IN COPERTINA: ANDY WARHOL, KNIVES (1981)

ACRILICO E INCHIOSTRO SERIGRAFICO SU TELA (20X16 INCHES)

PITTSBURGH,THE ANDY WARHOL MUSEUM

(c) 2006 FOTO THE ANDY WARHOL FOUNDATION ART R E SO U RC E/S C A L A FIRENZE

(c) 2006 BY SIAE

Gomorra

di Roberto Saviano

Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra

www.librimondadori.it

ISBN 88-04-55450-9


Collezione Strade blu

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Questo volume è stato impresso nel mese di aprile dell'anno 2006 presso Mondadori Printing S.p.A.

Stabilimento NSM — Cles (TN)

Stampato in Italia — Printed in Italy

Questo incredibile, sconvolgente viaggio nel mondo affaristico e criminale della camorra si apre e si chiude nel segno delle merci, del loro ciclo di vita. Le merci "fresche", appena nate, che sotto le forme più svariate — pezzi di plastica, abiti griffati, videogiochi, orologi — arrivano al porto di Napoli e, per essere stoccate e occultate, si riversano fuori dai giganteschi container per invadere palazzi appositamente svuotati di tutto, come creature sventrate, private delle viscere. E le merci ormai morte che, da tutta Italia e da mezza Europa, sotto forma di scorie chimiche, morchie tossiche, fanghi, addirittura scheletri umani, vengono abusivamente "sversate" nelle campagne campane, dove avvelenano, tra gli altri, gli stessi boss che su quei terreni edificano le loro dimore fastose e assurde — dacie russe, ville hollywoodiane, cattedrali di cemento e marmi preziosi — che non servono soltanto a certificare un raggiunto potere ma testimoniano utopie farneticanti, pulsioni messianiche, millenarismi oscuri.

Questa è oggi la camorra, anzi, il "Sistema", visto che la parola "camorra" nessuno la usa più: da un lato un'organizzazione affaristica con ramificazioni impressionanti su tutto il pianeta e una zona grigia sempre più estesa in cui diventa arduo distinguere quanta ricchezza è prodotta direttamente dal sangue e quanta da semplici operazioni finanziarie. Dall'altro lato un fenomeno criminale profondamente influenzato dalla spettacolarizzazione mediatica, per cui i boss si ispirano negli abiti e nelle movenze a divi del cinema e a creature dell'immaginario, dai gangster di Tarantino alle sinistre apparizioni de // corvo con Brandon Lee. Figure come Gennarino McKay, Sandokan Schiavone, Cicciotto di Mezzanotte, Ciruzzo 'o Milionario, se non avessero provocato decine di morti ammazzati potrebbero sembrare in tutto e per tutto personaggi inventati da uno sceneggiatore con troppa fantasia. In questo libro avvincente e scrupolosamente documentato Roberto Saviano ha ricostruito sia le spericolate logiche economico-finanziarie ed espansionistiche dei clan del napoletano e del casertano, da Secondigliano a Casal di Principe, sia le fantasie infiammate che alle logiche imprenditoriali coniugano il fatalismo mortuario dei samurai del medioevo giapponese.

Ne viene fuori un libro anomalo e potente, appassionato e brutale, al tempo stesso oggettivo e visionario, di indagine e di letteratura, pieno di orrori come di fascino inquietante, un libro il cui giovanissimo autore, nato e cresciuto nelle terre della più efferata camorra, è sempre coinvolto in prima persona. Sono pagine che afferrano il lettore alla gola e lo trascinano in un abisso dove davvero nessuna immaginazione è in grado di arrivare.

Roberto Saviano è nato nel 1979 a Napoli, dove vive e lavora. Fa parte del gruppo di ricercatori dell'Osservatorio sulla camorra e l'illegalità e collabora con "Il Manifesto" e "Il Corriere del Mezzogiorno". Suoi racconti e reportage sono apparsi su "Nuovi Argomenti", "Lo Straniero" e Nazionelndiana.com e si trovano inclusi in diverse antologie fra cui Best Off. Il meglio delle riviste letterarie italiane (Minimum fax 2005) e Napoli comincia a Scampia (L'Ancora del Mediterraneo 2005). Gomorra è il suo primo libro.


Comprendere cosa significa l'atroce, non negarne l'esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà.

HANNAH ARENDT

Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna.

NICCOLÒ MACCHIAVELLI

La gente sono vermi e devono rimanere vermi.

da un'intercettazione telefonica

Il mondo è tuo.

Scarface, 1983


Prima parte


Il porto

H container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell'aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l'uno sull'altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l'uno con l'altro. Ecco dove erano finiti. I corpi che le fantasie più spinte immaginavano cucinati nei ristoranti, sotterrati negli orti d'intorno alle fabbriche, gettati nella bocca del Vesuvio. Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato su un cartellino annodato a un laccet-to intorno al collo. Avevano tutti messo da parte i soldi per farsi seppellire nelle loro città in Cina. Si facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno, una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di terra cinese. Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita. Come se quella maschera di mani gli concedesse più coraggio per raccontare. Aveva visto cadere corpi e non aveva avuto bisogno neanche di lanciare l'allarme, di avvertire qualcuno. Aveva soltanto fatto toccare terra al container, e decine di persone comparse dal nulla avevano rimesso dentro tutti e con una pompa ripulito i resti. Era così che andavano le cose. Non riusciva ancora a crederci, sperava fosse un'allucinazione dovuta agli eccessivi straordinari. Chiuse le dita coprendosi completamente il volto e continuò a parlare piagnucolando, ma non riuscivo più a capirlo.

Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v'è manufatto, stoffa, pezzo di plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano, orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi interminabili delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo avvicinandosi alla darsena come cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte. Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina, Estremo Oriente come ancora i cronisti si divertono a definirlo. Estremo. Lontanissimo. Quasi inimmaginabile. Chiudendo gli occhi appaiono kimono, la barba di Marco Polo e un calcio a mezz'aria di Bruce Lee. In realtà quest'Oriente è allacciato al porto di Napoli come nessun altro luogo. Qui l'Oriente non ha nulla di estremo. Il vicinissimo Oriente, il minimo Oriente dovrebbe esser definito. Tutto quello che si produce in Cina viene sversato qui. Come un secchiello pieno d'acqua girato in una buca di sabbia che con il solo suo rovesciarsi erode ancor di più, allarga, scende in profondità. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile dalla Cina, ma oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, però le merci portano con sé magie rare, riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti, a risultare di poco valore al fisco pur essendo preziose. Il fatto è che il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d'accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l'rvA. Nel silenzio del buco nero del porto la struttura molecolare delle cose sembra scomporsi, per poi riaggregarsi una volta uscita dal perimetro della costa. La merce dal porto deve uscire subito. Tutto avviene talmente velocemente che mentre si sta svolgendo, scompare. Come se nulla fosse avvenuto, come se tutto fosse stato solo un gesto. Un viaggio inesistente, un approdo falso, una nave fantasma, un carico evanescente. Come se non ci fosse mai stato. Un'evaporazione. La merce deve arrivare nelle mani del compratore senza lasciare la bava del percorso, deve arrivare nel suo magazzino, subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe consentire un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. Nel porto di Napoli, nei suoi 1.336.000 metri quadri per 11,5 chilometri, il tempo ha dilatazioni uniche. Ciò che fuori riuscirebbe a essere compiuto in un'ora, nel porto di Napoli sembra accadere in poco più d'un minuto. La lentezza proverbiale che nell'immaginario rende lentissimo ogni gesto di un napoletano qui è cassata, smentita, negata. La dogana attiva il proprio controllo in una dimensione temporale che le merci cinesi sforano. Spietatamente veloci. Qui ogni minuto sembra ammazzato. Una strage di minuti, un massacro di secondi rapiti dalle documentazioni, rincorsi dagli acceleratori dei camion, spinti dalle gru, accompagnati dai muletti che scompongono le interiora dei container.

Nel porto di Napoli opera il più grande armatore di Stato cinese, la cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la MSC, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre novecentocinquanta metri di banchina, centotrentamila metri quadri di terminal container e trentamila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito a Napoli. Bisogna rifondare la propria immaginazione per cercare di comprendere come l'immensità della produzione cinese possa poggiare sullo scalino del porto napoletano. L'immagine evangelica sembra appropriata, la cruna dell'ago somiglia al porto e il cammello che l'attraverserà sono le navi. Prue che si scontrano, file indiane di enormi bastimenti fuori dal golfo che aspettano la loro entrata tra confusione di poppe che beccheggiano, rumoreggiando con languori di ferri, lamiere e bulloni che lentamente entrano nel piccolo foro napoletano. Come un ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri.

Eppure no. Non è così. Nessuna confusione apparente. Tutte le navi entrano ed escono con regolare ordine o almeno così sembra a osservare dalla terra ferma. Eppure centocinquantamila container transitano da qui. Intere città di merci si edificano sul porto per poi essere trasportate via. La qualità del porto è la velocità, ogni lentezza burocratica, ogni controllo meticoloso mutano il ghepardo del trasporto in un bradipo lento e pesante.

Mi perdo sempre al molo. Il molo Bausan è identico alle costruzioni Lego. Una struttura immensa, ma che sembra non avere spazio, piuttosto pare inventarselo. C'è un angolo del molo che sembra un reticolo di vespai. Arnie bastarde che riempiono una parete. Sono migliaia di prese elettriche per l'alimentazione dei contenitori reefer, i container con i cibi surgelati e le code attaccate a questo vespaio. Tutti i sofficini e i bastoncini di pesce della terra sono stipati in quei contenitori ghiacciati. Quando vado al molo Bausan ho la sensazione di vedere da dove passano tutte le merci prodotte per l'umana specie. Dove trascorrono l'ultima notte prima di essere vendute. Come fissare l'origine del mondo. In poche ore transitano per il porto i vestiti che indosseranno i ragazzini parigini per un mese, i bastoncini di pesce che mangeranno a Brescia per un anno, gli orologi che copriranno i polsi dei catalani, la seta di tutti i vestiti inglesi d'una stagione. Sarebbe interessante poter leggere da qualche parte non soltanto dove la merce viene prodotta, ma persino che tragitto ha fatto per giungere nelle mani dell'acquirente. I prodotti hanno cittadinanze molteplici, ibride e bastarde. Nascono per metà nel centro della Cina, poi si completano in qualche periferia slava, si perfezionano nel nord est d'Italia, si confezionano in Puglia o a nord di Tirana, per poi finire in chissà quale magazzino d'Europa. La merce ha in sé tutti i diritti di spostamento che nessun essere umano potrà mai avere. Tutti i frammenti di strada, i percorsi accidentali e ufficiali trovano punto fermo a Napoli. Quando al molo attraccano le navi, gli enormi fullcontainers sembrano animali leggeri, ma appena entrano nel golfo lentamente, avvicinandosi al molo, divengono pesanti mammut di lamiere e catene con nei fianchi suture arrugginite che colano acqua. Navi su cui ti immagini vivano equipaggi numerosissimi, e invece scaricano manipoli di ometti che pensi incapaci di domare quei bestioni in pieno oceano.

La prima volta che ho visto attraccare una nave cinese mi pareva di stare dinanzi a tutta la produzione del mondo. Gli occhi non riuscivano a contare, quantificare, il numero di container presenti. Non riuscivo a tenerne il conto. Può apparire impossibile non riuscire a procedere con i numeri, eppure il conto si perdeva, le cifre diventavano troppo elevate, si mescolavano.

A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate. Quella registrata. Almeno un altro milione passa senza lasciare traccia. Nel solo porto di Napoli, secondo l'Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono cinquantamila contraffazioni: il 99 per cento è di provenienza cinese e si calcolano duecento milioni di euro di tasse evase a semestre. I container che devono scomparire prima di essere ispezionati si trovano nelle prime file. Ogni container è regolarmente numerato, ma ce ne sono molti con la stessa identica numerazione. Così un container ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Quello che il lunedì si scarica, il giovedì può vendersi a Modena o Genova o finire nelle vetrine di Bonn e Monaco. Molta parte della merce che viene immessa nel mercato italiano avrebbe dovuto fare soltanto transito, ma le magie delle dogane permettono che il transito poi diventi fermo. La grammatica delle merci ha una sintassi per i documenti e un'altra per il commercio. Nell'aprile 2005, in quattro operazioni, scattate quasi per caso, a poca distanza le une dalle altre, il Servizio di Vigilanza Antifrode della Dogana aveva sequestrato ventiquattromila jeans destinati al mercato francese; cinquantunomila oggetti provenienti dal Bangladesh con il marchio made in Italy; e circa quattrocentocinquantamila personaggi, pupazzi, barbie, spiderman; più altri qua-rantaseimila giocattoli di plastica per un valore complessivo di circa trentasei milioni di euro. Una fettina d'economia, in una manciata di ore stava passando per il porto di Napoli. E dal porto al mondo. Non c'è ora o minuto in cui questo non accada. E le fettine di economia divengono lacerti, e poi quarti e interi manzi di commercio.

Il porto è staccato dalla città. Un'appendice infetta mai degenerata in peritonite, sempre conservata nell'addome della costa. Ci sono parti desertiche rinchiuse tra l'acqua e la terra, ma che sembrano non appartenere né al mare né alla terra. Un anfibio di terra, una metamorfosi marina. Terriccio e spazzatura, anni di rimasugli portati a riva dalle maree hanno creato una nuova formazione. Le navi scaricano le loro latrine, puliscono stive lasciando colare la schiuma gialla in acqua, i motoscafi e i panfili spurgano motori e rassettano raccogliendo tutto nella pattumiera marina. E rutto si raccoglie sulla costa, prima come massa molliccia e poi crosta dura. Il sole accende il miraggio di mostrare un mare fatto d'acqua. In realtà la superficie del golfo somiglia alla lucentezza dei sacchetti della spazzatura. Quelli neri. E piuttosto che d'acqua, il mare del golfo sembra un'enorme vasca di percolato. La banchina con migliaia di container multicolori pare un limite invalicabile. Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura. Non ci sono eserciti di scaricatori, né romantiche plebaglie da porto. Ci si immagina il porto come luogo del fracasso, dell'andirivieni di uomini, di cicatrici e lingue impossibili, frenesia di genti. Invece impera un silenzio da fabbrica meccanizzata. Al porto non sembra esserci più nessuno, i container, le navi e i camion sembrano muoversi animati da un moto perpetuo. Una velocità senza chiasso.

Al porto ci andavo per mangiare il pesce. Non è la vicinanza al mare che fa da garante di un buon ristorante, nel piatto ci trovavo le pietre pomici, sabbia, persino qualche alga bollita. Le vongole come le pescavano così le giravano nella pentola. Una garanzia di freschezza, una roulette russa d'infezione. Ma ormai tutti si sono rassegnati al sapore d'allevamento che rende simile un totano a un pollo. Per avere l'indefinibile sapore di mare bisognava in qualche modo rischiare. E questo rischio lo correvo volentieri. Mentre ero al ristorante del porto, chiesi informazioni per trovare un alloggio da affittare.

"Non ne so niente, qui le case stanno sparendo. Se le stanno prendendo i cinesi…"

Un tizio che troneggiava in mezzo alla stanza, grosso ma non abbastanza per la voce che aveva, invece lanciandomi un'occhiata urlò: "Forse qualcosa ancora c'è!".

Non disse altro. Dopo aver entrambi finito di pranzare ci indirizzammo lungo la via che costeggia il porto. Non ci fu neanche bisogno che mi chiedesse di seguirlo. Arrivammo nell'atrio di un palazzo quasi fantasma, un condominio dormitorio. Salimmo al terzo piano dove c'era l'unica casa di studenti sopravvissuta. Stavano mandando via tutti per lasciare spazio al vuoto. Nelle case non doveva esserci più nulla. Né armadi, né letti, né quadri, né comodini, neanche pareti. Doveva esserci solo spazio, spazio per i pacchi, spazio per gli enormi armadi di cartone, spazio per le merci.

