato tutto l’arsenale e ce n’eravamo andati tranquillamente con le bici verso casa.
In città non si parlava d’altro — «C’è stato un assalto al distretto», diceva uno, «Chi è stato?», chiedeva un altro, «Una banda di sconosciuti, pare», rispondeva un terzo — e noi ci sentivamo i protagonisti, ogni volta che sentivo qualcuno parlare di questa storia volevo gridarglielo in faccia: «Siamo stati noi, noi!!!»
Ero orgoglioso, niente da dire, mi sentivo un genio e per qualche tempo con i miei amici mi sono comportato come un generale con il suo esercito.
Alla fine abbiamo bruciato ancora qualche volta il cortile del distretto, ma poi i poliziotti l’hanno ricoperto con una rete di ferro e cosi le nostre molotov non passavano più: molte rimbalzavano sulla rete e poi cadevano per terra, plof! dalla parte esterna del muro, anche senza esplodere. Non era più molto interessante.
Per qualche tempo abbiamo cercato d’inventarci qualcosa di nuovo, ma poi improvvisamente siamo cresciuti e qualcuno ha proposto semplicemente di sparare ai poliziotti con le pistole. Anche quello era interessante, ma non come bruciarli con le mini-molotov, armi che avevano qualcosa di medievale, e che ci facevano sentire come cavalieri che lottano nobilmente contro i draghi.
E dunque, andando verso il locale di zia Katja con la nostra bella pianta in mano, siamo passati sul Ponte dei morti. All’epoca era un pezzo di strada asfaltata da cui sporgevano pietre vecchie, ma un tempo era stato un ponte vero e proprio. Una volta distrutto, lo avevano prima ricoperto di terra e poi asfaltato, ma per qualche inspiegabile ragione le pietre continuavano a tornare alla superficie, bucando l’asfalto. Era impressionante vedere quelle grosse macchie nere vecchie e deformi che spuntavano dall’asfalto pieno di crepe. Un vecchio della nostra zona mi aveva detto che il mistero si spiegava facilmente come uno «sbaglio d’ingegneria». Ma io da bambino credevo di più a un’altra storia che spiegava quello strano movimento delle pietre del Ponte dei morti come un fenomeno soprannaturale.
Raccontavano che nel diciannovesimo secolo nella nostra città c’era stata una rivolta di lavoratori, stanchi di essere sfruttati da un ricco e nobile signore che aveva una fama paragonabile a quella del conte Dracula. Il pretesto della rivolta era stata la violenza sessuale che quel gentiluomo aveva fatto a una giovane contadina. Quella ragazza non era stata zitta a subire, a differenza di molte altre prima di lei, ma aveva fatto sapere a tutti la verità, a costo di venire disprezzata e di perdere la sua dignità. La gente però non l’aveva disprezzata ma sostenuta, i contadini e i lavoratori erano subito insorti. Avevano ammazzato le guardie ed erano entrati nel palazzo del padrone, lo avevano tirato fuori dal letto e portato in strada, dove l’avevano ucciso a calci e a pugni. Dopo, avevano legato il suo corpo al cancello del palazzo impedendo ai famigliari di toglierlo: doveva marcire li sopra, avevano detto.
Il giorno dopo, la rivolta era stata sedata. Ma la gente diceva che se il corpo del padrone fosse stato tirato giù dal cancello e sepolto sotto una croce, la maledizione sarebbe caduta su tutta la sua famiglia. Ovviamente nessuno aveva ascoltato quelle parole, e il padrone era stato sepolto con tutti gli onori, come un eroe caduto in guerra. Passato qualche mese sua moglie si era ammalata ed era morta. Il figlio maggiore, ormai un giovane uomo, era morto poco dopo anche lui, cadendo da cavallo. Infine, dopo qualche tempo, la figlia era morta mentre partoriva il suo primogenito, che non era sopravvissuto neanche lui.
Il palazzo era stato abbandonato e presto era caduto in rovina: nessuno voleva più andarci a vivere. La terra di quel nobile era stata occupata dai contadini. Sopra le tombe di famiglia avevano costruito un ponte, che per questo si chiamò il «Ponte dei morti».
La leggenda dice che ogni notte i fantasmi dei famigliari si riuniscono per tirare fuori dalla terra il corpo di quell’uomo crudele, per appenderlo di nuovo al cancello, perché vogliono mettere fine alla maledizione e tornare a riposare in pace. Ma non riescono mai a tirarlo fuori, perché sopra la sua tomba è stato costruito il ponte, e l’unica cosa che i fantasmi riescono a fare in una notte è tirare su qualche pietra, che poi il giorno dopo la gente, passando sul ponte, spinge di nuovo al suo posto.
Da bambini ogni tanto di notte andavamo a caccia di quei fantasmi. Per farci coraggio ci portavamo il nostro coltello.
E anche vari oggetti «magici» siberiani, tipo la zampa secca di un’oca о un ciuffo d’erba preso in riva al fiume in una notte di luna piena.
Ci nascondevamo in un piccolo fosso e aspettavamo i fantasmi. Riempivamo quell’attesa con racconti di paura e di vari casi misteriosi, che dovevano servire a spaventarci e tenerci sempre in allerta, ma presto ci addormentavamo uno dopo l’altro.
Il primo diceva:
«Ragazzi, svegliatemi se si vede qualcosa», e poi tutti noi cadevamo come cadaveri sul fondo di quel fosso.
La mattina, chi aveva resistito più a lungo raccontava agli altri quello che voleva.
Gli altri naturalmente si arrabbiavano:
«Bel cretino, ma perché non ci hai svegliati?»
«Non riuscivo a muovermi né ad aprire bocca, — sparava quello. - Ero come paralizzato».
Mei una volta ci ha raccontato che i fantasmi lo avevano rapito, portandolo in giro per la città, volando. Quando immaginavo Mei volare in compagnia di nobili fantasmi del secolo scorso ero davvero colpito al cuore.
E insomma, ogni volta che passavamo da li ricordavo a Mei la storia del suo volo. Lui mi guardava a bocca aperta:
«Mi prendi per il culo?» E io scoppiavo a ridere muovendo le braccia, imitando il movimento delle ali, e allora a quel punto anche Mei non resisteva più e attaccava a ridere pure lui.
Oltrepassando il Ponte dei morti agitando tutti e due le braccia, finalmente siamo arrivati nella via del ristorante di zia Katja.
L’abbiamo trovata in mezzo ai tavoli che serviva i clienti abituali, criminali anziani che vivevano da soli e andavano a mangiare da lei ogni giorno. Avevano passato tutti così tanto tempo in prigione che si erano abituati alla vita collettiva criminale, e per questo cercavano di stare sempre insieme, anche se dimostravano il contrario, visto che sembrava che gli desse fastidio sopportarsi a vicenda. Avevano stampati sulla faccia segni di sofferenza, ma in realtà quelle erano le loro vere facce, le loro facce normali. Secondo me avevano una specie di nostalgia della prigione, e persino della sofferenza nella quale si erano abituati a vivere per tanto tempo. Continuavano a fare la vita dei carcerati, pur essendo da anni persone libere. Molti non riuscivano più ad abituarsi alle regole del mondo civile, alla libertà. Quasi tutti preferivano vivere in monolocali nei quali avevano fatto abbattere i muri del bagno e del cucinino, per ottenere una stanza unica che ricordasse la cella. Conoscevo dei vecchi che mettevano persino il filo spinato e le sbarre alle finestre, perché altrimenti si sentivano a disagio e non riuscivano a prendere sonno. Altri dormivano su brande di legno come in carcere e lasciavano sempre scorrere l’acqua dal rubinetto, proprio come nelle celle. Tutta la loro vita diventava una perfetta imitazione di quella fatta in galera. Era strano: si pensa che una persona, dopo aver trascorso tanti anni dentro, non veda l’ora di abbandonare il disastroso modo di vivere del carcere per avere le comodità di una vita libera e bella, però per questa gente era come se gli avessero tolto la loro vera identità e li avessero catapultati in un mondo estraneo.
Zia Katja permetteva a tutti quei criminali di ricreare nel suo locale una specie di finto carcere, perché erano suoi clienti da sempre ma anche perché voleva bene a ognuno di loro e, come diceva lei stessa:
«Non oso rieducare le persone anziane».
Cosi quando si entrava nel ristorante di zia Katja, sembrava di stare dentro una cella.
Lo si capiva già da come stavano seduti, con le teste tutte chine, come se qualcosa gli impedisse di alzarle. Questo è un buon metodo per distinguere un vecchio carcerato: tiene sempre la testa bassa, perché in prigione si passa la maggior parte del tempo seduti sulle brande e bisogna stare attenti a non battere la testa contro la branda di sopra. Anche chi ha passato pochi anni in galera, quando esce non si libera facilmente di questa abitudine.
Di solito da zia Katja i vecchietti giocavano a carte, ma non con normali carte da gioco, con le kolotuski, carte fatte in carcere, dipinte a mano.
Erano tutti vestiti uguali, di grigio, e avevano tutti la fufajka, la classica giacca pesante, spessa e calda.
Come in cella, fumavano passandosi la sigaretta l’un l’altro, anche se potevano permettersi di fumare ognuno la sua; da quel fumo che riempiva il locale spuntavano le loro facce distrutte, con su un’espressione che era un’eterna domanda, come se li avesse colpiti un fatto strano, che proprio non riuscivano a spiegarsi: occhi spalancati che ti guardavano e in tre secondi ti facevano una radiografia completa, e sapevano meglio di te chi eri.
Tra loro parlavano solamente in gergo e in fenja, la vecchia lingua criminale siberiana, ma parlavano piano e poco, comunicavano più a gesti, soprattutto segreti.
Chiamavano zia Katja «mamma», per sottolineare l’importanza del suo ruolo e della sua autorità.
Seguivano molte regole di comportamento del carcere, ad esempio non andavano in bagno mentre qualcuno mangiava о beveva, anche se il bagno non era nella stessa stanza ma dall’altra parte del cortile. Non discutevano di politica, religione, о differenze tra nazionalità.
Tra loro esisteva una precisa gerarchia: i più autorevoli si sedevano vicino alle finestre, e godevano dei posti migliori, gli altri stavano più vicini alle porte. I «rifiuti» e gli «abbassati» non erano ammessi: in libertà non si è costretti a condividere lo stesso spazio come in carcere. C’erano solo due о tre «sesti»[8], che erano una specie di schiavi, persone che svolgevano compiti ritenuti non degni di un criminale: potevano toccare i soldi con le mani, cosi pagavano le consumazioni di tutti prendendo il denaro dalla cassa comune. Quando qualcuno finiva le sigarette il «sesto» doveva correre a procurargliene altre: servizio per cui veniva retribuito ma anche trattato con leggero disprezzo, non offensivo, ma indicativo, per ricordargli il suo posto nella scala gerarchica. Faceva impressione vedere ’sti vecchi trattati come ragazzini; stavano sempre allerta, controllavano in continuazione se qualcuno in sala aveva bisogno di loro. Quando portavano le sigarette s’inchinavano con la faccia umile, aspettavano che il criminale più autorevole aprisse il pacchetto e gliene offrisse qualcuna per il servizio, poi, ringraziando, tornavano al loro posto camminando al contrario, come i gamberi, per non dare la schiena alle persone con cui avevano appena avuto a che fare.
Insomma, entrando nel locale di zia Katja bisognava seguire le regole del carcere, e comportarsi come uno si comporta quando entra in una vera cella. Poteva sembrare una sciocchezza, però per quella gente, per quegli anziani ex carcerati, era un segno di rispetto, un modo per fargli capire che eri venuto con buone intenzioni ed eri uno in gamba.
Quando entri in una cella devi saper salutare in maniera degna. Non puoi dire semplicemente «Salve» о «Buon giorno», se lo fai i criminali capiscono subito che sei uno che non sa niente della loro cultura, e se ti va bene ti definiscono «uno di passaggio», uno che non c’entra niente con loro, e di conseguenza non comunicheranno con te, faranno finta che tu non esista. Bisogna salutare cosi: aprire la porta, fare un so lo passo e poi fermarsi, guai a fare un altro passo. Quindi dire «Pace alla casa vostra (o nostra)» о «Pace e salute agli onesti vagabondi» (questa è una variante sicura, da vero criminale), oppure «Buona salute alla compagnia onesta», «E l’ora delle vostre gioie»: insomma, esistono tanti modi di salutare, conosciuti e usati nel mondo criminale. Dopo aver pronunciato la formula giusta, è essenziale non muoversi e aspettare la risposta. Di solito i criminali non rispondono subito, fanno passare qualche momento, per valutare la tua reazione. Se sei in gamba starai tranquillo, fisserai un punto davanti a te e non guarderai mai nessuno in faccia, starai fermo e immobile ad aspettare. Ti risponderà la persona più autorevole, о uno dei suoi, sempre con una formula: «Benvenuto con onestà» о «Che il Signore ti guidi», oppure «Entra con l’anima».
Secondo le regole, prima di fare qualunque altra cosa, bisogna salutare personalmente il criminale più autorevole. Nel mio caso, quella volta io lo conoscevo. Si trovava vicino a una delle finestre dalla parte opposta del locale di zia Katja. Si sedeva sempre li, in compagnia dei suoi.
Tutte le persone presenti appartenevano alla casta degli Uomini, che nella gerarchia criminale viene chiamata anche Seme grigio. Erano criminali incalliti, alcolisti, gente semplice, ladri e assassini, che per motivi personali non avevano voluto affiancarsi alla casta di Seme nero, i cui membri rappresentavano una specie di «nobiltà» tra i criminali.
Tra le comunità criminali c’era un eterno processo di lotta per il potere, gli interessi erano diversi ma lo scopo finale di tutti era sempre lo stesso: il potere.
Il Seme nero nel mondo fuorilegge era una casta giovane ma potente, che aveva saputo far leva sulla filosofia del sacrificio personale. Apparivano come uomini puri e perfetti, che dedicavano la vita al benessere della gente in prigione. Avevano il culto della prigione: la chiamavano familiarmente «casa», «chiesa» о «madre», ed erano felici di finirci dentro anche per tutta la vita, mentre tutte le altre caste, tra cui anche quella degli Urea siberiani, disprezzavano la prigione e sopportavano la detenzione come si sopporta una disgrazia.
Grazie all’arruolamento nelle sue fila di cani e porci, il Seme nero era diventata la casta più numerosa nel mondo fuorilegge russo: ma per una persona saggia e buona che potevi incontrare fra di loro, ti toccava conoscerne altre venti ignoranti e sadiche, che si davano arie e facevano i prepotenti in ogni situazione. Per questo molti rifiutavano di condividere le loro idee.
Poi c’era un’altra particolarissima casta: il Seme rosso, gente che collaborava con gli sbirri e che credeva nelle balle raccontate dalle amministrazioni delle prigioni, come il «recupero della personalità». Venivano chiamati «cornuti», «rossi», «compagni», sucha, padla — nomi molto dispregiativi nella comunità criminale.
Tutti quelli che si trovavano in mezzo erano detti Seme grigio: cioè, neutrali. Erano contro gli sbirri e condividevano le regole della vita criminale, ma non avevano le responsabilità e soprattutto la filosofia di Seme nero, non volevano certo stare tutta la vita in prigione.
Quelli di Seme nero erano obbligati a rinnegare i parenti, non potevano avere né casa né famiglia. Come tutti gli altri criminali avevano il culto della madre, ma molti di loro non rispettavano le loro madri, anzi le trattavano male. Quante povere donne ho conosciuto con dei figli che, mentre stavano dentro, si dicevano l’un l’altro in maniera teatrale che l’unica cosa che gli mancava davvero era la mamma, mamma di qua e mamma di là, tante belle parole, e poi quando uscivano si presentavano a casa solamente per sfruttarla, a volte derubarla, perché così dice la loro regola: «Ogni Blatnyj — cioè ogni membro di Seme nero — deve portare via tutto dalla propria casa, solo così dimostra di essere onesto fino in fondo…» Una pazzia, madri e padri derubati, minacciati e a volte persino uccisi. Una vita corta e violenta, come la definivano loro stessi: «Vino, carte, donne e poi caschi pure il mondo…», senza nessun impegno morale о sociale. Tutta la loro esistenza si trasforma in uno spettacolo continuo in cui devono mostrare sempre e solo i lati negativi e primitivi della loro natura.
L’equilibrio tra Seme grigio e Seme nero si regge su continue tregue; gli Uomini sono più numerosi, ma i Blatnyj sono meglio organizzati in carcere.
La casta degli Uomini non ha una gerarchia come quella di Seme nero: viene rispettata l’anzianità e la professione, si trovano più in alto quelli che rischiano di più, rapinatori e assassini di poliziotti, mentre dopo vengono i ladri, i truffatori, i bari e tutti gli altri.
Gli Uomini condividono ogni decisione e seguono regole di vita simili a quelle siberiane, ma si mantengono pili neutrali in qualsiasi situazione. Il loro motto è: «La nostra casa è fuori dal villaggio». Le loro unità criminali non si chiamano bande ma «famiglie», e anche in prigione formano famiglie dove sono tutti uguali e condividono ogni cosa; quando è necessario le famiglie si uniscono e diventano una potenza senza limiti. Quasi tutte le rivolte carcerarie sono organizzate da loro.
Il vecchio più autorevole in quel locale — che dovevo salutare personalmente prima di fare qualsiasi altra cosa — si chiamava zio Kostic, ed era soprannominato «Scaber».
Era un criminale vecchio ed esperto, conosciuto in tutto il Paese; nella nostra comunità e nella mia famiglia parlavano bene di lui, lo trattavano con molto affetto. Era un tipo tranquillo e pacifico, aveva un modo di parlare molto piace-vole, si esprimeva con pazienza e umiltà ed era sempre chiaro e diretto: se doveva dirti una cosa non ci girava tanto intorno. Viveva con sua madre, una donna cosi vecchia che sembrava una tartaruga, si muoveva piano ma era molto in gamba; avevano una casa e un po’ di terra. Zio Kostic teneva molti colombi e io ogni tanto andavo a trovarlo per fare degli scambi: lui era onesto e mi regalava sempre qualche colombo in più, mi offriva il cifir e dopo mi raccontava varie storie interessanti della sua vita. Aveva una figlia da qualche parte della Russia ma non la vedeva da tanto tempo, e secondo me soffriva molto per questo.
Da giovane — mi raccontava — non era un criminale, lavorava in una grande segheria, tagliava i tronchi degli alberi. Ma poi un giorno aveva visto un ragazzo tagliarsi in due, cadendo sulla lama di una grande sega, spinto da un tronco. Il capo squadra non aveva permesso a nessuno di smettere di lavorare neanche per un momento, e loro erano stati obbligati a continuare a tagliare il legno, macchiandosi del sangue del loro compagno. Da allora aveva cominciato a odiare il comuniSmo, il lavoro collettivo e tutto ciò che proponeva il sistema sovietico.
La sua prima condanna se l’era beccata per un articolo del codice penale chiamato in Urss «Fannullone». Secondo quell’articolo, chi non aveva un lavoro ed era disoccupato poteva essere condannato come un criminale. E cosi, Kostic era stato mandato per tre anni in un carcere a regime comune nella città di Tver'. In quel periodo era in corso una guerra tra caste, il Seme nero stava per avere il controllo delle prigioni; all’inizio non molti erano d’accordo con questo cambiamento e il sangue scorreva come un fiume a primavera. Kostic aveva cercato di stare staccato da tutti, di non legarsi a nessuno, ma man mano che passava il tempo si era accorto che in prigione è impossibile vivere per conto proprio. A lui stavano più simpatici gli Uomini che i Blatnyj perché, diceva, «sono semplici e non tentano di ottenere niente con la violenza e la prepotenza, preferiscono usare le parole e il buon senso». In carcere era entrato a far parte di una famiglia che cercava di vivere in maniera neutrale, senza prendere le parti di nessuno in quella guerra, ma un giorno uno dei loro criminali anziani era stato ucciso da un giovane e spregiudicato Blatnoi, che voleva indebolire la casta di Seme grigio per poi sfruttare i suoi membri asservendoli ai propri interessi.
Allora gli Uomini hanno organizzato prima una specie di resistenza pacifica, poi, quando hanno capito che questo atteggiamento non dava i risultati voluti, si sono decisi a entrare in guerra. E quella guerra l’hanno combattuta con i coltelli. Molti di loro, lì in prigione, lavoravano in cucina e come parrucchieri (invece i Blatnyj non lavoravano, era contro le loro regole), quindi si sono armati senza fatica di coltelli e forbici e hanno seminato la morte tra il Seme nero.
Kostic sapeva usarlo bene, il coltello: era cresciuto in campagna, da ragazzo aveva imparato ad ammazzare i maiali grazie all’insegnamento di un vecchio reduce della Prima guerra mondiale che faceva il macellaio e finiva le bestie con un colpo di baionetta. Cosi, dopo i suoi primi omicidi, Kostic si è guadagnato quel soprannome: i compagni l’hanno chiamato con il nome di un coltello. Una volta uscito di prigione, sapeva già di cosa si sarebbe occupato: è cominciata allora la sua lunga carriera di rapinatore delle navi sui fiumi Volga, Don e Danubio.
