11° RAPPORTO SUI PROGRESSI

1 maggio Perché non mi ero mai accorto quanto è bella Alice Kinnian? Ha occhi castani dolci come quelli di una colomba e soffici capelli castani che le scendono fino alla fossetta sotto la nuca. Quando sorride, le sue labbra piene sembrano fare il broncio.

Siamo andati al cinema e poi a cena. Non ho visto un gran che del primo film perché ero troppo eccitato dal fatto che ella mi sedeva accanto. Per due volte il suo braccio nudo ha toccato il mio sul bracciolo della poltrona, e entrambe le volte il timore che ella potesse irritarsi mi ha indotto a scostarmi. Riuscivo a pensare soltanto alla sua pelle morbida a pochi centimetri di distanza. Poi ho visto, due file più avanti. un giovanotto con il braccio intorno alle spalle della sua ragazza, e ho desiderato mettere il braccio intorno alle spalle di Miss Kinnian. Terrificante. Ma se lo avessi fatto adagio… dapprima poggiando il braccio sulla spalliera… e poi spostandolo… centimetro per centimetro… fino a portarlo contro le spalle e la nuca di lei… come per caso…

Non ne ho avuto il coraggio.

Il massimo che abbia saputo fare è consistito nel poggiare il gomito sulla spalliera della sua poltrona, ma una volta arrivato lì ho dovuto cambiar posizione per asciugarmi il sudore dalla faccia e dal collo.

A un certo momento, la gamba di lei ha casualmente sfiorato la mia.

È diventato un tal cimento, così penoso, che mi sono imposto di pensare ad altro. Il primo film era stato un film di guerra, e ne avevo seguito soltanto la fine, quando il soldato torna in Europa per sposare la donna che gli aveva salvato la vita. Il secondo film mi ha interessato. Un film psicologico su un uomo e una donna apparentemente innamorati, ma che in realtà si distruggono a vicenda. Tutto lascia credere che l’uomo stia per uccidere sua moglie, ma all’ultimo momento, una frase che lei grida durante un incubo gli ricorda qualcosa che gli accadde nella fanciullezza. Il ricordo improvviso gli dimostra che il suo odio è diretto in realtà contro una governante depravata la quale lo aveva atterrito con storie paurose lasciando una pecca nella sua personalità. Entusiasmato nel rendersene conto, egli lancia un grido di gioia per cui sua moglie si sveglia. La prende tra le braccia e si intuisce che tutte le sue difficoltà sono state risolte. Era sciocco e insulso e io devo aver lasciato intravedere la mia ira perché Alice ha voluto sapere che cosa avessi. «È una menzogna», ho spiegato mentre uscivamo nel vestibolo. «Le cose non vanno in questo modo.»

«No di certo.» Ella ha riso. «È un mondo immaginario.»

«Oh, no! Questa non è una giustificazione», ho insistito. «Anche nel mondo della fantasia devono esserci regole. Le varie parti devono essere coerenti e logiche. I film di questo genere sono una menzogna. La concatenazione degli avvenimenti è forzata perché lo sceneggiatore o il regista o qualcun altro hanno voluto qualcosa che non c’entrava. E si sente che è sbagliato.»

Lei mi ha guardato cogitabonda mentre uscivamo tra le luci notturne vivide e abbacinanti di Times Square. «Progredisci rapidamente.»

«Sono confuso. Non so più che cosa voglio.»

«Non preoccupartene», ha insistito. «Stai incominciando a vedere quello che c’è dietro la superficie delle cose.» Ha fatto un gesto con la mano, accennando a tutte le insegne al neon e allo splendore intorno a noi mentre ci dirigevamo verso la Settima Avenue. «Stai incominciando a vedere e a capire le cose. Quello che hai detto delle varie parti che devono armonizzarsi… è stata un’intuizione molto sottile.»

«Oh, andiamo. Ho la sensazione di non compiere un bel niente. Non capisco me stesso né il mio passato. Non so neppure dove si trovano i miei genitori né che aspetto hanno. Sa che quando li vedo nel balenare di un ricordo o in sogno, i loro volti sono offuscati? Voglio vederne l’espressione. Non riesco a capire quello che succede se non posso vederne il volto…»

«Charlie, calmati.» La gente si stava voltando e ci fissava. Alice mi ha preso sotto braccio e mi ha stretto a sé per tenermi a freno. «Sii paziente. Non dimenticare che stai compiendo in poche settimane ciò per cui altri impiegano una vita. Sei come una spugna gigantesca che si imbeve di conoscenza. Presto incomincerai a collegare le cose e capirai quali rapporti corrono tra tutte le diverse sfere della cultura. Tutti i livelli, Charlie, sono collegati, come piuoli di un’enorme scala. E tu salirai sempre e sempre più in alto per vedere una parte sempre più grande del mondo intorno a te.»

Mentre entravamo nel ristorante economico della Quarantacinquesima Strada e prendevamo i vassoi, ha cominciato a parlare con animazione. «La gente comune», ha detto, «non ne vede che una piccola parte. Non può cambiare molto né andare più in alto di dove si trova, ma tu sei un genio. Continuerai a salire e a salire e a vedere sempre di più. E ogni passo ti rivelerà mondi dei quali non sospettavi neppure l’esistenza».

Le persone in coda che la udivano si sono voltate a fissarmi, e soltanto quando io le ho dato di gomito per farla tacere ella si è decisa ad abbassare la voce. «Spero soltanto, in nome di Dio», ha bisbigliato, «che tu non debba soffrire».

Per qualche momento, in seguito, non ho saputo che cosa dire. Dopo aver ordinato i piatti al banco, li abbiamo portati al nostro tavolo e ci siamo messi a mangiare in silenzio. Il silenzio mi innervosiva. Conoscevo la ragione del suo timore, e pertanto ci ho scherzato su.

«Perché dovrei soffrire? Non potrebbe andarmi peggio di prima. Persino Algernon è ancora intelligente, no? Fino a quando lui è a posto, sono a cavallo anch’io.»

Alice giocherellava con il coltello, incidendo solchi circolari in una fettina di burro, e quel movimento mi ipnotizzava. «E inoltre», le ho detto, «ho udito una cosa… il professor Nemur e il dottor Strauss stavano litigando, e Nemur ha detto di essere sicuro che nulla possa andar male».

«Me lo auguro», ha risposto lei. «Non puoi immaginare quanto ho temuto che potesse accadere qualcosa. Mi sento in parte responsabile.» Mi ha veduto fissare il coltello e lo ha posato meticolosamente accanto al piatto.

«Non ci sarei mai riuscito se non fosse stato per lei», ho detto io.

Alice ha riso e questo mi ha fatto tremare. È stato il momento in cui mi sono accorto che ha gli occhi dolci e castani. Ha abbassato subito lo sguardo sulla tovaglia, arrossendo.

«Grazie, Charlie», ha mormorato, e mi ha preso la mano.

Era la prima volta che qualcuno faceva questo gesto, e mi ha reso più audace. Mi sono proteso in avanti, avvinghiandomi alla sua mano, e le labbra hanno formato le parole. «Lei mi piace moltissimo.» Dopo averlo detto, ho temuto che si mettesse a ridere, invece ha annuito, sorridendo.

«Anche tu mi piaci, Charlie.»

«Ma è qualcosa di più d’una simpatia. Io voglio dire… oh, al diavolo! Non lo so che cosa voglio dire.» Mi accorgevo di arrossire e non sapevo da che parte guardare o che cosa fare delle mani. Ho lasciato cadere la forchetta e, cercando di riprenderla, ho rovesciato il bicchiere pieno d’acqua che le si è versata sul vestito. A un tratto ero diventato di nuovo goffo e imbarazzato, e quando ho tentato di scusarmi mi sono accorto che la lingua era diventata troppo grande per la mia bocca.

«Non è nulla, Charlie», lei ha cercato di rassicurarmi. «È soltanto acqua. Non lasciarti scombussolare in questo modo.»

Sul tassi, durante il tragitto di ritorno a casa, abbiamo taciuto a lungo, e poi lei ha posato la borsetta e mi ha raddrizzato la cravatta e aggiustato il fazzoletto nel taschino della giacca. «Eri molto turbato questa sera, Charlie.»