In casa mi assegnarono una specie di stanza. Meglio definibile come uno stanzino con lo spazio appena necessario per un letto e un armadio. Non si parlò di mensile, di bollette da spartire, di connessioni e allacci telefonici. Mi presentarono a quattro ragazzi, miei coinquilini e tutto finì lì. Mi spiegarono che nel palazzo era l'unica casa realmente abitata e che serviva per dare alloggio a Xian, il cinese che controllava "i palazzi". Non dovevo pagare alcun fitto, ma mi chiesero di lavorare ogni fine settimana nelle case-magazzino. Ero andato per cercare una stanza, trovai un lavoro. Di mattina si abbattevano le pareti, la sera si raccoglievano i resti di cemento, parati e mattoni. Si cumulavano le macerie in normali sacchi d'immondizia. Buttare giù un muro genera rumori inaspettati. Non di sasso colpito ma come di cristalli gettati giù da un tavolo con una manata. Ogni casa diveniva un magazzino senza mura. Non so spiegarmi come il palazzo dove ho lavorato possa ancora stare in piedi. Più volte abbiamo abbattuto diversi muri maestri, consapevoli di farlo. Ma serviva lo spazio per la merce e non c'è equilibrio di cemento da conservare dinanzi alla conservazione dei prodotti.

Il progetto di stipare i pacchi nelle case era nato nella mente di alcuni commercianti cinesi dopo che l'autorità portuale di Napoli aveva presentato a una delegazione del Congresso americano il piano sulla security. Quest'ultimo prevede una divisione del porto in quattro aree: crocieristica, del cabotaggio, delle merci e dei container e una individuazione, per ciascuna area, dei rischi. Dopo la pubblicazione di questo piano-security, per evitare che si potesse costringere la polizia a intervenire, i giornali a scriverne per troppo tempo, e persino qualche telecamera a intrufolarsi in cerca di qualche succosa scena, molti imprenditori cinesi decisero che tutto doveva essere sommerso da maggiore silenzio. Anche a causa di un innalzamento dei costi bisognava rendere ancor più impercettibile la presenza delle merci. Farla scomparire nei capannoni fittati nelle sperdute campagne della provincia, tra discariche e campi di tabacco: ma questo non eliminava il traffico di Tir. Così dal porto entravano e uscivano ogni giorno non più di dieci furgoncini, carichi di pacchi sino a esplodere. Dopo pochi metri si trovavano nei garage dei palazzi di fronte al porto. Entrare e uscire, bastava solo questo.

Movimenti inesistenti, impercettibili, persi nelle manovre quotidiane del traffico. Case prese in fitto. Sfondate. Garage resi tutti comunicanti tra loro, cantine ricolme sino al tetto di merce. Nessun proprietario osava lamentarsi. Xian gli aveva pagato tutto. Fitto e indennizzo per gli abbattimenti impropri. Migliaia di pacchi salivano su un ascensore ristrutturato come un montacarichi. Una gabbia d'acciaio ficcata dentro i palazzi che faceva scorrere sui suoi binari una pedana che saliva e scendeva di continuo. Il lavoro era concentrato in poche ore. La scelta dei pacchi non era casuale. Mi capitò di scaricare ai primi di luglio. Un lavoro che rende bene ma che non puoi fare se non sotto costante allenamento. Il caldo era umidissimo. Nessuno osava chiedere un condizionatore.

Nessuno. E non dipendeva da timori di punizione o da particolari culture d'obbedienza e sottomissione. Le persone che scaricavano provenivano da ogni angolo della terra. Ghanesi, ivoriani, cinesi, albanesi, e poi napoletani, calabresi, lucani. Nessuno chiedeva, tutti constatavano che le merci non soffrono il caldo e questa era condizione sufficiente per non spendere soldi in condizionatori.

Stipavamo pacchi con giubbotti, impermeabili, k-way, maglioncini di filo, ombrelli. Era piena estate, sembrava una scelta folle quella di rifornirsi di vestiti autunnali invece che accumulare costumi, prendisole e ciabatte. Sapevo che nelle case-deposito non si usava raccogliere i prodotti come in un magazzino, ma solo merce da immettere subito nel mercato. Ma gli imprenditori cinesi avevano previsto che ci sarebbe stato un agosto con poco sole. Non ho mai dimenticato la lezione di John Maynard Keynes sul concetto di valore marginale: come varia, per esempio, il prezzo di una bottiglia d'acqua in un deserto o della stessa bottiglia vicino a una cascata. Quell'estate, quindi, l'impresa italiana porgeva bottiglie vicino alle fonti, mentre l'imprenditoria cinese edificava sorgenti nel deserto.

Dopo i primi giorni di lavoro nel palazzo, Xian venne a dormire da noi. Parlava un perfetto italiano, con una leggera r mutata in v. Come i nobili decaduti imitati da Totò nei suoi film. Xian Zhu era stato ribattezzato Nino. A Napoli, quasi tutti i cinesi che hanno relazione con gli indigeni si danno un nome partenopeo. È prassi così diffusa che non desta più stupore sentire un cinese che si presenta come Tonino, Nino, Pino, Pasquale. Xian Nino invece di dormire passò la notte al tavolo in cucina, telefonando e sbirciando la televisione. Ero sdraiato sul letto, ma dormire risultava impossibile. La voce di Xian non si interrompeva mai. La sua lingua veniva sparata fuori dai denti come una mitraglietta. Parlava senza neanche prendere respiro dalle narici, come in un'apnea di parole. E poi le flatulenze dei suoi guardaspalle che saturavano la casa di un odore dolciastro avevano appestato anche la mia stanza. Non era solo la puzza a disgustare, ma anche le immagini che quella puzza ti sprigionava in mente. Involtini primavera in putrefazione nei loro stomaci e riso alla cantonese macerato nei succhi gastrici. Gli altri inquilini erano abituati. Chiusa la porta non esisteva altro che il loro sonno. Per me invece non esisteva altro che quello che stava accadendo oltre la mia porta. Così mi piazzai in cucina. Spazio comune. E quindi anche in parte mio. O così avrebbe dovuto essere. Xian smise di parlare e iniziò a cucinare. Friggeva del pollo. Mi venivano in mente decine di domande da porgli, di curiosità, di luoghi comuni che volevo scrostare. Mi misi a parlare della Triade. La mafia cinese. Xian continuava a friggere. Volevo chiedergli dettagli. Anche soltanto simbolici, non pretendevo certo confessioni sulla sua affiliazione. Mostravo di conoscere i tratti generici del mondo mafioso cinese, con la presunzione che conoscere gli atti d'indagine fosse un modo maestro per possedere il calco della realtà. Xian portò il suo pollo fritto in tavola, prese posto e non disse nulla. Non so se ritenesse interessante quanto dicevo. Non so e non ho mai saputo se fosse parte di quell'organizzazione. Bevve della birra e poi alzò metà sedere dalla sedia, tirò il portafogli dalla tasca dei pantaloni, frugò con le dita senza guardare e poi cacciò tre monete. Le stese sul tavolo fermandole sulla tovaglia con un bicchiere rovesciato.

"Euro, dollaro, yuan. Ecco la mia triade."

Xian sembrava sincero. Nessun'altra ideologia, nessuna sorta di simbolo e passione gerarchica. Profitto, business, capitale. Null'altro. Si tende a considerare oscuro il potere che determina certe dinamiche e allora lo si ascrive a un'entità oscura: mafia cinese. Una sintesi che tende a scacciare tutti i termini intermedi, tutti i passaggi finanziari, tutte le qualità d'investimento, tutto ciò che fa la forza di un gruppo economico criminale. Da almeno cinque anni ogni relazione della Commissione Antimafia segnalava "il pericolo crescente della mafia cinese" ma in dieci anni di indagini la polizia aveva sequestrato vicino a Firenze, a Campi Bisenzio, appena seicentomila euro. Qualche moto e una porzione di fabbrica. Nulla, rispetto a una forza economica che riusciva a spostare capitali di centinaia di milioni di euro, secondo quanto scrivevano quotidianamente gli analisti americani. L'imprenditore mi sorrideva.

"L'economia ha un sopra e un sotto. Noi siamo entrati sotto, e usciamo sopra."

Nino Xian prima di andare a dormire mi fece una proposta per l'indomani. "Ti alzi presto?"

"Dipende…"

"Se domani riesci a stare in piedi per le cinque, vieni con noi al porto. Ci dai una mano."

"A fare che?"

"Se hai una maglia col cappuccio, indossala, è meglio."

Non mi fu detto altro, né io tentai, troppo curioso di partecipare alla cosa, di insistere. Fare altre domande avrebbe potuto compromettere la proposta di Xian. Mi rimanevano poche ore per dormire. E l'ansia era troppa per riposare.

Alle cinque in punto mi feci trovare pronto, nell'androne del palazzo ci raggiunsero altri ragazzi. Oltre me e un mio coinquilino, c'erano due maghrebini con i capelli brizzolati. Ci ficcammo nel furgoncino ed entrammo nel porto. Non so quanta strada avremo fatto e per quali anfratti d'angiporto ci siamo infilati. Mi addormentai poggiato al finestrino del furgone. Scendemmo vicino a degli scogli, un piccolo molo si estendeva nell'anfratto. Lì c'era attraccato uno scafo con un enorme motore che pareva una coda pesantissima rispetto alla struttura esile e allungata. Con i cappucci tirati su sembravamo tutti una ridicola band di cantanti rap. Il cappuccio che credevo fosse necessario per non farsi riconoscere invece serviva solo per proteggerti dagli schizzi di acqua gelida e per tentare di scongiurare l'emicrania che in mare aperto a primo mattino si inchioda tra le tempie. Un giovane napoletano accese il motore e un altro iniziò a guidare lo scafo. Sembravano fratelli. O almeno avevano visi identici. Xian non venne con noi. Dopo circa mezz'ora di viaggio ci avvicinammo a una nave. Pareva che ci andassimo a impattare contro. Enorme. Facevo fatica a tirare su il collo per vedere dove terminava la murata. In mare le navi lanciano delle grida di ferro, come l'urlo degli alberi quando vengono abbattuti, e dei suoni cupi di vuoto che ti fanno deglutire almeno due volte un muco al sapore di sale.

Dalla nave una carrucola faceva calare a scatti una rete colma di scatoloni. Ogni volta che il fagotto sbatteva sui legni dell'imbarcazione, lo scafo beccheggiava al punto che mi preparavo già a galleggiare. Invece non finii in mare. Le scatole non erano pesantissime. Ma dopo averne sistemate a poppa una trentina, avevo i polsi indolenziti e gli avambracci rossi per il continuo sfregare con gli spigoli dei cartoni. Il motoscafo poi virò verso la costa, dietro di noi altri due scafi fiancheggiarono la nave per raccogliere altri pacchi. Non erano partiti dal nostro molo. Ma d'improvviso si erano accodati alla nostra scia. Sentivo la bocca dello stomaco ricevere schiaffi continui ogni qual volta lo scafo faceva battere la prua sul pelo dell'acqua. Poggiai la testa su alcune scatole. Tentavo di intuire dall'odore cosa contenessero, attaccai l'orecchio per cercare di capire dal rumore cosa ci fosse lì dentro. Iniziò a subentrare un senso di colpa. Chissà a cosa avevo partecipato, senza decisione, senza una vera scelta. Dannarmi sì, ma almeno con coscienza. Invece ero finito per curiosità a scaricare merce clandestina. Si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo. In realtà non c'è differenza. I gesti conoscono un'elasticità che i giudizi etici ignorano. Arrivati al molo, i ma-ghrebini riuscivano a scendere dallo scafo con due scatolone sulle spalle. Per farmi barcollare mi bastavano solo le mie gambe. Sugli scogli ci aspettava Xian. Si avvicinò a un'enorme scatola, aveva già in mano una taglierina, solcò una fascia larghissima di scotch che chiudeva due ali di carta. Erano scarpe. Scarpe da ginnastica, originali, delle marche più celebri. Modelli nuovi, nuovissimi ancora non in circolazione nei negozi italiani. Temendo un controllo della Finanza, aveva preferito scaricare in mare aperto. Una parte della merce poteva così essere immessa senza la zavorra delle tasse, i grossisti le avrebbero prese senza le spese doganali. La concorrenza si vinceva sugli sconti. Stessa qualità di merce, ma quattro, sei, dieci per cento di sconto. Percentuali che nessun agente commerciale avrebbe potuto proporre e le percentuali di sconto fanno crescere o morire un negozio, permettono di aprire centri commerciali, di avere entrate sicure e con le entrate sicure le fideiussioni bancarie. I prezzi devono abbassarsi. Tutto deve arrivare, muoversi velocemente, di nascosto. Schiacciarsi sempre di più nella dimensione della vendita e dell'acquisto. Un ossigeno inaspettato per i commercianti italiani ed europei. Questo ossigeno entrava dal porto di Napoli.

Stipammo tutti i pacchi in diversi furgoni. Arrivarono anche gli altri scafi. I furgoni andavano verso Roma, Viterbo, Latina, Formia. Xian ci fece riaccompagnare a casa.

Tutto era cambiato negli ultimi anni. Tutto. D'improvviso. Repentinamente. Qualcuno intuisce il cambiamento, ma ancora non lo comprende. Il golfo fino a dieci anni fa era solcato da scafi di contrabbandieri, le mattine erano cariche di dettaglianti che si andavano a rifornire di sigarette. Strade affollate, macchine piene di stecche, angoli con sedia e banco per la vendita. Si giocavano le battaglie tra guardie costiere, finanzieri, e contrabbandieri. Si scambiavano quintali di sigarette in cambio di un arresto mancato, o ci si faceva arrestare per salvare quintali di sigarette stipate in qualche doppio fondo di scafo in fuga. Nottate, pali e fischi per avvertire strani movimenti di auto, walkie talkie accesi per segnalare allarmi, e file di uomini lungo la costa che si passavano velo-mente le scatole. Macchine che sfrecciavano dalla costa pugliese all'entroterra e dall'entroterra verso la Campania. Napoli-Brindisi era un asse fondamentale, la strada dell'economia florida delle sigarette a buon mercato. Il contrabbando, la FIAT del sud, il welfare dei senza Stato, ventimila persone che lavoravano esclusivamente nel contrabbando tra Puglia e Campania. Il contrabbando innescò la grande guerra di camorra dei primi anni '80.

I clan pugliesi e campani reintroducevano in Europa le sigarette non più soggette ai Monopoli di Stato. Importavano migliaia di casse al mese dal Montenegro, fatturando cinquecento milioni di lire a carico. Ora tutto si è spaccato e trasformato. Ai clan non conviene più. Ma in realtà ha verità di dogma la massima di Lavoisier: niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma. In natura, ma soprattutto nelle dinamiche del capitalismo. I prodotti del quotidiano, e non più il vizio della nicotina, sono il soggetto nuovo del contrabbando. Sta nascendo la guerra dei prezzi, terribilmente spietata. Le percentuali di sconto degli agenti, dei grossisti, e dei commercianti, determinano la vita e la morte di ognuno di questi soggetti economici. Ma non basta. La merce prodotta a basso costo dovrà essere venduta su un mercato dove sempre più persone accedono con stipendi precari, risparmi minimi, attenzione maniacale ai centesimi. L'invenduto aumenta e allora le merci, originali, false, semifalse, parzialmente vere, arrivano in silenzio. Senza lasciare traccia. Con meno visibilità delle sigarette, poiché non avranno una distribuzione parallela. Come se non fossero mai state trasportate, come se spuntassero dai campi e qualche mano anonima le avesse raccolte. Se il danaro non puzza la merce invece profuma. Ma non del mare attraversato, non riporta l'odore delle mani che l'hanno prodotta, né butta il grasso delle braccia meccaniche che l'hanno assemblata. La merce sa di quello che sa. Questo odore non ha origine che sul bancone del negoziante, non ha fine che nella casa dell'acquirente.

Lasciandoci dietro il mare, arrivammo a casa. Il furgone ci diede appena il tempo di scendere. Poi tornò al porto a raccogliere, raccogliere, raccogliere ancora pacchi e merce. Salii ormai semisvenuto sull'ascensore-montacarichi. Mi tolsi la maglietta zuppa d'acqua e sudore prima di gettarmi sul letto. Non so quante scatole avevo sistemato e trasportato. Ma la sensazione era di aver scaricato le scarpe per i piedi di mezz'Italia. Ero stanco come fosse stata la fine di una giornata faticosa e pienissima. A casa, gli altri ragazzi si svegliavano. Era soltanto prima mattina.

Angelina Jolie

Nei giorni successivi accompagnai Xian nei suoi incontri d'affari. In realtà mi aveva scelto per fargli compagnia durante gli spostamenti e i pranzi. Parlavo troppo o troppo poco. Le due attitudini gli piacevano entrambe. Seguivo come si seminava e coltivava la semenza del danaro, come veniva messo a maggese il terreno dell'economia. Arrivammo a Las Vegas. A nord di Napoli. Qui chiamano Las Vegas questa zona per diverse ragioni. Come Las Vegas del Nevada è edificata in mezzo al deserto, così anche questi agglomerati sembrano spuntare dal nulla. Si arriva qui da un deserto di strade. Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull'autostrada verso Roma, dritto verso il nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d'improvviso, ficcati nella terra uno accanto all'altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant'Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un'unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l'altra metà ne sono un altro.