Con zio Kostic io potevo parlare liberamente, senza seguire tante regole di comportamento. Certo ero rispettoso come con qualsiasi persona anziana e autorevole, ma mi permettevo anche un po’ di confidenza: gli raccontavo le mie avventure e gli facevo tante domande, cosa che nella comunità criminale di solito non si fa.
Spesso mi chiedeva di recitargli le poesie di Esenin, Lermontov, Puskin che conoscevo a memoria, e quando avevo finito diceva ai suoi compagni:
«Avete sentito? Questo diventerà un giorno un uomo intelligente, uno studiato! Che Dio ti benedica, figliolo! Dai, ripetimi ancora quella dell’aquila dietro le sbarre…»
Era il suo pezzo preferito, la poesia di Puskin dove era raccontato in maniera metaforica lo stato d’animo di un carcerato, paragonato a quello di una giovane aquila allevata in prigionia e costretta a vivere in una gabbia stretta. Io la recitavo con tono potente e lui mi guardava dritto negli occhi, come se cercasse qualcosa che doveva arrivare e non arrivava mai, e le sue labbra piano piano si muovevano ripetendo le parole che avevo appena detto. Quando finivo con i versi «Su, voliamo via! Noi siamo liberi uccelli, è tempo, fratello, è tempo! Là, dove dietro le nubi biancheggia la montagna, là, dove l’azzurro del mare è più intenso, là, dove volo da so lo nel vento…», lui si metteva le mani tra i capelli e diceva in maniera molto teatrale:
«E così, è vero, è così! Ma anche se avessi un’altra vita, rifarei le stesse cose!»
In quei momenti mi faceva impressione capire quanto lui era semplice e com’era bella e in un certo senso pura la sua semplicità.
Un giorno Kostic aveva ammazzato di botte una coppia di giovani tossici che abitavano in Centro, colpevoli di aver provocato la morte del loro bambino di quattro mesi lasciandolo senza cibo, buttato a morire di fame in un angolo del loro appartamento, tra gli stracci sporchi e i vestiti da lavare.
Quella coppia era famosa in città per la sua arroganza. La ragazza era abbastanza bella, si vestiva in maniera molto provocante e si comportava allo stesso modo. Il marito, figlio del direttore di una fabbrica di macchine di una grossa città della Russia centrale, era un ex studente fallito, un tossicodipendente e uno spacciatore, dava fastidio a tanta gente perché seminava il suo veleno tra i giovani.
I vicini di casa, che da tempo avevano notato che il bimbo era troppo magro e piangeva sempre, una mattina li hanno visti uscire senza il piccolo e poi andare al bar, dove sono rimasti tutto il giorno. Sospettando qualcosa di brutto hanno buttato giù la porta di casa e hanno trovato quel corpicino senza vita. A quel punto hanno scatenato un inferno.
I due genitori sono stati linciati dalla folla, che li avrebbe di certo ammazzati se non fosse intervenuto il Guardiano del Centro, che li ha presi e portati a casa sua, dicendo che dovevano essere giudicati secondo le regole criminali. In verità il Guardiano voleva solamente sfruttare l’occasione per ricattare il direttore della fabbrica, e costringerlo a pagare per salvare il figlio da morte sicura. Tutti, anche se sospettavano qualcosa, hanno preferito tacere. Tutti tranne Kostic.
Kostic ha fatto un gesto spettacolare: si è presentato da solo a casa del Guardiano, a torso nudo, con un bastone tra le mani. Gli scagnozzi del Guardiano hanno tentato di fermarlo, minacciandolo con la forza, ma lui ha detto solamente una cosa:
«Volete picchiare lei?» indicando la Madonna con Bambino tatuata sul suo petto. Quelli si sono tirati indietro e l’hanno fatto entrare, e lui ha ucciso a bastonate quei due genitori snaturati buttandoli poi giù dalla finestra, in strada, dove la gente li ha pestati finché non sono diventati una specie di massa biologica.
Il Guardiano era infuriato, ma già dopo mezz’ora le persone più autorevoli in città, tra cui anche nonno Kuzja, hanno dato ragione a Kostic e hanno consigliato al Guardiano una soluzione semplice e drastica: suicidarsi.
Dopo una settimana è arrivato in città il direttore della fabbrica, con l’intenzione di vendicare il figlio. Era evidente che sapeva ben poco della nostra città, perché si è presentato con una banda di coglioni armati, composta metà da sbirri fuori servizio e metà da militari; li aveva ingaggiati per fare una spedizione punitiva contro il criminale che aveva ucciso suo figlio. Ebbene, sono spariti tutti in un vicolo, insieme ai loro tre fuoristrada. Nessuno ha visto né sentito niente, sono entrati in città e non ne sono mai usciti.
Li hanno cercati ancora per un po’: appelli sui giornali, in televisione hanno persino fatto vedere la moglie del direttore che supplicava chiunque sapesse qualcosa del marito di parlare. Non è venuto fuori niente, come si dice da noi: «annegato senza lasciare neanche i cerchi nell’acqua».
Quando io chiedevo a nonno Kuzja, non in maniera diretta ovviamente ma prendendola alla larga, se secondo lui il direttore era morto per una ragione giusta, lui mi rispondeva con una frase che doveva piacergli molto, visto che la ripeteva a ogni occasione:
«Chi viene da noi con la spada, dalla spada prenderà la morte». Dicendolo mi sorrideva come faceva sempre, ma lo faceva con lo sguardo pesante di chi si tiene dentro tante storie che sono destinate a rimanere li per sempre.
Tornando a noi: ci siamo diretti verso il tavolo di zio Kostic, io camminavo spedito e Mei si trascinava dietro di me. Zio Kostic ci ha subito offerto di sederci con lui. Era un gesto generoso, ne abbiamo approfittato all’istante.
A quel punto è arrivata zia Katja, che ci ha baciati a lungo.
— Come state, figlioli? — ha chiesto con la sua solita voce angelica.
— Grazie, zia, tutto bene… Passavamo di qui, abbiamo deciso di fare un salto, vedere come stavi, se avevi bisogno di qualcosa…
— Sono sempre qui con la mia compagnia, grazie al cielo… — e ha gettato a zio Kostic un’occhiata affettuosa.
Lui le ha preso la mano e le ha baciato il palmo come si usava fare ai vecchi tempi in segno di affetto verso una donna, spesso la madre о la sorella. Poi ha detto:
— Che Gesù Cristo sia con te, madre, respiriamo grazie alle fatiche che fai. Perdonaci per tutto, Katjusa, siamo vecchi peccatori, perdonaci per tutto.
Era un vero spettacolo assistere a questi semplici e allo stesso tempo plateali gesti di rispetto e amicizia umana tra persone dai destini così diversi, unite dalla solitudine in mezzo al caos.
Zia Katja si era seduta con noi. Il vecchio continuava a tenerle la mano e guardando lontano, sopra le nostre teste, ha detto:
— Mia figlia deve avere la tua stessa età, lo sai, Katja? Spero che stia bene, che abbia trovato la sua strada e che sia una strada buona e giusta, diversa dalla mia…
— E anche dalla mia… — gli ha risposto zia Katja con la voce un po’ tremolante.
— Dio mi perdoni, povero scemo che sono. Cosa ho detto, Katjusa, che Dio ti aiuti…
Lei non ha risposto, stava quasi per piangere.
A noi toccava solo stare zitti e ascoltare, l’aria era piena di sentimenti veri e profondi.
Quello che mi piaceva di quell’ambiente, per quanto violento e brutale potesse essere, era che non c’era posto per bugie e menzogne, sceneggiate e buffonate: era assolutamente vero e involontariamente profondo. La verità, voglio dire, aveva un aspetto naturale, spontaneo, e non coltivato, fatto apposta: la gente era veramente umana.
Dopo una corta pausa io ho detto:
— Zia Katja, ti abbiamo portato una cosa…
Mei ha messo sul tavolo il sacchetto con la pianta avvolta negli stracci del vecchio Bosja, per proteggerla dal freddo.
Lei ha tolto quegli stracci e sulla faccia le è apparso un sorriso.
— Allora, com’è? Ti piace?
— Grazie, ragazzi, è bellissima. La porto subito nella serra, altrimenti con il freddo che fa… — e se n’è andata via con la pianta tra le mani.
Noi eravamo contenti, come se avessimo fatto un gesto eroico.
— Bravi, figlioli, — ci ha detto zio Kostic. - Non dimenticatela mai questa donna santa, che solo Dio lo sa come ci si sente a perdere i propri figli…
Quando zia Katja è tornata glielo si vedeva dagli occhi, che mentre era in serra aveva pianto. Ci ha abbracciati.
— Allora, con cosa vi devo sfamare oggi?
Era una domanda retorica. Tutto quello che cucinava lei era buonissimo. Senza pensarci su due volte abbiamo ordinato un’ottima zuppa rossa con la panna acida e il pane di grano duro. Un pane buono, nero come la notte.
Lei ha portato un pentolone pieno e lo ha messo al centro del tavolo, la zuppa era talmente calda che il vapore sembrava solido come un palo. Ci siamo serviti con un grande mestolo, poi abbiamo aggiunto nei piatti un cucchiaio di panna acida, che era dura e un po’ gialla, tanto grasso conteneva. Prendevamo un pezzo di pane nero, ci spalmavamo sopra aglio e burro, e via così, una cucchiaiata di zuppa e un morso di pane.
In quelle occasioni Mei era capace di svuotare da solo un intero pentolone, mangiava in fretta, io invece masticavo lentamente, mi dedicavo tutto a quel piacere e spesso, quando giravo il mestolo nel pentolone per prendere un bis, lo sen-tivo sbattere tristemente contro le pareti vuote. In quei momenti avevo la grande tentazione di spaccare il mestolo sulla testa del mio insaziabile compagno.
Per me, dopo aver mangiato la zuppa, è come se mi si aprisse un secondo respiro dentro il corpo, mi partono a raffica emozioni positive e mi viene voglia di stirarmi su un letto caldo e comodo e farmi una dormita di dieci ore.
Ma tempo cinque minuti per il cambio dei piatti ed è arrivato il secondo: patate cotte con la carne al forno, che galleggiavano nel grasso sciolto e avevano un profumo che arrivava direttamente al cuore. E al solito, per accompagnare quella portata, i tre piatti tipici. Cavoli tagliati lunghi e sottili, marinati nel sale, una cosa buonissima: mio nonno diceva sempre che erano una medicina naturale contro qualunque malattia, e che era grazie a loro che i russi avevano vinto tutte le guerre. Io personalmente ignoravo come i cavoli salati potessero guarire le malattie e con quali strategie militari avessero vinto le guerre, però erano molto buoni e come si dice da noi «andavano giù fischiando». L’altro piatto erano i cetrioli, sempre marinati nel sale, buoni da morire, croccanti come se li avessero appena tolti dalla pianta, profumati da tante spezie ed erbette, una favola. Il terzo erano le rape bianche grattugiate, con olio di girasole e aglio fresco. Erano tutti piatti che venivano da una cucina contadina molto povera di materie prime, ma capace di sfruttarle tutte con tante ricette diverse. Poi sul tavolo erano sempre presenti dei piattini con aglio fresco, cipolla tagliata a fettine, pomodori-ni verdi, burro, panna acida, e tanto pane nero. Per me, se esiste il paradiso, dev’esserci assolutamente una tavola imbandita come quella del locale di zia Katja.
Non osavamo bere alcol davanti a lei, per non darle un dispiacere. Così bevevamo kompot, una specie di composta di frutta, una macedonia di mele, pesche, prugne, albicocche e mirtilli rossi e neri fatta bollire a lungo in un grosso pentolone. Si preparava d’estate, e per il resto dell’anno veniva conservato in bottiglioni da tre litri con un collo largo circa dieci centimetri, chiuso ermeticamente. Si teneva in fresco nelle cantine, poi andava riscaldato prima di berlo.
Ogni volta che zia Katja si allontanava, zio Kostic aggiungeva nei nostri bicchieri un po’ di vodka facendoci l’occhiolino:
— Fate bene a non farvi vedere da lei… — Noi buttavamo giù obbedienti il misto di vodka e kompot, e lui rideva delle facce che facevamo subito dopo.
Il pranzo è durato un’ora, forse un po’ di più. Alla fine è arrivato tè bollente, forte e nero, con limone e zucchero. E torta al miele, una meraviglia. Mei si è buttato su quella torta come un invasore tedesco si buttava sulle galline nei pollai dei contadini russi. Ma ha subito ricevuto da me un’amichevole sberla e le sue mani sono arretrate fino a ritirarsi sotto il tavolo.
Il compito della divisione della torta spettava a me, era mio il compleanno. Il primo pezzo, per rispetto, l’ho dato a zio Kostic, il secondo all’amico di zio Kostic, un vecchio criminale chiamato «Beba», che era una specie di sua ombra silenziosa e invisibile. Poi, con calma, lentamente, ho servito Mei, che stava quasi per esplodere: guardava concentratissimo la sua fetta come quando un cane fissa il pezzettino di cibo nella mano del padrone e segue tutti i suoi movimenti. Mi faceva ridere, cosi senza nessun rimorso torturavo la sua pazienza facendo ogni gesto al rallentatore. Alla fine Mei si è innervosito e le sue ginocchia hanno cominciato a tremare sotto il tavolo in uno spaventoso tic, allora io con calma assoluta gli ho detto:
— Attento che rischi di farla cadere.
Tutti si sono messi a ridere, e Mei più degli altri.
Dopo il dolce di solito si sta un quarto d’ora seduti immobili, come diceva mio nonno «per accumulare un po’ di grassi». E si parla di varie cose. Mei però non poteva parlare proprio di niente, perché a giudicare da come si staccava dal tavo lo e si appoggiava con la schiena alla sedia, era entrato in uno stato fisico e mentale da abuso di stupefacenti. Per questo mio zio, da quando Mei era piccolo, lo chiamava «maiale»: perché come i maiali diventava ubriaco subito dopo aver mangiato.
Cosi alle chiacchiere abbiamo partecipato solo io e zio Kostic, Beba ogni tanto infilava una parola.
— E allora, a casa tutto bene? Nonno, che Dio lo aiuti, come sta?
— Grazie, va avanti con le preghiere, meno male che il Signore ci ascolta sempre.
— E con quel povero ragazzo, Gancio, che è successo?
Kostic alludeva a una faccenda capitata qualche settimana prima: uno dei nostri, appena maggiorenne, si era scontrato in una rissa con tre georgiani e con il coltello ne aveva ferito gravemente uno. C’erano da sempre un po’ di grane con Caucaso, non era una vera guerra tra quartieri, ce l’avevamo solamente con un gruppo di reazionari georgiani. Gancio non aveva torto nel casino della rissa, però aveva commesso un errore dopo: non aveva voluto presentarsi a una specie di processo che era stato organizzato dalle autorità criminali della città su iniziativa di un famigliare del georgiano ferito. Gancio era arrabbiato e fuori di sé, e cosi, con assoluta leggerezza, aveva offeso il sistema di giustizia criminale. Se fosse andato davanti alle autorità e avesse detto la sua, sicuramente tutto sarebbe finito a suo favore, invece il famigliare del georgiano ferito aveva fatto credere che il suo parente era stato aggredito senza ragioni da un siberiano crudele e spietato.
Kostic era una delle autorità coinvolte nel processo, e stava cercando di ricostruire il motivo per cui Gancio si era comportato cosi.
— Com’è ’sto ragazzo, tu lo conosci bene, no?
— Si, zio, è un mio caro amico, abbiamo combinato parecchi guai insieme. Con me e con gli altri si è sempre comportato bene, da fratello —. Cercavo di salvargli la faccia almeno davanti a una delle autorità, sperando che poi zio Kostic avrebbe influenzato gli altri. Però non potevo neanche esagerare e dare la mia parola, del resto la mia parola di minorenne non contava granché.
— Sai perché si è comportato in maniera disonesta con della buona gente?
Kostic mi aveva fatto una domanda che dalle mie parti si chiama «quella che fa solletico», cioè una domanda abbastanza diretta a cui non puoi non rispondere, anche se non c’entri niente. A quel punto ho deciso di dire la mia, indipendentemente da quello che era successo:
— Gancio è una persona onesta, tre anni fa si è beccato sei coltellate nella rissa contro la gente di Parkan perché ha coperto con il suo corpo Mel e Gagarin. Mei era ancora un bambino, poteva rimanerci secco. A volte è difficile parlare con lui perché è un po’ solitario, ma ha un cuore grande e non ha mai mancato di rispetto a nessuno. Non so com’è andata con i georgiani: Gancio era da solo, non c’era nessuno con lui. Forse anche per questo si è sentito tradito: tre tipi estranei, anzi gente di Caucaso, ti beccano quasi sotto casa tua, nel cuore del tuo quartiere… e nessuno dei tuoi amici è li per darti una mano ad affrontarli.
L’avevo raccontato apposta, il sacrificio di Gancio in difesa di Mei, perché sapevo che queste cose contano più di tante altre. Speravo che anche Kostic la pensasse cosi, in fondo era rimasto un uomo semplice e un piantagrane unico.
— Secondo te si è comportato nel modo giusto? Non era meglio risolvere tutto a parole?
Quella domanda era una trappola tutta per me.
— Secondo me è andata com’è andata. Lo sai meglio di me, zio, che ogni volta è diverso. Prima che ti capiti non puoi sapere come reagirai.
— Se aveva ragione perché non ha voluto presentarsi davanti agli altri, per raccontare la sua versione? Allora crede di aver torto, non è sicuro di essersi comportato onestamente…
— Secondo me ha temuto di essere attaccato per la seconda volta, tutto qui. La prima sotto casa sua, con i coltelli, la seconda attraverso la giustizia della gente autorevole. Ha perso fiducia nelle autorità, si è sentito tradito: hanno accolto la richiesta dei georgiani pur sapendo che lui era stato accoltellato in quel modo, tre contro uno, e nel suo quartiere.
Finalmente ero riuscito a dire quello che pensavo.
Kostic per un momento mi ha guardato senza nessuna espressione, poi mi ha sorriso:
— Meno male che nella nostra vecchia città ci sono ancora dei giovani delinquenti… Ricordatelo sempre, Kolima, è sbagliato voler diventare un’autorità, lo diventerai se lo meriti, se sei nato per quello.
La questione di Gancio è stata risolta tre giorni dopo. Le autorità criminali hanno deciso che i georgiani avevano of-feso con la loro richiesta l’onore della giustizia, e li hanno proclamati «caproni puzzolenti», un’espressione di estremo disprezzo nella comunità criminale. Quei tre sono spariti dalla Transnistria, però prima di andarsene hanno lanciato una bomba a mano in casa di Gancio, mentre lui cenava con l’anziana madre. Per fortuna quella bomba veniva da una partita di bombe a mano che servivano per le esercitazioni militari: aveva un anello rosso disegnato con l’inchiostro e non c’era carica esplosiva, in poche parole era pericolosa quanto un mattone. I georgiani non lo sapevano, l’avevano comprata pensando che fosse funzionante.
Anche se non era morto nessuno, la gente del nostro quartiere l’aveva presa come una grave offesa alla comunità. Tanto che una sera nonno Kuzja mi aveva detto:
«Guarda il notiziario, forse vedrai qualcosa d’interessante».
Tra le ultime notizie c’era un servizio da Mosca: sette uomini con precedenti penali di nazionalità georgiana erano stati trovati uccisi nell’abitazione di uno di loro, brutalmente fucilati mentre cenavano. Le immagini mostravano una tavola capovolta, mobili pieni di buchi, corpi squarciati dalle ferite. Sul lampadario, una cintura da caccia siberiana tutta istoriata a mano, e appesa a quella cintura la finta bomba a mano. Il giornalista commentava:
«… una brutale strage, senza dubbio una resa di conti eseguita da criminali siberiani».
Ricordo che quella sera, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dall’armadio la mia cintura da caccia, l’ho guardata a lungo e ho pensato: «Com’è bello essere siberiani».
Dopo la conversazione con zio Kostic ho svegliato Mei con due buffetti. Abbiamo ringraziato zia Katja e siamo andati per la nostra strada. Lei come sempre è uscita sulle scale del locale e ci ha salutato finché non siamo spariti dietro l’angolo.
Mei si è messo a rompermi i coglioni, voleva sapere a tutti i costi di che cosa avevo parlato con zio Kostic. L’idea di dovergli riassumere tutto il contenuto del discorso mi raggelava, ma la sua faccia pura ha sciolto il mio ghiaccio.
Così ho cominciato a raccontargli tutto, e quando sono arrivato a dire che zio Kostic mi aveva chiesto di Gancio, lui si è fermato sul posto come un lampione:
— E tu non gli hai detto niente, no?