«Mi sentivo ridicolo.»

«Ti ho sconvolto parlandone. Ti ho fatto vergognare di te stesso.»

«Non si tratta di questo. A tormentarmi è il fatto che non so esprimere quello che sento.»

«Questi sentimenti sono nuovi per te. Non tutto, deve… essere espresso con le parole.»

Mi sono spostato più vicino a lei e ho cercato di riprenderle la mano, ma Alice mi ha respinto. «No, Charlie. Non credo che ti faccia bene. Ti ho sconvolto, e questo potrebbe avere conseguenze negative.»

Quando mi ha respinto mi sono sentito goffo e ridicolo al contempo.

Ciò ha fatto sì che mi adirassi con me stesso e allora mi sono spostato dalla mia parte del sedile e ho guardato fuori del finestrino. La odiavo come non avevo mai odiato nessuno… lei, con le sue risposte disinvolte e i coccolamenti materni. Avrei voluto schiaffeggiarla, farla strisciare ai miei piedi e poi stringerla tra le braccia e baciarla.

«Charlie, mi dispiace se ti ho turbato.»

«Lasci perdere.»

«Ma devi capire quello che sta accadendo.»

«Lo capisco», ho detto, «e preferirei non parlarne».

Quando il tassi è arrivato davanti a casa sua, nella Settantasettesima Strada, non avrei potuto sentirmi più infelice.

«Sta’ a sentire», ha detto lei, «la colpa è mia. Non avrei dovuto uscire con te questa sera».

«Sì, ora me ne rendo conto.»

«Voglio dir questo, che non abbiamo il diritto di mettere la cosa su un piano personale… emotivo. Tu hai tanto da fare, lo non ho alcun diritto di entrare nella tua vita in questo momento.»

«Di questo devo preoccuparmi io, non le pare?»

«Tu credi? Non si tratta più di una tua questione privata, Charlie. Hai degli obblighi, adesso… non soltanto nei confronti del professor Nemur e del dottor Strauss, ma anche con i milioni di individui che potrebbero seguire le tue orme.»

Quando più parlava in questo modo, tanto peggio mi sentivo. Metteva in risalto la mia goffaggine, la mia ignoranza per quanto concerneva le cose giuste da dire e da fare. Agli occhi di lei ero un goffo adolescente e stava cercando di respingermi con tatto.

Mentre ci trovavamo davanti alla porta di casa sua si è voltata, mi ha sorriso e per un momento ho creduto che mi avrebbe invitato a entrare. Invece ha soltanto bisbigliato: «Buona notte, Charlie. Grazie della bellissima serata».

Avrei voluto darle il bacio della buona notte. A questo riguardo m’ero già crucciato prima. Una donna non si aspetta sempre che tu la baci? Nei romanzi che avevo letto e nei film che avevo visto era l’uomo a prendere l’iniziativa. La sera prima avevo deciso che l’avrei baciata. Ma seguitavo a pensare: e se mi respingesse?

Mi sono fatto più vicino e l’ho afferrata alle spalle, ma lei è stata troppo svelta per me. Mi ha fermato e mi ha preso la mano tra le sue. «Faremo meglio ad augurarci la buona notte soltanto in questo modo, Charlie. Non possiamo permettere che la cosa diventi personale. Non ancora.»

E prima che avessi potuto protestare o domandarle che cosa avesse voluto dire con quel non ancora, è entrata in casa. «Buona notte, Charlie, e grazie ancora per queste ore… adorabili.» Poi ha chiuso la porta.

Ero furioso contro di lei, contro me stesso e contro il mondo, ma una volta arrivato a casa mi sono reso conto che aveva ragione. Io non so se provi qualcosa per me o se voglia soltanto essere gentile. Che cosa può mai vedere in me? A rendere la situazione così imbarazzante è il fatto che non ho mai avuto alcuna esperienza del genere prima d’ora. Come si fa a imparare il modo di comportarsi con un’altra persona? Come fa un uomo a imparare il modo di comportarsi con una donna?

I libri non servono un gran che.

Ma la prossima volta le augurerò la buona notte con un bacio.


3 maggio Una delle cose che mi confondono è il non sapere mai realmente, quando qualcosa affiora dal mio passato, se davvero accadde in quel modo o se così parve accadere sul momento o se lo sto soltanto inventando. Sono come un uomo che sia rimasto semiassopito per tutta la vita e cerchi di capire com’era prima di destarsi. Ogni cosa appare stranamente offuscata e al rallentatore.

Stanotte ho avuto un incubo e quando mi sono svegliato ho ricordato qualcosa.

Anzitutto, l’incubo: sto correndo in un lungo corridoio, quasi accecato da turbini di polvere. A volte corro avanti, poi galleggio in aria qua e là e torno indietro, ma ho paura perché sto nascondendo qualcosa in tasca. Non so che cosa sia né dove l’ho, ma so che vogliono portarmelo via e questo mi atterrisce.

Il muro crolla e a un tratto ecco una fanciulla dai capelli rossi con le braccia tese verso di me… il suo viso è una vacua maschera. Mi prende tra le braccia, mi bacia e mi accarezza, e io vorrei tenerla stretta ma ho paura. Quanto più mi tocca, tanto più mi impaurisco perché so che non devo mai toccare una ragazza.

Poi, mentre il suo corpo si strofina contro il mio, sento uno strano pulsare e traboccare dentro di me che mi rende tutto caldo. Ma quando alzo gli occhi vedo un coltello insanguinato nelle mani di lei.

Cerco di gridare correndo, ma non un suono mi esce dalla gola e ho le tasche vuote. Mi frugo le tasche, ma non so che cosa hb perduto né perché lo stavo nascondendo. So soltanto che la cosa è scomparsa e ho sangue anche sulle mani.


Destandomi ho pensato ad Alice e ho provato la stessa sensazione di panico del sogno. Di che cosa ho paura? Di qualcosa riguardo al coltello.

Mi sono preparato una tazza di caffè e ho fumato una sigaretta. Non avevo mai fatto un sogno simile prima d’ora e mi sono reso conto ch’era collegato alla serata trascorsa con Alice. Ho incominciato a pensare a lei in modo diverso.

La libera associazione mi è ancora difficile, perché è quasi impossibile non guidare il corso dei propri pensieri… lasciare semplicemente aperta la mente e consentire che vi scorra qualsiasi cosa… idee che ribollono alla superficie come in un bagno di schiuma… una donna che fa il bagno… una ragazza… Norma sta facendo il bagno… io la spio attraverso il buco della chiave… e quando esce dalla vasca per asciugarsi, vedo che il suo corpo è diverso dal mio. Le manca qualcosa.

Sto correndo lungo il corridoio… qualcosa mi sta dando la caccia… non una persona… soltanto un grosso coltello da cucina balenante… e io ho paura e piango, ma non un suono mi esce dalle labbra perché ho il collo tagliato e sto sanguinando…

«Mamma, Charlie mi spia attraverso il buco della chiave…»

Perché è diversa? Che cosa le è successo?… sangue… sto sanguinando… un buio nascondiglio…


Tre ciechi topolini… tre ciechi topolini,

guarda come corrono! Non vanno certo piano!

Inseguono tutti e tre quei bambini

che con il coltello han tagliato loro i codini.

Avevi mai visto qualcosa di tanto strano?

Tre… ciechi… topolini?


Charlie, solo in cucina al mattino presto. Tutti gli altri dormono e lui si diverte a giocare con il suo spago e i dischi che girano. Uno dei bottoni si stacca dalla camicia mentre lui si china e rotola sul disegno intricato del linoleum della cucina. Rotola verso il bagno e lui lo segue, ma poi lo perde. Dov’è il bottone? Va nel bagno a cercarlo. Nel bagno c’è un armadietto dove si trova la cesta della biancheria e a lui piace tirar fuori tutta la biancheria e guardarla. La biancheria di suo padre e di sua madre… e quella di Norma. Gli piacerebbe provarsela e farsi passare per Norma, ma una volta, quando ci ha provato, è stato sculacciato da sua madre. Lì, nella cesta della biancheria, trova le mutandine di Norma sporche di sangue secco. Che cosa ha fatto di male? È atterrito. Chiunque sia stato, potrebbe venire a cercarlo…


Perché un simile ricordo dell’infanzia rimane in me così nitido e perché mi spaventa anche adesso? Forse a causa dei miei sentimenti per Alice?