Avrò sentito centinaia di volte chiamare la zona del foggiano la Califoggia, oppure il sud della Calabria Calafrica o Calabria Saudita, o magari Sahara Consilina per Sala Consilina, Terzo Mondo per indicare una zona di Secondigliano. Ma qui Las Vegas è davvero Las Vegas. Qualsiasi persona avesse voluto tentare una scalata imprenditoriale, per anni avrebbe potuto farlo. Realizzare il sogno proibito, una liquidazione, un forte risparmio per la sua fabbrica. Scarpe, vestiti, confezioni erano produzioni che si imponevano al buio sul mercato internazionale. Le città non si facevano fregio di questa produzione preziosa. I prodotti erano tanto più riusciti quanto assemblati in silenzio e clandestinamente. Territori che da decenni producevano i migliori capi della moda italiana. E quindi i migliori capi di moda del mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di formazione, non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla macchina per cucire, dalla piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla merce spedita. Null'altro che un rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa era superflua. La formazione la facevi al tavolo da lavoro, la qualità imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente finanziamenti, niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O vendi o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate tra le più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una ricchezza saccheggiata, presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio buco. Arrivavano da ogni parte per investire, indotti che producevano confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti, guanti, cappelli, scarpe, borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In queste zone dagli anni '50 non v'era necessità di avere permessi, contratti, spazi. Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la concorrenza cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualità media. Non ha più dato spazio di crescita alla manualità degli operai. O lavori nel migliore dei modi subito o qualcuno saprà lavorare a un livello medio in maniera più veloce. Un numero elevato di persone si sono trovate senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti stritolati dai debiti, dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza.

C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualità ha esaurito il respiro, la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra l'emblema. Con le case sempre illuminate e piene di gente, con i cortili affollati. Le macchine sempre parcheggiate. Nessuno che esce mai di là. Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In nessun momento della giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al mattino quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un rumore continuo di abitato. Parco Verde a Caivano.

Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di catrame che taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto che un quartiere, una paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che l'architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un angolo una cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio mausoleo dedicato a un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro che in certe zone è persino peggio del lavoro nero in fabbrica. Ma è un mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva sempre di sabato, tutti i sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa ora, stessa strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il giorno delle coppiette. E la Statale 87 era il luogo dove tutte le coppie della zona si appartano. Una strada di merda, tra catrame rattoppato e microdiscariche. Ogni volta che ci passo e vedo le coppiette penso che sia necessario dare fondo a tutta la propria passione per riuscire a star bene in mezzo a tanto schifo. Proprio qui Emanuele e due suoi amici si nascondevano, attendevano l'auto della coppia che parcheggiava, la luce che si spegneva. Aspettavano qualche minuto dopo che la luce s'era spenta per farli svestire, e nel momento di massima vulnerabilità arrivavano. Con il calcio della pistola rompevano il finestrino e poi la puntavano sotto il naso del ragazzo. Ripulivano le coppiette e se ne andavano nei weekend con decine di rapine fatte e cinquecento euro in tasca: un bottino minuscolo che può avere il sapore del tesoro.

Capita però che una notte una pattuglia di carabinieri li intercetti. Sono così imbecilli, Emanuele e i suoi compari, che non prevedono che fare sempre le stesse mosse e rapinare sempre nelle stesse zone è il miglior modo per essere arrestati. Le due auto si inseguono, si speronano, partono gli spari.

Poi tutto si ferma. In auto c'è Emanuele, colpito a morte. Aveva in mano una pistola, e aveva fatto il gesto di puntarla contro i carabinieri. Lo ammazzarono con undici colpi sparati in pochi secondi.

I suoi amici avevano tentato di aprire gli sportelli, ma appena avevano capito che Emanuele era morto si erano fermati. Avevano aperto le portiere senza fare resistenza ai pugni in faccia che precedono ogni arresto. Emanuele era incartocciato su se stesso, aveva in mano una pistola finta. Una di quelle riproduzioni che una volta chiamavano scacciacani, usate in campagna per cacciare i branchi di randagi dai pollai. Un giocattolo che veniva usato come fosse vero; del resto Emanuele era un ragazzino che agiva come fosse un uomo maturo, sguardo spaventato che fingeva d'essere spietato, la voglia di qualche spicciolo che fingeva essere brama di ricchezza. Emanuele aveva quindici anni. Tutti lo chiamavano semplicemente Manu. Aveva una faccia asciutta, scura e spigolosa, uno di quelli che ti immagini come archetipo di ragazzino da non frequentare. Emanuele era un ragazzo su questo angolo di territorio dove onore e rispetto non ti sono dati da pochi spiccioli, ma da come li ottieni. Emanuele era parte di Parco Verde. E non c'è errore o crimine che possa cancellare la priorità dell'appartenenza a certi luoghi che ti marchiano a fuoco. Avevano fatto una colletta tutte le famiglie di Parco Verde. E avevano tirato su un piccolo mausoleo. Dentro ci avevano messo una fotografia della Madonna dell'Arco e una cornice con il volto sorridente di Manu. Comparve anche la cappella di Emanuele, tra le oltre venti che i fedeli avevano edificato a tutte le madonne possibili, una per ogni anno di disoccupazione. Il sindaco però non poteva sopportare che si edificasse un altare a un mariuo-lo, e mandò una ruspa ad abbatterlo. In un attimo il cemento tirato su si sbriciolò come un lavoretto di Das. In pochi minuti si sparse la voce nel Parco, i ragazzi arrivarono con motorini e moto vicino alle ruspe. Nessuno pronunciava parola. Ma tutti fissavano l'operaio che stava muovendo le leve. Con il carico di sguardi l'operaio si fermò, e fece cenno di guardare il maresciallo. Era lui che gli aveva dato l'ordine. Come un gesto per mostrare l'obiettivo della rabbia, per togliere il bersaglio dal suo petto. Era impaurito. Si chiuse dentro. Assediato. In un attimo iniziò la guerriglia. L'operaio riuscì a scappare nella macchina della polizia. Presero a pugni e calci la ruspa, svuotarono le bottiglie di birra e le riempirono con la benzina. Inclinarono i motorini facendo colare il carburante nelle bottiglie direttamente dai serbatoi. E presero a sassate i vetri di una scuola, vicino al Parco. Cade la cappella di Emanuele, deve cadere tutto il resto. Dai palazzi lanciavano piatti, vasi, posate. Poi le bottiglie incendiarie contro la polizia. Misero in fila i cassonetti come barricate. Diedero fuoco a tutto quanto potesse prenderlo e diffonderlo. Si prepararono alla guerriglia. Erano centinaia, potevano resistere a lungo. La rivolta si stava diffondendo, stava arrivando nei quartieri napoletani.

Ma poi giunse qualcuno, da non troppo lontano. Tutto era circondato da auto della polizia e dei carabinieri, ma un fuoristrada nero riuscì a superare le barricate. L'autista fece un cenno, qualcuno aprì la portiera e un gruppetto di rivoltosi entrò. In poco più di due ore tutto venne smantellato. Si tolsero i fazzoletti dalla faccia, lasciarono spegnere le barricate di spazzatura. I clan erano intervenuti, ma chissà quale. Parco Verde è una miniera per la manovalanza camorristica.

Qui tutti quelli che vogliono raccolgono le leve più basse, la manovalanza da pagare persino meno dei pusher nigeriani o albanesi. Tutti cercano i ragazzi di Parco Verde: i Casalesi, i Maliardo di Giugliano, i "tigrotti" di Crispano. Divengono spacciatori con stipendi senza percentuali sulle vendite. E poi autisti e pali, a presidiare territori anche a chilometri di distanza da casa loro. E pur di lavorare non chiedono il rimborso della benzina. Ragazzi fidati, scrupolosi nel loro mestiere. A volte finiscono nell'eroina. La droga dei miserabili.

Qualcuno si salva, si arruola, entra nell'esercito e va lontano, qualche ragazza riesce ad andare via per non mettere più piede in questi luoghi. Quasi nessuno delle nuove generazioni viene affiliato. La parte maggiore lavora per i clan, ma non saranno mai camorristi. I clan non li vogliono, non li affiliano, li fanno lavorare sfruttando questa grande offerta.

Non hanno competenze, talento commerciale, fanno i corrieri. Portano zaini pieni di hashish.

Lo sentono un guadagno ozioso, ineguagliabile quasi, certamente irraggiungibile con qualsiasi altro mestiere rintracciabile in questo luogo. Ma hanno trasportato merce capace di fatturare dieci volte il costo della moto. Non lo sanno e non riescono a immaginarlo. Se un posto di blocco li intercetta subiranno condanne sotto i dieci anni, e non essendo affiliati non avranno le spese legali pagate né l'assistenza fa miliare garantita dai clan. Ma in testa c'è il rombo dello scappamento e Roma da raggiungere.

Qualche barricata continuò ancora a sfogarsi ma lentamente, a seconda della quantità di rabbia nella pancia. Poi tutto sfiatò. I clan non avevano timore della rivolta, né del clamore. Potevano uccidersi e bruciare per giorni, nulla sarebbe accaduto. Ma la rivolta non li avrebbe fatti lavorare. Non avrebbe fatto di Parco Verde il serbatoio d'emergenza da cui attingere sempre manovalanza a prezzo bassissimo. Tutto, e subito, doveva rientrare. Tutti dovevano tornare al lavoro, o meglio, disponibili al lavoro eventuale. Il gioco della rivolta doveva finire.

Al funerale di Emanuele c'ero stato. Quindici anni in certi meridiani di mondo sono solo una somma. Crepare a quindici anni in questa periferia sembra scontare una condanna a morte piuttosto che essere privati della vita. In chiesa c'erano molti, moltissimi ragazzi tutti scuri in volto, ogni tanto lanciavano qualche urlo e addirittura un coretto ritmato fuori dalla chiesa: "Sem-pre con noi, rim-arrai sem-pre con noi… sempre con noi…". Gli ultra lo scandiscono solitamente quando qualche vecchia gloria abbandona la maglia. Sembravano allo stadio, ma c'erano solo cori di rabbia. C'erano poliziotti in borghese che cercavano di stare lontano dalle navate. Tutti li avevano riconosciuti, ma non c'era spazio per scaramucce. In chiesa riuscii subito a individuarli; o meglio loro individuarono me, non trovando sul mio viso traccia del loro archivio mentale. Come per venire incontro alla mia cupezza uno di questi mi si avvicinò dicendomi: "Questi qua sono tutti pregiudicati. Spaccio, furto, ricettazione, rapina… qualcuno fa pure le marchette. Non c'è nessuno pulito. Qua più ne muoiono, meglio è per tutti…".

Parole a cui si risponde con un gancio, o una testata sul setto nasale. Ma era in realtà il pensiero di tutti. E forse persino un pensiero saggio. Quei ragazzi che si faranno l'ergastolo per una rapina da 200 euro — feccia, surrogati d'uomini, spacciatori — li guardavo, uno per uno. Nessuno di loro superava i vent'anni. Padre Mauro, il parroco che celebrava la funzione, sapeva chi aveva di fronte. Sapeva anche che i ragazzini che gli stavano intorno non avevano il timbro dell'innocenza.

"Oggi non è morto un eroe…"

Non aveva le mani aperte, come i preti quando leggono le parabole alla domenica. Aveva i pugni chiusi. Assente qualsiasi tono d'omelia. Quando iniziò a parlare la sua voce era rovinata da una raucedine strana, come quella che viene quando ti parli dentro per troppo tempo. Parlava con un tono rabbioso, nessuna pena molle per la creatura, non delegava niente.

Sembrava uno di quei preti sudamericani durante i moti di guerriglia in Salvador, quando non ne potevano più di celebrare funerali di massacri e smettevano di compatire, e iniziavano a urlare. Ma qui Romero nessuno lo conosce. Padre Mauro ha un'energia rara. "Per quante responsabilità possiamo attribuire a Emanuele, restano i suoi quindici anni. I figli delle famiglie che nascono in altri luoghi d'Italia a quell'età vanno in piscina, a fare scuola di ballo. Qui non è così. Il Padreterno terrà conto del fatto che l'errore è stato commesso da un ragazzo di quindici anni. Se quindici anni nel sud Italia sono abbastanza per lavorare, decidere di rapinare, uccidere ed essere uccisi, sono anche abbastanza per prendere responsabilità di tali cose".

Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: "Ma quindici anni sono così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a distribuire la responsabilità. Quindici anni è un'età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie".

Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né c'erano autorità o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando si catapultano dal palco sugli spettatori. Il fere tro ondeggiava nel lago di dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero. Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna. Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: "I miei nipoti anche se disoccupati non avrebbero mai fatto ra

pine…". E continuando nervosa: "Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?"

Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica bisbigliò: "Il fatto è che qui si impara solo a morire".

"Cosa padre?"

"Niente signora, niente."

Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese perché lavorano sulle grandi griffe. Velocità e qualità. Altissima qualità. Il monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arza-no, e via via tutta la Las Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene. Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro. Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metà dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro volerebbe via dall'Italia. Gli imprenditori di queste parti conoscono a memoria questa logica. In queste fabbriche spesso non c'è astio tra operai e proprietari. Qui il conflitto di classe è molle come un biscotto spugnato. Il padrone spesso è un ex operaio, condivide le ore di lavoro dei suoi dipendenti, nella stessa stanza, sullo stesso scranno. Quando sbaglia paga direttamente con ipoteche e prestiti. La sua autorità è paternalistica. Si litiga per un giorno di ferie e per qualche centesimo di aumento. Non c'è contratto, non c'è burocrazia. Volto contro volto. E si tracciano così gli spazi delle concessioni e degli obblighi che hanno il sapore dei diritti e delle competenze. La famiglia dell'imprenditore vive al piano di sopra dove si lavora. In queste fabbriche spesso le operaie affidano i loro bambini alle figlie del proprietario che diventano babysitter o alle madri che si trasformano in nonne vicarie. I bambini delle operaie crescono con le famiglie dei proprietari. Tutto questo crea una vita comune, realizza il sogno orizzontale del postfordismo — far condividere il pranzo a operai e dirigenti, farli frequentare nella vita privata, farli sentire parte di una stessa comunità.

In queste fabbriche non ci sono sguardi che fissano il terreno. Sanno di lavorare sull'eccellenza, e sanno di avere stipendi infimi. Ma senza l'uno non c'è l'altro. Si lavora per prendere ciò di cui hai bisogno, nel miglior modo possibile, così nessuno troverà motivo per cacciarti. Non c'è rete di protezione. Diritti, giuste cause, permessi, ferie. Il diritto te lo costruisci. Le ferie le implori. Non c'è da lagnarsi. Tutto accade come deve accadere. Qui c'è solo un corpo, un'abilità, una macchina e uno stipendio. Non si conoscono dati precisi su quanti siano i lavoratori in nero di queste zone. Né quanti invece siano regolarizzati, ma costretti ogni mese a firmare buste paga che indicano somme mai percepite.

Xian doveva partecipare a un'asta. Entrammo nell'aula di una scuola elementare, nessun bambino, nessuna maestra. Solo i fogli bristol attaccati alle pareti con enormi letterone disegnate. In aula aspettavano una ventina di persone che rappresentavano le loro aziende, Xian era l'unico straniero. Salutò soltanto due dei presenti e senza neanche troppa confidenza. Un'auto si fermò nel cortile della scuola. Entrarono tre persone. Due uomini e una donna. La donna aveva una gonna di pelle, tacchi alti, scarpe di vernice. Si alzarono tutti a salutarla. I tre presero posto e iniziarono l'asta. Uno degli uomini tirò tre linee verticali sulla lavagna. Iniziò a scrivere sotto dettatura della donna. La prima colonna:

"800"

Era il numero di vestiti da produrre. La donna elencò tipi di stoffa e qualità dei capi. Un imprenditore di Sant'Antimo si avvicinò alla finestra e dando le spalle a tutti propose il suo prezzo e i suoi tempi:

"Quaranta euro a capo in due mesi…"

Venne tracciata sulla lavagna la sua proposta.

"800 / 40 / 2"

I visi degli altri imprenditori non sembravano preoccupati. Non aveva osato con la sua proposta entrare nelle dimensioni dell'impossibile. E questa cosa evidentemente faceva piacere a tutti. Ma i committenti non erano soddisfatti. L'asta continuò.