Era arrabbiato ed era un brutto segno, perché quando Mei si arrabbiava finiva che ci picchiavamo, e siccome era quattro volte pili grosso di me io le prendevo sempre. L’ho steso una sola volta in vita mia, ma avevamo poco più di sei anni: l’ho picchiato con un bastone aprendogli una ferita in testa, approfittando del fatto che era rimasto intrappolato con le braccia e le gambe in una rete da pesca.
Adesso Mei se ne stava li, fermo immobile sulla strada con la faccia incattivita e i pugni stretti. L’ho guardato a lungo, e proprio non arrivavo a capire che cosa potesse passargli per la mente.
— Ma come «niente», ho detto quello che pensavo… — non sono riuscito a finire la frase che mi ha buttato sulla neve e si è messo a pestarmi gridando che ero un traditore.
Mentre mi picchiava, ho fatto scivolare la mano destra nel taschino della giacca, dove tenevo un tirapugni. Ho infilato per bene le dita nei buchi, poi ho tirato fuori la mano di scatto e gli ho dato un gran colpo in testa. Mi faceva un po’ d’impressione picchiarlo proprio li dov’era era già pieno di traumi e dolori, però era l’unico modo di fermarlo. Infatti mi ha mollato e si è seduto vicino a me, sulla neve.
Io ero sdraiato, ansimavo e non riuscivo ad alzarmi, mi limitavo a controllare le sue mosse, a guardarlo. Lui si toccava il punto dove l’avevo colpito e con la faccia schifata continuava a picchiarmi leggermente con il piede, più per disprezzo che per farmi male.
Quando ho ripreso fiato mi sono alzato sui gomiti:
— Ma che diavolo ti è preso? Mi volevi ammazzare? Che ho detto?
— Hai parlato di Gancio e adesso lui avrà dei problemi. Mi ha salvato la vita, è nostro fratello. Perché hai fatto la spia a zio Kostic?
A quelle parole mi è preso un crampo, non riuscivo a crederci. Mi sono tirato su, ho tolto la neve dalla giacca e dai pantaloni, e prima di riprendere la strada gli ho girato la schiena. Volevo che capisse bene la lezione.
— Ho parlato bene di Gancio, scemo, l’ho difeso, — gli ho detto. - E se Dio vuole, zio Kostic ci aiuterà a toglierlo dai guai.
Dopo sono partito, sapendo già cosa sarebbe successo. Per un’ora buona avremmo camminato come una compagnia teatrale: io davanti, come Gesù appena sceso dalla croce, con la testa alta e lo sguardo pieno di promesse che si perde cinematograficamente nell’orizzonte, e Mei dietro, con le spalle basse, tutto umile, con la faccia di uno che ha appena commesso un reato vergognoso, costretto a fare saltelli come il gobbo di Notre-Dame e a ripetere con voce piagnucolante e pietosa sempre la stessa frase, come una preghiera monotona:
— Dài, Kolima, non ti arrabbiare. Non ci siamo capiti, succede, no?
«Ma porca puttana, — pensavo, — porca puttana!»
E cosi siamo usciti dal Centro, lasciandoci alle spalle l’ultima fila delle vecchie case a tre piani. Dovevamo attraversare tutto il parco fino a un edificio orribile e triste, un palazzo costruito due secoli prima per ospitare la zarina di Russia nei suoi viaggi nelle terre di confine. Non so niente di architettura, ma era chiaro persino a me che quel palazzo era un miscuglio di stili mal assemblati: un po’ di Medioevo e un po’ di Rinascimento italiano, copiato malamente dai russi. Era grezzo, con decorazioni che non c’entravano un tubo, e per di più era tutto coperto di muffa. Quello schifo di posto, che secondo il mio parere poteva andar bene solamente per feste sataniche e sacrifici umani, ospitava invece i malati termina li di tubercolosi. Beh, in un certo senso, i sacrifici umani in quel posto erano all’ordine del giorno…
A Bender quell’ospedale veniva chiamato morìlka, che nella lingua antica indica qualcosa che ti fa soffocare. I medici che lavoravano li erano per lo più medici militari del sistema penitenziario, insomma erano i dottori delle carceri. Arrivavano da tutta l’Urss, si trasferivano a Bender per qualche anno con le famiglie e poi se ne andavano; venivano subito sostituiti da altri, che prima di andarsene a loro volta proponevano nuovi cambiamenti, piccole e inutili rivoluzioni. Quei poveri malati ormai erano abituati ai continui trasferimenti da un piano all’altro, da un’ala all’altra, erano costretti a veder finire i loro giorni in mezzo al casino, con intorno gente sconosciuta che va e viene come al mercato.
L’ospedale era di tipo «chiuso», cioè sorvegliato come qualsiasi prigione, perché molti dei pazienti erano ex carcerati. Intorno aveva il filo spinato, con tanto di sbarre alle finestre.
Era vietato fumare in tutto l’edificio, ma gli infermieri portavano di nascosto le sigarette e le vendevano ai fumatori incalliti al triplo del costo normale, speculando alla grande.
Tra i pazienti c’erano tanti finti malati: autorità del mondo criminale che sfruttando le loro conoscenze erano riuscite a farsi fare certificati medici falsi dove venivano dichiarati «terminali». Cosi se ne stavano in un bell’ospedale anziché in un carcere tutto freddo, umido e puzzolente. Quando ne avevano voglia facevano arrivare le prostitute da fuori, organizzavano festini con gli amici e persino riunioni di autorità criminali a livello nazionale. Tutto era permesso e coperto, bastava pagare.
A garantire la felice permanenza delle autorità in ospedale era una donna, un’infermiera cicciona di nazionalità russa, sempre allegra: zia Marusja. Sembrava più sana di Nostro Signore, aveva le guance rosse e parlava a voce alta, con dentro una forza tremenda. Era molto amata dai criminali, perché non c’era niente che lei non potesse fare per loro.
L’ospedale era diviso in tre blocchi non comunicanti. Il primo, il più bello, era esposto al sole: aveva grandi vetrate e una piscina calda; era il blocco dei malati terminali, dove ogni paziente aveva la sua stanzetta pulita e calda ed era oggetto di continue attenzioni da parte del personale. Era lì che stavano le autorità: fingevano di essere moribondi e invece erano sani e pieni di forze, passavano le giornate a giocare a carte, a guardare film americani in videocassetta, a scopare le infermiere giovani e a ricevere le visite degli amici che gli fornivano tutto il necessario per una vita bella e piena di gioie.
Nonno Kuzja parlava male di quella gente, li chiamava urody, che significa «mutilati»: diceva che erano la vergogna del mondo criminale moderno, e che se esistevano persone così si doveva ringraziare la cultura che veniva dall’America e dall’Europa.
Il secondo blocco era destinato ai malati cronici. Stavano in sei in una stanza; niente televisione, niente frigo, solo la mensa e il letto. Dormire alle nove di sera, sveglia alle otto del mattino. Non si poteva uscire dalla stanza senza il permesso del personale autorizzato, neanche per andare al cesso. In caso di bisogno, fuori dalla fascia oraria prevista si doveva usare una vecchia latrina mobile che ogni sera veniva svuotata. Il mangiare era discreto, tre volte al giorno. In questo blocco stavano i malati veri, criminali e non, e poi molti senza tetto, vagabondi. Le cure mediche erano uguali per tutti: pastiglie e qualche iniezione, inalazioni di vapore due volte alla settimana. I locali venivano puliti dagli infermieri con un disinfettante potentissimo, la creolina, lo stesso che si usava per le stalle: puzzava così tanto che se lo respiravi per più di mezz’ora ti veniva un mal di testa tremendo. Lì dentro, pure il cibo puzzava di creolina.
Il terzo blocco era per i malati di tubercolosi in fase acuta, infettivi. Era tutto in ombra, orientato verso gli alberi del parco, con piccole finestre sempre appannate; era talmente umido che l’acqua gocciolava dal soffitto. Tre piani, per ogni piano cinquanta stanze e in ogni stanza circa trenta persone. Per dormire c’erano brande di legno come quelle del carcere, materassini e lenzuola che venivano cambiate una volta al mese, coperte grezze, di lana sintetica. Non tutti avevano i cuscini. In quelle stanze strapiene la gente moriva di continuo. Faceva schifo lì dentro, molti non riuscivano nemmeno ad andare in bagno da soli, e visto che nessuno li aiutava si facevano tutto addosso; per di più molti di loro, mentre tossivano, sputavano sangue, lo sputavano di continuo, direttamente sul pavimento. Niente televisore, radio о altri divertimenti. Zero cure, tanto non servivano più a niente. Mangiare poco e male, tanto si va a morire, quindi il cibo è uno spreco.
Ai malati del terzo blocco ovviamente non arrivava il mercato degli infermieri, e quindi si erano inventati un sistema ingegnoso per procurarsi le sigarette. Usavano i ragazzini, gente come noi, di strada. I malati lanciavano dalle finestre un bullone pesante, intorno al quale era legato un doppio filo da pesca. Quando il bullone finiva dietro il muro, i ragazzini agganciavano al filo un sacchettino con le sigarette, e i malati uno con i soldi. Tirando il filo, facevi muovere i due sacchettini che cominciavano il loro viaggio in direzione opposta, i soldi verso i ragazzi e le sigarette verso i malati.
I ragazzi vendevano le sigarette più о meno al costo di mercato, ma ci guadagnavano lo stesso perché erano rubate e a loro non erano costate niente.
I malati avevano sempre fame di sigarette, sempre. L’amministrazione dell’ospedale, nel tentativo di bloccare questo tipo di traffico, era arrivata a seminare la paura tra i ragazzi di strada, facendo credere che potevano ammalarsi e morire, toccando i soldi dei malati. Ma i ragazzi come sempre avevano trovato una soluzione: passavano velocemente intorno alle banconote la fiamma di un accendino per «ammazzare» il batterio mortale. L’idea di fare una cosa vietata e pericolosa li attraeva ancora di più.
Le guardie dell’ospedale avevano l’ordine d’intervenire. Molte chiudevano un occhio, ma certi pezzi di merda si divertivano a mandare a monte lo scambio proprio all’ultimo: aspettavano il momento in cui il malato allungava la mano per prendere il pacchetto e, zac! strappavano il filo. Le sigarette cadevano a terra, accompagnate dal grido disperato del malato. Le guardie se la ridevano a lungo: sbirri da sgozzare come maiali, secondo me.
Io e Mei avevamo ormai attraversato già tutto il parco. Mei continuava a chiedermi scusa, e io continuavo a non considerarlo e a camminare come se fossi solo.
Improvvisamente, mentre costeggiavamo il muro del terzo blocco, mi è caduto un bullone tra i piedi. Mi sono fermato e l’ho raccolto: aveva il filo da pesca legato. Ho guardato in su: a una finestra del terzo piano era affacciato un uomo di mezza età, con la barba lunga e i capelli tutti spettinati. Mi fissava con occhi spalancati e faceva il gesto di fumare, come se tenesse tra le dita una sigaretta.
Io gli ho fatto capire che mi sarei organizzato in un momento. Mi sono girato verso Mei, che non aveva neanche capito perché mi ero fermato, e gli ho chiesto di darmi tutte le sigarette che aveva.
Mei mi ha guardato con sospetto, ma io gli ho detto in tono schifato:
— Dai, quella gente non ha da fumare, tu tra poco puoi ricomprarti un altro pacchetto.
— Ma non ho i soldi dietro!
Mi è montata una rabbia spaventosa, ma con la rabbia non si poteva ottenere niente da Mei, così mi sono calmato e gli ho detto:
— Se me le dai ti perdono e non racconto niente agli altri.
Mei, senza dire niente, ha tirato fuori dalla tasca due pacchetti di Temp, le Marlboro sovietiche.
Gli ho indicato il punto della giacca dove teneva l’accendino.
— Ma me l’hai regalato tu, non ti ricordi? — ha detto, tentando di salvare almeno quello, però nel frattempo già metteva la mano nel taschino per prenderlo.
— L’ho rubato in un chiosco a Tiraspol', te ne rubo uno più bello, con la donnina nuda sopra…
— E va bene, va bene… — Il trucco della donna nuda aveva funzionato, a Mei sembrava di aver fatto un affare. - Ma ricordalo, Kolima, con la donna nuda, l’hai promesso!
— Io mantengo sempre le mie promesse, — gli ho detto prendendo l’accendino dalla sua pesante ma ingenua mano.
Uno dei pacchetti era iniziato, mancava qualche sigaretta. Ci ho infilato dentro l’accendino e poi ho fatto passare il filo tutt’intorno, infiocchettandolo come un regalo. All’ultimo ho aggiunto la sola cosa che avevo con me, il mio fazzoletto di stoffa pulito, mettendolo tra i due pacchetti. Poi ho cominciato a tirare il filo. Quando il mio fagotto ha raggiunto la finestra, la mano dell’uomo si è allungata al di là delle sbarre e le urla di gioia sono arrivate fino a noi.
Io sono rimasto con il sacchettino dei malati tra le mani. L’ho aperto: dentro c’era una banconota tutta strappata, sporca e umida. Un rublo. Vicino, un foglio di carta con una scritta: «Scusate, non possiamo pagare di più».
Non l’ho nemmeno toccato, quel rublo, ho richiuso il sacchettino e ho mosso i due fili, per avvertire i malati. L’uomo alla finestra ha tirato il filo verso di sé, ha ripreso il suo rublo e mi ha gridato:
— Grazie di tutto!
— Che Dio vi benedica, gente! — ho risposto urlando con tutta la mia forza.
Sulla destra si è subito materializzata una guardia, che agitando il suo Kalasnikov ci ha gridato:
— Allontanarsi dal recinto, allontanatevi о sparo!
— Ma chiudi ’sta fogna di becco, fottuto sbirro di merda! — abbiamo risposto contemporaneamente io e Mei, anche se con parole un po’ diverse: ma insomma, il senso era quello.
Senza agitarci abbiamo ripreso il nostro cammino. Poi ci siamo voltati. Lo sbirro stava zitto, ci fissava con una cattiveria negli occhi che sembrava sul punto di esplodere. Dalla finestra, il malato continuava a guardarci: sorrideva e si fumava una sigaretta.
— Però quel rublo potevi anche prenderlo, — ha detto dopo un po’ Mei.
Non potevo ammazzarlo perché gli volevo bene, allora ho fatto come mi diceva sempre di fare nonno Kuzja con tutti quelli non possono capire le cose essenziali: gli ho augurato buona fortuna. Era un vero imbecille, il mio amico Mei, e lo è ancora: non è migliorato con gli anni, anzi forse è pure un po’ peggiorato.
Ormai non mancava molto al quartiere Ferrovia, dove Mei doveva portare ’sto messaggio a un criminale. Superando l’ospedale, siamo passati vicino ai magazzini alimentari. Un posto che conoscevamo bene, perché spesso ci andavamo a rubare di notte.
Era una costruzione vecchia, d’inizio secolo, composta da tanti edifici in mattoni con i muri alti e senza finestre. Davanti passava la ferrovia, così i treni si fermavano direttamente lì e i vagoni venivano scaricati о caricati in fretta.
Per rubare lì dentro non serviva l’agilità dei ladri, ma un po’ di diplomazia. Non scassinavamo mai le porte, avevamo dentro un nostro uomo, un infiltrato, una specie di talpa che ci avvertiva, segnalandoci il momento giusto. Di solito, dopo aver caricato la merce, i treni rimanevano fermi per qualche ora, i macchinisti si riposavano per poi ripartire all’alba. Cosi noi aprivamo i vagoni di notte e portavamo via la roba: era più facile lavorare sui treni che rompere le porte dei magazzini. Caricavamo tutto in macchina e filavamo via.
Quei treni andavano nei Paesi del blocco sovietico, tanti in Romania, Bulgaria e Jugoslavia. Portavano zucchero, conserve, prodotti alimentari a lunga conservazione. A volte erano già carichi a metà, con capi d’abbigliamento, cappotti caldi, tute da lavoro, guanti e uniformi militari. In certi vagoni potevi trovare anche elettrodomestici, trapani, flessibili, articoli da ferramenta, stufe elettriche, ventilatori. Quando capitava un’occasione cosi facevamo anche tre о quattro giri, per portare via il più possibile. Ma non riuscivamo mai a caricare tutto in macchina: per fortuna il nostro uomo ci lasciava depositare temporaneamente la merce in certi nascondigli del magazzino.
La nostra talpa infatti era proprio il vecchio guardiano del magazzino, un giapponese che ormai, a forza di vivere con i russi, si chiamava Boriska.
Era molto vecchio, ed era finito nella nostra città insieme ai siberiani con la seconda ondata di deportazione alla fine degli anni Quaranta, dopo la vittoria dei russi nella Seconda guerra mondiale.
Era stato fatto prigioniero di guerra nel conflitto russogiapponese, nella battaglia di Chalchin-Gol. Aveva battuto la testa ed era svenuto, poi era rimasto vivo per pura fortuna, perché sopra i cadaveri distesi a terra erano passati i carri armati russi. Dopo i carri era passata la cavalleria: lo avevano trovato H, sbandato, che girava come un fantasma in mezzo ai morti. Per pietà l’avevano preso con loro, altrimenti sarebbe stato ammazzato dai fanti che andavano in cerca di giapponesi vivi per vendicare i compagni uccisi nella notte precedente, quando le forze giapponesi avevano attaccato le prime divisioni russe.
I cosacchi non l’avevano consegnato alle forze armate, per qualche tempo lo avevano tenuto con loro, come addetto alle scuderie. Doveva pulire e accudire i cavalli dei cosacchi di Altaj, del sud della Siberia. Lo trattavano bene e tra lui e i cosacchi era nato un rapporto d’amicizia.
Boriska veniva da Iga, terra di ninja e assassini. Fin da ragazzo era stato addestrato a combattere con le armi e con le mani. Anche i cosacchi amavano i combattimenti con le armi bianche e la lotta, e cosi Boriska gli insegnava le tecniche del suo Paese e imparava le loro.
Boriska ce l’aveva con i giapponesi e soprattutto con i samurai e con l’imperatore, diceva che vivevano alle spalle del popolo, che era costretto a subire tante ingiustizie. Diceva di essersi arruolato solo per disperazione, a causa di una storia d’amore finita male. La ragazza di cui si era innamorato era stata data in sposa a un altro, ricco e potente.
L’ataman dei cosacchi, cioè il loro capo (un uomo grande e forte, un tipico siberiano del sud), gli voleva particolarmente bene. Un giorno — raccontava Boriska — lo aveva chiamato fuori dalla scuderia. Lui era uscito sul piazzale, dove i cosacchi lo aspettavano riuniti in cerchio.
«Adesso i giapponesi sono tutti morti, — aveva detto l’ata-man, — il Giappone ormai ha perso la sua guerra e tu puoi tornartene a casa. Però prima voglio che fai una cosa…» L’ataman aveva fatto segno a un giovane cosacco e quello aveva portato due spade: una era di Boriska, ce l’aveva alla cintura quando i cosacchi l’avevano salvato, e l’altra, la saska, era la tipica spada dei cosacchi siberiani, ben più pesante di quella dei cosacchi di altre parti della Russia, perché i siberiani la usavano anche per spaccare la legna. Una spada così può arrivare a pesare fino a sette chili e le persone capaci di usarla potevano, in tempi di guerra, aprire in due un uomo dalla testa alle anche.
L’ataman aveva preso quelle due spade e gli aveva detto davanti a tutti:
«Ti abbiamo trattato bene e non hai da lamentarti, ma adesso voglio sapere se tentare di occupare l’Urss ti è servito da lezione. Ecco a te le due spade. Se hai capito che fare la guerra contro di noi è stato ingiusto, spacca la tua spada giapponese con la nostra spada cosacca, e noi ti lasceremo stare con noi e sarai un cosacco anche tu. Se invece pensi che la vostra è stata una guerra giusta, spacca la nostra spada con la tua, e ti lasceremo andare libero dove vuoi e che Dio ti aiuti, non ti faremo del male».
Boriska non sapeva cosa fare. Non voleva diventare un cosacco, ma non pensava neanche che la guerra contro i russi fosse stata una cosa buona e giusta. E poi soprattutto odiava i giapponesi.
Allora aveva preso in mano la sua spada, l’aveva baciata come fanno i cosacchi con le loro spade e se l’era appesa alla cintura, al suo posto.
L’ataman lo guardava con interesse, tentando di capire cosa combinava. Molti cosacchi erano sicuri che Boriska avrebbe spaccato la loro spada.
Invece lui aveva preso la saska, aveva baciato anche quella e poi l’aveva restituita all’ataman.
Erano rimasti tutti senza parole, e l’ataman si era messo a ridere:
«Ecco, Boriska… Sei in gamba, giapponese!»
«Non sono giapponese, sono di Iga, e la mia spada è di Iga!» aveva risposto lui.