Ripensandoci, ora, posso capire perché mi è stato insegnato a tenermi lontano dalle donne. Ho fatto male a esprimere i miei sentimenti per Alice. Non ho alcun diritto di pensare a una donna in questo modo… non ancora. Ma nel momento stesso in cui scrivo queste parole, qualcosa dentro di me grida che c’è di più. Sono una creatura umana. Ero una creatura umana prima di essere sottoposto al bisturi del chirurgo. E devo amare qualcuno.


8 maggio Anche adesso che ho saputo che cosa si stava svolgendo alle spalle del signor Donner, stento a crederlo.

Ho notato per la prima volta che accadeva qualcosa di strano durante l’ora di punta, due giorni fa. Gimpy era dietro il banco e stava fasciando una torta di compleanno per uno dei nostri clienti più assidui… una torta che costa tre dollari e novantacinque. Ma quando Gimpy ha azionato la manovella, il registratore di cassa ha segnato soltanto due dollari e novantacinque. Stavo per dirgli che aveva commesso un errore quando nello specchio dietro il banco ho veduto una strizzatina d’occhio e un sorriso passare dal cliente a Gimpy, e il sorrisetto di risposta sulla faccia di Gimpy. E quando l’uomo ha preso il resto, ho visto il lampo di una grossa moneta d’argento rimasta nella mano di Gimpy prima che le sue dita si chiudessero su di essa, e il movimento fulmineo con il quale egli si è messo in tasca il mezzo dollaro.

«Charlie», ha detto una donna alle mie spalle. «ce ne sono ancora di quei cannoli alla crema?»

«Vado a vedere.»

Ero contento di essere stato interpellato, perché così avrei avuto il modo di riflettere su quel che avevo veduto. Senza dubbio, Gimpy non aveva commesso un errore. Aveva volutamente fatto pagare meno al cliente, e tra loro esisteva un’intesa.

Mi sono addossato inerte alla parete, non sapendo che cosa fare. Gimpy lavora alle dipendenze del signor Donner da più di quindici anni. Donner, che ha sempre trattato i suoi dipendenti come intimi amici, come parenti, ha invitato più di una volta a cena a casa sua la famiglia di Gimpy. Spesso ha affidato il negozio a Gimpy quando doveva uscire, e io ho sentito parlare delle numerose volte in cui Donner ha dato a Gimpy denaro per pagare le spese d’ospedale a sua moglie.

Era incredibile che qualcuno potesse derubare un uomo simile. Doveva esserci qualche altra spiegazione. Forse Gimpy aveva realmente commesso un errore nell’azionare il registratore di cassa e il mezzo dollaro era stato semplicemente una mancia. Oppure il signor Donner aveva concesso uno sconto speciale a questo cliente che acquista con regolarità torte alla crema. Tutto anziché credere che Gimpy sia un ladro. Gimpy è sempre stato così buono con me.

Non volevo più sapere. Ho tenuto gli occhi distolti dal registratore di cassa mentre portavo fuori i vassoi delle paste e suddividevo i cannoli, i babà al rum, le torte.

Ma quando è entrata la donnetta con i capelli rossi, quella che mi pizzica sempre le gote e scherza dicendo che deve trovarmi un’amichetta, ho ricordato che è venuta quasi sempre mentre Donner era fuori a pranzo e quando Gimpy si trovava al banco. Gimpy mi ha mandato molte volte a consegnare le ordinazioni a casa sua.

Senza ch’io lo volessi, la mia mente ha fatto il totale degli acquisti di lei, arrivando a quattro dollari e cinquantatré centesimi. Tuttavia ho voltato la testa per non vedere che cosa avrebbe segnato Gimpy sul registratore di cassa.

Volevo sapere la verità eppure temevo quel che avrei potuto scoprire.

«Due e quarantacinque, signora Wheeler», ha detto lui.

Il trillo del registratore di cassa, il conteggio del resto, lo sbattere del cassetto. «Grazie, signora Wheeler.» Mi sono voltato giusto in tempo per vederlo mettersi la mano in tasca e ho udito il tintinnio soffocato delle monete.

Quante volte si è servito di me come di un intermediario per consegnarle i pacchi, facendole pagare di meno, per poter poi in seguito dividere la differenza? Ha forse approfittato di me in tutti questi anni perché lo aiutassi a rubare?

Non riuscivo a distogliere gli occhi da Gimpy mentre zoppicava dietro il banco e il sudore gli scorreva sotto il berretto di carta. Sembrava animato e di buon umore, ma a un tratto, alzando gli occhi, ha sorpreso il mio sguardo, e allora si è accigliato e ha voltato le spalle.

Volevo picchiarlo. Volevo andare dietro il banco e rompergli la faccia. Non ricordo di aver mai odiato nessuno prima d’ora… ma stamane ho odiato Gimpy con tutta l’anima

Sfogarmi scrivendo tutto questo nel silenzio della mia stanza non è servito a nulla. Ogni volta, pensando che Gimpy deruba il signor Donner, mi vien voglia di fracassare qualcosa. Per fortuna non credo di essere capace di violenze. Credo di non aver mai picchiato nessuno in vita mia.

Ma devo ancora decidere il da farsi. Dire a Donner che il suo fidato dipendente lo ha derubato in tutti questi anni? Gimpy negherebbe e io non potrei mai provare che è vero. E come la prenderebbe il signor Donner? Non so che cosa fare.


9 maggio Non riesco a dormire. Questa faccenda mi ha sconvolto. Devo troppo al signor Donner per poter stare a guardare mentre lo derubano così. Sarei colpevole quanto Gimpy, se tacessi. Eppure spetta proprio a me denunciarlo? La cosa che mi esaspera di più è che quando mi mandava a fare le consegne si serviva di me per derubare Donner. Non sapendo niente, io non c’entravo… non avevo colpa. Ma ora che so, con il mio silenzio sono colpevole quanto lui.

Eppure Gimpy è un mio collega. Ha tre figli. Che cosa farà se Donner lo licenzia? Potrebbe non riuscire a trovare un altro posto… tanto più che zoppica.

Ma devo preoccuparmene io?

Qual è la cosa giusta da fare? È un’ironia che la mia intelligenza non mi aiuti a risolvere un problema come questo.


10 maggio Ne ho parlato al professor Nemur e lui insiste nel dire che io sono un innocente spettatore e che non ho alcuna ragione di rimanere coinvolto in quella che sarebbe una situazione spiacevole. Il fatto che Gimpy si è servito di me come di un intermediano non sembra preoccuparlo affatto. Se non mi rendevo conto di quel che stava accadendo, dice, la cosa non riveste alcuna importanza. Non sono più colpevole di quanto lo sia il coltello che colpisce o l’automobile che investe.

«Ma io non sono un oggetto inanimato», ho sostenuto. «Sono una persona.»

Per un momento è sembrato confuso, poi ha riso. «Sicuro, Charlie. Ma io non mi riferivo al presente. Parlavo dei tempi prima dell’operazione.»

Presuntuoso, pomposo… mi è venuto voglia di picchiare anche lui. «Ero una creatura umana anche prima dell’intervento. Nel caso che se ne sia dimenticato…»

«Sì, naturale, Charlie. Non fraintendermi. Ma era diverso…» E poi si è ricordato che doveva controllare alcune tabelle in laboratorio.

Il dottor Strauss non parla molto durante le nostre sedute psicoterapiche, ma oggi, quando ho accennato alla cosa, ha detto che avevo l’obbligo morale di dirlo al signor Donner. Tuttavia, quanto più ci pensavo, tanto meno semplice diventava la cosa. Avevo bisogno di qualcun altro per spezzare il nodo gordiano, e la sola che mi è venuta in mente è stata Alice. Infine, alle dieci e mezzo, non ho più saputo resistere. Ho formato il numero tre volte, interrompendomi sempre a metà, ma al quarto tentativo sono riuscito a rimanere all’apparecchio finché non ho udito la sua voce.