Le aste che le grandi griffe italiane fanno in questi luoghi sono strane. Nessuno perde e nessuno vince l'appalto. Il gioco sta nel partecipare o meno alla corsa. Qualcuno si lancia con una proposta, dettando il tempo e il prezzo che può sostenere. Ma se le sue condizioni saranno accettate non sarà l'unico vincitore. La sua proposta è come una rincorsa che gli altri imprenditori possono tentare di seguire. Quando un prezzo viene accettato dai mediatori gli imprenditori presenti possono decidere se partecipare o meno; chi accetta riceve il materiale. Le stoffe. Le fanno inviare direttamente al porto di Napoli e da lì ogni imprenditore le va a prendere. Ma uno soltanto verrà pagato a lavoro ultimato. Quello che consegnerà per primo i capi confezionati con elevatissima qualità di fattura. Gli altri imprenditori che hanno partecipato all'asta potranno tenersi i materiali, ma non avranno un centesimo. Le aziende di moda ci guadagnano così tanto che sacrificare stoffa non è una perdita rilevante. Se un imprenditore per più volte non consegna, sfruttando l'asta per avere materiale gratuito, viene escluso da quelle successive. Con quest'asta, i mediatori delle griffe si assicurano la velocità di produzione, perché se qualcuno tenta di rimandare qualcun altro ne prenderà il posto. Nessuna proroga è possibile per i tempi dell'alta moda.

Un altro braccio si alzò per la gioia della donna dietro la scrivania. Un imprenditore ben vestito, elegantissimo.

"Venti euro in venticinque giorni."

Alla fine accettarono quest'ultima proposta. Si accodarono a lui nove su venti. Neanche Xian osò dirsi disponibile. Non poteva coordinare velocità e qualità in tempi così brevi e con prezzi così bassi. Finita l'asta la donna scrisse in un file i nomi degli imprenditori, l'indirizzo delle fabbriche, i numeri di telefono. Il vincitore offrì un pranzo a casa sua. Aveva la fabbrica al piano terra; al primo piano viveva con la moglie, e al secondo piano c'era suo figlio. Orgogliosamente raccontava:

"Ora sto chiedendo il permesso per tirare su un altro piano. Il mio secondo figlio si sta per sposare."

Salendo continuava a raccontarci della sua famiglia, in costruzione come la sua villetta.

"Non mettete mai maschi a controllare le operaie, fanno solo guai. Due figli maschi ho, e tutte e due si sono sposati con nostre dipendenti. Mettete i ricchioni. Mettete i ricchioni a gestire turni e controllare il lavoro, come si faceva una volta…"

Le operaie e gli operai salirono a brindare per l'appalto. Avrebbero dovuto fare turnazioni molto rigide: dalle sei alle ventuno, con uno stacco di un'ora a pranzo e un secondo turno dalle ventuno alle sei del mattino. Le operaie erano tutte truccate, con gli orecchini e il grembiule per proteggersi dalle colle, dalla polvere, dal grasso dei macchinari. Come Superman che si toglie la camicia e sotto ha già la sua tuta azzurra, queste ragazze tolto il grembiule erano pronte per una cena fuori. Gli operai invece erano abbastanza trasandati, con fel-pacce e pantaloni da lavoro. Dopo il brindisi il padrone di casa si appartò con un invitato. Si defilò insieme agli altri che avevano accettato il prezzo d'asta. Non stavano nascondendosi, ma rispettavano l'antica usanza di non parlare di danaro a tavola. Xian mi spiegò sin nel dettaglio chi fosse quella persona. Era identico a come nell'immaginario appaiono i cassieri di banca. Doveva anticipare liquidità e stava discutendo i tassi d'interesse. Ma non rappresentava una banca. Le griffe italiane pagano solo a lavoro ultimato. Anzi, solo dopo aver approvato il lavoro. Stipendi, costi di produzione, e persino di spedizione: tutto viene anticipato dai produttori. I clan, a seconda della loro influenza territoriale, danno liquidità in prestito alle fabbriche. Ad Arzano i Di Lauro, a Sant'Antimo i Verde, i Cerniamo a Crispano, e così in ogni territorio. Queste aziende ricevono liquidità dalla camorra con tassi bassi. Dal 2 al 4 per cento. Nessuna azienda più delle loro potrebbe accedere ai crediti bancari: producono per l'eccellenza italiana, per il mercato dei mercati. Ma sono fabbriche buie, e gli spettri non vengono ricevuti dai direttori di banca. La liquidità della camorra è anche l'unica possibilità per i dipendenti per accedere a un mutuo. Così, in comuni dove oltre il 40 per cento dei residenti vive di lavoro nero, sei famiglie su dieci riescono ugualmente a comprare una casa. Anche gli imprenditori che non soddisfano le esigenze delle griffe troveranno un acquirente. Venderanno tutto ai clan per farlo entrare nel mercato del falso. Tutta la moda delle passerelle, tutta la luce delle prime più mondane proviene da qui. Dal napoletano e dal Salente. I centri principali del tessile in nero. I paesi di Las Vegas e quelli "dintra lu Capu". Casarano, Tricase, Taviano, Melissano ossia Capo di Leuca, il basso Salente. Da qui partono. Da questo buco. Tutte le merci hanno origine oscura. È la legge del capitalismo. Ma osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco.

Tra gli operai dell'imprenditore vincente ne incontrai uno particolarmente abile. Pasquale. Aveva una figura allampanata. Alto, inagrissimo e un po' "scuffato": la sua altezza si piegava sulle spalle, dietro il collo. Un fisico a uncino. Lavorava su capi e disegni spediti direttamente dagli stilisti. Modelli inviati solo per le sue mani. Il suo stipendio non fluttuava ma variavano gli incarichi. In qualche modo aveva una certa aria di soddisfazione. Pasquale mi divenne simpatico subito. Appena fissai il suo nasone. Aveva una faccia anziana, anche se era un ragazzone. Una faccia ficcata sempre tra forbici, tagli di stoffe, polpastrelli strusciati sulle cuciture. Pasquale era uno dei pochi che poteva comprare direttamente la stoffa. Alcune griffe — fidandosi della sua capacità — gli facevano ordinare direttamente i materiali dalla Cina, e lui stesso poi ne verificava la qualità. Per questo motivo Xian e Pasquale si erano conosciuti. Al porto dove una volta ci trovammo a mangiare insieme. Finito il pranzo Xian e Pasquale si salutarono e noi subito salimmo in macchina. Stavamo andando verso il Vesuvio. Di solito si rappresentano i vulcani con colori scuri. Il Vesuvio è verde. Un manto infinito di muschio, sembra a vederlo da lontano. Prima però di prendere la strada per i paesi vesuviani, l'auto entrò nell'androne di una casa. Lì c'era Pasquale ad aspettarci. Non capivo cosa stesse accadendo. Uscì dalla sua auto e direttamente si ficcò nel portabagagli dell'auto di Xian. Tentai di chiedere spiegazioni:

"Cosa succede? Perché nel cofano?"

"Non preoccuparti. Adesso andiamo a Terzigno, alla fabbrica."

Alla guida si mise una specie di Minotauro. Era uscito dall'auto di Pasquale e sembrava sapesse a memoria cosa fare. Fece marcia indietro, uscì dal cancello, e prima di immettersi sulla strada cacciò una pistola. Una semiautomatica. Scarrellò e se la mise tra le gambe. Io non fiatai, ma il Minotauro, guardando nello specchietto retrovisore, vedeva che lo fissavo preoccupato:

"Una volta ci stavano facendo la pelle."

"Ma chi?"

Cercavo di farmi spiegare tutto dall'inizio.

"Sono quelli che non vogliono che i cinesi imparino a lavorare sull'alta moda. Quelli che dalla Cina vogliono le stoffe, punto e basta."

Non capivo. Continuavo a non capire. Intervenne Xian col suo solito tono tranquillizzante.

"Pasquale ci aiuta a imparare. A imparare a lavorare sui capi di qualità che ancora non ci affidano. Impariamo da lui come fare i vestiti…"

Il Minotauro, dopo la sintesi di Xian, cercò di motivare la pistola:

"Allora… una volta uno è sbucato lì, proprio lì vedi, in mezzo alla piazza, e ha sparato contro la macchina. Hanno colpito il motore e il tergicristalli. Se volevano farci fuori ci facevano fuori. Ma era un avvertimento. Se lo rifanno questa volta però sono pronto."

Il Minotauro poi mi spiegò che quando si guida tenere la pistola tra le cosce è la tecnica migliore, poggiarla sul cruscotto rallenterebbe i gesti, i movimenti per prenderla. Per arrivare a Terzigno la strada era in salita, la frizione gettava un odore puzzolentissimo. Piuttosto che temere per qualche sventagliata di mitra temevo che il rinculo dell'auto potesse far sparare la pistola nello scroto dell'autista. Arrivammo tranquillamente. Appena ferma la macchina Xian andò ad aprire il cofano. Pasquale uscì. Sembrava un kleenex appallottolato che tentava di stiracchiarsi. Mi si avvicinò e disse:

"Ogni volta questa storia, manco fossi un latitante. Però meglio che non mi vedono in macchina. Altrimenti…"

E fece il gesto della lama sulla gola. Il capannone era grande. Non enorme. Xian me lo descriveva orgoglioso. Era di sua proprietà, ma all'interno c'erano nove microfabbriche affidate a nove imprenditori cinesi. Entrando infatti sembrava di vedere una scacchiera. Ogni singola fabbrica aveva i propri operai e i propri banchi da lavoro ben circoscritti nei quadrati. A ogni fabbrica Xian aveva concesso lo stesso spazio delle fabbriche di Las Vegas. Ogni appalto lo concedeva per asta. Il metodo era lo stesso. Aveva deciso di non far stare i bambini nella zona di lavorazione, e i turni li aveva organizzati come facevano le fabbriche italiane. In più, quando lavoravano per altre aziende, non chiedevano liquidità anticipata. Xian insomma stava diventando un vero e proprio imprenditore della moda italiana.

Le fabbriche cinesi in Cina stavano facendo concorrenza alle fabbriche cinesi in Italia. E così Prato, Roma, e le China-town di mezza Italia stavano crollando miseramente: avevano avuto un boom di crescita così veloce da rendere la caduta ancora più repentina. In un unico modo si sarebbero potute salvare le fabbriche cinesi: fare diventare gli operai esperti dell'alta moda, capaci di lavorare in Italia sull'eccellenza. Imparare dagli italiani, dai padroncini sparsi per Las Vegas, divenire non più produttori di paccottiglia ma referenti nel sud Italia delle griffe. Prendere il posto, le logiche, gli spazi, i linguaggi delle fabbriche in nero italiane e cercare di fare lo stesso lavoro. Solo a un po' di meno e a qualche ora in più.

Pasquale cacciò della stoffa da una valigetta. Era un vestito che avrebbe dovuto tagliare e lavorare nella sua fabbrica. Invece fece l'operazione su una scrivania davanti a una telecamera, che lo riprendeva rimandando l'immagine su un enorme telone appeso alle sue spalle. Una ragazza con un microfono traduceva in cinese ciò che diceva. Era la sua quinta lezione.

"Dovete avere massima cura delle cuciture. La cucitura dev'essere leggera, ma non inesistente."

Il triangolo cinese. San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano. E il fulcro dell'imprenditoria tessile cinese. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione, e anche i primi assassinii. Qui è stato ammazzato Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali. Lo invitarono e poi gli spararono in testa. Wang era una testa di serpente, ovvero una guida. Legato ai cartelli criminali pechinesi che organizzano l'entrata clandestina di cittadini cinesi. Spesso le diverse teste di serpente si scontrano con i committenti di merce-uomo. Promettono agli imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua merce, sugli esseri umani. Ma a crepare non sono solo mafiosi. Fuori della fabbrica c'era una foto appesa su una porta. La foto di una ragazza piccola. Un bel viso, zigomi rosa, occhi neri che sembravano truccati. Era proprio posta nel punto in cui, nell'iconografia tradizionale, ci si aspetta il volto giallo di Mao. Era Zhang Xiangbi, una ragazza incinta uccisa e gettata in un pozzo qualche anno fa. Lei lavorava qui. Un meccanico di queste zone l'aveva adocchiata; lei passava davanti alla sua officina, a lui era piaciuta e questo credeva fosse condizione sufficiente per averla. I cinesi lavorano come bestie, strisciano come bisce, sono più silenziosi dei sordomuti, non possono avere forme di resistenza e di volontà. L'assioma nella mente di tutti, o quasi tutti, è questo. Zhang invece aveva resistito, aveva tentato di scappare quando il meccanico l'aveva avvicinata, ma non poteva denunciarlo. Era cinese, ogni gesto di visibilità è negato. Quando c'ha riprovato, questa volta l'uomo non ha sopportato il rifiuto. L'ha massacrata di calci sino a farla svenire e poi le ha squarciato la gola gettando il suo cadavere in fondo a un pozzo artesiano, lasciandolo gonfiare di umido e acqua per giorni. Pasquale conosceva questa storia, ne era rimasto sconvolto; ogni volta che teneva la sua lezione aveva infatti l'accortezza di andare dal fratello di Zhang e chiedere come stava, se aveva bisogno di qualcosa e si sentiva perennemente rispondere: "Niente, grazie".

Io e Pasquale legammo molto. Quando parlava dei tessuti sembrava un profeta. Nei negozi era pignolissimo, non era possibile neanche passeggiare, si piantava davanti a ogni vetrina insultando il taglio di una giacca, vergognandosi al posto del sarto per il disegno di una gonna. Era capace di prevedere la durata della vita di un pantalone, di una giacca, di un vestito. H numero esatto di lavaggi che avrebbero sopportato quei tessuti prima di ammosciarsi addosso. Pasquale mi iniziò al complicato mondo dei tessuti. Avevo cominciato anche a frequentare casa sua. La sua famiglia, i suoi tre bambini, sua moglie, mi davano allegria. Erano sempre attivi ma mai frenetici. Anche quella sera i bambini più piccoli correvano per la casa scalzi. Ma senza fare chiasso. Pasquale aveva acceso la televisione, cambiando i vari canali era rimasto immobile davanti allo schermo, aveva strizzato gli occhi sull'immagine come un miope, anche se ci vedeva benissimo. Nessuno stava parlando ma il silenzio sembrò farsi più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla televisione e si mise le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa grave e si tappa un urlo. In tv Angelina Jolie calpestava la passerella della notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star. Quel vestito l'aveva cucito Pasquale in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo che ogni sarto immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari, nelle sue ceramiche d'ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra muscolo, ossa e portamento. Era andato a prendersi la stoffa al porto, lo ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre, di vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano destinati, ma nessuno l'aveva avvertito.

In Giappone il sarto della sposa dell'erede al trono aveva ricevuto un rinfresco di Stato; un giornale berlinese aveva dedicato sei pagine al sarto del primo cancelliere donna tedesco. Pagine in cui si parlava di qualità artigianale, di fantasia, di eleganza. Pasquale aveva una rabbia, ma una rabbia impossibile da cacciare fuori. Eppure la soddisfazione è un diritto, se esiste un merito questo dev'essere riconosciuto. Sentiva in fondo, in qualche parte del fegato o dello stomaco, di aver fatto un ottimo lavoro e voleva poterlo dire. Sapeva di meritarsi qualcos'altro. Ma non gli era stato detto niente. Se n'era accorto per caso, per errore. Una rabbia fine a se stessa, che spunta carica di ragioni ma di queste non può far nulla. Non avrebbe potuto dirlo a nessuno. Neanche bisbigliarlo davanti al giornale del giorno dopo. Non poteva dire "Questo vestito l'ho fatto io". Nessuno avrebbe creduto a una cosa del genere. La notte degli Oscar, Angelina Jolie indossa un vestito fatto ad Arzano, da Pasquale. Il massimo e il minimo. Milioni di dollari e seicento euro al mese. Quando tutto ciò che è possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno, vengono fusi in un'azione, in una prassi, quando tutto questo non serve a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare a respirare. Nient'altro. Tanto nulla può mutare condizione: nemmeno un vestito fatto ad Angelina Jolie e indossato la notte degli Oscar.

Pasquale uscì di casa, non si curò neanche di chiudere la porta. Luisa sapeva dove andava, sapeva che sarebbe andato a Secondigliano e sapeva chi andava a incontrare. Poi si buttò sul divano e immerse la faccia nel cuscino come una bambina. Non so perché, ma quando Luisa si mise a piangere mi vennero in mente i versi di Vittorio Bodini. Una poesia che raccontava delle strategie che usavano i contadini del sud per non partire soldati, per non riempire le trincee della Prima guerra, alla difesa di confini di cui ignoravano l'esistenza. Faceva così:

Al tempo dell'altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia.