«Bene, sei davvero un brav’uomo, Boriska, non devi mai dimenticare chi sei e mai tradire la tua tradizione… Devi essere fiero, solo così conserverai la tua dignità!»
E così Boriska era rimasto con i cosacchi ancora per tanto tempo, però da quel giorno gli era stato concesso di portare sempre con sé la sua spada.
Quando i cosacchi erano tornati in Siberia, nell’Altaj, Boriska li aveva seguiti. L’ataman l’aveva ospitato in casa sua, e lì Boriska aveva incontrato la sua futura moglie, la figlia maggiore dell’ataman, Svetlana. Si erano sposati. Boriska per rispetto verso di lei si era battezzato nella fede ortodossa con il nome di Boris, per poter fare la cerimonia in chiesa. Avevano costruito la loro casa e vivevano lì, in un piccolo paese sul fiume Amur.
Poi un giorno l’ataman era stato arrestato improvvisamente dai servizi segreti di Stalin, e dopo qualche tempo fucilato come traditore. Boriska l’aveva presa malissimo, aveva pensato che fosse tutta colpa sua, invece non c’entrava niente: in quegli anni molti cosacchi erano stati presi di mira dal governo sovietico perché non condividevano le idee comuniste, e conservavano da sempre una certa simpatia verso l’anarchia e l’autonomia.
Dopo la sua morte, l’ataman era stato dichiarato «nemico del popolo», e i membri della sua famiglia erano stati deportati in Transnistria con tanti altri siberiani.
Boriska se lo ricordava ancora, quel lungo viaggio. I treni — diceva — sostavano a lungo sui binari, e non si poteva uscire perché erano sorvegliati da soldati armati. A volte capitavano vicini due treni che andavano in direzioni opposte, su uno c’era la gente della parte europea dell’Urss che veniva mandata in Siberia, e sull’altro il contrario. Lui sentiva gridare da un treno:
«Oddio, ci portano in Siberia, fa troppo freddo li, moriremo tutti!»
E dall’altro treno rispondere:
«Oh Cristo, ci mandano in Europa, niente boschi, solo colline vuote, moriremo di fame!»
In quel viaggio Boriska ha conosciuto degli Urea siberiani. Si è affiancato a loro perché erano gli unici a non sembrargli disperati: in un certo senso andavano sul sicuro, in Transnistria c’era già ad attenderli una comunità abbastanza sviluppata.
Boriska ha raccontato la sua storia a uno di loro, un uomo anziano, rispettato da tutti gli altri, e quello lo ha rassicurato: «Non aver paura, stai vicino a noi: in Transnistria ci sono i nostri fratelli. Se sei un uomo giusto, presto avrai una casa e potrai crescere i tuoi bambini assieme ai nostri figli, che il Signore ci benedica tutti…»
Gli Urea e i cosacchi erano da sempre in sintonia, andavano d’accordo: entrambi rispettavano le vecchie tradizioni, amavano la patria e la loro terra e credevano nell’indipendenza da qualsiasi forma di potere. Entrambi sono stati perseguitati da vari governi russi in epoche diverse, per la loro voglia di libertà. Solo che gli Urea erano pili estremisti, e avevano una particolare struttura gerarchica. I cosacchi invece si definivano un esercito libero e quindi avevano una struttura paramilitare; in tempo di pace si occupavano per lo più di allevamento di bestiame.
Arrivati in Transnistria, Boriska e la moglie sono stati ospitati da una famiglia di Urea, proprio come gli aveva promesso il vecchio.
Boriska si è sentito subito a casa. Per lui gli Urea avevano molto in comune con la gente della sua terra di origine, Iga. Erano uniti, estremamente anarchici e con una forte tradizione criminale.
Presto è entrato nel giro d’affari dei criminali siberiani, che lo rispettavano perché lui capiva tutto della loro legge, era un uomo di parola e giusto.
E poco alla volta è diventato uno di noi. Viveva nella nostra zona con la sua famiglia. Sua moglie, che noi tutti ormai chiamavamo nonna Svetlana, gli aveva dato due figli che seguivano la strada degli Urea.
Da vecchio, Boriska ha sfruttato un aggancio con il direttore dei magazzini alimentari che lo ha assunto come guardiano. Hanno fatto un accordo: il direttore non faceva casini quando la merce spariva e Boriska doveva dividere la sua fetta con lui. Organizzava ogni colpo alla perfezione, era molto preciso e serio, quando si trattava d’affari. Soprattutto sapeva gestire le sue emozioni molto bene, non l’ho mai visto perdere la testa.
Una volta, d’autunno, quando in ogni casa da noi la gente prepara le conserve per l’inverno e accende un gran fuoco dove mette a bollire un grosso pentolone pieno d’acqua, a casa nostra si sono riunite cinque famiglie vicine per fare insieme le conserve. Come al solito, le donne tagliavano le verdure e i legumi, e gli uomini badavano al fuoco e preparavano i barattoli di vetro. Noi bambini eravamo li vicini, giocavamo in mezzo agli adulti. C’era anche il vecchio Boriska, con suo figlio e i nipotini.
A un certo punto la staffa sotto il grosso pentolone si è spaccata in due, e il pentolone si è ribaltato e ha rovesciato fuori duecento litri di acqua bollente in un attimo. A pochi metri da li era seduto per terra un bimbo, figlio di un nostro vicino, zio Sanja. Io ero andato in giardino a cercare altri barattoli. Quando ho sentito il rumore del pentolone che si rovesciava, sono corso in casa e ho visto il vecchio Boriska prendere una grossa bacinella di lega, lanciarla a terra e saltarci dentro, scivolando come su una tavola da surf. E H, in quel vapore bianco e denso come la nebbia sul fiume di mattina, ho visto diventare piano piano sempre più visibile la figura di un uomo che stava dentro una bacinella con un bimbo in braccio, circondato dall’acqua bollente. La madre del bimbo ha perso i sensi, il padre, zio Sanja, si è messo a urlare; gli unici a essere tranquilli erano quei due, Boriska e il piccolino.
Aveva agito d’istinto, senza pensarci su, e dopo gli era tornato il solito aspetto sereno di sempre, come se facesse cose cosi quattro volte al giorno.
Era una persona molto interessante, mi piaceva parlare con lui, sentirlo raccontare le storie della sua vita. Andava spesso a pescare con una canna che si era fatto da solo, e mentre pescava stava con i piedi nell’acqua e cantava canzoni giapponesi. Quando ero piccolo me ne ha insegnata una molto bella: parlava di una montagna e di un giovane che l’attraversava per trovare la sua fidanzata.
Avevamo fatto un patto, con Boriska: quando passavamo dai magazzini dovevamo fare finta di non conoscerlo. Se lo vedevamo vicino al cancello, non dovevamo neanche salutarlo. Lui stava spesso H a fare la guardia in compagnia di un vecchio cane pastore che aveva problemi con le zampe di dietro e faceva fatica a spostarsi; tutti e due di solito erano seduti su una panchina, e mentre il cane dormiva Boriska leggeva il giornale. Di giornali Boriska ne leggeva solamente uno: la «Pravda», che significa «La verità», il giornale della propaganda comunista, che leggevano tutti quelli che volevano credere di vivere nel Paese più bello e libero del mondo. Nella «Pravda» qualsiasi notizia veniva trasformata in una fonte di pura propaganda: anche quando leggevi di disastri e guerre, alla fine ti veniva un senso di felicità e ti sentivi fortunato a essere finito in Urss. Non so come mai Boriska era così affezionato a quel giornale, una volta ho cercato di chiederglielo, e lui mi ha risposto letteralmente così:
«Quando sei costretto a sentire cantare le vacche, bisogna sfruttare almeno la possibilità di scegliere quella che canta meglio».
Passando vicino al cancello io guardavo sempre da un’altra parte, per non vedere neanche se Boriska c’era о meno, tanto non potevo salutarlo. Invece il mio amico Mei non riusciva mai a ricordarsi questa semplice ma importante regola. Fissava ogni volta il cancello, e se vedeva Boriska lo salutava agitando la mano in aria e sorridendo con quella sua faccia sfigurata. Allora io gli lanciavo un’occhiataccia e lui subito si ricordava del patto che avevamo fatto con Boriska e cominciava a darsi le botte da solo, picchiandosi la fronte con il palmo della mano. Era un trionfo d’idiozia, Mei. Non per niente nonno Kuzja diceva che uno come lui rischiava di far impazzire i matti.
Boriska si arrabbiava moltissimo, quando Mei lo salutava. Tornando a casa dal lavoro, veniva a cercare me о Gagarin e diceva con la voce piena di rabbia, però bassa, cantilenante:
«E così state bene, siete finalmente diventati ricchi!»
«Che dici? Non siamo ricchi…»
«E invece sì che siete ricchi, perché vi permettete di rifiutare di lavorare con me, di guadagnare i soldi…»
A quelle parole mi venivano i capelli dritti. Rifiutare di lavorare con Boriska significava dire addio alla metà dei nostri guadagni.
«Non abbiamo fatto niente, zio Boriska».
«Niente, come no. Insegnate a quell’imbecille del vostro amico come ci si comporta. E se non ci arriva, non portatelo più davanti ai magazzini, fate il giro largo piuttosto…»
Noi parlavamo con Mei, gli rispiegavamo tutto da capo, ma era inutile. La volta dopo, appena ci avvicinavamo ai magazzini, cercava il vecchio per salutarlo. Era come una punizione per noi, la sua presenza.
Un giorno, passando vicino a casa di Boriska, nel nostro quartiere, ci siamo fermati per scambiare due parole con lui. Mentre parlavamo, ci siamo accorti che Mei stava lontano, dall’altra parte della strada, girato di schiena. Boriska ci ha guardati tutti quanti, poi ha indicato lui, e la faccia gli è diventata a un tratto molto seria.
«Per il vostro bene, sbarazzatevi del vostro amico, — ci ha detto. - Non portatevelo più dietro, farà solo guai. Anzi, sono disposto a pagarlo purché se ne stia a casa e non vada in giro».
Io gli ho detto, facendo finta di non capire:
«Ma zio Boriska… E vero, Mei è un po’ stordito, però è un bravo ragazzo».
Boriska mi ha guardato come se gli avessi parlato in una lingua che non capiva.
«Un po’ stordito, dici? Ma guardalo: è un disastro, quello! Neanche lui sa che cosa sta succedendo dentro la sua testa! Sentite, io vi voglio bene, per questo vi dico le cose come stanno. Voi siete ancora giovani, il vostro amico adesso vi fa ridere, ma presto combinerà tanti di quei guai che vi farà piangere».
Che parole sante erano quelle, peccato che l’ho capito troppo tardi, molti anni dopo.
Quando ce ne siamo andati ho chiesto a Mei perché se n’e-ra stato in disparte. Lui mi ha fatto una faccia da torturato, piena di sofferenza, e ha detto quasi piangendo:
«Prima mi dite di non salutarlo, poi lo saluto e mi sgridate, dopo non lo saluto e mi sgridate lo stesso! Io non ci capisco più niente, per me può anche non esistere ’sto Boriska!»
Io ho riso, ma aveva ragione Boriska: c’era poco da ridere. E avremmo dovuto capirlo da tempo.
Quando avevamo una decina d’anni, siamo andati al cinema a vedere un film che si chiamava Lo scudo e la spada. Il protagonista, un agente segreto sovietico, si esibiva in varie scene d’azione, sparando ai nemici capitalisti con la sua silenziosa pistola e facendo un sacco d’acrobazie. Quello rischiava la vita come se stesse facendo una cosa normale, di routine, per combattere l’ingiustizia nei Paesi della Nato. Era una specie di risposta nostrana ai tanti film americani e inglesi sulla guerra fredda, dove di solito i sovietici apparivano come stupide e incapaci scimmie che giocavano con la bomba atomica e volevano distruggere il mondo. Noi, nonostante il divieto dei nostri vecchi, eravamo andati a vederlo nell’unico cinema della città (non c’era ancora il secondo cinema, destinato a durare pochissimo, distrutto nella guerra del ’92: proprio lì dentro si piazzeranno i militari rumeni, e i nostri padri per ucciderli faranno saltare in aria di notte tutto il complesso, insieme al ristorante e alla gelateria). Bene, in quel film a un certo punto il protagonista saltava dal tetto di un palazzo altissimo usando un grande ombrello al posto del paracadute, per poi atterrare comodamente e senza danni. In poche parole, faceva quello che ha sempre fatto Mary Poppins.
Il giorno dopo, senza dire niente a nessuno, Mei si è buttato con un ombrellone parasole dal tetto della biblioteca centrale, un palazzo alto tre piani, con sotto una bella zona verde piena di castagni e betulle. Precipitando su un albero, una betulla, è riuscito a spaccarsi una mano e una gamba, a rimediare un trauma cranico e a infilzarsi la pancia col bastone dell’ombrellone. Un mare di sangue, sua madre disperata, lui quasi per sei mesi da un ospedale all’altro.
Prenderlo in giro mi pareva un buon modo per fargli capire dove poteva portarlo la sua ingenuità. Un’altra volta, quando avevamo già quattordici о quindici anni, Mei era a casa mia, preparavamo il tè da bere nella sauna. Lui improvvisamente se n’è uscito con i Paesi tropicali, dicendo che non sarebbe stato male vivere li, secondo lui potevamo starci bene, perché non faceva mai freddo.
«C’è troppa umidità, - gli ho detto io, — piogge che durano tanto tempo. E uno sputo di terra, che cosa ci facciamo И?»
«Se piove ci ripariamo in una capanna. E pensaci, sulle isole non serve la macchina, si può girare in bici e c’è sempre una barca a disposizione. E gli indiani…»
Erano tutti indiani per lui. Indiani d’America. Pensava che gli indigeni di qualunque Paese girassero sempre a caval lo con le piume colorate in testa e le facce dipinte.
«… gli indiani, — ha continuato, — sono gente in gamba.
Sarebbe bello diventare come loro».
«E impossibile, — l’ho provocato io, — portano i capelli lunghi come gli omosessuali».
«Ma che dici? Non sono omosessuali. E solo che non hanno le forbici per tagliarsi i capelli. Guarda, — mi ha detto, tirando fuori dalla tasca un soldatino di plastica dai colori sbiaditi che portava sempre con sé, un guerriero indiano in posizione di combattimento, con un coltello in mano. - Vedi? Se ha il coltello non può essere un omosessuale, altrimenti non gli avrebbero permesso di offendere un’arma!»
Era bello vedere come lui applicava le nostre regole siberiane agli indiani. Era vero, da noi un «gallo», cioè un omosessuale, è un reietto: se non lo ammazzano gli tolgono la possibilità di ogni contatto con la gente, ma soprattutto gli vietano di toccare oggetti di culto come la croce, il coltello, le icone.
Non avevo nessuna intenzione di smontargli le sue fantasie sulla favolosa vita eterosessuale degli indiani. Volevo so lo divertirmi. Così sono passato a lavorarlo ai fianchi, punzecchiandolo sull’argomento che per lui era sacro: il cibo.
«Non fanno la zuppa rossa», ho detto in un fiato.
Mei si è fatto molto attento. Il suo collo si è allungato:
«Come non c’è la zuppa… E che si mangia allora?»
«Beh, in effetti non hanno tanto da mangiare, lì fa caldo, non gli servono i grassi per resistere al freddo, si accontentano della frutta che cresce sugli alberi, di qualche pesce…»
«Il pesce fritto non è male», ha tentato di difendere la cucina tropicale.
«Scordati il pesce fritto, lì non fanno cuocere niente, mangiano tutto crudo».
«E i frutti?» ha chiesto sconsolato.
«Noci di cocco».
«E come sono?»
«Buone».
«E tu come fai a saperlo?»
«Mio zio ha un amico di Odessa che fa il marinaio. Una settimana fa mi ha portato un cocco con il latte dentro».
«Il latte?»
«Latte, sì, solo che non viene preso dalla mucca ma dall’albero, sta dentro il frutto».
«Ma dai, fammelo vedere!» Si è acceso in cinque secondi e con tutto il suo aspetto mi faceva capire che stava ingoiando la mia esca. Dovevo solo tirare la corda.
«Purtroppo il frutto l’abbiamo già mangiato, però se vuoi provarlo mi è rimasto ancora un goccino di latte».
«Sì, fammelo assaggiare!» Saltava sulla sedia, tanto voleva ’sto latte.
«E va bene, te lo do, l’ho messo in cantina, al fresco. Aspettami due secondi e te lo porto!»
Ridendo come un bastardo sono uscito di casa e sono andato nella casetta degli attrezzi dove mio nonno teneva tutto l’utile e l’inutile per la casa e l’orto. Ho preso una tazza di ferro, ci ho messo dentro un po’ di stucco bianco e un goccio di gesso. Per dare al liquido la giusta densità, ho aggiunto un po’ d’acqua e un po’ di colla per piastrelle. Ho girato il tutto con il bastoncino di legno che mio nonno usava per pulire i nidi dei colombi dalla loro merda. Poi, con affetto, ho portato la magica pozione a Mei.
«To’, ma non berlo tutto, lasciane anche per gli altri».
Come non detto: appena ha preso la tazza in mano, Mei l’ha svuotata in quattro sorsi. Poi ha fatto una smorfia e nell’occhio buono gli è apparsa una timida ombra di dubbio.
«Forse è andato un po’ a male in cantina, non so, all’inizio era buonissimo», ho detto tentando di salvare la situazione.
«Già, dev’essere andato a male…»
Da quel giorno ho cominciato a chiamarlo «Cunga-Canga», e lui non ha mai capito perché.
Cunga-Canga era un cartone molto amato dai bambini in Unione Sovietica. Era disegnato abbastanza male, con una tecnica tipo quella usata nei manifesti di propaganda comunista: tutti colori forti, figure piene e senza sfumature, molto stilizzate, proporzioni non rispettate apposta, per creare un effetto da teatro di marionette.
In quel cartone si promuoveva l’amicizia tra i bambini del mondo con la storia di un bimbo sovietico che va a trovare un bimbo di colore su un’isola, che si chiamava appunto Cunga-Canga. Il bimbo sovietico aveva uno sguardo molto deciso (come tutti i comunisti e i loro parenti), una nave a vapore, un cagnolino di dimensioni ridotte ma anche lui dall’aspetto comunista, ed era vestito da marinaio. Il bimbo di colore era nero come la notte senza luna e aveva addosso solamente una specie di gonnellino di foglie, i suoi amici erano una scimmia e un pappagallo; poi apparivano anche il coccodrillo, l’ippopotamo, la zebra, la giraffa e il leone, che ballavano tutti insieme tenendosi per le zampe, formando un cerchio.
Il cartone durava in tutto un quarto d’ora, e più di dieci minuti erano riempiti da tre canzoni, con qualche cortissimo dialogo nello spazio tra l’una e l’altra. La canzone che ha fatto storia, amata da tutti i bambini dell’Urss, era l’ultima. Lì, accompagnata da una musichetta allegra e commovente, una voce femminile raccontava della vita felice e senza problemi nell’isola Cunga-Canga:
Cunga-Canga, un’isola meravigliosa
Vivere li è facile e semplice
Vivere H è facile e semplice
Cunga-a-a-Canga-a-a!
Cunga-Canga, il cielo è sempre azzurro
Cunga-Canga, allegria continua
Cunga-Canga, la nostra felicità è imparagonabile
Cunga-Canga, noi non conosciamo le difficoltà!
La nostra felicità è senza fine
Mastica il cocco e mangia le banane
Mastica il cocco e mangia le banane
Cunga-a-a-Canga-a-a!
Dopo i magazzini alimentari cominciavano finalmente le prime case del quartiere Ferrovia. Un quartiere che apparteneva al Seme nero, dove c’erano regole diverse dalle nostre. Dovevamo comportarci bene, altrimenti potevamo anche non uscirne vivi.
I ragazzi di lì erano molto crudeli, cercavano di guadagnarsi il rispetto degli altri con la violenza più estrema. Il potere tra i minorenni aveva un valore simbolico, alcuni potevano comandare su altri, ma nessuno di loro veniva considerato dai criminali adulti. Così, è chiaro, i ragazzi non vedevano l’ora di crescere, e per farlo più in fretta molti diventavano perfetti imbecilli, sadici e ingiusti. Nelle loro mani le regole criminali venivano deformate fino a diventare assurde, perdevano di senso, ridotte a puri pretesti. Ad esempio, loro non portavano niente di rosso, lo definivano il colore dei comunisti: se qualcuno si metteva qualcosa di rosso quelli di Seme nero potevano arrivare a torturarlo. Ovvio, nessuno di quel li nati lì, sapendo questa regola, metteva mai qualcosa di rosso, ma se ce l’avevi con uno bastava nascondergli in tasca un fazzoletto rosso e gridare forte che era un comunista. Il malcapitato veniva subito perquisito, e se il fazzoletto saltava fuori nessuno più ascoltava le sue ragioni, per tutti era già una persona fuori dal mondo.