A tutta prima ella sembrava ritenere che non avrebbe dovuto incontrarsi con me, ma l’ho supplicata di concedermi un appuntamento al ristorante dove abbiamo cenato insieme. «Io la rispetto… lei mi ha sempre dato buoni consigli.» E poiché esitava ancora, ho insistito. «Deve aiutarmi. È in parte responsabile. Lo ha detto lei stessa. Se non fosse stato per lei non mi sarei mai trovato in questa situazione; ora non può liberarsi di me con una scrollata di spalle.»

Deve aver intuito quanto la cosa era urgente, perché ha accettato di incontrarsi con me. Ho riattaccato e ho fissato il telefono. Perché era tanto importante per me sapere che cosa pensava lei, quello che lei provava? Da oltre un anno, al Centro per adulti, la sola cosa che avesse rivestito importanza era stata farle piacere. Per questo, forse, avevo accettato di sottopormi all’operazione?

Ho camminato su e giù davanti al ristorante finché il poliziotto ha cominciato ad adocchiarmi insospettito. Allora sono entrato e ho preso un caffè. Per fortuna il tavolo al quale ci eravamo seduti la prima volta era libero; lei avrebbe pensato di venirmi a cercare lì.

Mi ha veduto e mi ha salutato con la mano, ma si è soffermata al banco a prendere un caffè prima di avvicinarsi al tavolo. Sorrideva e io ho capito perché: perché avevo scelto lo stesso tavolo. Un gesto scioccamente romantico.

«So che è tardi», mi sono scusato, «ma giuro che stavo impazzendo. Dovevo parlarle».

Alice ha sorseggiato il caffè ascoltando in silenzio mentre spiegavo come avevo scoperto le frodi di Gimpy e parlavo delle mie reazioni e dei consigli contrastanti datimi al laboratorio. Quando ho terminato, lei si è appoggiata alla spalliera della sedia e ha scosso la testa.

«Charlie, tu mi stupisci. Sotto certi aspetti hai fatto progressi enormi, eppure, quando si tratta di prendere una decisione, sei ancora un bambino. Io non posso decidere in vece tua, Charlie. La soluzione non può essere trovata nei libri… e neppure rivolgendosi ad altri. A meno che tu non voglia rimanere un bambino per tutta la vita. La soluzione devi trovarla dentro di te… devi sentire qual è la cosa giusta da farsi. Charlie, devi imparare ad avere fiducia in te stesso.»

A tutta prima la sua predica mi ha irritato, ma poi, improvvisamente, ha incominciato a sembrarmi sensata. «Vuol dire che devo essere io a decidere?»

Alice ha annuito.

«In effetti», ho detto, «ora che ci penso, credo di avere già deciso qualcosa! Secondo me, tanto Nemur quanto Strauss hanno torto!»

Lei mi stava osservando attentamente, eccitata. «Ti sta accadendo qualcosa, Charlie. Se soltanto potessi vedere la tua faccia.»

«Ha ragione, accidenti, qualcosa succede! C’era una nuvola di fumo sospesa davanti ai miei occhi, e con un soffio lei l’ha dispersa. Un’idea semplice. Avere fiducia in me stesso. E non ci avevo mai pensato.»

«Charlie, sei meraviglioso.»

Le ho preso la mano e l’ho trattenuta. «No, è lei ad essere meravigliosa. Mi ha toccato gli occhi e mi ha fatto vedere.»

Alice è arrossita e ha tirato indietro la mano.

«L’ultima volta che venimmo qui», ho detto, «le dissi che mi piaceva. Avrei dovuto avere fiducia in me stesso e dirle che l’amavo».

«No, Charlie. Non ancora.»

«Non ancora?» ho gridato. «È quello che disse l’ultima volta. Perché non ancora?»

«Ssst… Aspetta per qualche tempo, Charlie. Termina gli studi. Vedi dove ti condurranno. Stai cambiando troppo rapidamente.»

«Che cosa c’entra questo? I miei sentimenti per lei non cambieranno perché sto diventando più intelligente. L’amerò anzi sempre di più.»

«Ma stai cambiando anche emotivamente. Sembra strano, ma io sono la prima donna della quale tu sia realmente conscio… in questo modo. Fino ad ora sono stata la tua maestra… una persona alla quale ti rivolgevi per avere aiuto e consiglio. È logico da parte tua pensare di essere innamorato di me. Frequenta altre donne. Concediti più tempo.»

«Lei sta dicendo insomma che gli adolescenti si innamorano sempre delle loro insegnanti e che emotivamente io sono ancora appena un ragazzo.»

«Stai travisando le mie parole. No, non penso a te come a un ragazzo.»

«Mi crede emotivamente ritardato, allora.»

«No.»

«Allora perché?»

«Charlie, non insistere. Non lo so. Già ti sei portato al di là delle mie capacità intellettuali. Tra pochi mesi o anche soltanto tra poche settimane sarai una persona diversa. Quando maturerai intellettualmente potremmo non essere più in grado di comunicare. Quando maturerai emotivamente potresti anche non volermi più. Devo pensare anche a me stessa, Charlie. Aspettiamo e stiamo a vedere. Sii paziente.»

Diceva cose ragionevoli, ma io non volevo permettere a me stesso di ascoltarla. «L’altra sera…» e mi è mancata la voce, «lei non sa come desideravo quell’appuntamento. Ero fuori di me a furia di domandarmi come avrei dovuto comportarmi, che cosa avrei dovuto dire, volevo fare una buona impressione e mi atterriva la possibilità di dire qualcosa che l’avrebbe fatta arrabbiare.»

«Non mi hai fatta arrabbiare. Mi hai lusingata.»

«Allora quando posso rivederla?»

«Non ho alcun diritto di farti innamorare.»

«Ma sono innamorato!» ho urlato, e poi, vedendo la gente voltarsi a guardare, ho abbassato la voce finché non è diventata tremula d’ira. «Sono una creatura umana… un uomo… e non posso vivere soltanto con libri e nastri magnetici e labirinti elettronici. Lei dice: ’Frequenta altre donne’. Come posso se non conosco nessun’altra donna? Qualcosa dentro mi sta incendiando e io so soltanto che questa cosa mi fa pensare a lei. Sono a metà d’una pagina e vedo su di essa il suo viso… non offuscato come quelli del mio passato, ma limpido e vivo. Tocco la pagina e il suo viso scompare e a me vien voglia di lacerare in due il libro e di gettarlo via.»

«Per piacere, Charlie…»

«Mi permetta di vederla di nuovo.»

«Domani al laboratorio.»

«Sa bene che non intendo questo. Lontano dal laboratorio. Lontano dall’università. Noi due soli.»

Capivo che avrebbe voluto dire sì. Era stupita dalla mia insistenza. E io ero stupito di me stesso. Sapevo soltanto che non potevo smettere di insistere con lei. Eppure il terrore mi afferrava alla gola mentre la supplicavo. Avevo i palmi umidicci. Temevo che dicesse no o temevo che dicesse ?

Se non avesse spezzato la tensione rispondendomi, credo che sarei svenuto.

«Sta bene, Charlie. Lontano dal laboratorio e dall’università, ma non soli. Non credo che dovremmo restare soli insieme.»

«Ovunque vorrà», ho balbettato. «Purché possa trovarmi con lei e non pensare ai test… alle statistiche… alle domande… alle risposte…»

Alice si è accigliata per un momento «Benissimo. Organizzano concerti primaverili gratuiti al Central Park. La settimana prossima potrai accompagnarmi a uno dei concerti.»

Quando siamo arrivati alla porta di casa sua si è voltata rapidamente e mi ha baciato la gota. «Buona notte. Charlie. Sono contenta che tu m’abbia telefonato. Ci vediamo al laboratorio.» Ha chiuso la porta e io sono rimasto davanti alla casa e ho contemplato la luce alla finestra del suo appartamento finché non si è spenta.

Non c’è più dubbio, ormai. Sono innamorato.