D pianto di Luisa mi sembrò anch'esso un giudizio sul governo e sulla storia. Non uno sfogo. Non un dispiacere per una soddisfazione non celebrata. Mi è sembrato un capitolo emendato del Capitale di Marx, un paragrafo della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, un capoverso della Teoria generale dell'occupazione di John Maynard Keynes, una nota del-YEtica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Una pagina aggiunta o sottratta'. Dimenticata di scrivere o forse scritta continuamente ma non nello spazio della pagina. Non era un atto disperato ma un'analisi. Severa, dettagliata, precisa, argomentata. Mi immaginavo Pasquale per strada, a battere i piedi per terra come quando ci si toglie la neve dagli scarponi. Come un bambino che si stupisce del perché la vita dev'essere tanto dolorosa. Sino ad allora ci era riuscito. Era riuscito a trattenersi, a fare il suo mestiere, a volerlo fare. E a farlo come nessun altro. Ma in quel momento, quando ha visto quel vestito, quel corpo muoversi dentro alle stoffe da lui carezzate si è sentito solo. Solissimo. Perché quando qualcuno conosce una cosa solo nel perimetro della propria carne e del proprio cranio è come se non la sapesse. E così il lavoro quando serve solo a galleggiare, a sopravvivere, solo a se stessi, allora è la peggiore delle solitudini.

Rividi Pasquale due mesi dopo. L'avevano messo sui camion. Trasportava ogni tipo di merce — legale e illegale — per conto delle imprese legate alla famiglia Licciardi di Secondi-gliano. O almeno così dicevano. Il miglior sarto sulla terra guidava i camion della camorra tra Secondigliano e il Lago di Garda. Mi offrì un pranzo, mi fece fare un giro nel suo enorme camion. Aveva le mani rosse e le nocche spaccate. Come a tutti i camionisti che per ore reggono i volanti, le mani gelano e la circolazione si ingolfa. Non aveva un viso sereno, aveva scelto quel lavoro per dispetto, per dispetto al suo destino, un calcio in culo alla sua vita. Ma non si poteva sempre sopportare, anche se mandare tutto al diavolo significava vivere peggio. Mentre mangiavamo si alzò per andare a salutare qualche suo compare. Lasciò il portafogli sul tavolo. Vidi uscire dal fagotto di cuoio una pagina di giornale piegata in quattro parti. Aprii. Era una foto, una copertina di Angelina Jolie vestita di bianco. Il completo cucito da Pasquale. La giacca portata direttamente sulla pelle. Bisognava avere il talento di vestirla senza nasconderla. Il tessuto doveva accompagnare il corpo, disegnarlo facendosi tracciare dai movimenti.

Sono sicuro che Pasquale, da solo, qualche volta, magari quando ha finito di mangiare, quando a casa i bambini si addormentano sfiancati dal gioco a pancia sotto sul divano, quando la moglie prima di lavare i piatti si mette al telefono con la madre, proprio in quel momento gli viene in mente di aprire il portafogli e fissare quella pagina di giornale. E sono sicuro che, guardando quel capolavoro che ha creato con le sue mani, Pasquale è felice. Una felicità rabbiosa. Ma questo non lo saprà mai nessuno.


Il Sistema

Era il Sistema ad aver alimentato il grande mercato internazionale dei vestiti, l'enorme arcipelago dell'eleganza italiana. Ogni angolo del globo era stato raggiunto dalle aziende, dagli uomini, dai prodotti del Sistema. Sistema, un termine qui a tutti noto, ma che altrove resta ancora da decifrare, uno sconosciuto riferimento per chi non conosce le dinamiche del potere dell'economia criminale. Camorra è una parola inesistente, da sbirro. Usata dai magistrati e dai giornalisti, dagli sceneggiatori. È una parola che fa sorridere gli affiliati, è un'indicazione generica, un termine da studiosi, relegato alla dimensione storica. Il termine con cui si definiscono gli appartenenti a un clan è Sistema: "Appartengo al Sistema di Secondigliano". Un termine eloquente, un meccanismo piuttosto che una struttura. L'organizzazione criminale coincide direttamente con l'economia, la dialettica commerciale è l'ossatura del clan.

Il Sistema di Secondigliano governava ormai tutta la filiera dei tessuti, la periferia di Napoli era il vero territorio produttivo, il vero centro imprenditoriale. Tutto quanto altrove non era possibile pretendere per via delle rigidità dei contratti, della legge, del copyright, a nord di Napoli si otteneva. La periferia strutturandosi intorno al potere imprenditoriale del clan permetteva di macinare capitali astronomici, inimmaginabili per qualsiasi agglomerato industriale legale. I clan avevano creato interi indotti industriali di produzione tessile e di lavorazione di scarpe e di pelletteria in grado di produrre vestiti, giacche, scarpe e camicie, identiche a quelle delle grandi case di moda italiane.

Godevano sul territorio di una manodopera di elevatissima qualità formatasi in decenni di lavoro sui grandi capi dell'alta moda, sui più importanti disegni degli stilisti italiani ed europei. Le stesse maestranze che avevano lavorato in nero per le più importanti griffe venivano assunte dai clan. Non solo la lavorazione era perfetta ma persino i materiali erano i medesimi, venivano comprati direttamente sul mercato cinese o erano quelli inviati dalle griffe alle fabbriche in nero che partecipavano alle aste. Gli abiti contraffatti dei clan secondiglianesi quindi non erano la classica merce tarocca, la pessima imitazione, il simile spacciato per autentico. Era una sorta di falso-vero. Al capo mancava solo l'ultimo passaggio, l'autorizzazione della casa madre, il suo marchio, ma quell'autorizzazione i clan se la prendevano senza chiedere niente a nessuno. Il cliente, del resto, in ogni parte del mondo era interessato alla qualità e al modello. La marca c'era, la qualità pure. Nulla di differente quindi. I clan secondiglianesi avevano creato una rete commerciale diffusa in tutto il mondo, in grado di acquistare intere filiere di negozi e così di dominare il mercato dell'abbigliamento internazionale. La loro organizzazione economica prevedeva anche il mercato dell'outlet. Produzioni di qualità appena più bassa avevano un altro mercato, quello dei distributori ambulanti africani, le bancarelle per le strade. Della produzione nulla veniva scartato. Dalla fabbrica al negozio, dal dettagliante alla distribuzione, partecipavano centinaia di ditte e di lavoratori, migliaia di braccia e di imprenditori che premevano per entrare nel grande affare tessile dei secondiglianesi.

Tutto era coordinato e gestito dal Direttorio. Sentivo continuamente citato questo termine. In ogni discussione da bar che vertesse su qualche affare o sul semplice e solito lamento per la mancanza di lavoro: "È il Direttorio che ha voluto così". "È il Direttorio che dovrebbe muoversi e fare le cose ancora più in grande." Sembravano frammenti di un discorso d'epoca napoleonica. Direttorio era il nome che i magistrati della DDA di Napoli avevano dato a una struttura economica, finanziaria e operativa composta da imprenditori e boss rappresentanti di diverse famiglie camorristiche dell'area nord di Napoli. Una struttura con compiti squisitamente economici. H Direttorio — come l'organo collegiale del Termidoro francese — rappresentava il reale potere dell'organizzazione più delle batterie di fuoco e dei settori militari.

Facevano parte del Direttorio i clan afferenti all'Alleanza di Secondigliano, il cartello camorristico che raccoglieva diverse famiglie: Licciardi, Contini, Maliardo, Lo Russo, Boc-chetti, Stabile, Prestieri, Bosti, e poi, a un livello di maggiore autonomia, i Sarno e i Di Lauro. Un territorio egemonizzato da Secondigliano, Scampia, Piscinola, Chiaiano, Miano, San Pietro a Paterno sino a Giugliano e Ponticelli. Una struttura federativa di clan che progressivamente si sono resi sempre più autonomi lasciando sfaldare definitivamente la struttura organica dell'Alleanza. Per la parte produttiva, nel Direttorio sedevano imprenditori di diverse aziende come la Valent, la Vip Moda, la Vocos, la Vitec, che confezionavano a Casoria, Arzano, Melito, i falsi prodotti di Valentino, Ferré, Versace, Armarti poi rivenduti in ogni angolo della terra. L'inchiesta del 2004, coordinata dal pm Filippo Beatrice della DDA di Napoli, aveva portato a scoprire l'intero impero economico della camorra napoletana. Tutto era partito da un dettaglio, uno di quelli che possono passare inosservati. Un boss di Secondigliano era stato assunto in un negozio di abbigliamento in Germania, il Nenentz Fashion di Dresdner Strasse 46, a Chemnitz. Un evento strano, insolito. In realtà il negozio, intestato a un prestanome, era di sua proprietà. Seguendo questa traccia venne fuori l'intera rete produttiva e commerciale dei clan secondiglianesi. Le indagini della DDA di Napoli erano riuscite, attraverso i pentiti e le intercettazioni, a ricostruire tutte le catene commerciali dei clan dai magazzini ai negozi.

Non c'era luogo in cui non avessero impiantato i loro affari. In Germania negozi e magazzini erano presenti ad Amburgo, Dortmund, Francoforte. A Berlino c'erano i negozi Laudano, Gneisenaustrasse 800 e Witzlebenstrasse 15, in Spagna al Paseo de la Ermita del Santo 30, a Madrid, e anche a Barcellona; in Belgio a Bruxelles, in Portogallo a Oporto e Boavista; in Austria a Vienna, in Inghilterra un negozio di giacche a Londra, in Irlanda a Dublino. In Olanda ad Amsterdam, e poi in Finlandia e Danimarca, a Sarajevo e a Belgrado. Attraversando l'Atlantico i clan secondiglianesi avevano investito sia in Canada, che negli Stati Uniti, arrivando in Sud America. Al 253 Jevlan Drive, a Montreal e a Wood-bridge, Ontario; la rete USA era immensa, milioni di jeans erano stati venduti nei negozi di New York, Miami Beach, New Jersey, Chicago, monopolizzando, quasi totalmente, il mercato in Florida. I negozianti americani, i proprietari dei centri commerciali volevano trattare esclusivamente con mediatori secondiglianesi. Capi d'abbigliamento dell'alta moda, dei grandi stilisti a prezzi accessibili, permettevano che i loro centri commerciali, le loro shopping mail si gonfiassero di persone. I marchi impressi sui tessuti erano perfetti.

In un laboratorio nella periferia di Napoli è stata scoperta una matrice per poter stampare la gorgone di Versace. A Se-condigliano si era sparsa la voce che il mercato americano era dominato dai vestiti del Direttorio, e questo avrebbe reso le cose più facili per i ragazzi che volevano andare in USA a fare gli agenti commerciali, seguendo il successo dei jeans della Vip moda che riempivano i negozi in Texas dove venivano venduti come jeans Valentino.

Gli affari si espandevano anche sull'altro emisfero. In Australia il Moda Italiana Emporio a New South Wales, 28 Ramsay Road, Five Dock, era divenuto uno dei più ricercati luoghi per comprare abiti eleganti, e anche a Sydney avevano magazzini e negozi. In Brasile, a Rio de Janeiro e Sào Paulo i secondiglianesi egemonizzavano il mercato dell'abbigliamento. A Cuba avevano in progetto di aprire un negozio per i turisti europei e americani, e in Arabia Saudita e nel Magh-reb avevano iniziato a investire da tempo. Il meccanismo di distribuzione che il Direttorio attuava era quello dei magazzini. Così li chiamavano nelle intercettazioni telefoniche: sono veri e propri centri di smistamento di uomini e merci. Depositi dove arrivavano ogni tipo di abiti. I magazzini erano il centro della raggiera commerciale dove giungevano gli agenti che prelevavano la merce da distribuire ai negozi dei clan o ad altri dettaglianti. La logica veniva da lontano. Dai magliari: i venditori napoletani che dopo la Seconda guerra avevano invaso mezzo mondo macinando chilometri, portando in borse stracariche calzini, camicie, giacche. Applicando su scala più vasta la loro antica esperienza mercantile, i magliari si sono trasformati in veri e propri agenti commerciali in grado di vendere ovunque: dai mercati rionali ai centri commerciali, dai parcheggi alle stazioni di servizio. I magliari più capaci potevano fare il salto di qualità e tentare di vendere grosse partite di vestiti direttamente ai dettaglianti. Alcuni imprenditori, secondo le indagini, organizzavano la distribuzione dei falsi, offrendo assistenza logistica agli agenti, ai "magliari". Anticipavano le spese di viaggio e di soggiorno, fornivano furgoni e vetture, in caso di arresto o sequestro dei capi garantivano l'assistenza legale. E ovviamente incassavano il danaro delle vendite. Affari che fatturavano per ogni famiglia giri annuali di circa trecento milioni di euro.

Le griffe della moda italiana hanno cominciato a protestare contro il grande mercato del falso gestito dai cartelli dei secondiglianesi soltanto dopo che l'Antimafia ha scoperto l'intero meccanismo. Prima di allora non avevano progettato una campagna pubblicitaria contro i clan, non avevano mai fatto denunce, né avevano informato la stampa rivelando i meccanismi di produzione parallela che subivano. È difficile comprendere perché le griffe non si siano mai esposte contro i clan. I motivi potrebbero essere molteplici. Denunciare il grande mercato significava rinunciare per sempre alla manodoperà a basso costo che utilizzavano in Campania e Puglia. I clan avrebbero chiuso i canali d'accesso al bacino delle fabbriche tessili del napoletano e ostacolato i rapporti con le fabbriche nell'est Europa e in Oriente. Denunciare avrebbe compromesso migliaia di contatti di vendita nei negozi, siccome moltissimi punti commerciali erano direttamente gestiti dai clan. La distribuzione, gli agenti, e i trasporti in molte parti sono dirette emanazioni delle famiglie. Denunciando avrebbero subito impennate dei prezzi nella distribuzione. I clan del resto non commettevano un crimine che andava a rovinare l'immagine delle griffe, ma ne sfruttavano semplicemente il carisma pubblicitario e simbolico. Producevano i capi non storpiandoli, non infangavano qualità o modelli. Riuscivano a non far concorrenza simbolica alle griffe, ma a diffondere sempre di più prodotti i cui prezzi di mercato li avevano resi proibitivi al grande pubblico. Diffondevano il marchio. Se quasi nessuno indossa più i capi, se finiscono per essere visibili solo addosso ai manichini di carne delle passerelle, il mercato si spegne lentamente e anche il prestigio si indebolisce. Del resto nelle fabbriche napoletane venivano prodotti abiti e pantaloni falsi di taglie che le griffe, per questioni d'immagine, non producono. I clan invece non si ponevano questioni d'immagine dinanzi alla possibilità di profitto. I clan secondiglianesi attraverso il falso-vero e il danaro del narcotraffico erano riusciti a comprare negozi e centri commerciali, dove sempre più spesso i prodotti autentici e quelli vero-falsi venivano mischiati, impedendo ogni distinzione. Il Sistema aveva in qualche modo sostenuto l'impero della moda legale, nonostante l'impennata dei prezzi, anzi sfruttando la crisi del mercato. Il Sistema, guadagnandoci cifre esponenziali, aveva continuato a diffondere ovunque nel mondo il made in Italy.

A Secondigliano avevano compreso che la capillare rete internazionale di punti vendita era il loro business più esclusivo, non secondario a quello della droga. Attraverso i canali dello smercio di abiti in molti casi si muovevano anche i percorsi del narcotraffico. La forza imprenditoriale del Sistema non si è fermata all'abbigliamento, ha investito anche nella tecnologia. Dalla Cina, secondo quanto emerge dall'inchiesta del 2004, i clan spostano e distribuiscono in Europa attraverso la loro rete commerciale diversi prodotti hi-tech. L'Europa aveva il contenitore, la marca, la fama, la pubblicità; la Cina aveva il contenuto, il prodotto in sé, la produzione a basso costo, i materiali a prezzi irrisori. Il Sistema camorra ha unito le due cose risultando vincente su ogni mercato. I clan avevano compreso che il sistema economico era allo spasmo e, seguendo i percorsi delle imprese che prima investivano nelle periferie del mezzogiorno e poi lentamente si spostavano in Cina, erano riusciti a individuare i distretti industriali cinesi che producevano per le grandi case di produzione occidentali. Avevano così pensato di ordinare partite di prodotti ad alta tecnologia per rivenderli in Europa con ovviamente un marchio falso che li avrebbe resi più appetibili. Ma non si sono fidati nell'immediato: come per una partita di coca, hanno prima provato la qualità dei prodotti che gli vendevano le fabbriche cinesi a cui si erano rivolti. Soltanto dopo aver testato sul mercato la validità dei prodotti, diedero vita a uno dei traffici intercontinentali più floridi che la storia criminale abbia mai conosciuto. Macchine fotografiche digitali e videocamere, ma anche utensili per i cantieri: trapani, flex, martelli pneumatici, smerigliatrici, levigatrici. Tutti prodotti commercializzati con i marchi Bosch, Hammer, Hilti. Il boss di Secon-digliano Paolo Di Lauro aveva deciso di investire in macchine fotografiche arrivando in Cina dieci anni prima che la Confindustria stringesse rapporti commerciali con l'Oriente. Sul mercato dell'est Europa, migliaia di modelli Canon e Hitachi vennero venduti dal clan Di Lauro. Prodotti che prima erano appannaggio della borghesia medio-alta divennero, attraverso l'importazione della camorra napoletana, accessibili a un pubblico più vasto. I clan si appropriavano solo del marchio finale, per meglio introdursi nel mercato, ma il prodotto era praticamente il medesimo.