Questo spirito di lotta senza sosta per il potere, о come la chiamava nonno Kuzja «la gara dei bastardi», girava nell’aria del quartiere. Per essere una perfetta autorità tra i minorenni di Ferrovia bisognava saper tradire sempre i tuoi, non avere legami d’amicizia con nessuno e stare attento a non essere tradito a tua volta, saper leccare il culo ai criminali adulti e non avere nessuna educazione ricevuta da qualunque forma di contatto umano ritenuto buono.
Quei ragazzi erano cresciuti pensando di avere intorno so lo nemici, cosi l’unico linguaggio che conoscevano era quello della provocazione.
Se si arrivava alla rissa, però, si comportavano diversamente. Alcuni gruppi si picchiavano con dignità e con molti di loro eravamo amici. Altri invece cercavano sempre di «colpire da dietro l’angolo», come si dice da noi: attaccare alle spalle, insomma, e non rispettavano nessun patto; potevano tranquillamente spararti anche se prima si era fatto l’accordo di non usare le armi da fuoco.
Erano organizzati in gruppi che a differenza di noi non chiamavano «bande», parola che ritenevano un po’ offensiva, ma kontora, che significa «forze dell’ordine». Ogni kontora aveva un suo capo, о come lo chiamavano loro un bugor, e cioè «la collina».
Io avevo una vecchia grana con un bugor di quel quartiere: aveva un anno più di me e si faceva chiamare «l’Avvoltoio». Era un buffone bugiardo, arrivato quattro anni prima nella nostra città spacciandosi come il figlio di un famoso criminale soprannominato «Bianco». Mio zio lo conosceva benissimo, Bianco, erano stati insieme in carcere e mi aveva raccontato la sua storia.
Era un criminale della casta Seme nero, ma della vecchia guardia. Rispettava tutti, non era mai prepotente, sempre umile, diceva mio zio. Negli anni Ottanta, quando un gruppo di giovani di Seme nero ha scalzato le autorità più anziane (con l’unico obiettivo di far soldi e riciclarsi come uomini d’affari nella società civile), molti vecchi hanno cercato con tutte le loro forze d’impedirlo. Così i giovani hanno cominciato ad ammazzare i loro vecchi: a quei tempi accadeva un po’ dappertutto.
Bianco è finito vittima di un attentato. Stava scendendo con i suoi uomini da una macchina, quando da un’altra macchina in corsa hanno aperto il fuoco su di lui. Mentre quelli sparavano con i Kalasnikov, per strada passava tanta gente e alcune persone sono rimaste ferite. Bianco poteva rifugiarsi dietro la macchina blindata, ma ha visto nel raggio di fuoco una donna e si è buttato per coprirla con il suo corpo. E stato ferito gravemente, ed è morto in ospedale qualche giorno dopo. Prima di morire, ha chiesto ai suoi di cercare quella donna, di chiederle perdono da parte sua per quanto era accaduto e di farle avere del denaro. Questo suo gesto ha avuto una forte risonanza nella società criminale, tanto che i suoi assassini si sono pentiti e hanno chiesto scusa ai vecchi, ma poi hanno continuato ad ammazzarsi tra di loro, e come diceva mio zio «a quel punto solo Cristo sapeva che cosa c’era dentro ’sta insalata».
Insomma, nella nostra comunità parlavano proprio bene di Bianco. Così, quando ho sentito dire che suo figlio era arrivato in città e che aveva dovuto abbandonare il suo paese perché dopo la morte del padre tanta gente voleva vendicarsi su di lui, ho pensato che non vedevo l’ora d’incontrarlo. L’ho detto subito a mio zio, ma lui mi ha risposto che Bianco non aveva figli e non aveva famiglia, perché viveva secondo le regole vecchie, che impedivano ai membri di Seme nero di sposarsi e tirare su i figli. «Era solo come un palo nella steppa», mi ha giurato.
Dopo qualche tempo ho incontrato PAvvoltoio, e senza girarci tanto intorno sono andato al dunque e l’ho smascherato. Ci siamo picchiati, e io ho avuto la meglio, ma da quel giorno l’Avvoltoio ha cominciato a odiarmi, e ha cercato di vendicarsi in tutti i modi.
Una sera d’inverno, nel ’91, stavo tornando a casa tutto sbronzo da una festa. Ero con Mei, ubriaco più di me. Verso mezzanotte, al confine tra il nostro quartiere e il Centro, è spuntato l’Avvoltoio con tre suoi amici; ci hanno superato con le bici, si sono fermati davanti a noi chiudendoci la strada e Г Avvoltoio ha tirato fuori dalla giacca una doppietta calibro 16 tagliata, e mi ha sparato due colpi addosso. Mi ha centrato al petto, le cartucce erano caricate con chiodi sminuzzati. Per mia fortuna però quelle cartucce erano state caricate male: in una avevano messo troppa polvere da sparo e pochi chiodi, e avevano spinto il tappo troppo in fondo; cosi è esplosa dentro, e il fuoco di ritorno ha bruciacchiato la mano e un po’ la faccia di ’sto povero imbecille. Con l’altra avevano fatto l’errore opposto: avevano messo troppi chiodi e poca polvere, ed evidentemente non avevano stretto bene il tappo, cosi i chiodi sono partiti a velocità ridotta e mi hanno solo strappato un po’ la giacca; veramente uno è arrivato fino alla pelle, ma non mi ha fatto niente, tanto che me ne sono accorto solo un paio di giorni dopo quando ho visto una bolla un po’ rossa. Mei si è buttato contro di loro a mani nude ed è riuscito a stenderne uno e a spaccargli la bici, cosi quelli se ne sono andati via.
Dopo quell’episodio, con l’aiuto di tutta la banda ho beccato l’Avvoltoio e gli ho dato tre coltellate sulla coscia, come si usava fare da noi in segno di disprezzo. Lui non si è arreso e ha continuato a dire in giro che voleva vendicarsi. Ma a quei tempi non era ancora nessuno, solo uno dei tanti minorenni malviventi di Ferrovia. Più tardi l’Avvoltoio era riuscito a fare una grandiosa carriera, e adesso era a capo di un branco d’imbecilli con cui combinava cose per le quali a noi nella nostra comunità avrebbero come minimo tagliato le palle.
Quel giorno di febbraio, entrando nel quartiere Ferrovia, pensavo solamente a fare in fretta e non beccare ’sto coglione di nemico che avevo. Per non preoccupare Mei con quella storia e non mettergli ansia, che era una cosa gravissima vederlo in ansia, cercavo di parlargli della festa di compleanno che avrei fatto quella sera, dei piatti che aveva preparato mia mamma per noi. Lui ascoltava con attenzione, e dal suo aspetto era evidente che era già H, al tavolo, a mangiarsi tutto da solo.
Anche a Ferrovia, come da noi, i minorenni facevano le sentinelle, seguivano tutti i movimenti di chi entrava e usciva e poi li segnalavano agli adulti. Cosi siamo stati subito individuati da un gruppetto di bambini tra i sette e i dieci anni. Stavamo attraversando il primo cortile del quartiere e loro erano seduti li in un angolo, una zona strategica dove si vedevano bene tutte e due le strade che dal parco portavano al quartiere. Uno di loro, il pili piccolo, ha ricevuto un ordine da un altro più grande, dopo di che si è alzato e si è messo a correre come una pallottola verso di noi. Nel nostro quartiere non si faceva così: se bisognava avvicinarsi a qualcuno che stava entrando si andava in gruppo, non si mandava mai uno solo, tanto meno il più piccolo. E di solito non si andava proprio incontro a nessuno, dovevi fare in modo che fossero gli altri a venire da te, così fin dall’inizio ti mettevi in una posizione di superiorità.
Il ragazzino aveva una faccia da piccolo tossico, era magro e con due cerchi blu intorno agli occhi, chiaro segno che respirava colla: molti bambini di Ferrovia usavano sballarsi a quel modo. Noi li prendevamo per il culo, chiamandoli «fidanzati del sacchetto», perché si portavano sempre dietro un sacchetto di nylon. Ci mettevano dentro un po’ di colla e poi infilavano la testa nel sacchetto. Molti morivano cosi, asfissiati, perché non avevano neanche pili la forza di togliersi il sacchetto dalla testa; li trovavano in quantità pazzesca sparsi in vari buchi della città, nelle cantine о nei locali delle caldaie, che loro trasformavano in rifugi.
Insomma, ’sto ragazzino si è piazzato davanti a noi, s’è asciugato sulla manica della giacca il naso che gli colava e con la voce rovinata dai residui di colla ha detto:
— Ehi, fermatevi, dove state andando?
Per fargli capire chi eravamo gli ho fatto un corso accelerato d’educazione.
— Ma dove hai messo le buone maniere, le hai lasciate in tasca insieme al tuo fidanzato di nylon? Non ti hanno insegnato che ci sono posti dove per non aver salutato la gente si può finire come un baklan[9]? Torna dai tuoi amici, e digli che vengano tutti e si presentino come si deve, se vogliono parlare. Altrimenti andremo avanti facendo finta di non averli visti!
Alle mie ultime parole già si vedevano i suoi tacchi alzare la neve.
Presto è arrivata tutta la delegazione con il capo in testa, un ragazzetto sui dieci anni che per darsi un tocco criminale si girava in mano il cetki, un attrezzo fatto di pane usato dai borseggiatori per allenarsi le dita, renderle pili agili e sensibili.
Ci ha guardati un po’ e poi ha detto:
— Mi chiamo «Barba», buon giorno, dove state andando? — Nella sua voce si sentiva una nota spenta. Doveva essere anche lui rovinato dalla colla.
— Io sono Nicolai «Kolima», — ho risposto. - Lui è Andrej «Mei», siamo di Fiume Basso. Abbiamo una lettera da portare a uno dei vostri vecchi.
Barba si è come risvegliato.
— Conoscete di persona quello a cui dovete portarla? — ha chiesto con tono improvvisamente gentile. - Sapete la strada о avete bisogno di qualcuno che vi accompagna?
Strano, ho pensato. Mai successo che qualcuno di Ferrovia si offra di accompagnarti, sono famosi per la loro scortesia. Forse, mi sono detto, hanno ricevuto qualche ordine che gli impedisce di lasciare andare da soli quelli che entrano nel quartiere. Ma ci sarebbe da impazzire a seguire tutti, dovrebbero andare avanti e indietro giorno e notte.
Noi non conoscevamo né il destinatario né la strada.
— La lettera è per uno che si chiama Fédor «il Dito», se ci spiegate la strada lo troveremo da noi, grazie —. Cercavo di liberarmi dalla sua proposta di accompagnarci, non so perché ma sentivo qualcosa di poco buono in quell’offerta.
— Allora ve la spiego, — ha detto Barba, e ha cominciato a dire che dovevamo andare di là, svoltare di li, e poi ancora di là, e di nuovo di H. Insomma, mi sono accorto dopo pochi secondi, visto che conoscevo bene quel quartiere, che voleva farci fare un sacco di strada inutile. Però non riuscivo a capire il perché, e cosi ho continuato ad ascoltarlo fino alla fine facendo finta di niente. Poi ho detto apposta, come a dargli ragione:
— Eh già, sembra proprio complicato. Non troveremo mai la strada da soli.
Lui si è illuminato come una moneta appena uscita dallo stampo:
— Ve l’ho detto, senza l’aiuto di una guida…
— Allora aggiudicato, — ho concluso io sorridendo. - Andiamo, facci strada!
L’ho chiesto proprio a lui per valutare la gravità della situazione. Ogni capo di un gruppo che sorveglia un quartiere non abbandona mai la sua postazione, nel caso manda uno dei suoi. La mia era una specie di prova: se rifiutava di accompagnarci bene, potevo stare tranquillo, se invece accettava voleva dire che aveva l’ordine di portarci da qualche parte, e che stavamo per finire in un brutto guaio.
— Perfetto, andiamo! — ha risposto lui quasi cantando.
— Dico solo due parole alla mia kontora e arrivo.
Mentre Barba parlava in un angolo con i suoi, ho condiviso con Mei le mie preoccupazioni.
— Io li gonfio, — ha tagliato corto lui.
Gli ho detto che non mi sembrava una gran buona idea. Se li gonfiavamo, poi dovevamo abbandonare subito il quartiere senza consegnare la lettera. E che figura ci facevamo davanti al nostro Guardiano?
— Una figura da imbecilli, Mei, da veri imbecilli. Che gli diciamo? «Non abbiamo consegnato la lettera perché sospettavamo qualcosa di strano, e allora abbiamo massacrato di botte dei bimbi di nove anni che neanche stavano in piedi, storditi com’erano dalla colla»?
Gli ho proposto un piano diverso, più rischioso: farci accompagnare da Barba e al primo posto comodo «spaccarlo», che nel nostro gergo significa tirare fuori con la violenza la verità che nasconde una persona.
Dovevamo capire cosa c’era in gioco contro di noi — spiegavo a Mei — e farci dare l’indirizzo giusto di questo Dito. Se scoprivamo che c’era un rischio grosso, potevamo tornare indietro e raccontare tutto al nostro Guardiano; se invece il rischio era basso consegnavamo la lettera, e tornando a casa raccontavamo tutto lo stesso, cosi diventavamo gli eroi del quartiere.
L’ultima parte del mio discorso gli è piaciuta moltissimo. L’idea di tornare a Fiume Basso con una storia gloriosa da raccontare lo attirava decisamente. Già batteva le mani, per applaudire alla mia geniale strategia. Io sorridevo e lo rassicuravo che sarebbe andato tutto bene, ma dentro di me avevo qualche dubbio in proposito.
I ragazzini di Barba intanto stavano radunati in cerchio intorno a lui, a qualcuno scappava una risata, guardandoci. Per loro eravamo già finiti in trappola e tutto era stato così facile…
Ho detto a Mei di comportarsi come se nulla fosse, e quando Barba è tornato da noi Mei gli ha fatto un sorriso così largo e falso che mi sono sentito sprofondare.
Siamo partiti. Barba camminava tra noi due, parlavamo del più e del meno. Abbiamo superato una decina di cortili vuoti: con il freddo che faceva la gente se ne stava in casa.
Siamo passati vicino a una vecchia scuola, chiusa e semidistrutta, dove d’estate si radunavano i ragazzi di Ferrovia per fare casino tutti insieme. Lì due anni prima era stata brutalmente ammazzata una ragazza minorenne, una povera sventurata senza famiglia, costretta a prostituirsi per sopravvivere. Erano proprio i suoi amici, altri minorenni come lei, a costringerla a prostituirsi per loro, e poi le prendevano quei pochi soldi che guadagnava. L’hanno ammazzata perché voleva uscire dal giro e andare a vivere in un altro quartiere, dove aveva trovato lavoro come aiuto sarta.
La storia era sconvolgente, perché l’avevano violentata e torturata per quasi tre giorni di fila, tenendola legata a un vecchio telaio di un letto senza la rete: lei era sempre lì, sospesa, i polsi e le caviglie non avevano retto il peso del suo corpo e si erano spezzati. L’hanno trovata con tagli ovunque e segni di bruciature di sigarette in faccia, nell’ano le avevano infilato una chiave idraulica di grosse dimensioni, e nella vagina un bollitore elettrico con cui l’avevano ustionata poco alla volta, per farla soffrire di più.
Nei primi tempi la gente di Ferrovia aveva cercato di nascondere quest’orribile assassinio, ma presto tutta la città aveva saputo e le autorità criminali erano intervenute. Avevano ordinato al Guardiano di Ferrovia di trovare in pochi giorni tutti i responsabili, ammazzarli di botte a bastonate e appendere i loro corpi sulla scena del delitto per una settimana, poi seppellire i cadaveri in una tomba senza croce e nessun segno di riconoscimento.
E così era stato. Anche noi eravamo andati a guardare i corpi dei bastardi assassini appesi per le gambe sulla veranda della scuola vuota, erano gonfi come palloni e tutti neri dalle botte. Io avevo distolto lo sguardo, che poi mi era caduto sui muri: erano molto spessi; avevo pensato che mentre la ragazza veniva torturata nessuno aveva sentito le sue urla. Dev’essere difficile e terrificante morire in quel modo, sapendo che a due passi dall’inferno in cui ti trovi la gente sta rilassata in casa sua, fa le sue cose di sempre e non immagina neanche un minimo di quel dolore che stai provando. Mi veniva da piangere al pensiero di questo dettaglio: «Tutto il rumore che si può fare qui dentro rimane qui», e questo era niente di fronte a tutto quello che doveva aver subito quella povera anima.
Davanti alla scuola, ho dato una leggera gomitata a Mei, facendogli capire che toccava a lui dare inizio alle danze.
— Non ce la faccio più, ragazzi, — ha detto subito lui, — devo proprio svuotarmi il sacco. Andiamo un attimo in un posto dove posso «aspettare il treno» tranquillo.
Barba ha guardato prima Mei e poi me con la faccia un po’ preoccupata, forse voleva controbattere qualcosa ma non l’ha fatto per non insospettirci, e si è limitato a dire:
— Vabbe’, dai, ti faccio vedere io un posto. Qui, dentro la scuola.
Appena siamo entrati, Mei gli ha dato una spinta sulla schiena e Barba è caduto sul pavimento gelato a pancia in giù. Si è girato verso di noi con una faccia terrorizzata:
— Che fate, siete impazziti? — ha chiesto con voce tremolante.
— Il pazzo sei tu, se credi di poterci prendere come due troie… — ho detto, mentre Mei a scopo dimostrativo apriva e chiudeva il suo coltello a scatto; se lo rigirava in mano quasi con tristezza e una specie di nostalgia, così che la lama faceva mille riflessi sui muri sporchi e pieni di scritte volgari.
Io camminavo piano verso Barba e lui indietreggiava sul pavimento alla mia stessa velocità, finché non è arrivato contro il muro. Continuavo a parlargli fingendo di sapere tutto, per farlo sentire inutile e in pericolo:
— Siamo venuti qui apposta per farla finita con tutta questa storia… Vedrai, non è bello cercare di fregare quelli di Fiume Basso.
— Non fatemi del male, io non c’entro niente! — Barba ha cominciato a cantare prima del previsto. - Non so nulla della vostra storia, eseguo solo un ordine dell’Avvoltoio…
— Che ordine? — gli ho chiesto premendogli la punta del lo stivale sul fianco.
— Che se si presenta la gente di Fiume Basso, noi dobbiamo portarla subito da lui! — Era quasi al limite dell’isteria, parlava con una vocetta gracchiante.
Mei si è avvicinato e ha cominciato a sfiorarlo con il coltello, spingendo poco alla volta la lama sotto i vestiti, e a ogni sua mossa quello piangeva sempre più forte, con gli occhi chiusi, implorando di non ammazzarlo. Implorava me, a dire il vero, perché pensava che Mei volesse ucciderlo a tutti i costi.
Io ho aspettato un po’, per cuocerlo a dovere, e quando ho capito che era arrivato al punto in cui non poteva rifiutarmi niente ho fatto la mia proposta:
— Dimmi dove possiamo trovare Dito, noi gli consegna-mo la lettera e tu ti salvi. Ma non provare a prenderci in giro, conosciamo bene il vostro buco di merda, e se ci mandi in un posto sbagliato ce ne accorgiamo. E se per caso non troviamo Dito ti facciamo secco, ma non con il coltello: ti ammazziamo di botte, rompendoti prima tutte le ossa…
In pochi secondi le sue parole hanno disegnato nell’aria, davanti ai miei occhi, la strada giusta per la casa di Dito.
Abbiamo deciso di chiudere Barba nella scuola perché non ci giocasse brutti scherzi. Nel seminterrato abbiamo trovato una porta che si poteva bloccare da fuori, mettendo un asse di legno contro la maniglia di ferro. La stanza era fredda e buia, un vero buco. Perfetto per Barba, che attendeva con umiltà di conoscere la sua sorte.
— Ti chiudiamo qui, e nessuno se ne accorgerà prima dell’estate. Se hai mentito e noi abbiamo problemi, se per caso ci seccano о ci fanno del male, rimani a marcire qui, muori da solo. Se tutto finirà bene, diremo a qualcuno dove sei e ti verranno a liberare. Chiaro? Potrai vivere, e ricordarti questa lezione personale che ti abbiamo fatto gratis.
Mei lo ha spinto dentro il buio, poi ha chiuso e sprangato la porta. Da dietro è partito un pianto disperato:
— Non lasciatemi qui, vi prego, non lasciatemi qui!
— Sta’ zitto, sii uomo. E prega il Signore per noi, altrimenti sei morto!
La casa di Dito era lontanuccia, a un quarto d’ora di cammino. Dovevamo cercare di non attirare l’attenzione, ma pili c’inoltravamo nel quartiere più ci allontanavamo dalla possibilità di uscire bene da quella storia.
Intanto facevo mille ipotesi su cosa poteva averci riservato ’sto imbecille dell’Avvoltoio, e stranamente diventavo sempre pili curioso. Volevo assolutamente scoprire di che morte mi volevano far morire a Ferrovia. Non ero spaventato, ma agitato, come se stessi giocando a un gioco d’azzardo. Mei camminava tutto tranquillo e non mostrava nessun segno di dialogo interno. Aveva la sua solita espressione vuota, ogni tanto mi guardava e si faceva una piccola ghignata.