11 maggio Dopo tante riflessioni e preoccupazioni, mi sono reso conto che Alice aveva ragione. Dovevo aver fiducia nel mio intuito. Alla panetteria ho osservato Gimpy più attentamente. Per tre volte, oggi, l’ho veduto praticare prezzi inferiori ai clienti e intascare la sua parte della differenza mentre veniva pagato. Si comporta così soltanto con certi clienti abituali, e mi è accaduto di pensare che questi individui sono colpevoli quanto lui. Senza il loro assenso la cosa non potrebbe mai accadere. Perché Gimpy dovrebbe essere il capro espiatorio?

Ho deciso allora di arrivare a un compromesso. Sarebbe potuta non essere la decisione perfetta, ma era una decisione mia e sembrava essere la soluzione migliore, tenuto conto delle circostanze. Avrei detto a Gimpy quel che sapevo, invitandolo a smetterla.

L’ho trovato solo nel retro, vicino al gabinetto, e quando mi sono avvicinato lui ha fatto per allontanarsi, trasalendo.

«Devo parlarti di una cosa importante», ho detto. «Voglio il tuo consiglio per un amico nei guai. Ha scoperto che uno dei suoi colleghi di lavoro sta frodando il principale e non sa come regolarsi al riguardo. L’idea di fare la spia e di mettere nei pasticci il collega non gli va a genio, ma non sopporta neppure che il suo principale, il quale è sempre stato buono con entrambi, venga derubato.»

Gimpy mi ha fissato negli occhi. «Che cosa si propone di fare questo tuo amico?»

«Questo è il guaio. Non vuole far niente. Pensa che se i furti cessassero non ci si guadagnerebbe nulla facendo qualcosa. Dimenticherebbe tutto.»

«Il tuo amico dovrebbe badare agli affari suoi», ha detto Gimpy spostando il piede zoppo. «Dovrebbe tenere gli occhi chiusi dinanzi a cose del genere e capire quali sono i suoi amici. Un principale è un principale, e i dipendenti devono restare uniti.»

«Il mio amico non la pensa così.»

«Non è affar suo.»

«Pensa che, sapendolo, è in parte responsabile. Pertanto ha deciso che, se la cosa cesserà, non avrà altro da dire. Altrimenti spiffererà tutto. Volevo conoscere il tuo parere. Credi che, tenuto conto delle circostanze, i furti cesseranno?»

Doveva compiere uno sforzo per nascondere l’ira. Avrebbe voluto picchiarmi, ma si limitava a stringere i pugni.

«Di’ al tuo amico che quel tale sembra di non avere altra alternativa.»

«Magnifico», ho detto. «Questo renderà il mio amico molto felice.»

Gimpy si è incamminato, poi si è fermato e si è voltato a guardarmi. «Il tuo amico… non potrebbe darsi che volesse intascare una parte? È questa la ragione per cui si è fatto avanti?»

«No, vuole soltanto che questa storia finisca.»

Mi fissava con ira. «Sai una cosa? Ti pentirai di aver ficcanasato. Io ti ho sempre difeso. Avrei dovuto farmi visitare il cervello.» Poi si è allontanato zoppicando.

Forse avrei dovuto dire tutto a Donner e far licenziare Gimpy… non lo so. Questa soluzione aveva i suoi vantaggi. Ormai è fatta. Ma quanta gente c’è che, come Gimpy, si serve degli altri in questo modo?


15 maggio I miei studi stanno procedendo bene… La biblioteca dell’università è ormai la mia seconda casa. Hanno dovuto assegnarmi una stanza privata perché mi basta un secondo per assimilare il contenuto di una pagina e gli studenti incuriositi invariabilmente si riunivano intorno a me mentre sfogliavo i volumi.

Gli argomenti che mi interessano di più in questo momento sono l’etimologia delle lingue antiche, le opere più recenti sul calcolo delle variazioni e la storia degli indù. È stupefacente il modo con cui le cose, in apparenza senza alcuna relazione, si collegano l’una con l’altra. Mi sono portato su un altro livello e ora i fiumi delle diverse discipline sembrano essere più vicini l’uno all’altro, come se scaturissero da un’unica sorgente.

È strano che, quando mi trovo alla tavola calda dell’università e odo gli studenti ragionare di storia, di politica o di religione, tutto quel che dicono mi sembri così infantile.

Non mi dà più alcun piacere discutere le idee a un livello così elementare. La gente si offende quando le si dimostra che non si avvicina neppure alle complessità del problema… e non sa che cosa esista al di sotto delle increspature superficiali. Ma la situazione è altrettanto disastrosa a un livello superiore, e io ho rinunciato a ogni tentativo di discutere queste cose con i professori della Beekman.

Burt mi ha presentato a un professore di economia, alla tavola calda dell’università, un uomo molto noto per le sue opere sui fattori economici che influenzano i tassi d’interesse. Da tempo desideravo parlare con un economista di alcuni concetti sui quali m’ero soffermato nel corso delle mie letture. Gli aspetti morali del blocco militare impiegato come arma in tempo di pace mi avevano lasciato interdetto. Gli ho domandato che cosa pensasse della proposta di alcuni senatori di ricorrere a tattiche come il blocco navale e le sanzioni economiche impiegate nella prima e nella seconda guerra mondiale contro alcune delle più piccole nazioni che attualmente ci sono ostili.

Ha ascoltato in silenzio, fissando il vuoto, e io ho supposto che stesse riordinando i suoi pensieri per rispondermi, ma pochi minuti dopo si è schiarito la voce e ha scosso la testa. La questione, ha spiegato in tono di scusa, non rientrava nella sua specializzazione; egli si occupava dei tassi d’interesse e non aveva prestato molta attenzione agli aspetti militari dell’economia. Mi ha suggerito di parlare con il dottor Wessey, che un tempo pubblicò uno studio sugli accordi commerciali in tempo di guerra, durante la seconda guerra mondiale. Forse lui sarebbe stato in grado di darmi delucidazioni.

Prima che potessi aprir bocca mi ha afferrato la mano e me l’ha stretta. Era lieto di avermi conosciuto, ma doveva riordinare alcuni appunti per una conferenza. E se n’è andato.

La stessa cosa è accaduta quando ho cercato di parlare di Chaucer con un professore di letteratura americana, quando a un orientalista ho rivolto domande sugli isolani delle Trobriand e quando con uno psicologo ho cercato di mettere a fuoco i problemi della disoccupazione causata dall’automazione; lo psicologo era specializzato in sondaggi sull’opinione pubblica per quanto concerne il comportamento dell’adolescenza. Tutti costoro hanno trovato pretesti per andarsene, timorosi di rivelare la ristrettezza della loro cultura.

Come mi sembrano diversi, adesso. E quanto sono stato sciocco ad aver pensato che i professori fossero giganti intellettuali. Sono esseri umani… e temono che il resto del mondo se ne accorga. E anche Alice è un essere umano, una donna, non una dea, e domani sera la condurrò al concerto.


17 maggio. È quasi il mattino e non riesco ad addormentarmi. Devo capire che cosa mi è accaduto ieri sera al concerto.

La serata era cominciata abbastanza bene. Il Mall al Central Park si era riempito abbastanza presto e Alice e io avevamo dovuto zigzagare tra le coppie sdraiate sull’erba. Finalmente, molto lontano dal sentiero, abbiamo trovato un albero libero, fuori dell’alone di luce dei lampioni, ove il solo indizio della presenza di altre coppiette consisteva nelle risatine femminili di protesta e nel bagliore delle sigarette accese.

«Qui andrà benissimo», ha detto lei. «Non c’è nessun motivo di mettersi proprio accanto all’orchestra.»

«Che cosa stanno suonando, adesso?» ho domandato.

«La mer di Debussy. Ti piace?»

Mi sono sdraiato accanto a lei. «Non m’intendo molto di questo genere di musica. Devo rifletterci.»

«Non riflettere», ha bisbigliato Alice. «Sentila. Lascia che ti passi sopra come il mare senza cercare di capirla.» Si è distesa supina sull’erba e ha voltato la faccia nella direzione della musica.