L'investimento in Cina dei clan Di Lauro e Contini — messo a fuoco nell'inchiesta del 2004 della DDA di Napoli — dimostra la lungimiranza imprenditoriale dei boss. La grande impresa era terminata e così si erano sfaldati gli agglomerati criminali. La Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo degli anni '80 era ima sorta di azienda enorme, un agglomerato centralizzato. Poi venne la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, strutturata in maniera federativa, con famiglie economicamente autonome e unite da interessi operativi congiunti, ma anch'essa elefantiaca.

Ora invece la flessibilità dell'economia ha determinato che piccoli gruppi di boss manager con centinaia di indotti, ognuno con compiti precisi, si siano imposti sull'arena economica e sociale. Una struttura orizzontale, molto più flessibile di Cosa Nostra, molto più permeabile a nuove alleanze della 'ndrangheta, capace di alimentarsi continuamente di nuovi clan, di nuove strategie, gettandosi sui mercati d'avanguardia. Decine di operazioni di polizia negli ultimi anni hanno dimostrato che sia la mafia siciliana che la 'ndrangheta hanno avuto necessità di mediare con i clan napoletani per l'acquisto di grandi partite di droga. I cartelli napoletani e campani fornivano cocaina ed eroina a prezzi convenienti, risultando in molti casi più comodi ed economici del contatto diretto con trafficanti sudamericani e albanesi.

Nonostante la ristrutturazione dei clan, per numero di affiliati la camorra è l'organizzazione criminale più corposa d'Europa. Per ogni affiliato siciliano ce ne sono cinque campani, per ogni 'ndranghetista addirittura otto. Il triplo, il quadruplo delle altre organizzazioni. Nel cono d'ombra dell'attenzione data perennemente a Cosa Nostra, nell'attenzione ossessiva riservata alle bombe della mafia, la camorra ha trovato la giusta distrazione mediatica per risultare praticamente sconosciuta. Con la ristrutturazione postfordista dei gruppi criminali, i clan di Napoli hanno tagliato le elargizioni di massa. L'aumento della pressione micrc>cilrninale sulla città trova ragione in quest'interruzione di stipendi data dalla progressiva ristrutturazione dei cartelli criminali avvenuta negli ultimi anni. I clan non hanno più necessità di un controllo capillare militarizzato, o quantomeno non ne hanno sempre bisogno. Gli affari principali dei gruppi camorristici avvengono fuori Napoli. Come dimostrano le indagini della Procura Antimafia di Napoli, la struttura federale e flessibile dei gruppi camorristici ha trasformato completamente il tessuto delle famiglie: oggi piuttosto che di alleanze diplomatiche, di patti stabili, bisognerebbe riferirsi ai clan come a comitati d'affari. La flessibilità della camorra è la risposta alla necessità delle imprese di far muovere capitale, di fondare e chiudere società, di far circolare danaro e di investire con agilità in immobili senza l'eccessivo peso della scelta territoriale o della mediazione politica. Ora i clan non hanno bisogno di costituirsi in macrocorpi. Un gruppo di persone oggi può decidere di mettersi insieme, rapinare, sfondare vetrine, rubare senza subire come in passato o il massacro o l'inglobamento nel clan. Le bande che imperversano per Napoli non sono composte esclusivamente da individui che fanno crimine per aumentare il volume della propria borsa, per arrivare a comprare l'auto di lusso o riuscire a vivere comodamente. Sono spesso coscienti che riunendosi e aumentando la quantità e la violenza delle proprie azioni, possono migliorare la propria capacità economica divenendo interlocutori dei clan o loro indotti. Il tessuto della camorra si compone sia di gruppi che iniziano a succhiare come pidocchi voraci frenando ogni percorso economico e altri che invece come avanguardie velocissime spingono il proprio business verso il massimo grado di sviluppo e commercio. Tra queste due cinetiche opposte, eppure complementari, si slabbra e lacera l'epidermide della città. A Napoli la ferocia è la prassi più complicata e conveniente per cercare di diventare imprenditore vincente, l'aria da città in guerra che si assorbe da ogni poro ha l'odore rancido del sudore, come se le strade fossero delle palestre a cielo aperto dove esercitare la possibilità di saccheggiare, rubare, rapinare, provare la ginnastica del potere, lo spinning della crescita economica.

Il Sistema è cresciuto come una pasta messa a lievitare nei cassoni di legno della periferia. La politica comunale e regionale ha creduto di contrastarla nella misura in cui non faceva affari con i clan. Ma non è bastato. Ha trascurato l'attenzione al fenomeno, sottovalutato il potere delle famiglie considerandolo come un degrado di periferia, e così la Campania ha raggiunto il primato di comuni sotto osservazione per infiltrazione camorristica. Ben settantuno comuni in Campania sono stati sciolti dal 1991 a oggi. Solo nella provincia di Napoli sono stati sciolti i consigli comunali di: Pozzuoli, Quarto, Marano, Melito, Portici, Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano, San Gennaro Vesuviano, Terzigno, Calandrino, Sant'Antimo, Turino, Crispano, Casamarciano, Nola, Liveri, Boscoreale, Poggiomarino, Pompei, Ercolano, Pimonte, Casola di Napoli, Sant'Antonio Abate, Santa Maria la Carità, Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Brusciano, Acerra, Casoria, Pomiglia-no d'Arco, Frattamaggiore. Un numero elevatissimo che supera di molto i comuni sciolti nelle altre regioni italiane: quarantaquattro in Sicilia, trentaquattro in Calabria, sette in Puglia. Soltanto nove comuni su novantadue della provincia di Napoli non hanno mai avuto commissariamenti, inchieste, monitoraggi. Le aziende dei clan hanno determinato piani regolatori, si sono infiltrate nelle ASL, hanno acquistato terreni un attimo prima che fossero resi edificabili e poi costruito in subappalto centri commerciali, hanno imposto feste patronali e le proprie imprese multiservice, dalle mense alle ditte di pulizia, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti.

Mai si era avuta una così grande e schiacciante presenza degli affari criminali nella vita economica di un territorio come negli ultimi dieci anni in Campania. I clan di camorra non hanno bisogno dei politici come i gruppi mafiosi siciliani, sono i politici che hanno necessità estrema del Sistema. Si è innescata in Campania una strategia che ha lasciato le strutture politiche più visibili e mediaticamente più esposte immuni formalmente da connivenze e attiguità, ma in provincia, nei paesi dove i clan hanno bisogno di sostegni militari, di coperture alla latitanza, di manovre economiche più esposte, le alleanze tra politici e famiglie camorriste sono più strette. Al potere i clan di camorra giungono attraverso l'impero dei loro affari. E questa è condizione sufficiente per dominare su tutto il resto.

Gli artefici della trasformazione imprenditorial-criminale della periferia di Secondigliano e Scampia erano stati i Licciardi, la famiglia che ha la sua centrale operativa alla Masseria Cardone, un vero e proprio feudo inespugnabile. Gennaro Licciardi, "'a scigna": è stato lui il primo boss che ha determinato la metamorfosi di Secondigliano. Fisicamente somigliava davvero a un gorilla o a un orango. Licciardi, alla fine degli anni '80, era luogotenente a Secondigliano di Luigi Giuliano, il boss di Forcella, nel cuore di Napoli. La periferia era considerata zona infame, dove non ci sono negozi, non nascono centri commerciali, un territorio ai margini d'ogni ricchezza dove le sanguisughe delle bande estorsive non potevano alimentarsi di percentuali. Ma Licciardi comprese che poteva divenire uno snodo per le piazze di spaccio, un porto franco per i trasporti, una raccolta di manovalanza a prezzo bassissimo. Un territorio dove presto sarebbero spuntate le impalcature dei nuovi agglomerati urbani della città in espansione. Gennaro Licciardi non riuscì ad attuare pienamente la sua strategia. Morì a trentotto anni, in carcere, per una banalissima ernia ombelicale, una fine impietosa per un boss. Ancor più perché quando era più giovane nelle camere di sicurezza del Tribunale di Napoli, in attesa di un'udienza, era stato coinvolto in una rissa tra affiliati alla NCO di Cutolo e alla Nuova Famiglia, i due grandi fronti della camorra, e si era beccato ben sedici coltellate su tutto il corpo. Ma ne era uscito vivo.

La famiglia Licciardi aveva trasformato un luogo che era soltanto serbatoio di manovalanza in una macchina per narcotraffico: in imprenditoria criminale internazionale. Migliaia di persone vennero cooptate, affiliate, stritolate nel Sistema. Tessile e droga. Investimenti nel commercio prima d'ogni cosa. Dopo la morte di Gennaro "'a scigna", i fratelli Pietro e Vincenzo presero il potere militare, ma era Maria detta "'a piccerella" che deteneva il potere economico del clan.

Dopo la caduta del muro di Berlino, Pietro Licciardi trasferì la parte maggiore dei propri investimenti, legali e illegali, a Praga e Brno. La Repubblica Ceca fu completamente egemonizzata dai secondiglianesi che, utilizzando la logica della periferia produttiva, iniziarono a investire per conquistare i mercati in Germania. Pietro Licciardi aveva un profilo da manager, ed era chiamato dagli imprenditori suoi alleati "l'imperatore romano" per il suo atteggiamento autoritario e tracotante nel credere l'intero globo un'estensione di Secon-digliano. Aveva aperto un negozio di vestiti in Cina, un pied-à-terre commerciale a Taiwan che gli avrebbe permesso di scalare anche il mercato interno cinese e non di sfruttare soltanto la manodopera. Venne arrestato a Praga nel giugno del 1999. Militarmente era stato spietato, fu accusato di aver ordinato di mettere l'autobomba in via Cristallini, alla Sanità, nel 1998 durante i conflitti tra i clan della periferia e quelli del centro storico. Una bomba che doveva punire l'intero quartiere e non soltanto i responsabili del clan. Quando l'auto saltò in aria, lamiere e vetri investirono come priettili tredici persone. Mancarono però prove sufficienti per condannarlo e venne assolto. In Italia il clan Licciardi ha dislocato la parte maggiore delle proprie attività imprenditoriali nel settore tessile e commerciale a Castelnuovo del Garda in Veneto. Non lontano, a Portogruaro, venne arrestato Vincenzo Pernice, il cognato di Pietro Licciardi e con lui alcuni fiancheggiatori del clan, tra i quali Renato Peluso, residente proprio a Castelnuovo del Garda. Commercianti e imprenditori veneti legati ai clan hanno coperto la latitanza di Pietro Licciardi, non più in concorso esterno quindi ma pienamente inquadrati nell'organizzazione imprenditorial-criminale. I Licciardi avevano al fianco di una articolata capacità imprenditoriale anche una struttura militare. Dopo l'arresto di Pietro e Maria, il clan attualmente è retto da Vincenzo, il boss latitante che coordina sia l'apparato militare che quello economico.

Il clan è sempre stato particolarmente vendicativo. Vendicarono pesantemente la morte di Vincenzo Esposito, nipote di Gennaro Licciardi, ucciso a ventuno anni nel 1991, al rione Monterosa, territorio dei Prestieri, una delle famiglie afferenti all'Alleanza. Esposito lo chiamavano "il principino" per il suo essere nipote dei sovrani di Secondigliano. Era andato in moto a chiedere spiegazione di una violenza su alcuni suoi amici. Indossava il casco, lo abbatterono scambiandolo per un killer. I Licciardi accusarono i Di Lauro, di cui i Prestieri erano stretti alleati, di aver fornito i killer per l'eliminazione e, secondo il pentito Luigi Giuliano, fu proprio Di Lauro a organizzare l'omicidio del "principino" che si stava ingerendo troppo in certi affari. Qualunque sia stato il movente, il potere dei Licciardi era così inattaccabile che obbligarono i clan coinvolti a purgarsi dei possibili responsabili della morte di Esposito. Fecero partire una mattanza che in pochi giorni uccise quattordici persone a vario titolo coinvolte, direttamente e indirettamente, nell'omicidio del loro giovane erede.

Il Sistema era riuscito anche a trasformare la classica estorsione e le logiche d'usura. Compresero che i commercianti avevano bisogno di liquidità, che le banche erano sempre più rigide e si inserirono nel rapporto tra fornitori e negozianti. I commercianti che devono acquistare i propri articoli possono pagarli in contanti, oppure con cambiali. Se pagano in contanti il prezzo è minore, dalla metà ai due terzi dell'importo che pagherebbero in cambiali. In questa situazione quindi il commerciante ha tutto l'interesse a pagare in contanti, e la ditta venditrice ha lo stesso interesse. Il contante viene offerto dal clan a tassi mediamente del 10 per cento. In questo modo si crea automaticamente un rapporto societario di fatto tra il commerciante acquirente, il venditore e il finanziatore occulto, ossia i clan. I proventi dell'attività vengono divisi al 50 per cento ma può accadere che l'indebitamento faccia entrare percentuali sempre più ampie nelle casse del clan e che alla fine il commerciante diventi un semplice prestanome che percepisce uno stipendio mensile. I clan non sono come le banche che rispondono al debito arraffando tutto, il bene lo utilizzano lasciando che ci lavorino le persone con esperienza che hanno perso la proprietà. Secondo quanto emerge dalle dichiarazioni di un pentito, nell'inchiesta della DDA del 2004, il 50 per cento dei negozi solo a Napoli è eterodiretto dalla camorra.

Ormai l'estorsione mensile, quella alla Mi manda Picone, il film di Nanni Loy, del porta a porta a Natale, Pasqua e Ferragosto è una prassi da clan straccione, usata da gruppi che cercano di sopravvivere, incapaci di fare impresa. Tutto è cambiato. I Nuvoletta di Marano, periferia a nord di Napoli, avevano innescato un meccanismo più articolato ed efficiente di racket fondato sul vantaggio reciproco e sull'imposizione delle forniture. Giuseppe Gala detto "showman" era diventato uno dei più apprezzati e richiesti agenti nel business alimentare. Era agente della Bauli e della Von Holten e attraverso la Vip Alimentari aveva conquistato un posto di esclusivista della Par-malat per la zona di Marano. In una conversazione telefonica depositata dai magistrati della DDA di Napoli nell'autunno del 2003, Gala si vantava della sua qualità di agente: "Li ho bruciati tutti, siamo i più forti sul mercato".

Le ditte che trattava infatti avevano la certezza di essere presenti su tutto il territorio da lui coperto e la garanzia di un elevato numero di ordinazioni. D'altro canto i commercianti e i supermarket erano ben felici di poter interloquire con Peppe Gala poiché forniva sconti assai più alti sulla merce, avendo possibilità di fare pressione sulle aziende e sui fornitori. Essendo un uomo del Sistema, "Showman" poteva assicurare, controllando anche i trasporti, prezzi favorevoli e arrivi tempestivi.

Il clan non impone con l'intimidazione il prodotto che decide di "adottare" ma con la convenienza. Le aziende rappresentate da Gala dichiaravano di essere state vittime del racket della camorra, di aver subito il diktat dei clan. Ma osservando i dati commerciali — rintracciabili nei dati di Conf-commercio — era possibile osservare che le ditte che si erano rivolte a Gala nel lasso di tempo che va dal 1998 al 2003 hanno avuto un incremento di vendite annuale che va dal 40 all'80 per cento. Con le sue strategie economiche, Gala riusciva persino a risolvere i problemi di liquidità monetaria dei clan. Arrivò a imporre un sovrapprezzo sul panettone nel periodo natalizio per poter pagare la tredicesima alle famiglie dei detenuti affiliati ai Nuvoletta. H successo però fu fatale a "showman". Tentò, secondo il racconto di alcuni pentiti, di diventare esclusivista anche nel mercato della droga. La famiglia Nuvoletta non ne volle sapere. Lo trovarono nel gennaio del 2003 bruciato vivo nella sua auto.