— Cazzo ridi, non capisci che siamo nella merda? — dicevo io, cercando di mettergli un po’ di paura. Non per cattiveria, così, per muovere le acque.
Ma niente da fare, era imperturbabile, sorrideva ancora di pili. - Li roviniamo tutti, Kolima, — gongolava. - Faremo un macello, un mare di sangue!
A dirla tutta, il macello era esattamente ciò che volevo evitare.
— Purché il sangue non sia nostro… — gli ho risposto, ma lui non mi sentiva neanche, camminava come uno che ha deciso di sterminare mezzo mondo.
Poi siamo arrivati a casa di Dito, e siamo saliti al secondo piano, fermandoci davanti alla sua porta. Mei ha alzato la mano per suonare il campanello, ma io l’ho fermato. Prima ho guardato dal buco della serratura, che era bello largo. Si vedeva un corridoio tutto sporco, con una lampadina accesa che dondolava in basso, come se qualcuno l’avesse tirata giù apposta. In fondo al corridoio, davanti a un televisore acceso, un uomo magro, con i capelli corti, si stava tagliando le unghie dei piedi con una lametta, come si fa in carcere.
Mi sono staccato dalla serratura e ho detto a Mei:
— Controlla se la lettera è a posto, poi suona. Quando Dito apre, lo saluti e ti presenti, poi presenti me. Non dire subito della lettera…
Non sono riuscito a finire che Mei mi ha interrotto:
— Magari m’insegni anche come andare al cesso? Non è la prima lettera che porto, so come comportarmi!
Mei ha premuto il campanello. Il suono era strano, s’interrompeva in continuazione, come se i cavi non facessero bene contatto. Abbiamo sentito lo scricchiolio del pavimento di legno a ogni passo di Dito. La porta si è aperta senza nessun rumore di serratura, non era chiusa a chiave. Davanti a noi è apparso un uomo di quarantanni, tutto coperto di tatuaggi e con i denti di ferro che gli luccicavano in bocca come gioielli. Era vestito con una canottiera e dei pantaloni leggeri, aveva i piedi nudi sul pavimento gelato.
Nell’appartamento faceva tanto freddo che potevamo vedere il suo respiro condensarsi in vapore bianco. Ci guardava tranquillo, sembrava un tipo regolare. Aspettava.
Mei non smetteva di fissarlo senza dire niente, e l’uomo ha alzato la mano e si è grattato il collo, come per far capire che il nostro silenzio lo metteva a disagio.
Ho dato un leggero calcio a Mei e lui è partito subito, sputando le parole come un mitra sputa le pallottole. Ha fatto tutto secondo le regole, dopo le presentazioni ha detto che portava una lettera.
Dito ha subito cambiato faccia, ha sorriso e ci ha invitati a entrare. Ci ha portati a un tavolo con una pentola piena di cifir appena fatto.
— Dài, ragazzi, servitevi. Perdonatemi ma non ho nient’al-tro, solo questo. Sono appena uscito, l’altro ieri… Che casino la libertà, così tanto spazio, mi gira ancora la testa…
Mi piaceva la sua ironia, ho capito che potevo rilassarmi.
Ci siamo seduti, dicendogli che non doveva preoccuparsi per noi. Mentre facevamo girare la tazza di cifir tra noi tre, Dito ha aperto la lettera del nostro Guardiano. Dopo qualche istante ha detto:
— Devo tornare con voi nel vostro quartiere, qua c’è scritto che m’invitano a parlare…
Io e Mei ci siamo guardati. Dovevamo raccontargli per forza la nostra avventura, è da infami portare una persona in giro senza dire che si è nei guai.
Ho deciso di parlare io, anche perché lasciare parlare Mei significava complicare le cose. Ho riempito i polmoni d’aria e ho buttato fuori tutto: la mia guerra con l’Avvoltoio, la trappola di Barba e della sua banda di giovani tossici, la scuola…
Dito ascoltava con attenzione, seguendo ogni piccolo particolare come fanno i carcerati. Le storie sono l’unico divertimento dei criminali in galera: si raccontano a vicenda la vita un pezzo per volta, a puntate, e quando finiscono passano alla vita di qualcun altro.
Alla fine gli ho detto che se non voleva correre pericoli venendo con noi, poteva rimandare la sua visita al giorno dopo. Lui si è opposto:
— Tranquilli, se capita qualcosa sono con voi.
Non ero contento, perché sapevo che a Ferrovia i giovani non rispettavano i vecchi. Spesso gli facevano gli agguati sotto casa, quando quelli tornavano ubriachi, e li picchiavano per prendere qualsiasi cosa avevano dietro, per poi mostrarlo agli altri come un trofeo. Dito poi non era un criminale autorevole, da quello che si leggeva nei suoi tatuaggi era uno che per qualche motivo si era affiancato ai siberiani in carcere: sul collo aveva una firma siberiana, il che voleva dire che la comunità lo proteggeva, forse perché aveva fatto qualcosa d’importante per noi.
Mentre io stavo pensando a tutto questo, Dito nel frattempo s’era già bell’e che vestito, con una giacca piena di cuciture, le scarpe rovinate, e una sciarpa verde che quasi toccava terra.
Per strada ci siamo messi a parlare. Dito ha raccontato che stava in carcere da quando aveva sedici anni. Era finito dentro per un incidente stupido: era ubriaco, e senza accorgersene aveva dato una bastonata un po’ troppo forte a uno sbirro, che era morto sul colpo. Nel carcere minorile si era affiancato alla famiglia siberiana, perché — diceva — erano gli unici che stavano uniti e non picchiavano la gente, facevano tutto insieme e non obbedivano a nessuno. Nel carcere per adulti era arrivato già come membro della famiglia siberiana, e gli altri lo avevano accolto. Si era fatto ventanni di prigione, e quando stava per uscire un vecchio gli aveva proposto di andare a vivere nell’appartamento che avevamo visto.
Adesso voleva avvicinarsi alla gente del nostro quartiere: era quella — diceva — la sua famiglia. Per questo aveva chiesto alle vecchie autorità siberiane in prigione di contattare il Guardiano di Fiume Basso.
Si sentiva parte della nostra comunità, e questa cosa mi faceva piacere.
Camminando, mi era venuta un’idea. Visto che avevamo bisogno di rinforzi, avevo deciso di passare da un amico che abitava non troppo lontano. Era un ragazzo di nome «Geka», diminutivo di Evgenij. Ci conoscevamo da quando eravamo piccoli, lui era figlio di una pediatra molto in gamba che si chiamava zia Lora.
Geka era un ragazzo colto, sveglio ed educato, non faceva parte di nessuna banda, preferiva una vita tranquilla. Aveva tanti interessi e mi piaceva per questo, ero stato parecchie volte a casa sua ed ero affascinato dalla collezione di modellini di aerei da guerra, che montava e dipingeva lui. Sua madre mi permetteva di prendere alcuni libri dalla sua biblioteca, è cosi che ho conosciuto Dickens e Conan Doyle, e soprattutto l’unico eroe letterario, sbirro e infame, che mi sia mai stato simpatico: Sherlock Holmes.
Geka passava tutta l’estate con noi sul fiume, gli abbiamo insegnato a nuotare, a fare la lotta, a usare il coltello in una rissa. Ma aveva gli occhiali, e per questo motivo faceva una pena infinita a mio nonno: portare gli occhiali per i siberiani è come sedersi volontariamente su una sedia a rotelle, è un segno di debolezza, una sconfitta personale. Anche se non vedi bene non devi mai metterti gli occhiali, per conservare la tua dignità e il tuo aspetto sano. Così, quando Geka veniva a casa nostra, nonno Boris lo portava nell’angolo rosso, s’inginocchiava insieme a lui davanti all’icona della Madonna siberiana e a quella del Salvatore siberiano, e poi, facendo mille segni della croce, pronunciava la sua preghiera, che Geka era obbligato a ripetere parola per parola:
«Oh Madre di Dio, Santa Vergine, patrona di tutta la Siberia e protettrice di tutti noi peccatori! Assisti al miracolo del Nostro Signore! Oh Signore Nostro, Salvatore e Compagno nella vita e nella morte, Tu che benedici le nostre armi e i nostri miserabili sforzi per portare la Tua legge nel mondo del peccato, Tu che ci rendi forti davanti al fuoco dell’inferno, non abbandonarci nei momenti di debolezza! Non per mancanza di fede, ma per amore e rispetto verso le Tue creature, Ti prego, fai un miracolo! Aiuta il Tuo schiavo miserabile Evgenij a trovare la Tua strada e a vivere nella pace e in salute, per cantare la Tua gloria! Nei nomi delle Madri, dei Padri, dei Figli e dei nostri risorti tra le Tue braccia, ascoltaci e porta la Tua luce e il Tuo calore nei nostri cuori! Amen!»
Finita la preghiera, nonno Boris si alzava sulle ginocchia e si girava verso Geka. Poi, facendo gesti solenni e spettacolari come a teatro, gli toccava con le dita gli occhiali e, dicendo la frase seguente, lentamente glieli sfilava:
«Come tante volte mi hai messo la Tua forza nelle mani per stringere il coltello contro gli sbirri, e hai indirizzato la mia pistola per colpirli con pallottole da Te benedette, dammi il Tuo potere per sconfiggere la malattia del Tuo umile schiavo Evgenij!»
Tolti gli occhiali, partiva subito la domanda a Geka: «Allora dimmi, mio angelo, adesso ci vedi bene?»
Per rispetto verso di lui Geka non aveva cuore di dirgli di no.
Nonno Boris si girava verso le icone e ringraziava il Signore con le consuete formule:
«Che sia fatta la Tua volontà, Nostro Signore! Finché siamo vivi e protetti da Te, il sangue degli sbirri, dei diavoli infami e dei servitori del male scorrerà in abbondanza! Ti siamo riconoscenti per il Tuo amore».
Poi chiamava tutta la famiglia e annunciava che era appena avvenuto un miracolo. Alla fine restituiva gli occhiali a Geka davanti a tutti, dicendo:
«E adesso, mio angelo, adesso che vedi, rompi ’sti occhiali inutili!»
Geka li metteva in tasca, bofonchiando:
«Non ti arrabbiare, nonno Boris, li romperò più tardi».
Mio nonno gli accarezzava la testa e diceva con la voce dolce e piena di gioia:
«Rompili quando vuoi, figliolo, basta che tu non li metta mai più».
La volta dopo, per non farlo arrabbiare, Geka si presentava a casa nostra senza occhiali, se li toglieva fuori dalla porta, prima di entrare. Nonno Boris, vedendolo, diventava tutto una gioia completa.
Beh, tornando a noi: Geka viveva insieme a sua madre e a uno zio che aveva alle spalle una storia incredibile, era una specie di materializzazione della rabbia divina, della condanna vivente a cui era destinata questa simpatica e buona famiglia. Si chiamava Ivan, e la gente l’aveva soprannominato «il Terribile». Il paragone con il grande tiranno era ironico, perché Ivan era buono come il pane. Era un uomo sui trentacin-que anni, basso e magro, con i capelli e gli occhi neri, e le dita delle mani disumanamente lunghe. Era stato un musicista di professione, prima di cadere in disgrazia; a diciotto anni suonava il violino in un’orchestra importante, a San Pietroburgo, e la sua carriera di musicista sembrava andare in salita come un missile intercontinentale sovietico. Ma un giorno Ivan era finito nel letto di una simpatica troia di quell’orchestra, una violoncellista, moglie di un importante membro del partito comunista. Aveva perso la testa per lei, aveva reso pubblica la loro relazione ed era arrivato persino a chiederle di separarsi dal marito. Povero ingenuo musicista, non sapeva che i membri del partito non avevano il diritto di divorziare, perché loro e le loro famiglie dovevano essere un esempio di «cellula» perfetta della società sovietica. E che razza di cellula siete, se divorziate quando vi pare? Le nostre cellule devono essere dure come acciaio, о meglio dello stesso materiale con cui si fabbricano i nostri carri armati e i famosi fucili d’assalto Kalasnikov. Avete mai visto un carro armato sovietico difettoso? О un Kalasnikov che s’inceppa? Le famiglie devono essere perfette come le armi.
Quindi il nostro Ivan, appena ha provato a seguire i sentimenti del suo cuore, è rimasto schiacciato dalla manifestazione del potere del marito della sua amante, esibita attraverso il brutale intervento di alcuni agenti dei servizi segreti sovietici, che a furia di sieri lo hanno ridotto a una larva.
Ufficialmente era sparito, nessuno sapeva dove, tutti erano convinti che fosse scappato dall’Urss attraverso la Finlandia. Dopo alcuni mesi è stato trovato in una struttura per malati mentali, dove lo avevano internato raccogliendolo dalla strada in un grave stato di confusione mentale. Non ricordava neanche il suo nome. L’unica cosa che aveva con sé era il suo violino: grazie a quello i medici sono risaliti all’orchestra, e più tardi hanno potuto riconsegnarlo alla sorella.
La salute di Ivan ormai era rovinata per sempre, la sua faccia era quella di uno assalito da un lungo ed enorme dubbio. Comunicava senza problemi, però aveva i suoi tempi per riflettere sulle domande e pensare alle risposte, tempi decisamente più lunghi del normale.
Continuava a suonare il violino, era l’unica cosa che lo legava al mondo reale, una specie d’ancora grazie a cui era rimasto aggrappato alla vita. Si esibiva due volte alla settimana in un locale del Centro e poi si ubriacava fino a stordirsi del tutto, da ubriaco — diceva — riusciva ad avere momenti di assoluta lucidità mentale, che purtroppo passavano in fretta.
Il suo fedele compagno di vita, che da sempre condivideva con lui tutte le feste alcoliche, era un altro poveraccio di nome Fima, che aveva avuto una meningite a nove anni e da allora aveva perso il senno. Era molto violento, Fima, vedeva nemici dappertutto: quando entrava in un posto nuovo infilava la mano destra dentro il cappotto come per tirare fuori una pistola immaginaria. Era cattivo e piantagrane, ma nessuno gli diceva niente perché era malato. Girava sempre con un cappotto da marinaio e urlava detti da marinai, tipo «Siamo pochi, ma abbiamo le maglie a righe!», о «Motori al massimo! Cento ancore nel culo, affondate ’sto catino di merda fascista!» Fima divideva il mondo in due categorie: i «nostri», cioè la gente a cui dava confidenza e che considerava suoi amici, e i «fascisti», cioè tutti quelli che considerava nemici e quindi da picchiare e offendere. Non si sapeva come faceva a decidere chi era «nostro» e chi «fascista», lo intuiva basandosi su qualche suo sentimento nascosto profondamente.
Insieme, Ivan e Fima combinavano parecchi guai. Se Fima era scatenato, Ivan picchiava con una violenza naturale, si buttava addosso alla gente come una bestia sulla preda.
Insomma, per queste loro virtù, speravo proprio di trovarli in casa.
Quando siamo arrivati, Geka, Ivan e Fima stavano giocando in sala a battaglia navale.
Geka era rilassato e rideva, prendendo in giro i suoi compagni di gioco:
«Bul-bul-bul», ripeteva scherzando, imitando il rumore di una nave che affonda.
Fima, con le mani tremolanti, stringeva sconsolato il suo foglietto: la situazione della sua flotta doveva essere disperata.
Ivan stava tutto mogio in un angolo, e il suo foglietto buttato a terra significava che aveva appena perso la partita. Teneva tra le mani il suo violino e suonacchiava qualcosa di strano, molto lento e triste, che somigliava a un urlo lontano.
Ho spiegato in due parole a Geka la nostra situazione e gli ho chiesto se poteva aiutarci ad attraversare il quartiere.
Lui ha accettato subito, e Fima e Ivan l’hanno seguito come due agnelli pronti a trasformarsi in leoni.
Siamo usciti in strada, io guardavo la nostra banda e non ci credevo, che nel giorno del mio compleanno dovevo finire in una storia del genere che stava diventando sempre più incredibile: due minorenni siberiani e un adulto appena uscito di galera — accompagnati dal figlio di una dottoressa e da due pazzi furiosi — che cercano di uscire salvi dal quartiere dove gli danno la caccia.
Geka e io camminavamo avanti, gli altri ci seguivano. Mentre chiacchieravo con Geka, sentivo Mei raccontare a Dito una delle sue storie miracolose, quella del grosso pesce che aveva risalito tutto il fiume controcorrente fino al nostro quartiere, attirato dal profumo della marmellata di mele di zia Marta. Ogni volta che Mei raccontava quella storia, il momento più buffo era quando faceva vedere quant’era grande ’sto pesce. Apriva le braccia come Gesù crocefisso e con una fatica nella voce strillava: «Una bestia grossa così-W-ì». In attesa di quella frase con un orecchio, mentre con l’altro ascoltavo Geka, io mi sentivo proprio bene. Mi sembrava di fare una passeggiata con gli amici, senza pericoli.
Quando Mei ha finito la sua storia, Fima ha commentato:
— Cazzo, sapessi quante bestie del genere ho visto io dalla mia nave! Le balene mi hanno rotto i coglioni, il mare è pieno di quelle porcherie!
Mi sono girato per vedere che faccia faceva mentre diceva quelle parole, e ho visto qualcosa volare vicino al mio viso, talmente vicino da toccarmi quasi la guancia. Era un pezzo di mattone. In quel momento Geka ha urlato:
— Merda, un’imboscata! — e da due cortili opposti sono usciti una decina di ragazzi armati di bastoni e coltelli, che correvano verso di noi gridando:
— Ammazziamoli, ammazziamoli tutti!
Ho messo la mano in tasca e ho preso la mia picca. Ho premuto il pulsante e con un ciac la lama, spinta dalla molla, è saltata fuori. Ho sentito la schiena di Mei appoggiarsi alla mia e la sua voce dire:
— Adesso faccio fuori qualcuno!
— Colpisci solo le cosce, idiota, sono pieni di giornali sotto le giacche, non vedi che si sono preparati? Ci aspettavano… — non sono riuscito a finire la frase che mi sono visto davanti un ragazzone armato di un bastone di legno. Tentava di colpirmi la testa. Ho sentito sibilare il suo bastone vicino alle orecchie una volta, poi un’altra, era veloce quel bastardo. Cercavo di avvicinarmi a lui per colpirlo con la lama, ma non facevo mai in tempo, le sue bastonate diventavano sempre più precise e veloci, rischiavo di rimanere colpito. Improvvisamente un altro mi ha attaccato di schiena, mi ha spinto forte e sono finito proprio contro il gigante con il bastone. D’istinto, gli ho dato tre coltellate velocissime sulla coscia, cosi veloci che subito dopo ho sentito una scossa nel braccio, una specie di corrente elettrica, per la tensione superata. La neve sotto di noi si è macchiata di sangue, il gigante mi ha dato una gomitata in faccia ma io ho continuato a colpirlo finché non è caduto a terra, stringendo la sua gamba nella neve rossa di sangue, facendo smorfie di dolore.
Da dietro, quello che prima mi aveva spinto ha cercato di accoltellarmi su un fianco, ma io ero magro e il mio giubbotto era grosso, e lui non è riuscito a raggiungere la carne. Il giubbotto però si è strappato, e la sua mano è finita dentro il buco insieme al coltello. Io mi sono girato e l’ho ferito con la picca, prima sul naso e poi sopra l’occhio: la sua faccia si è subito coperta di sangue. Quello cercava di tirar fuori la mano dal buco del mio giubbotto, ma il suo coltello era rimasto intrappolato nella stoffa, così lo ha abbandonato lì. Si è preso la faccia tra le mani e urlando si è buttato sulla neve, lontano da me.
Ho messo due dita dentro il buco del giubbotto e accuratamente ho tirato fuori la lama: era un coltello da caccia, largo e molto affilato. «Porca troia, — ho pensato, — se mi prendeva ci rimanevo secco. Quando torno a casa metto una candela davanti all’icona della Madonna».
Passando sopra il corpo del nemico e stringendo il suo coltello nella mano sinistra, sono andato incontro a Geka, che da terra cercava di evitare i colpi di un bastone impugnato da un ragazzo robusto. Geka si appoggiava sul braccio destro e con quello sinistro cercava di parare il parabile. Ho sorpreso il suo aggressore alle spalle e gli ho affondato la lama della picca nella coscia.
La lama del mio coltello era bella lunga ed entrava bene dentro la carne, era l’ideale per disattivare le persone, perché penetrava senza problemi nei muscoli fino a toccare le ossa.
Con il coltello da caccia, contemporaneamente, gli ho tagliato i legamenti dietro il ginocchio dell’altra gamba. Con un grido di dolore, il ragazzo robusto è caduto a terra.