Non avevo modo di sapere che cosa si aspettasse da me. Tutto ciò era ben lungi dalle linee nette della soluzione dei problemi e dell’acquisizione sistematica delle conoscenze. Seguitavo a dirmi che il sudore sul palmo delle mani, la tensione nel torace, il desiderio di abbracciarla erano semplicemente reazioni chimiche. Seguivo addirittura l’andamento della sequenza stimolo-reazione che causava il mio nervosismo e la mia eccitazione. Eppure tutto rimaneva confuso e incerto. Dovevo abbracciarla o no? Si aspettava che io lo facessi? Si sarebbe adirata? Capivo che mi comportavo ancora come un adolescente e questo mi esasperava.

«Senta», le ho detto con voce soffocata, «perché non si mette più comoda? Si appoggi alla mia spalla». Lei ha lasciato che l’allacciassi con il braccio ma non mi ha guardato. Sembrava troppo assorta nella musica per rendersi conto di quel che facevo. Desiderava che la stringessi in quel modo o si limitava a tollerarlo? Mentre facevo scivolare il braccio in basso, fino alla vita di lei, l’ho sentita tremare, ma continuava a guardare dalla parte dell’orchestra. Fingeva di concentrarsi sulla musica per non dover reagire ai miei movimenti. Voleva ignorare quello che stava accadendo. Fino a quando distoglieva lo sguardo da me e ascoltava, poteva fingere che la mia vicinanza, il mio braccio intorno a lei, fossero cose lontane dalla sua consapevolezza e dal suo consenso. Voleva ch’io facessi all’amore con il suo corpo mentre ella rivolgeva i pensieri a cose più elevate. Mi sporsi bruscamente e la costrinsi a voltare il mento. «Perché non mi guarda? Sta fingendo ch’io non esista?»

«No, Charlie», ha bisbigliato. «sto fingendo di essere io a non esistere».

Quando le ho toccato la spalla si è irrigidita e ha tremato, ma io l’ho tratta verso di me. Poi è accaduto. È cominciato come un ronzio cavernoso nelle orecchie… una sega elettrica… lontana. Quindi il gelo: braccia e gambe con la pelle d’oca e le dita che diventavano insensibili. A un tratto ho avuto la sensazione di essere spiato.

Un rapido mutamento di percezione. Ho veduto, da qualche punto nell’oscurità dietro un albero, noi due sdraiati, l’uno nelle braccia dell’altra.

Ho alzato gli occhi sorprendendo un ragazzo di quindici o sedici anni, accovacciato lì accanto. «Ehi!» ho urlato. Mentre si alzava ho veduto che aveva i calzoni sbottonati ed era scoperto.

«Che cosa c’è?» ha ansimato Alice.

Sono balzato in piedi e il ragazzo è scomparso nell’oscurità. «Lo ha visto?»

«No», ha detto lei lisciandosi nervosamente la gonna. «Non ho visto nessuno.»

«In piedi proprio lì. A guardarci. Così vicino da toccarla.»

«Charlie, dove stai andando?»

«Non può essersi allontanato di molto.»

«Lascialo stare, Charlie. Non ha importanza.»

Ma aveva importanza per me. Mi sono messo a correre nell’oscurità, incespicando contro coppiette spaventate, ma non c’era modo di stabilire dove fosse andato.

Quanto più pensavo a lui, tanto più intensa diventava la sensazione di nausea che precede uno svenimento. Sperduto e solo in un gran deserto. E poi sono riuscito a farmi forza e ho ritrovato la strada fino al punto in cui sedeva Alice.

«Lo hai trovato?»

«No, ma c’era. L’ho visto.»

Lei mi ha guardato con un’aria strana. «Ti senti bene?»

«Starò meglio… tra un momento… È soltanto quel maledetto ronzio nelle orecchie.»

«Forse faremmo bene ad andare.»

Per tutto il tragitto di ritorno fino a casa sua ho pensato che il ragazzo era rimasto accovacciato lì, nell’oscurità, e che per un attimo io ero riuscito a intravedere quel che lui vedeva… noi due sdraiati e abbracciati.

«Ti piacerebbe entrare? Potrei farti un caffè.»

Lo desideravo, ma qualcosa mi avvertiva di non farlo. «È meglio di no. Ho molto lavoro da sbrigare questa sera.»

«Charlie, è stato qualcosa che ho detto o fatto?»

«No, naturalmente. Soltanto, quel ragazzo che ci spiava mi ha turbato.»

Era in piedi, vicina a me, in attesa che la baciassi. Le ho passato il braccio intorno alla vita, ma è accaduto di nuovo. Se non me ne fossi andato subito sarei svenuto.

«Charlie, hai l’aria di non star bene.»

«Lo ha veduto, Alice? La verità…»

Lei ha scosso la testa. «No. Era troppo buio. Ma sono sicura…»

«Devo andare. Le telefonerò.» E prima che potesse fermarmi mi sono scostato da lei. Dovevo uscire da quella casa prima che tutto franasse.

Ripensandoci, ora, sono sicuro che è stata un’allucinazione. Il dottor Strauss ritiene ch’io sia ancora in quella fase dell’adolescenza in cui l’essere vicino a una donna o il pensare al sesso scatenano ansia, panico, persino allucinazioni. È convinto che il mio rapido sviluppo intellettuale mi abbia ingannevolmente indotto a credere di poter avere una vita emotiva normalissima.

E invece devo accettare la realtà: i timori e i blocchi causati da queste situazioni sessuali rivelano che emotivamente io sono ancora un adolescente… sessualmente ritardato. Vuol dire, suppongo, che non sono pronto ad avere rapporti con una donna come Alice Kinnian.

Non ancora.


20 maggio Ho perduto il posto alla panetteria. So ch’era stupido da parte mia avvinghiarmi al passato, ma esisteva qualcosa in quel posto, con le sue pareti piastrellate in bianco e rese rossicce dal calore del forno… Era come una casa per me.

Che cosa ho tatto per indurii a odiarmi tanto?

Non posso incolpare Donner. Egli deve pensare ai suoi affari e agli altri dipendenti. Eppure mi era più vicino di un padre.

Mi ha chiamato nel suo ufficio, ha tolto le fatture e i conti dall’unica sedia accanto alla scrivania con il coperchio avvolgibile e senza alzare gli occhi e guardarmi ha detto: «Volevo parlarti. Questo è un momento buono quanto un altro».

Ora mi sembra sciocco, ma mentre sedevo lì, fissandolo, basso di statura, grassoccio, con i radi baffi castano chiari che gli spiovevano comicamente sul labbro superiore, è stato come se i miei due io, il Charlie di un tempo e quello nuovo, sedessero su quella sedia, timorosi di ciò che l’anziano signor Donner stava per dire.

«Charlie, tuo zio Herman era un mio buon amico. Ho mantenuto la promessa che gli feci di tenerti qui a lavorare, andassero male o bene le cose, in modo che non dovessero mai mancarti un dollaro in tasca e un letto in cui dormire, e non finissi di nuovo in quella clinica.»

«La panetteria è la mia casa…»

«E ti ho trattato come il mio figliolo che ha dato la vita per la patria. E quando Herman morì, quanti anni avevi tu allora? diciassette? sembravi piuttosto un bambino di sei anni, giurai a me stesso… mi dissi, Arthur Donner, finché avrai la panetteria e del lavoro ti occuperai di Charlie. Egli avrà un posto in cui lavorare, un letto in cui dormire e un pezzo di pane in bocca. Quando volevano rinchiuderti in quella clinica Warren dissi loro che avresti lavorato alle mie dipendenze e che io avrei badato a te. Non passasti neppure una notte in quel posto. Ti trovai una stanza e mi occupai di te. Ebbene, l’ho mantenuta o no quella promessa solenne?»

Ho annuito ma mi sono accorto, da come piegava e tornava ad aprire le iatture, che si trovava in difficoltà. E per quanto non volessi saperlo… lo sapevo. «Ho fatto del mio meglio per comportarmi bene. Ho lavorato sodo…»

«Lo so, Charlie. Non ho niente da rimproverarti per quanto concerne il lavoro. Ma ti è accaduto qualcosa e non capisco che cosa significhi. E non soltanto io. Ne hanno parlato tutti. Sono venuti qui una dozzina di volte in queste ultime settimane. Sono tutti turbati. Charlie, è necessario che ti lasci andare.»