I Nuvoletta sono l'unica famiglia esterna alla Sicilia che siede nella cupola di Cosa Nostra, non semplici alleati o affiliati, ma strutturalmente legati ai Corleonesi, uno dei gruppi più potenti in seno alla mafia. Così potente che i siciliani — secondo le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca — quando iniziarono a organizzarsi per far esplodere bombe in mezza Italia alla fine degli anni '90, chiesero il parere dei mara-nesi e la loro collaborazione. I Nuvoletta ritennero l'idea di spargere bombe una strategia folle, legata piuttosto a favori politici, che a effettivi risultati militari. Rifiutarono di partecipare agli attentati e di dare sostegno logistico agli attentatori. Un rifiuto espresso senza subire alcun tipo di ritorsione. Lo stesso Totò Riina implorò il boss Angelo Nuvoletta di intervenire per corrompere i magistrati del suo primo maxiprocesso, ma anche in questo caso i maranesi non scesero in aiuto dell'ala militare dei corleonesi. Negli anni della guerra all'interno della Nuova Famiglia, dopo la vittoria su Cutolo, i Nuvoletta mandarono a chiamare l'assassino del giudice Falcone, Giovanni Brusca, il boss di San Giovanni Jato, per fargli eliminare cinque persone in Campania e scioglierne due nell'acido. Lo chiamarono come si chiama un idraulico, lui stesso ha rivelato ai magistrati la strategia per sciogliere Luigi e Vittorio Vastarella:


Impartimmo istruzioni affinché fossero acquistati cento litri di acido muriatico, servivano contenitori metallici da duecento litri, normalmente destinati alla conservazione dell'olio e tagliati nella parte superiore. Secondo la nostra esperienza era necessario che in ogni contenitore fossero versati cinquanta litri di acido, ed essendo prevista la soppressione di due persone facemmo preparare due bidoni.

I Nuvoletta, federati con i sottoclan dei Nettuno e dei Polverino, avevano anche rinnovato il meccanismo degli investimenti nel narcotraffico, creando un vero e proprio sistema di azionariato popolare della cocaina. La DPA di Napoli in un'indagine del 2004 aveva dimostrato che il clan attraverso degli intermediari aveva permesso a tutti di partecipare all'acquisto delle partite di coca. Pensionati, impiegati, piccoli imprenditori davano danaro ad alcuni agenti che poi lo reinvestivano per l'acquisto di partite di droga. Investire una pensione di seicento euro in coca dopo un mese significava ricevere il doppio. Non c'erano garanzie oltre la parola dei mediatori, ma l'investimento era sistematicamente vantaggioso. H rischio di perdere dei soldi non era paragonabile al profitto ricevuto, soprattutto se comparato agli interessi che in alternativa avrebbero ricevuto se avessero versato il danaro in banca. Gli unici svantaggi erano organizzativi, i panetti di coca spesso venivano fatti custodire dai piccoli investitori, un modo per dislocare i depositi e rendere praticamente impossibile i sequestri. I clan camorristici erano così riusciti ad allargare il giro di capitali da investire, coinvolgendo anche una piccola borghesia lontana dai meccanismi criminali ma stanca di affidare alle banche i propri averi. Avevano anche metamorfiz-zato la distribuzione al dettaglio. I Nuvoletta-Polverino fecero dei barbieri e dei centri abbronzanti i nuovi dettaglianti della coca. I profitti del narcotraffico venivano poi reinvestiti, attraverso alcuni prestanome, nell'acquisto di appartamenti, alberghi, quote di società di servizi, scuole private e perfino gallerie d'arte.

La persona che coordinava i capitali più consistenti dei Nuvoletta era, secondo le accuse, Pietro Nocera. Un manager tra i più potenti del territorio, girava sistematicamente in Ferrari e disponeva di un aereo personale. Il Tribunale di Napoli nel 2005 ha disposto il sequestro di beni immobili e società per oltre trenta milioni di euro; in realtà soltanto il 5 per cento del suo impero economico. Il collaboratore di giustizia Salvatore Speranza ha rivelato che Nocera è l'amministratore di tutti i soldi del clan Nuvoletta e cura "l'investìmento dei soldi dell'organizzazione nei terreni e nell'edilizia in genere". I Nuvoletta investono in Emilia Romagna, Veneto, Marche, e Lazio attraverso l'Enea, cooperativa di produzione e lavoro gestita da Nocera anche durante la latitanza. Fatturavano cifre elevatissime, dato che l'Enea aveva ottenuto appalti pubblici per milioni di euro a Bologna, Reggio Emilia, Modena, Venezia, Ascoli Piceno e Fresinone. Gli affari dei Nuvoletta da anni si erano dislocati anche in Spagna. Tenerife era la città dove Nocera si era recato per contestare ad Armando Orlando, considerato dagli investigatori ai vertici del clan, le spese sostenute nella costruzione di un imponente complesso edilizio, il Marina Palace. Nocera gli contestò di star spendendo troppo perché usavano materiali troppo costosi. Il Marina Palace l'ho visto soltanto sul web, il suo sito è eloquente, un enorme agglomerato turistico, piscine e cemento che i Nuvoletta avevano costruito per partecipare e alimentare il business del turismo in Spagna.

Paolo Di Lauro veniva dalla scuola dei maranesi, la sua carriera criminale iniziò come loro luogotenente. Lentamente Di Lauro si allontanò dai Nuvoletta divenendo, negli anni '90, braccio destro del boss di Castellammare Michele D'Alessandro, e occupandosi direttamente della sua latitanza. Il suo progetto era quello di poter coordinare le piazze di spaccio con la stessa logica con cui aveva gestito le catene di negozi e le fabbriche di giacche. Il boss comprese che, dopo la morte in carcere di Gennaro Licciardi, il territorio di Napoli

nord poteva divenire il più grande mercato di droga a cielo aperto che si era mai visto in Italia e in Europa. Tutto gestito dai suoi uomini. Paolo Di Lauro aveva sempre agito silenziosamente con qualità più finanziarie che militari, non invadeva apparentemente i territori di altri boss, non veniva rintracciato da indagini e perquisizioni.

Tra i primi a svelare rorganigramma della sua organizzazione c'era stato il pentito Gaetano Conte. Un pentito dalla storia particolarmente interessante. Era un carabiniere, era stato in servizio a Roma, guardia del corpo di Francesco Cos-siga. Le sue qualità di uomo della scorta di un Presidente della Repubblica l'avevano promosso a sodale del boss Di Lauro. Conte, dopo aver gestito per conto del clan estorsioni e narcotraffico, aveva deciso di collaborare con i magistrati con dovizia di informazioni e particolari che solo un carabiniere avrebbe saputo dare.

Paolo Di Lauro è conosciuto come "Ciruzzo 'o milionario": un contronome ridicolo, ma soprannomi e contronomi hanno una precisa logica, una sedimentazione calibrata. Ho sempre sentito chiamare gli appartenenti al Sistema con il soprannome, al punto che il nome e il cognome in molti casi arriva a diluirsi, a essere dimenticato. Non si sceglie un proprio contronome, spunta d'improvviso da qualcosa, per qualche motivo, e qualcuno lo riprende. Così per mero fato nascono i soprannomi di camorra. Paolo Di Lauro è stato ribattezzato "Ciruzzo 'o milionario" dal boss Luigi Giuliano che lo vide una sera presentarsi al tavolo da poker mentre lasciava cadere dalle tasche decine di biglietti da centomila lire. Giuliano esclamò: "E chi è venuto, Ciruzzo 'o milionario?". Un nome uscito in una serata brilla, un attimo, una trovata giusta.

Ma il florilegio di contronomi è infinito. Carmine Alfieri "'o 'ntufato", l'arrabbiato, il boss della Nuova Famiglia, venne chiamato così per il ghigno di insoddisfazione e rabbia sempre presente sul suo viso. Poi ci sono i contronomi che provengono dai soprannomi degli avi di famiglia e che si appiccicano anche agli eredi, come il boss Mario Fabbrocino detto "'o graunar'", il carbonaio: i suoi avi vendevano il carbone e tanto era bastato per definire così il boss che aveva colonizzato l'Argentina con i capitali della camorra vesuviana. Ci sono soprannomi dovuti alle passioni dei singoli camorristi come Nicola Luongo, detto "'o wrangler", un affiliato fissato con i fuoristrada Wrangler, divenuti veri e propri modelli prediletti dagli uomini di Sistema. Poi i contronomi nati sulla scorta di particolari tratti fisici, Giovanni Birra "'a mazza" per il suo corpo secco e lungo, Costantino Iacomino "capaianca" per i capelli bianchi che gli spuntarono prestissimo in testa, Ciro Mazzarella "'o scellone" dalle scapole visibili, Nicola Pianese chiamato "'o mussuto" ossia il baccalà per la sua pelle bianchissima, Rosario Privato "mignolino", Dario De Simone "'o nano" il nano. Contronomi inspiegabili come Antonio Di Fraia detto "'u urpacchiello" un termine che sta per frustino, di quelli ricavati essiccando il pene dell'asino. E poi Carmine Di Girolamo detto "'o sbirro" per la capacità di coinvolgere nelle sue operazioni poliziotti e carabinieri. Ciro Monteriso "'o mago" per chissà quale ragione. Pasquale Gallo di Torre Annunziata dal viso grazioso detto "'o bellillo", i Lo Russo definiti "i capitoni" come i Maliardo i "Carlantoni" e i Belforte i "Mazzacane" e i Piccolo i "Quaq-quaroni", vecchi nomi dei ceppi di famiglia. Vincenzo Mazzarella "'o pazzo" e Antonio Di Biasi, soprannominato "pavesino" perché quando usciva a fare operazioni militari si portava sempre dietro i biscotti pavesini da sgranocchiare. Domenico Russo, soprannominato "Mimi dei cani" boss dei Quartieri Spagnoli, chiamato così perché da ragazzino vendeva cuccioli di cane lungo via Toledo. E poi Antonio Carlo D'Onofrio "Carlucciello 'o mangiavatt'" ossia Carletto il mangiagatti, leggenda vuole che avesse imparato a sparare usando i gatti randagi come bersaglio. Gennaro Di Chiara che scattava violentemente ogni qual volta qualcuno gli toccava il viso era detto "file scupierto", filo scoperto. Poi ci sono contronomi dovuti a espressioni onomatopeiche intraducibili come Agostino Tardi detto "picc pocc" o Domenico di Ronza "scipp scipp" o la famiglia De Simone detta "quaglia quaglia", gli Aversano detti "zig zag", Raffaele Giuliano '"o zuì", Antonio Bifone "zuzù".

Gli è bastato ordinare spesso la stessa bevanda e Antonio Di Vicino è divenuto "lemon", Vincenzo Benitozzi con un viso tondo veniva chiamato "Cicciobello", Gennaro Lauro, forse per il numero civico dove abitava, detto "'o diciassette", poi Giovanni Aprea "punt 'e curtiello" perché il nonno, nel 1974, partecipò al film di Pasquale Squitieri I guappi, interpretando il ruolo del vecchio camorrista che allenava i "guaglioni" a tirare di coltello.

Ci sono invece contronomi calibrati che possono fare la fortuna o sfortuna mediatica di un boss come quello celebre di Francesco Schiavone detto Sandokan, un contronome feroce scelto per la sua somiglianza con Kabir Bedi, l'attore che interpretò l'eroe salgariano. Pasquale Tavoletta detto Zorro per la somiglianza, a sua volta, con l'attore del telefilm televisivo, o quello di Luigi Giuliano "'o re", detto anche Lovigino, contronome ispirato dalle sue amanti americane che nell'intimità gli sussurravano "I love Luigino". Da qui Lovigino. Il contronome di suo fratello Carmine "'o lione", e quello di Francesco Verde alias "'o negus" come l'imperatore di Etiopia per la sua ieraticità e per il suo essere boss da lungo tempo. Mario Schiavone chiamato "Menelik" come il famoso imperatore etiope che si oppose alle truppe italiane, e Vincenzo Carobene detto "Gheddafi" per la sua straordinaria somiglianza con il figlio del generale libico. Il boss Francesco Bidognetti è conosciuto come "Cicciotto di Mezzanotte", un contronome nato dal fatto che chiunque si fosse frapposto tra lui e un suo affare avrebbe visto calare su di sé la mezzanotte anche all'alba. Qualcuno sostiene che il soprannome gli fu affibbiato perché da ragazzo aveva iniziato la scalata ai vertici del clan proteggendo le puttane. Tutto il suo clan veniva definito ormai "il clan dei Mezzanotte".

Quasi tutti i boss hanno un contronome: è in assoluto il tratto unico, identificatore. Il soprannome per il boss è come le stimmate per un santo. La dimostrazione dell'appartenenza al Sistema. Tutti possono essere Francesco Schiavone, ma solo uno sarà Sandokan, tutti possono chiamarsi Carmine Alfieri, ma uno solo si girerà quando verrà chiamato "'o 'ntufato", chiunque può chiamarsi Francesco Verde, solo uno risponderà al nome di "'o negus", tutti possono essere stati iscritti all'anagrafe come Paolo Di Lauro, uno solo sarà "Ciruzzo 'o milionario".

Ciruzzo aveva deciso per un'organizzazione silenziosa dei suoi affari, con un profilo militare capillare ma a bassa intensità. Era stato un boss sconosciuto per lungo tempo persino alle forze di polizia. L'unica volta, prima di darsi alla latitanza, che era stato convocato dai magistrati era stato a causa di suo figlio Nunzio che aveva aggredito un professore perché aveva osato rimproverarlo. Paolo Di Lauro era in grado di connettersi direttamente ai cartelli sudamericani e di creare reti di grossa distribuzione attraverso l'alleanza con i cartelli albanesi. La strada del narcotraffico negli ultimi anni ha rotte precise. La coca parte dal Sudamerica, giunge in Spagna e qui o viene direttamente prelevata, o viene smistata in Albania via terra. L'eroina invece parte dall'Afghanistan e prende le strade della Bulgaria, del Kosovo, dell'Albania; l'hashish e la marijuana partono dal Maghreb e hanno la mediazione dei turchi e degli albanesi nel Mediterraneo. Di Lauro era riuscito ad avere contatti diretti per ogni accesso ai mercati delle droghe, era riuscito dopo una strategia certosina a divenire a pieno titolo imprenditore delle pelli e del narcotraffico. Aveva fondato nel 1989 la celebre impresa Confezioni Valent di Paolo Di Lauro & C, che secondo lo statuto avrebbe dovuto terminare le sue attività nel 2002, ma nel novembre 2001 fu sequestrata dal Tribunale di Napoli. La Valent si era aggiudicata diversi appalti in tutt'Italia per l'installazione di cash and carry. Aveva come oggetto sociale un enorme potenziale di attività: dal commercio di mobili al settore tessile, dalle confezioni al commercio delle carni e alla distribuzione delle acque minerali. La Valent forniva pasti a diverse strutture pubbliche e private, e provvedeva alla macellazione di carni di qualsiasi specie. Inoltre, sempre secondo l'oggetto sociale, la Valent di Paolo Di Lauro si poneva l'obiettivo di costruire attività alberghiere, catene di ristorazione, ristoranti e quanto "opportuno per il tempo libero". Nello stesso tempo dichiarava che: "la società potrà acquistare terreni, costruire sia direttamente che indirettamente fabbricati, centri commerciali o case per civili abitazioni". La licenza commerciale fu rilasciata dal comune di Napoli nel '93, la società era amministrata dal figlio di Di Lauro, Cosimo. Paolo Di Lauro, per cause legate al clan, era uscito di scena nel '96, dando le sue quote alla moglie Luisa. I Di Lauro sono una dinastia, costruita con abnegazione. Luisa Di Lauro aveva generato dieci figli, e come le grandi matrone dell'industria italiana, aveva aumentato progressivamente la prole in base al successo industriale. Tutti inseriti nel clan, Cosimo, Vincenzo, Ciro, Marco, Nunzio, Salvatore, e poi i piccoli, quelli ancora minorenni. Paolo Di Lauro aveva una sorta di predilezione per gli investimenti in Francia, suoi negozi si trovavano a Nizza, ma anche a Parigi, a rue Charenton 129 e a Lione al 22 di Quai Perrache. Voleva che la moda italiana in Francia fosse veicolata dai suoi negozi, trasportata dai suoi camion, che gli Champs Elysées emanassero l'odore del potere di Scampia.