Geka si è alzato in piedi, ha raccolto il bastone e insieme ci siamo buttati verso Mei, che aveva preso uno e urlando come un matto lo stava colpendo con il coltello nella zona del lo stomaco, mentre in tre tentavano di fermarlo scaricandogli sulla testa e sulla schiena bastonate su bastonate. Se ne prendevo io così tante morivo di sicuro, solo grazie al suo fisico Mei riusciva a tenersi in piedi.
Mi sono lanciato con il coltello contro uno che stava per dare una potente bastonata sulla testa di Mei. Sono arrivato da dietro, e gli ho tagliato un legamento.
Geka ha colpito sulla testa un altro che è subito svenuto, dal suo orecchio ha iniziato a uscire sangue. Il terzo è scappato verso uno dei cortili da dove un attimo prima erano usciti tutti loro.
Fima e Ivan, intanto, armati di bastoni, stavano massacrando vicino al marciapiede due tipi che erano caduti a terra. Uno era ridotto molto male, Fima sicuramente gli aveva spaccato il naso e la faccia era piena di sangue; alzava le mani tremolanti per istinto, per coprirsi la faccia dalle botte, ma Fima lo colpiva lo stesso, con cosi tanta violenza che il bastone rimbalzava su quelle mani come se fossero di legno, tipo quelle di un burattino: era evidente che Fima gliele aveva rotte. Pieno di rabbia, furioso, Fima lo picchiava urlando:
— Chi è che vuole ammazzare un marinaio sovietico? Eh? Allora? Chi è ’sto fascista di merda?
Ivan nel frattempo cercava di bastonare la faccia dell’altro aggressore, che era bravo a scansare i colpi girandosi da una parte e dall’altra. Ce l’aveva quasi fatta, a un certo punto, ma all’ultimo ha mancato la faccia e il bastone di Ivan ha sbattuto contro l’asfalto gelato, coperto di neve rossa, rossa del sangue che appena cadeva a terra diventava duro come ghiaccio. Il bastone si è rotto in due, Ivan si è arrabbiato e ha buttato via il pezzo che gli era rimasto in mano. Poi ha fatto un salto a piedi uniti sulla testa del ragazzo e ha cominciato a pestargli la faccia con i piedi, lanciando uno strano urlo di guerra, come quelli degli indiani che attaccano i cowboy nei western americani.
Erano veramente pazzi, quei due.
In un attimo, lo scontro era già finito.
Dall’altra parte della strada c’era Dito, stringeva nelle mani un coltello e un bastone, e sotto i suoi piedi c’era un ragazzo con un taglio che partiva dalla bocca e finiva in mezzo alla fronte: troppo profondo, brutta roba. Il ragazzo era sdraiato, cosciente ma immobile, credo terrorizzato dal sangue e dal dolore.
Mei teneva stretto per il bavero il tipo che prima aveva colpito in pancia con il coltello. Guardava stupito la sua lama, spezzata in due. Mi sono avvicinato a lui e ho strappato con un gesto secco la giacca del tipo, tutta piena di buchi. Sulla neve sono caduti una ventina di giornali spessi, incollati uno all’altro: da quel pacco di carta spuntava la parte mancante della lama di Mei.
Sorpreso e incredulo, Mei guardava quella scena come se fosse uno spettacolo di magia.
Ho preso da terra il pacco di carta, l’ho tenuto un po’ in mano, soppesandolo. Poi, mettendoci tutta la forza che avevo, ho dato una sberla in faccia a Mei con quel fascio di giornali, provocando un forte rumore, come quando un’ascia spacca il ceppo di legno.
La sua guancia è diventata subito rossa, Mei ha mollato il collo del ragazzo e si è portato la mano sulla zona colpita. Con voce agitata mi ha chiesto:
— Che ti è preso? Perché diavolo ce l’hai con me?
L’ho colpito una seconda volta e lui ha fatto due passi indietro, mettendo una mano davanti, per fermarmi.
Gli ho risposto:
— Cosa ti avevo detto, cretino, colpire le cosce, non il torso! Mentre tu facevi il coglione con quel tossico e ti pigliavi mazzate dai suoi tre amici, io ho beccato la lama seria. Cazzo, c’è mancato un pelo, per poco non mi seccavano! E tu dov’eri, perché non mi hai coperto le spalle?
Lui ha subito fatto una faccia tristissima — sguardo basso, testa china, la bocca leggermente aperta — e con la voce di chi chiede l’elemosina si è messo a brontolare frasi incomprensibili, come faceva ogni volta che aveva torto:
— Ha-m-m-m… Kolima… nou-ou-ou volevo solo-o-o-o… ghm-hm-hm… scusa-a-a-a…
— Scusa un bel cazzo, — l’ho interrotto io. - Voglio tornare a casa e festeggiare il mio compleanno, non il mio funerale. E allora ascoltami quando parlo. Non è il momento di fare i coglioni, ci rimettiamo la pelle in questa faccenda di merda. E non dimenticare che non siamo soli, ci sono delle persone con noi, ci danno una mano, non possiamo esporli troppo. E meno male che ci sono, perché con un amico come te sarei già morto.
Mei si è fatto ancora pili piccolo e, come sempre in quelle occasioni, ha preso la forma della mia ombra personale. Ha cominciato a coprirmi le spalle, anche se con un leggero ritardo.
La strada somigliava al luogo di una strage, tutta la neve era rossa di sangue, gli aggressori si trascinavano ai bordi del marciapiede, decisamente malridotti.
Mi sono avvicinato a quello che Mei aveva tentato di accoltellare: era spaventato, anche se non aveva addosso neanche un graffio. Dovevo fare il cattivo. L’ho preso per il collo e ho tentato di tirarlo su, ma non riuscivo ad alzarlo, era più pesante di me, allora mi sono abbassato io, gli ho punzecchiato la coscia con il coltello, fino a quando ha cominciato a uscire un po’ di sangue. Lui ha urlato e si è messo a piangere, chiedendomi di non ammazzarlo. Gli ho dato una sberla forte, per farlo smettere:
— Chiudi il becco, finocchietto! Lo sai contro chi ti sei messo, coglione? Lo sai che noi di Fiume Basso veniamo battezzati coi coltelli? Pensavi veramente di poterci ammazzare? Faccio risse da quando avevo sette anni, ne ho aperti cosi tanti di quelli come te che non mi basterebbe una vita a contarli.
Esageravo un po’ sulla quantità delle vittime, ovvio, ma dovevo spaventarlo, seminare paura, perché il nemico terrorizzato è già metà sconfitto. I prossimi (non dubitavo che presto ci saremmo battuti con gli altri) dovevano avere la cresta bassa, ecco.
— Per questa volta non ti ammazzo, dato che oggi è il mio compleanno e dato che è la prima volta che ci scontriamo, ma se ti becco ancora sulla mia strada non avrò nessuna pietà. Quando vedi l’Avvoltoio, digli che Kolima gli manda i suoi saluti, e che se lo incontro entro stasera lo apro come un maiale…
Quel povero coglione, con il sangue che gli usciva dalla coscia e la faccia terrorizzata, mi guardava come se mi stessi appropriando della sua anima.
Ci siamo rimessi per strada: Fima con un grande bastone, Ivan con un manganello rotto che aveva recuperato da terra, Geka con una spranga di ferro, Dito con un coltello e un bastone, io con due coltelli in tasca, e infine la mia seconda ombra con la faccia umile, un bastone e un coltello spezzato a metà in mano.
Mentre ci allontanavamo, dal cortile hanno cominciato a uscire i «sopravvissuti». Eravamo lontani una ventina di metri, quando uno di loro ci ha gridato dietro:
— Bastardi siberiani! Tornate nel vostro bosco di merda! Vi ammazzeremo tutti!
Mei si è girato e gli ha lanciato addosso il suo coltello spaccato. E stato un attimo. Il coltello di Mei ha fatto una strana traiettoria e ha colpito in piena faccia uno che stava vicino a quello che aveva gridato. Ancora sangue, quindi, e tutti che scappavano di nuovo, lasciando sulla neve un altro compagno ferito.
— Cristo Santo, che macello… — ha detto Geka.
Camminavamo veloci. E quando uscivamo in spazi larghi, aperti, quasi correvamo. Cercavamo di evitare i cortili e le strettoie.
Abbiamo superato l’ultima fila di case davanti ai magazzini alimentari e ci siamo nascosti tra i garage e i box auto abusivi. Io ho proposto di esplorare per bene la zona, prima di attraversare la strada in gruppo: sentivo che ci aspettavano delle sorprese.
— Sentite, — ho detto. - Io mi tolgo il giubbotto così corro più veloce. Attraverso la strada pili in giù, dove fa la curva e si perde tra gli alberi, poi vado fino ai magazzini e guardo com’è la situazione. Se ci aspettano in tanti, passiamo da un’altra parte. Se sono in pochi li prendiamo da dietro, e li mischiamo con la merda… Ci metterò un quarto d’ora, non di più, voi intanto guardate nei garage, magari c’è qualcosa di utile da usare come arma, però attenti a non attirare l’attenzione…
Erano tutti d’accordo, solo Mei non voleva lasciarmi andare da solo, era preoccupato.
— Kolima, vengo con te, può succedere di tutto…
Non potevo dirgli che era un peso, dovevo trovare una maniera più morbida.
— Mi servi qui. Se scoprono dove siete tocca a te difendere il gruppo. Io da solo riesco a scappare da qualsiasi merda, ma loro?
A quelle parole Mei è diventato serio, e sulla faccia gli è apparsa la stessa espressione che potevano avere i kamikaze giapponesi prima di salire sui loro aerei.
Mi sono tolto il giubbotto e stavo già per andare, ma Mei mi ha fermato mettendomi in mano la spranga di ferro, e con la voce tremante mi ha detto:
— Ti potrà servire…
Io lo guardavo meravigliato: ma quanto idiota era, e quanto bene mi voleva quell’essere umano!
Meno cose mi portavo nelle mani meglio era. Ma per evitare inutili spiegazioni ho preso la spranga e sono partito di corsa. L’ho buttata appena sono sparito dietro i garage. Andavo veloce, l’aria era fredda e si respirava bene.
Arrivato alla curva, ho attraversato la strada e mi sono diretto verso i magazzini. Da lontano ho visto una dozzina di ragazzi seduti intorno a un bidone di ferro, dove avevano acceso un fuoco per scaldarsi. Ho contato i bastoni e le spranghe appoggiate al muro. Ho aspettato un po’, per assicurarmi che non ci fosse nessun altro, poi sono tornato indietro.
Quando li ho raggiunti, i miei amici avevano già aperto cinque garage. Mei aveva svuotato un armadietto di attrezzi per il giardinaggio e si era fatto un’arma con una piccola zappa che aveva da una parte una lama di ferro per zappare e dall’altra una piccola forca, credo per raccogliere qualcosa; non so un bel niente di giardinaggio, nel nostro quartiere i giardini servivano solo per nascondere le armi.
Mei si era anche riempito le tasche di dischi di ricambio per la sega circolare, erano rotondi e con grandi denti taglienti.
— Che vuoi fare con quella roba? Pensi di poter affettare la gente?
— No, li uso come arma da tiro, — ha risposto lui con orgoglio, e ho visto il suo occhio brillare come succedeva ogni volta che stava per combinare una cazzata.
— Mei, questo non è un gioco. Cerca di non colpire nessuno di noi, altrimenti sarò costretto a infilartele tutte nel culo, ’ste armi da tiro.
Lui ha fatto la faccia offesa ed è uscito dal garage a testa bassa.
Fima girava con un’ascia enorme, cosa che mi preoccupava molto, allora l’ho convinto ad abbandonarla per un bel pezzo di tubo d’acciaio inossidabile:
— Guarda come brilla, — gli ho detto. - Sembra una spada, no?
Lui ha afferrato il tubo senza commenti, gli occhi pieni di voglia di combattere.
Ivan invece si era procurato un’accetta lunga, di quelle che si usano per spaccare i rami. Gliel’ho tolta dalle mani sostituendola con una spranga di ferro. Erano troppo violenti, quei due, e avrebbero fatto un vero macello, bisognava alleggerire i loro armamenti.
Dito aveva trovato un massiccio e lungo manico d’ascia, Geka un grosso cutter e un bastone di legno pesante.
Perfetto.
Io ho ispezionato uno dei garage, rimediando una cassa di bottiglie vuote. Mi era venuta un’idea: volevo fare una cosa orrenda ma molto utile nella nostra situazione. Ho dato un’occhiata agli altri garage, in uno c’era la sabbia per conservare le mele d’inverno. Ho chiamato Geka, ci siamo armati di un tubicino e abbiamo succhiato la benzina dai serbatoi delle macchine.
Abbiamo riempito tutte le bottiglie di benzina mischiata a sabbia, e con dei vecchi stracci raccolti sul posto abbiamo fabbricato i tappi.
Le molotov erano pronte.
Abbiamo fatto una riunione veloce, in cui io ho proposto il mio piano elementare:
— Attraversiamo la strada direttamente da qui e arriviamo al muro del magazzino, poi strisciamo verso di loro avvicinandoci il più possibile. Si aspettano di vederci spuntare dall’altra parte, noi li prendiamo di sorpresa attaccandoli con le molotov, e poi giù botte. Solo così abbiamo una possibilità di uscire dal quartiere sulle nostre gambe.
Erano tutti d’accordo.
Abbiamo attraversato la strada correndo tutti insieme, velocissimi. Una volta arrivati al muro, abbiamo rallentato. Io e Geka portavamo la cassa piena di molotov.
A un tratto abbiamo cominciato a sentire le loro voci: erano proprio dietro l’angolo. Ci siamo fermati. Io mi sono sporto un po’ in avanti e ho sbirciato: la loro posizione era un bersaglio perfetto. Stavano tutti appiccicati al muro, intorno al fuoco del bidone.
Uno di loro lo conoscevo, era un coglione che aveva quattro anni più di me, un imbecille nato, si chiamava Briciolo. Aveva ammazzato tre gatti di una vecchietta sua vicina e poi si era vantato con chiunque di quest’impresa eroica per un sacco di tempo, era un vero sadico.
Un giorno eravamo tutti insieme a fare il bagno in una spiaggia sul fiume, e uno dei ragazzi del nostro quartiere, Stas, soprannominato «Bestia» — uno davvero cattivo, uno arrabbiato con tutto il mondo — l’ha sentito raccontare quella sua bravata dei gatti. Bestia non ha fatto tante storie, si è avvicinato a lui, gli ha preso le mani e gliele ha schiacciate cosi forte che si è sentito il rumore delle ossa rotte. Briciolo è sbiancato ed è svenuto, le mani gli sono diventate gonfie e viola come due palloncini. I suoi lo hanno portato via. Dopo ho sentito dire che gli avevano messo a posto le mani, in ospedale, e che lui aveva ripreso a fare la sua vita da coglione, dicendo in giro che un giorno si sarebbe vendicato. Ma non ha fatto in tempo, perché Bestia è morto poco dopo, ucciso in una sparatoria con gli sbirri. Cosi Briciolo se l’è presa con tutto il nostro quartiere e ha fatto un patto con l’Avvoltoio, promettendo di distruggerci. Girava voce che avevano anche celebrato una messa nera nel cimitero della città, durante la quale tutti noi ragazzi di Fiume Basso eravamo stati maledetti.
Ho preso due molotov, altre due le ho date a Geka e Dito. A Mei nessuna, perché da piccolo ne aveva tirata una troppo in alto e quella si era aperta in volo, colpendoci di striscio. Da allora gli veniva affidata la parte di quello che tiene pronto il fiammifero о l’accendino.
Ho agitato per bene le bottiglie, sollevando la sabbia dal fondo, ho fatto prendere fuoco agli stracci e subito dopo sono uscito da dietro il muro, tirando contemporaneamente due molotov contro il mucchio. In un attimo ne avevo già altre due in mano, le accendevo e via, a ripetizione.
Il nemico era nel panico, i ragazzi con le facce bruciate si buttavano nella neve, c’era fuoco dappertutto, qualcuno ha cominciato a correre talmente veloce che è scomparso alla nostra vista in un baleno.
In tre abbiamo svuotato la cassa in meno di un minuto. Mei non ha avuto il tempo di spegnere il fiammifero che avevamo già finito.
Ho tirato fuori i coltelli e mi sono lanciato contro uno che si era appena alzato da terra e stava per prendere in mano un bastone. Non aveva bruciature, il fuoco gli era arrivato solo sulla giacca e aveva fatto in tempo a rotolarsi nella neve. Era parecchio incazzato, e continuava a urlare come un guerriero. Ha tentato di colpirmi un paio di volte, tenendomi sempre a distanza. A un certo punto mi sono buttato ai suoi piedi schivando una bastonata, e gli ho piantato il coltello nella gamba. Lui mi ha colpito in faccia con l’altra gamba e mi ha spaccato il labbro, ho sentito in bocca il sapore del sangue. Ma nel frattempo ero riuscito a dargli un bel po’ di coltellate sulla coscia e a tagliargli il legamento dietro il ginocchio.
Dietro di me Mei ne aveva già stesi tre, uno con metà della faccia bruciata, un altro con tre buchi nella testa da dove usciva sangue serio: quello quasi nero, quello che esce quando ti beccano il fegato, solo più denso. Il terzo aveva un braccio rotto. Mei era furioso, e girava con un coltello piantato nella gamba.
Dito stava vicino al muro, sotto i suoi piedi c’erano altri tre, tutti feriti alla testa, uno aveva un osso rotto che gli spuntava dalla gamba, sotto il ginocchio.
Al muro era appoggiato anche Geka, si era preso una botta in fronte: niente di grave, ma era evidente che si era spaventato.
Quei due pazzi di Fima e Ivan invece stavano massacrando insieme un gigante, un colosso disteso per terra che, per qualche oscuro motivo, non voleva mollare la mazza di legno che stringeva nel pugno. Aveva la faccia che sembrava un pezzo di carne tritata e da un bel po’ doveva aver perso i sensi, ma continuava a non mollare la mazza. Mi sono chinato su di lui e ho notato che era legata al polso con una benda elastica. Per lasciargli un saluto dalla Siberia gli ho tagliato i legamenti sotto il ginocchio: quello non ha fatto un lamento, era proprio out.
Ho tirato fuori il coltello dalla gamba di Mei, poi ho recuperato la benda elastica e l’ho divisa in due, una parte gliel’ho messa sulla ferita come un tappo, con l’altra ho fatto una fasciatura stretta. Mei non voleva rimettersi i pantaloni che si era tolto per semplificare le operazioni, diceva che voleva prendere un po’ d’aria, ’sto scemo.
Dito guardava Fima e Ivan con un sorriso che non si spegneva e loro si sentivano protagonisti, agitavano fieri le loro spranghe di ferro.
Ho aiutato Geka ad alzarsi. Stava bene, solo che dopo la botta si sentiva un po’ rintronato e al tempo stesso agitato. Ho tirato fuori dalla tasca una caramella:
— Prendi fratello, masticala piano. Ti farà stare calmo.
Era una balla, certo, ma se uno ci crede una caramella funziona come un tranquillante. «Fattore psicologico», lo chiamava mio zio, che aveva fatto smettere di fumare un suo compagno di cella raccontandogli la balla che se si massaggiava le orecchie per mezz’ora al giorno in un mese perdeva il vizio.
Geka ha preso la caramella e si è sentito meglio. Sulla fronte aveva un livido viola, lungo, che si perdeva nell’occhio sinistro. Gli ho detto che dovevamo andarcene in fretta, lasciare Ferrovia il più presto possibile. Geka era preoccupato perché quelli sapevano dove abitava, aveva paura di tornare a casa.
— Stai sereno, fratellino, — l’ho rassicurato. - Quando arriviamo nel nostro quartiere racconterò tutto al Guardiano. Zio Trave sistemerà le cose.
Cercavo di spiegargli che con noi lui era al sicuro, protetto.
— Come fai a essere certo che abbiamo ragione e non torto? — mi ha chiesto.
La sua domanda in quel momento mi era sembrata sciocca. Solo pili tardi, col tempo, ho capito quant’era profonda, invece. Perché il punto era un altro: non era in dubbio la nostra ragione in quella situazione о in altre analoghe, ma la realtà oggettiva della nostra posizione rispetto al mondo che ci circondava.
Era un filosofo, il mio amico Geka, ma io non ero abbastanza abile con le parole, e allora gli ho risposto con le prime che mi sono venute in mente:
— Perché siamo veri, non nascondiamo niente.
Sentendo la mia risposta lui mi ha sorriso in un modo strano, come se volesse dire qualcosa ma preferisse tenerselo per un’altra volta.
Intanto Mei aveva ispezionato le tasche dei nostri nemici, rimediando tre coltelli, sei pacchetti di sigarette, quattro accendini — uno dei quali era d’oro, e lui se l’è messo subito in tasca —, pili di cinquanta rubli e un sacchettino pieno di anelli e catene d’oro, che quei balordi avevano sicuramente appena fregato a qualcuno.