Ho cercato di interromperlo, ma lui ha scosso la testa.

«Ieri sera è venuta da me una delegazione, Charlie. Io devo mandare avanti la baracca.»

Si stava fissando le mani, voltava da una parte e dall’altra un foglio di carta, come se sperasse di trovarvi qualcosa che non vi era stato prima. «Mi dispiace, Charlie.»

«Ma dove andrò?»

Ha alzato gli occhi e mi ha sbirciato per la prima volta da quando ero entrato in quel cubicolo di ufficio. «Sai bene quanto me che non hai più bisogno di lavorare qui.»

«Signor Donner, non ho mai lavorato in nessun altro posto.»

«Affrontiamo la realtà. Tu non sei più il Charlie che venne qui diciassette anni fa… non sei neppure lo stesso Charlie di quattro mesi fa. Non hai parlato della faccenda. È affar tuo. Forse si tratta di una specie di miracolo… chi lo sa? Ma ti sei trasformato in un giovane intelligentissimo. E far funzionare l’impastatrice e consegnare pacchi non è lavoro per un giovane molto intelligente.»

Aveva ragione, naturalmente, eppure qualcosa dentro di me voleva convincerlo a cambiare idea.

«Lei deve lasciarmi restare, signor Donner. Mi dia un’altra opportunità. Ha detto lei stesso di aver promesso allo zio Herman che avrei avuto lavoro qui fino a quando ne avessi avuto bisogno. Bene, ne ho ancora bisogno, signor Donner.»

«No, non è vero, Charlie. Se fosse così, allora direi agli altri che non m’importa un corno delle loro delegazioni e petizioni e mi batterei per te contro tutti. Ma così come stanno le cose adesso, hanno tutti una paura da morire di te. Io devo pensare anche alla mia famiglia.»

«E se cambiassero idea? Mi permetta di convincerli.» Gli stavo rendendo la cosa più difficile di quanto si fosse aspettato. Sapevo che avrei dovuto tacere ma non riuscivo a dominarmi. «Farò loro capire come stanno le cose», ho supplicato.

«E va bene», egli ha sospirato infine. «Fa’ pure, prova. Ma riuscirai soltanto a fare del male a te stesso.»

Mentre uscivo dal suo ufficio, Frank Reilly e Joe Carp mi sono passati accanto, e io ho capito che quanto Donner mi aveva detto era vero. Avermi tra i piedi a osservarli era troppo per loro. Li mettevo tutti a disagio.

Frank aveva appena sollevato un vassoio di panini e tanto lui quanto Joe si sono voltati quando li ho chiamati. «Senti, Charlie, ho da fare. Magari più tardi…»

«No», ho insistito. «Ora… subito. Mi avete evitato tutti e due. Perché?»

Frank, il più loquace, il conquistatore di donne, quello che sa sempre arrangiarsi, mi ha studiato per un momento, poi ha posato il vassoio sulla tavola. «Perché? Te lo dico io perché. Perché tutto a un tratto sei diventato un pezzo grosso, un so-tutto-io, un cervellone! Ormai sei un vero e proprio genio, un intellettuale. Sempre con un libro… sempre con tutte le risposte pronte. Be’, ti dirò io una cosa. Credi di essere migliore di tutti noi qui dentro, eh? Okay, allora vattene in qualche altro posto.»

«Ma che cosa vi ho fatto?»

«Che cosa ci ha fatto? Lo hai sentito. Joe? Te lo dico io che cosa ci hai fatto, caro il mio signor Gordon. Ti sei fatto avanti con le tue idee e i tuoi suggerimenti e hai fatto passare tutti noi per un branco di idioti. Ma stammi bene a sentire: per me tu sei ancora un deficiente. Forse io non capisco alcune di quelle parolone o i nomi dei libri, ma valgo quanto te… e anche di più.»

«Sicuro.» Joe ha annuito, voltandosi per sottolineare la cosa con Gimpy ch’era appena sopraggiunto alle sue spalle.

«Non vi chiedo di essermi amici», ho detto io. «né di avere qualcosa a che fare con me. Lasciate soltanto che conservi il posto. Il signor Donner dice che dipende da voi».

Gimpy mi ha fissato con ira, poi ha scosso la testa disgustato. «Hai una bella faccia tosta», si è messo a urlare. «Puoi andare all’inferno!» Poi mi ha voltato le spalle e se n’è andato zoppicando più del solito.

Ed è finita così. Quasi tutti loro la pensavano come Joe e Frank e Gimpy. Tutto era andato bene finché avevano potuto ridere di me e apparire scaltri a mie spese, ma ora si sentivano inferiori all’idiota. Ho cominciato a capire che con i miei stupefacenti progressi li avevo sminuiti, ponendone in risalto le incapacità. Li avevo traditi e mi odiavano per questo.

Fanny Birden era la sola a non pensare che si sarebbe dovuto costringermi ad andarmene, e nonostante le pressioni esercitate su di lei e le minacce non aveva firmato la petizione.

«Il che non significa», mi ha fatto osservare, «ch’io non pensi che in te c’è qualcosa di molto strano, Charlie. Quanto sei cambiato! Io non so… eri un brav’uomo fidato… un tipo comune, non troppo sveglio, magari, ma onesto… e chissà che cosa hai combinato per diventare così intelligente tutto a un tratto. Come dicono tutti, non è giusto».

«Ma che cosa c’è di male se una persona vuole diventare più intelligente, istruirsi e capire se stessa e il mondo?»

«Se avessi letto la Bibbia, Charlie, sapresti che non è bene per l’uomo sapere più di quanto gli è stato concesso dal Signore, in primo luogo. Il frutto di quell’albero fu proibito all’uomo. Charlie, se hai fatto qualcosa che non avresti dovuto… sai, un patto con il demonio o che so io… forse non è ancora troppo tardi per pentirtene. Forse potresti tornare ad essere l’uomo buono e semplice che eri un tempo.»

«Non si può tornare indietro, Fanny. Non ho fatto niente di male. Sono come un uomo nato cieco al quale sia stata data la possibilità di vedere la luce. Questo non può essere un peccato. Presto ci saranno milioni di uomini come me in tutto il mondo. La scienza può compiere questo miracolo, Fanny.»

Lei ha fissato la sposa e lo sposo sulla torta nuziale che stava decorando e io ho veduto le sue labbra muoversi appena mentre bisbigliava: «Fu male quando Adamo ed Eva mangiarono il pomo dell’albero della conoscenza. Fu male quando si accorsero di essere nudi e impararono che cos’erano la lussuria e la vergogna. E furono scacciati dal paradiso terrestre le cui porte si chiusero per loro. Se questo non fosse accaduto, nessuno di noi dovrebbe invecchiare e ammalarsi e morire».

Non rimaneva più nulla da dire, né a lei né a tutti gli altri. Nessuno di loro voleva guardarmi negli occhi. Ne sento ancora l’ostilità. Prima avevano riso di me, disprezzandomi per la mia ignoranza e la mia ottusità; ora mi odiavano per la mia cultura e la mia capacità di capire. Perché? Che cosa volevano da me, in nome di Dio?

L’intelligenza ha conficcato un cuneo tra me e tutti coloro che conoscevo e amavo e mi ha scacciato dalla panetteria. Ora sono più solo di prima. Mi domando che cosa accadrebbe se rimettessero Algernon nella grande gabbia insieme ad alcuni altri topi. Gli si rivolterebbero contro?


25 maggio Sicché, ecco come una persona può finire con il disprezzare se stessa… sapendo di aver fatto la cosa sbagliata e non essendo capace di smettere. Contro la mia volontà mi sono sentito trascinato verso l’appartamento di Alice. Ella è rimasta sorpresa ma mi ha fatto entrare. «Sei zuppo. L’acqua ti sta scorrendo a rivoli sulla faccia.»

«Sta piovendo. Meglio per i fiori.»

«Su, entra. Aspetta che vado a prenderti un asciugamano. Ti buscherai la polmonite.»

«Lei è la sola con la quale possa parlare», ho detto. «Mi lasci rimanere qui.»

«Ho appena fatto il caffè, è sulla cucina economica. Continua ad asciugarti e poi parleremo.»

Mi sono guardato intorno mentre Alice andava a prendere il caffè. Era la prima volta che mi trovavo in casa sua; ho provato una sensazione di piacere, ma nella stanza c’era qualcosa che mi turbava.

Tutto era in ordine. Le statuine di porcellana si allineavano geometricamente sul davanzale della finestra, tutte voltate dalla stessa parte. E i cuscini sul divano non erano disposti affatto a casaccio, ma intervallati con regolarità sulle fodere chiare di plastica che proteggevano la stoffa. Sui tavolinetti ai due lati del divano si trovavano riviste disposte in pile ordinate, in modo che i titoli fossero ben visibili; su un tavolinetto The Reporter, The Saturday Review, The New Yorker; sull’altro Mademoiselle, House Beautiful e Reader’s Digest.

Sulla parete opposta, di fronte al divano, figurava una riproduzione della «Madre con il bambino» di Picasso entro una cornice scolpita e di fronte a essa, sopra il divano, v’era un dipinto che rappresentava un impetuoso cortigiano del Rinascimento, mascherato, con la spada in pugno, intento a proteggere una spaventata fanciulla dalle gote rosee. Nell’insieme era tutto sbagliato. Come se Alice non riuscisse a decidere chi fosse e in quale mondo volesse vivere.

«Non ti fai vedere al laboratorio da alcuni giorni». ha gridato dalla cucina. «Il professor Nemur è preoccupato a causa tua.»

«Non potevo affrontarli», ho risposto. «So che non ho nessuna ragione di vergognarmi, ma è una sensazione di vuoto non andare al lavoro ogni giorno… non vedere il negozio, i forni, la gente. È troppo per me. Stanotte e l’altra notte ho avuto incubi, ho sognato di annegare.»

Alice ha posato il vassoio al centro del tavolino da caffè… i tovagliolini piegati a triangolo e i pasticcini disposti circolarmente. «Non devi prendertela così a cuore, Charlie. Non ha niente a che vedere con te.»

«Ripetermi questo non mi giova. Quelle persone, per tanti anni, sono state la mia famiglia. È come se mi avessero scacciato da casa mia.»

«Precisamente», ha detto lei. «La cosa si è tramutata in una ripetizione simbolica di esperienze che hai fatte da bambino. L’essere respinto dai tuoi genitori… l’essere mandato via…»

«Oh, Cristo! Lasci stare, non stia ad applicare alla cosa una bella e linda etichetta! L’importante è che prima di sottopormi a questo esperimento avevo amici, persone che si occupavano di me. Ora sono spaventato…»

«Hai ancora amici.»

«Non è la stessa cosa.»

«La paura è una reazione normale.»

«È qualcosa di più. Avevo paura anche prima. Paura di essere preso a cinghiate per non aver voluto cedere con Norma, paura di passare in Howells Street dove la banda di monelli si burlava di me e mi maltrattava. E avevo paura anche della maestra, la signora Libby, che mi legava le mani per impedirmi di giocherellare con gli oggetti sul banco. Ma tutte quelle cose erano reali… e io mi sentivo giustificato nell’averne paura. Questo terrore per essere stato scacciato dalla panetteria è vago, è una paura che non capisco.»

«Controllati.»

«Lei non prova questa sensazione di panico.»

«Ma, Charlie, era prevedibile. Sei un novellino in fatto di nuoto costretto a tuffarti da una zattera e atterrito dall’idea di perdere l’appoggio di solido legno sotto i piedi. Il signor Donner è stato realmente buono con te, e tu hai avuto davvero un rifugio in tutti questi anni. L’essere scacciato così dalla panetteria ha costituito per te un’emozione più grande di quanto tu potessi aspettarti.»

«L’esserne consapevole intellettualmente non serve a nulla. Non posso più rimanere tutto solo in camera mia. Mi aggiro per le strade a ogni ora del giorno e della notte, senza sapere quello che sto cercando… camminando finché non mi smarrisco… e ritrovandomi davanti alla panetteria. Stanotte sono andato a piedi da Washington Square al Central Park e ho dormito nel parco. Che diavolo sto cercando?»

Quanto più parlavo, tanto più Alice sembrava turbata. «Che cosa posso fare per aiutarti, Charlie?»

«Non lo so. Sono come un animale che è stato chiuso fuori della sua gabbia bella e sicura.»

Alice è venuta a sedermi accanto sul divano. «Ti stanno facendo progredire troppo rapidamente. Sei confuso. Vuoi essere un adulto, ma dentro di te c’è ancora un bimbetto. Solo e spaventato.» Mi ha appoggiato il capo sulla spalla cercando di consolarmi. e mentre mi accarezzava i capelli mi sono reso conto che aveva bisogno di me come io di lei.

«Charlie», ha bisbigliato dopo qualche momento, «qualsiasi cosa tu voglia… non aver paura di me…»

Una volta, durante una consegna per conto della panetteria, Charlie era quasi svenuto quando una donna matura, appena uscita dal bagno, si era divertita ad aprirsi la vestaglia mostrandoglisi nuda. Aveva mai veduto una donna senza niente indosso? Sapeva come si fa all’amore? Il suo terrore, i suoi gemiti dovettero spaventarla, poiché si riallacciò la vestaglia e gli diede un quarto di dollaro perché dimenticasse quel ch’era accaduto. Aveva voluto soltanto metterlo alla prova, gli disse, per vedere se era un bravo ragazzo.

Lui le disse che cercava di essere buono e non guardava le donne, perché sua madre lo aveva sempre picchiato quando gli succedeva quella cosa nei calzoni…


A questo punto vide con chiarezza l’immagine della madre di Charlie che strillava con il ragazzo, stringendo in pugno una cinghia di cuoio, e di suo padre che tentava di trattenerla. «Basta, Rose! Lo ammazzerai! Lascialo stare!» Sua madre si getta in avanti per frustarlo, appena fuor di portata per cui la cinghia gli sibila accanto alla spalla mentre lui si contorce e si sottrae ad essa sul pavimento.

«Ma guardalo!» sbraita Rose. «Non riesce a imparare a leggere e a scrivere, ma la sa lunga abbastanza per guardare in quel modo una ragazza. Certe porcherie gliele tolgo di mente a furia di botte.»

«Non può farci niente se ha un’erezione. È normale. Non ha fatto nulla.»

«Non deve pensare in quel modo alle ragazze. Un’amica di sua sorella viene in casa e lui si mette in testa queste idee! Gli darò una lezione che non dimenticherà più. Mi senti? Se tocchi una ragazza ti chiudo in gabbia come una bestia per il resto dei tuoi giorni. Mi hai sentito?…»


La sento ancora. Ma forse ero stato liberato. Forse la paura e la nausea non erano più un mare in cui affogare ma soltanto una pozza d’acqua che rispecchiava il passato insieme al presente. Ero libero?

Se avessi potuto prendere Alice in tempo, senza pensarci, prima che la cosa mi schiacciasse, forse non sarei stato afferrato dal panico. Se soltanto avessi potuto svuotarmi la mente. Sono riuscito a dire con voce soffocata: «Tu… fallo tu! Stringimi!» E prima che potessi rendermi conto di quel che accadeva lei mi stava baciando, mi stringeva contro di sé come nessuno mi aveva mai tenuto tra le braccia. Ma nel momento in cui sarei dovuto arrivare al culmine dell’intimità la cosa è ricominciata: il ronzio, il gelo e la nausea. Mi sono scostato da lei.

Ha cercato di consolarmi, di dirmi che non aveva importanza, che non avevo alcun motivo di rimproverarmi. Ma vergognoso e non più capace di dominare la mia angoscia, sono scoppiato in singhiozzi. Lì, tra le sue braccia, ho pianto fino ad addormentarmi e ho sognato il cortigiano e la fanciulla dalle gote rosee. Ma nel mio sogno era la fanciulla a impugnare la spada.

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