Vicino al bidone ci attendeva un’altra fetta di bottino. Una borsa di stoffa. Dentro c’era un thermos pieno di tè fatto male però ancora abbastanza caldo, una decina di piccoli panini al formaggio e una sorpresa: una doppietta corta, senza calcio, e un mucchio di cartucce sparse qua e là, anche in mezzo ai panini. Le ho controllate: quelle originali le ho tenute, quelle fatte in casa le ho buttate via, perché non mi fidavo delle cartucce fatte da sconosciuti, soprattutto se di Ferrovia.
Mei era sorpreso e continuava a chiedere come un disco rotto:
— Perché non ci hanno sparato? Perché non ci hanno sparato? Perché non ci hanno sparato?
— Perché non hanno le palle… — ho risposto, ma solo per farlo smettere di fare ’sta domanda, perché in verità non lo capivo neanch’io. Forse chi si era portato dietro quella doppietta era stato colto di sorpresa e non aveva avuto il tempo di tirarla fuori… Forse, о forse no. L’unica cosa certa era che se l’avessero usata, tutta la nostra storia sarebbe andata diversamente e magari io non sarei qui a raccontarla.
Mei voleva prenderla, ma per diritto d’anzianità spettava a Dito: l’ho data a lui, che l’ha nascosta bene sotto la giacca. Mei per fortuna non si è offeso, era d’accordo, si è messo so lo a insegnare a Dito come si spara con quella roba.
Siamo partiti a passo veloce verso il parco. Ero sicuro che ancora non era finita, avevo uno strano presentimento. Camminavo, masticando un panino congelato, e intanto pensavo che era proprio un brutto segno che nel giorno del mio compleanno mi fosse capitato tutto quel casino.
«D’accordo, mi aspetta una vita difficile, — mi dicevo.
— Spero solo che non sia troppo corta».
Quando siamo entrati nel parco stava venendo buio. D’inverno il buio scende subito, la luce del giorno se ne va senza una grande battaglia, nel giro di mezz’ora non si vede più niente. Nel parco non c’erano lampioni, si vedevano solo le deboli luci della città scintillare tra gli alberi. Camminavamo per il vialetto principale.
All’altezza del sanatorio ho esposto a Geka la mia teoria sul fatto che non era ancora finita, quella storia. Sentivo con il cuore che ci aspettava un’altra imboscata, e dato che il parco era il posto migliore per farla, isolato e buio com’era, temevo per tutti noi.
Anche Geka la pensava cosi:
— Non è un caso, no, se l’Avvoltoio non si è ancora visto?
Ha proposto di camminare tutti vicini, per essere pronti a coprirsi le spalle a vicenda se ci saltavano addosso all’improvviso.
Ci siamo uniti in un istante, camminavamo con lo stesso passo, come i militari, aspettandoci da un momento all’altro l’attacco nemico.
Abbiamo attraversato tutto il parco, ma non è successo nulla. Quando abbiamo visto le luci del Centro eravamo così contenti che quasi saltavamo dalla gioia. Mei si è messo persino a urlare offese fantasiose in direzione di Ferrovia.
Siamo entrati in Centro, passando per le strade illuminate eravamo già belli rilassati e capaci anche di scherzare. Tutto sembrava così naturale e semplice… Mi sentivo una tale leggerezza addosso che mi dicevo: «Se ne ho voglia, posso volare».
Mei ha cominciato a fare palle di neve e a tirarcele contro, ridevamo tutti, camminando verso casa.
Abbiamo preso una scorciatoia vicino alla biblioteca, una viuzza tranquilla che attraversava le vecchie case del centro storico. Non vedevo l’ora di tornare per festeggiare il mio compleanno con gli altri che ci stavano aspettando.
— Saranno ubriachi fradici, — scherzava Mei, — avranno già mangiato tutto e quando arriveremo ci toccherà lavare i piatti sporchi.
— Se è così, ragazzi, il mio prossimo compleanno lo festeggio da solo, andate tutti… — non ho finito la frase, qualcosa о qualcuno mi ha dato una forte botta sul fianco destro. Sono caduto sulla terra gelata battendo la testa. Ho sentito male, ma ho reagito subito, e quando mi sono tirato su con un salto avevo già i coltelli in mano.
La stradina era stretta e buia, ma da qualche parte, lontano, c’era una finestra illuminata, e grazie a quella luce qualcosa si vedeva. C’erano delle ombre che venivano verso di noi.
— Cazzo, cos’era, sei a posto? — mi ha chiesto Mei.
— Sembra di sì, qualcuno mi ha spinto. Sono loro, ne sono sicuro…
— Cristo Santo, io ho già buttato via il mio bastone, — mi guardava disperato.
— Tieni una mia lama. Dove sono finiti i tuoi dischi per la sega?
Mei ha messo la mano in tasca e me li ha dati:
— Tiraglieli in faccia, bello.
Detto fatto. Ho lanciato un disco verso l’ombra più vicina, e poco dopo si è sentito un urlo pazzesco.
Ho visto saltare Fima in avanti con il bastone di ferro, gridando:
— Fascisti di merda, vi strappo a pezzi!
Si è buttato su un ragazzo che ormai era vicino a noi e già si poteva vedere in faccia, quello ha cercato di schivare il colpo ma il bastone l’ha centrato dritto sulla nuca ed è caduto senza un lamento.
Dal buio si sono lanciati in tre su Fima, Ivan cercava di prenderli a sprangate come poteva.
Geka era a terra, aveva una mano rotta, stava prendendosi le botte da un gigante (un altro) armato di bastone. In un attimo, Dito si è buttato sul gigante con la doppietta spianata: gli ha sparato a bruciapelo, dritto nel torace. Il gigante è crollato in maniera innaturale, come spinto da una forza invisibile.
Io mi sono messo ad aiutare Fima, ho lanciato dischi a ripetizione, colpendo due aggressori in piena faccia. Un altro ì’ho accoltellato su un fianco, ho sentito la lama entrare profondamente nella carne attraverso uno strato di tessuti, e allora ho capito che erano cosi sicuri di prenderci di sorpresa che non si erano nemmeno imbottiti di giornali. L’ho colpito ancora due volte nello stesso punto, nella zona del fegato. Speravo di ucciderlo. Subito dopo ho avvertito una sensazione di debolezza nella mano che stringeva il coltello. Era come se stessi perdendo il controllo del braccio, tipo una paralisi.
«Ci mancava solo questa…», ho pensato.
Ho cercato di riprendermi, di stringere il coltello più forte, ma la mia mano destra non mi ascoltava, non rispondeva più. Allora ho impugnato il coltello con la sinistra e nello stesso momento, da dietro, Mei mi ha acchiappato per il collo e mi ha trascinato via. Intanto, sentivo tanti passi nel buio: passi di gente che scappava.
10 avevo perso il fiato, facevo fatica a respirare. La botta sul fianco mi faceva male, ma non la consideravo una roba seria. Pensavo che al massimo mi avevano rotto un paio di costole, infatti il dolore aumentava quando inspiravo.
11 gigante era per terra, immobile, e rantolava. Non c’era nemmeno una goccia di sangue. Le cartucce che Dito aveva usato per sparargli dovevano essere quelle di gomma con dentro un pallino di ferro: fatte apposta per non uccidere, però sparate da vicino possono fare danni seri.
Abbiamo ripreso a camminare, anzi, senza accorgercene abbiamo cominciato a correre. Correvamo tutti, davanti c’era Dito con Geka, che teneva la sua mano rotta sul petto stringendola con l’altra. Poi Fima, che mentre correva gridava bestemmie, e dietro di lui Ivan, zitto e concentrato. Anche se avevo male correvo come un pazzo anch’io, non sapevo nemmeno il perché: forse quell’aggressione improvvisa, proprio quando ci sentivamo ormai al sicuro, ci aveva messo addosso una febbre nuova.
Mei correva piano dietro di me, poteva andare più veloce ma era preoccupato perché io non riuscivo a correre bene come al solito, mi faceva un casino male il fianco colpito.
Finalmente siamo arrivati ai confini del nostro quartiere. Ci siamo fermati, piano piano, in mezzo alla strada che portava al fiume. Sono arrivati tre amici che in quel momento stavano di guardia. Gli abbiamo raccontato in due parole cos’era successo, e uno di loro è subito andato ad avvertire il Guardiano.
Siamo arrivati a casa mia. Mia mamma era in cucina con zia Irina, la madre di Mei. Erano preoccupate, e quando ci hanno visto entrare sono rimaste inchiodate alle loro sedie.
— Che vi è successo? — ha balbettato mia mamma.
— Niente, siamo finiti un po’ in un casino, una sciocchezza… — sono corso in bagno per nasconderle il giubbotto squarciato, e per lavarmi le mani sporche di sangue. - Mamma, chiama zio Vitali], - ho detto rientrando in cucina. - Bisogna portare Geka in ospedale, si è rotto un braccio…
— Ma siete pazzi? Come, si è rotto un braccio? Vi siete picchiati con qualcuno? — mia mamma tremava.
— No, signora, sono caduto, un incidente… Dovevo stare più attento —. Povero Geka, con una voce che sembrava uscire dall’aldilà cercava di salvare la situazione.
— Se sei caduto, perché Mei ha un livido in faccia? — mia mamma aveva un modo tutto suo per dire che eravamo dei contaballe.
— Zia Lilja, — ha detto quel genio di Mei rivolto a mia madre, — il fatto è che siamo caduti tutti insieme…
Subito dopo zia Irina ha cominciato a riempirlo di schiaffi.
Sono tornato in bagno e mi sono chiuso dentro. Ho acceso la luce, e quando mi sono guardato mi è caduta l’anima nei talloni: avevo tutta la gamba destra piena di sangue. Mi sono spogliato e ho girato il fianco che mi faceva male verso lo specchio. Eccolo, era H: un sottilissimo taglio, largo appena tre centimetri, da dove sbucava un pezzo di lama rotta. Ho preso le pinzette per le sopracciglia di mia madre e in quel momento lei ha bussato.
— Fammi entrare, Nicolai.
— Un secondo ed esco, mamma, il tempo di lavarmi la faccia!
Ho afferrato il pezzo di lama che spuntava e ho tirato piano. Mentre guardavo la lama uscire e diventare sempre più lunga, ho sentito la testa pesante. Mi sono fermato a metà, ho aperto l’acqua e mi sono bagnato la fronte. Dopo ho ripreso la lama e l’ho tirata tutta fuori. Era lunga quasi dieci centimetri, non credevo ai miei occhi. Era un pezzo di lama della sega che si usa per tagliare il metallo, affilata a mano come un rasoio da tutte e due le parti, con una punta sottile e fragile. L’avevano scelta apposta quell’arma, per colpire e poi spaccarla, in modo che restasse nella ferita e facesse soffrire di più.
La ferita sanguinava. Ho aperto il mobiletto e mi sono medicato come potevo: un po’ di pomata cicatrizzante sul taglio e tutt’intorno una fasciatura stretta, per fermare il sangue. I vestiti e le scarpe li ho buttati tutti dalla finestrella del bagno, e mi sono messo gli abiti sporchi presi dalla cesta vicino alla lavatrice. Ho lavato e asciugato il coltello e sono tornato di là.
Mei e zia Irina erano già andati via, era arrivato zio Vitali], che teneva in mano le chiavi della macchina, pronto per portare Geka in ospedale.
Fima e Ivan stavano seduti al tavolo di cucina, mia mamma gli aveva dato da mangiare la zuppa con la panna acida e la carne stufata con le patate.
— Allora, casinista, cos’avete combinato ancora? — mi ha chiesto zio Vitali], come sempre di buon umore.
Io mi sentivo privo di forze, non avevo molta voglia di scherzare.
— Ti racconterò dopo, zio, è una storiaccia.
— Ma proprio il giorno del tuo compleanno dovevi finire nei casini? Tutti i tuoi amici sono già ubriachi, ti stanno aspettando…
— Niente festa, zio, non sto in piedi, voglio solamente dormire.
Sono stato a letto due giorni, alzandomi solo per mangiare e andare in bagno. Il secondo giorno Mei è venuto a trovarmi insieme al Guardiano, zio Trave, che voleva sentire da me com’era andata la storia.
Gli ho raccontato tutto, e lui mi ha promesso di regolare la faccenda in poche ore, anche per evitare ritorsioni su Geka, Fima e Ivan a Ferrovia, visto che Dito rimaneva a vivere nel nostro quartiere.
Dopo una settimana circa Trave mi ha invitato a casa sua per farmi parlare con una persona di Ferrovia. Era un criminale adulto, un’autorità della casta Seme nero, si chiamava «Corda» ed era uno dei pochi criminali di Ferrovia rispettato dai nostri.
Li ho trovati seduti al tavolo, Corda si è alzato e mi è venuto incontro guardandomi in faccia:
— Allora sei tu il famoso «scrittore»?
Scrittore, in gergo criminale, è chi è agile con il coltello. La scrittura è una coltellata.
Io non sapevo cosa rispondere e se potevo farlo, allora ho guardato Trave. Lui ha fatto si con la testa.
— Scrivo quando c’è da scrivere, quando m’ispira la musa, — ho risposto.
Corda ha fatto un largo sorriso:
— Sei un piede scalzo sveglio.
Mi aveva chiamato piede scalzo, era un buon segno. La cosa forse stava per risolversi a mio favore.
Corda si è seduto e mi ha invitato a sedermi con loro.
— Te lo chiedo una volta sola, cosa ne pensi di questa faccenda, e dopo non ci torneremo più su —. Corda parlava con una grande calma e sicurezza nella voce, si sentiva che era un’autorità, uno capace di gestire le cose. - Se per te la storia finisce qui e non hai voglia di vendicarti su nessuno, ti do la mia parola che tutti quelli che hanno arrecato disturbo a te e ai tuoi amici saranno puniti severamente da noi, dalla gente di Ferrovia. Se vuoi vendicarti su qualcuno in particolare puoi farlo, però in questo caso dovrai fare tutto da solo.
Non ci ho pensato neanche un attimo, la risposta mi è venuta subito alle labbra:
— Non ho niente di personale contro nessuno di Ferrovia, quello che è stato è stato, è giusto che sia dimenticato. Spero di non avere ucciso nessuno dei vostri, però nella rissa sapete com’è, ognuno cerca di uscirne come può.
Volevo fargli capire che per me non era importante la vendetta, che venivano prima il benessere e la pace nella comunità.
Corda mi guardava serio, però con un’aria buona, amichevole:
— Bene, allora ti prometto che quello che ha organizzato questo vergognoso gesto contro di voi, mentre eravate ospiti nel nostro quartiere, sarà punito ed espulso. I tuoi amici possono vivere la loro vita degna e camminare a testa alta a Ferrovia… — ha fatto una pausa, guardando una porta dall’altra parte della stanza. - Ti voglio presentare i miei nipoti, li hai già conosciuti purtroppo, ma adesso voglio che accetti le loro scuse… — a queste parole dalla porta sono usciti due ragazzi con le facce da funerale e la testa bassa. Uno l’ho riconosciuto subito, era Barba, lo stronzetto che avevamo picchiato e chiuso nella scuola, mentre l’altro aveva una faccia che non mi sembrava nuova, ma non riuscivo a ricordarlo. Poi ho notato che zoppicava, e che sotto i pantaloni, sulla gamba sinistra, si vedeva il rigonfiamento di una fasciatura: era il tipo a cui avevo dato una coltellata mentre gli passavo il mio messaggio per l’Avvoltoio, dopo il primo scontro.
I due si sono avvicinati e si sono fermati davanti a me con lo stesso entusiasmo dei condannati a morte di fronte al plotone d’esecuzione. Mi hanno salutato all’unisono. Era molto triste e umiliante, mi dispiaceva per loro.
Corda gli ha detto con voce severa:
— Allora, cominciate!
Subito dopo l’ordine, Barba, il piccolo tossico, è partito come un mitra, con parole evidentemente studiate:
— Ti chiedo perdono come a un fratello, perché ho fatto uno sbaglio, se vuoi punirmi te lo lascio fare, però prima perdonami! — non era commovente come può sembrare, capivo benissimo che si trattava di una pura formalità.
Anch’io dovevo recitare la mia parte:
— Cogli il mio umile saluto di fratello affettuoso e compassionevole. Che il Signore ci perdoni tutti quanti.
Era la scuola di nonno Kuzja, quella. Mi avesse sentito sarebbe stato fiero di me. Tono poetico, contenuto ortodosso: da vero siberiano.
Dopo le mie parole Trave è rimasto con un sorriso soddisfatto stampato sulla faccia, Corda aveva quasi la bocca aperta.
Ora toccava all’altro disgraziato:
— Ti prego, perdonami come un fratello, perché ho commesso un’ingiustizia e…
La sua voce era meno decisa di quella di Barba, era evidente che non riusciva a ricordare bene la sua parte e l’aveva accorciata. Ha rivolto uno sguardo smarrito a Corda, ma quello non ha fatto una piega, però le sue mani involontariamente si sono strette nei pugni.
Allora ho deciso di ammazzarli tutti con la mia gentilezza, e dopo un respiro profondo ho tirato come una canzone la frase seguente:
— Come il Nostro glorioso Signore Gesù Cristo abbraccia tutti noi peccatori nel Suo dolce amore, e affettuosamente ci spinge verso la via dell’eterna salvezza, così con la stessa umiltà e gioia vi comprendo nella fraterna grazia.
Parole da santo, i miei piedi quasi si alzavano da terra, sembrava che dovesse aprirsi un varco nel soffitto tutto per me.
Trave non smetteva di sorridere, Corda ha detto:
— Perdonaci per tutto, Kolima, torna a casa tranquillo, sistemerò personalmente ogni cosa.
Dopo un mese ho saputo che l’Avvoltoio era stato picchiato a sangue, gli avevano «segnato» la faccia, facendogli un taglio che partiva dalla bocca, attraversava tutta la guancia e finiva all’orecchio. Poi lo avevano costretto ad andarsene da Ferrovia.
Qualcuno un giorno mi ha detto che si era trasferito a Odessa, dove si era affiancato a una banda di minorenni che rubavano i portafogli nei tram. Gente che non rispettava nessuna legge, né quella degli uomini né quella dei criminali.
Qualche tempo dopo ho saputo che era morto, ucciso dai suoi stessi compagni, che l’avevano buttato giù dal tram in movimento.
Geka è guarito in fretta, non gli è rimasto nessun segno della frattura; più tardi si è iscritto all’università di medicina.
Fima per sua disgrazia è stato portato dalla sua famiglia in Israele. Mi hanno raccontato che quando hanno cercato di farlo salire sull’aereo s’è messo a protestare, urlando che per un marinaio è una vergogna andare in giro volando. Ha picchiato un aiuto pilota e due agenti della dogana. Alla fine hanno dovuto addormentarlo con un sedativo.
Ivan ha continuato a suonare il violino nel ristorante, e dopo un po’ ha trovato il modo per consolarsi della lontananza del suo amico: ha conosciuto una ragazza, con cui è andato a convivere. Del resto tra le ragazze della città girava voce che Ivan fosse stato dotato dalla natura di un altro talento, oltre a quello musicale.
Dito ha vissuto per un po’ di tempo nel nostro quartiere, poi ha rapinato banche con una banda siberiana e alla fine si è sistemato in Belgio, sposando una donna di H.
Dopo il casino a Ferrovia, ancora per un paio d’anni ogni tanto incontravo in città ragazzi che non conoscevo, e che mi salutavano dicendo:
«C’ero anch’io quel giorno».
Alcuni mi facevano vedere i tagli dietro le ginocchia, le cicatrici sulle cosce, quasi con un senso di vanità e orgoglio, dicendomi:
«Lo riconosci? E il tuo lavoro!»
Con molti siamo rimasti in buoni rapporti. Quel giorno per fortuna non era morto nessuno, anche se uno l’avevo ferito abbastanza gravemente, accoltellandolo vicino al fegato.
Nonno Kuzja, dopo aver saputo da Trave come mi ero comportato con i nipoti di Corda, si è complimentato con me a modo suo. Sorriso sghembo e una frase sola:
«Bravo Kolima, una lingua gentile taglia e colpisce meglio di ogni coltello».
Regali di compleanno quell’anno non ne ho avuti, mio padre era arrabbiato con me, ripeteva «Non sei capace di stare tranquillo neanche il giorno del tuo compleanno», mia mamma invece si era offesa perché le avevo tenuto nascosto quello che mi era capitato quel giorno, e in mezzo a tutto ’sto casino nessuno mi ha regalato niente, tranne zio Vitalij che mi ha portato un pallone da calcio tutto di pelle, molto bel lo, ma il mio cane lo ha fatto a pezzi la notte stessa.
Niente regali, e soprattutto una bella ferita che mi è servita per riflettere, capire meglio e inquadrare la vita che stavo facendo.
Dopo tanti pensieri e discussioni con me stesso sono arrivato alla conclusione che non si risolve niente con il coltello e le botte. Cosi sono passato alla pistola.