Ma a Secondigliano l'enorme azienda dei Di Lauro scricchiolava. Era cresciuta in fretta e in grande autonomia in ogni sua parte, nelle piazze dello spaccio l'aria iniziava ad appesantirsi. A Scampia invece c'era la speranza che tutto si sarebbe risolto come l'ultima volta. Quando, con una bevuta, ogni crisi trovò soluzione. Una bevuta particolare, che avvenne mentre Domenico, uno dei figli di Di Lauro, dopo un gravissimo incidente stradale, agonizzava in ospedale. Domenico era un ragazzo inquieto. Spesso i figli dei boss cadono in una sorta di delirio d'onnipotenza e ritengono di poter disporre di intere città e delle persone che le abitano. Secondo le indagini della polizia, nell'ottobre 2003, Domenico assieme alla sua scorta e un gruppo di amici, assaltò di notte un'intera cittadina, Casoria, sfasciando finestre, garage, auto, bruciando cassonetti, inzaccherando portoni con lo spray e squagliando con gli accendini i pulsanti di plastica dei citofoni. Danni che il padre seppe rimborsare in silenzio, con la diplomazia delle famiglie che devono rimediare ai disastri dei rampolli senza pregiudicare la propria autorevolezza. Domenico stava correndo in moto quando a una curva perse il controllo, cadde e per le gravi ferite morì dopo alcuni giorni trascorsi in coma all'ospedale. Quest'episodio tragico generò un incontro di vertice, una punizione e al contempo un'amnistia. A Scampia tutti conoscono questa storia, una storia leggendaria, forse inventata, ma importante per comprendere come i conflitti trovano mediazione all'interno delle dinamiche di camorra.

Si racconta che Gennaro Marino, detto McKay, delfino di Paolo Di Lauro, andò in ospedale dove si trovava il ragazzo morente, per confortare il boss. Il suo conforto venne accolto. Di Lauro poi lo tirò in disparte e gli offrì da bere. Pisciò in un bicchiere e glielo porse. Al boss erano giunte all'orecchio notizie circa alcuni comportamenti del suo prediletto che non poteva avallare in nessun modo. McKay aveva fatto alcune scelte economiche senza discuterne, alcune somme di danaro erano state sottratte senza renderne conto. Il boss si era accorto della volontà del suo delfino di rendersi autonomo ma lo volle perdonare, come un eccesso di esuberanza di chi è troppo bravo nel proprio mestiere. Si racconta che McKay bevve tutto, sino alla posa. Un lungo sorso di piscio risolse il primo sisma avvenuto all'interno delle dirigenze del cartello del clan Di Lauro. Una tregua labile, che nessun rene successivamente avrebbe potuto drenare.


La guerra di Secondigliano

McKay e Angioletto avevano deciso. Volevano ufficializzare la formazione di un proprio gruppo, erano d'accordo tutti i dirigenti più anziani, avevano chiaramente detto di non voler entrare in conflitto con l'organizzazione ma di volerne diventare concorrenti. Leali concorrenti sul vasto mercato. Fianco a fianco, ma in autonomia. E così — secondo le dichiarazioni del pentito Pietro Esposito — mandarono il messaggio a Cosimo Di Lauro, il reggente del cartello. Volevano incontrare Paolo, il padre, il dirigente massimo, il vertice, il referente primo del sodalizio. Parlargli di persona, dirgli che non condividevano le scelte di ristrutturazione, che avevano fatto i figli, volevano fissarlo negli occhi smettendola di far passare parola su parola da gola a gola, facendo impastare i messaggi dalla saliva di molte lingue, visto che i cellulari non erano utilizzabili per non far risalire al percorso della sua latitanza. Genny McKay voleva incontrare Paolo Di Lauro, il boss che aveva permesso la sua ascesa imprenditoriale.

Cosimo accetta formalmente la richiesta dell'incontro, si tratta del resto di riunire tutti i vertici dell'organizzazione, capi, dirigenti, capizona. Non si può rifiutare. Ma Cosimo ha già tutto in mente, o così sembra. Pare davvero che sappia verso cosa sta orientando la sua gestione degli affari, e come deve organizzarne la difesa. E così, ascoltando quanto dicono indagini e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, Cosimo all'appuntamento non manda sottoposti. Non manda il "cavallaro", Giovanni Cortese il portavoce ufficiale, colui che ha sempre curato i rapporti della famiglia Di Lauro con l'esterno. Cosimo manda i suoi fratelli, Marco e Ciro, a perlustrare il luogo dell'incontro. Loro vanno a vedere, controllano che aria tira, non avvertono nessuno del loro passaggio. Passano senza scorta, forse in auto. Veloci, ma non troppo. Osservano le vie di fuga preparate, le sentinelle appostate, senza dare nell'occhio. Riferiscono a Cosimo, gli raccontano i dettagli. Cosimo comprende. Avevano preparato tutto per un agguato. Per ammazzare Paolo e chiunque l'avesse accompagnato. L'incontro era un tranello, era un modo per uccidere e sancire una nuova era nella gestione del cartello. Del resto un impero non si scinde allentando una stretta di mano, ma tagliandola con una lama. Questo si racconta, questo raccontano indagini e pentiti.

Cosimo, il figlio a cui Paolo ha dato in gestione il controllo del narcotraffico con ruolo di massima responsabilità, deve decidere. Sarà guerra, ma non la dichiara, conserva tutto in mente, aspetta di comprendere le mosse, non vuole allarmare i rivali. Sa che a breve gli salteranno addosso, che deve aspettarsi gli artigli sulla carne, ma deve temporeggiare, decidere una strategia precisa, infallibile, vincente. Capire su chi può contare, quali forze può gestire. Chi è con lui e chi è contro di lui. Non c'è altro spazio sulla scacchiera.

I Di Lauro giustificano l'assenza del padre con la difficoltà di muoversi a causa delle ricerche della polizia. Latitante, ricercato da oltre dieci anni. Saltare un incontro non è grave per uno inserito fra i trenta latitanti più pericolosi d'Italia. La più grande holding imprenditoriale del narcotraffico, una delle più forti sul piano nazionale e internazionale, sta per attraversare la più letale delle crisi, dopo decenni di perfetto funzionamento.

II clan Di Lauro è stato sempre un'impresa perfettamente organizzata. Il boss lo ha strutturato con un disegno d'azienda multilevel. L'organizzazione è composta da un primo livello di promotori e finanziatori, costituito dai dirigenti del clan che provvedono a controllare l'attività di traffico e spaccio tramite i loro affiliati diretti, e formato, secondo la Procura Antimafia di Napoli, da Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, Enrico D'Avanzo e Arcangelo Valentino. Il secondo livello comprende chi materialmente tratta la droga, l'acquista e la confeziona e gestisce i rapporti con gli spacciatori, ai quali garantisce difesa legale in caso di arresto. Gli elementi di maggiore spicco sono Gennaro Marino, Lucio De Lucia, Pasquale Gargiulo. Il terzo livello è rappresentato dai capi-piazza, ossia membri del clan che sono a diretto contatto con gli spacciatori, che coordinano i pali e le vie di fuga e curano anche l'incolumità dei magazzini dove viene stoccata la merce e i luoghi dove viene tagliata. Il quarto livello, il più esposto, è costituito dagli spacciatori. Ogni livello ha in sé dei sottolivelli che si relazionano esclusivamente con il proprio dirigente di riferimento e non con l'intera struttura. Quest'organizzazione permette di avere un profitto pari al 500 per cento dell'investimento iniziale.

Dinanzi al modello dell'impresa dei Di Lauro mi è sempre venuto in mente il concetto matematico di frattale, come lo spiegano nei manuali, ovvero un casco di banane cui ogni banana è a sua volta un casco di banane le cui banane sono caschi di banane e così all'infinito. Il clan Di Lauro solo col narcotraffico fattura cinquecentomila euro al giorno. Spacciatori, gestori dei magazzini, staffette, spesso non sono parte dell'organizzazione ma semplici stipendiati. L'indotto dello spaccio è enorme, migliaia di persone ci lavorano ma non sanno da chi sono dirette. Intuiscono genericamente per quale famiglia camorristica lavorano, ma nulla di più. Qualora qualche arrestato decidesse di pentirsi, la conoscenza della struttura sarà limitata a un perimetro specifico, minimo, senza riuscire a comprendere e conoscere l'intero organigramma, l'enorme periplo del potere economico e militare dell'organizzazione.

Tutto l'assetto economico finanziario ha il suo team militare: un feroce gruppo di fuoco e una capillare rete di fiancheggiatori. Nel manipolo di killer figuravano Emanuele D'Ambra, Ugo De Lucia, detto "Ugariello", Nando Emolo, detto "'o schizzato", Antonio Ferrara, detto "'o tavano", Salvatore Tamburino, Salvatore Petriccione, Umberto La Monica, Antonio Mennetta. Al di sotto, i fiancheggiatori, cioè i capizona: Gennaro Aruta, Ciro Saggese, Fulvio Montanino, Antonio Galeota, Giuseppe Prezioso, guardaspalle personale di Cosimo, e Costantino Sorrentino. Un'organizzazione che complessivamente contava su almeno trecento persone, tutte tenute a stipendio. Una struttura complessa, dove tutto era inserito in un ordine preciso. C'era il parco macchine e moto, enorme, sempre disponibile, come una struttura d'emergenza. C'era l'armeria, nascosta e collegata a una rete di fabbri pronti a distruggere le armi appena usate per gli omicidi. C'era una rete logistica che consentiva ai killer di andare, subito dopo l'agguato, ad allenarsi in un regolare poligono di tiro dove venivano registrati gli ingressi, in modo da confondere le tracce di polvere da sparo e costruirsi un alibi per eventuali prove da stub. Lo stub è ciò che ogni killer teme di più; la polvere da sparo che non viene mai via e che è la prova più schiacciante. C'era addirittura una rete che forniva l'abbigliamento ai gruppi di fuoco: tute da ginnastica anonime e casco integrale da motociclista, da distruggere subito dopo. Un'azienda inattaccabile, dai congegni perfetti o quasi. Non si tenta di occultare un'azione, un omicidio, un investimento ma semplicemente di non renderlo dimostrabile in tribunale.

Frequentavo Secondigliano da tempo. Da quando aveva smesso di fare il sarto, Pasquale mi aggiornava sull'aria che tirava nella zona, un'aria che andava mutandosi velocemente, alla stessa velocità con cui si trasformano i capitali e le direzioni finanziarie.

Giravo nell'area nord di Napoli in Vespa. È la luce quello che più mi piace quando giro per Secondigliano e Scampia.

Le strade enormi, larghe, ossigenate rispetto ai grovigli del centro storico di Napoli, come se sotto il catrame, a fianco dei palazzoni, ci fosse ancora viva la campagna aperta. D'altronde Scampia possiede nel nome il suo spazio. Scampia, parola di un dialetto napoletano scomparso, definiva la terra aperta, zona d'erbacce, su cui poi a metà degli anni '60 hanno tirato su il quartiere e le famose Vele. Il simbolo marcio del delirio architettonico o forse più semplicemente un'utopia di cemento che nulla ha potuto opporre alla costruzione della macchina del narcotraffico che si è innervata sul tessuto sociale di questa parte di terra. Una disoccupazione cronica e un'assenza totale di progetti di crescita sociale hanno fatto sì che divenisse luogo capace di stoccare quintali di droga, e laboratorio per la trasformazione del danaro fatturato con lo spaccio in economia viva e legale. Secondigliano è lo scalino in discesa che dal gradino del mercato illegale porta forze ossigenate all'imprenditoria legittima. Nel 1989 l'Osservatorio sulla Camorra scriveva in una sua pubblicazione che nell'area nord di Napoli si registrava uno dei rapporti spacciatori-numero abitanti più alto d'Italia. Quindici anni dopo questo rapporto è divenuto il più alto d'Europa e tra i primi cinque al mondo.

La mia faccia era diventata conosciuta col tempo, una conoscenza che per le sentinelle del clan, i pali, significava valore neutro. In un territorio controllato a vista ogni secondo v'è un valore negativo — poliziotti, carabinieri, infiltrati di famiglie rivali — e un valore positivo: gli acquirenti. Tutto ciò che non è sgradito, che non è intralcio è neutro, inutile. Entrare in questa categoria significa non esistere. Le piazze dello spaccio mi hanno sempre affascinato per la perfetta organizzazione che contraddice una lettura di puro degrado. Il meccanismo di spaccio è quello di un orologio. È come se gli individui si muovessero identici agli ingranaggi che mettono in moto il tempo. Non c'è movimento di qualcuno che non faccia scattare qualcun altro. Ogni volta che lo osservavo ne rimanevo incantato. Gli stipendi sono distribuiti settimanalmente, cento euro per le vedette, cinquecento al coordinatore e cassiere degli spacciatori di una piazza, ottocento ai singoli pusher e mille a chi si occupa dei magazzini e nasconde la droga in casa. I turni vanno dalle tre del pomeriggio a mezzanotte e da mezzanotte alle quattro del mattino, la mattina difficilmente si spaccia perché c'è in giro troppa polizia. Tutti hanno un giorno di riposo e se si presentano in ritardo sulla piazza di spaccio per ogni ora gli vengono sottratti cinquanta euro dalla paga settimanale.

Via Baku è un ininterrotto via vai di commerci. I clienti arrivano, pagano, prelevano e vanno via. A volte ci sono persino file di auto in coda dietro la schiena degli spacciatori. H sabato sera soprattutto. E allora da altre piazze vengono dislocati nuovi pusher in questa zona. In via Baku si fattura mezzo milione di euro al mese, la Narcotici segnala che mediamente si smerciano quattrocento dosi di marijuana e quattrocento di cocaina, ogni giorno. Quando arrivano i poliziotti gli spacciatori sanno in quali case andare e in che posti nascondere la merce. Dinanzi alle auto della polizia, quando stanno per entrare in una piazza di spaccio si posiziona quasi sempre una macchina o un motorino per rallentare la corsa e permettere ai pali di caricarsi gli spacciatori in moto e portarli via. Spesso i pali sono incensurati e disarmati, così anche se fermati corrono un bassissimo rischio di incriminazione. Quando scattano gli arresti dei pusher vengono chiamate le riserve, ossia persone spesso tossicodipendenti o consumatori abituali della zona che danno la loro disponibilità a lavorare come spacciatori in casi di emergenza. Per un pusher arrestato un altro viene avvertito e si farà trovare sul posto. Il commercio deve continuare. Anche nei momenti critici.

Via Dante è un'altra zona di fatturazione di grossi capitali. Qui i pusher sono tutti ragazzi giovanissimi, è una piazza florida di distribuzione, una delle più recenti piazze messe su dai Di Lauro e poi viale della Resistenza, vecchia piazza di eroina ma anche di kobret e cocaina. I responsabili della piazza hanno vere e proprie sedi operative in cui organizzano il presidio del territorio. I pali comunicano con i cellulari quello che sta accadendo. Il coordinatore della piazza, ascoltandoli tutti in viva voce con dinanzi la cartina, riesce ad avere sotto i suoi occhi in tempo reale gli spostamenti della polizia e i movimenti dei clienti.

Una delle novità che il clan Di Lauro ha introdotto a Se-condigliano è la tutela dell'acquirente. Prima della loro gestione come organizzatori di piazze, i pali proteggevano solo i pusher da arresti e identificazioni. Negli anni passati, gli acquirenti potevano essere fermati, identificati, portati in commissariato. Di Lauro invece ha messo i pali per proteggere anche gli acquirenti, così chiunque avrebbe potuto accedere con sicurezza alle piazze gestite dai suoi uomini. Il massimo grado di comodità per i piccoli consumatori che sono una delle anime prime del commercio di droga secondiglia-nese. Nella zona del rione Berlingieri, se telefoni, ti fanno trovare direttamente la merce pronta. E poi via Ghisleri, Parco Ises, tutto il rione don Guanella, il comparto H di via Labriola, i Sette Palazzi. Territori trasformati in mercati redditizi, in strade presidiate, in luoghi dove le persone che ci abitano hanno imparato ad avere uno sguardo selettivo, come se gli occhi, quando capitano su qualcosa d'orrendo, oscurassero l'oggetto o la situazione. Un'abitudine a prescegliere cosa vedere, un modo per continuare a vivere. Il supermarket immenso della droga. Tutta, ogni tipo. Non c'è stupefacente che venga introdotto in Europa che non passi prima dalla piazza di Secondigliano. Se la droga fosse solo per i napoletani e i campani, le statistiche darebbero risultati deliranti. Praticamente in ogni famiglia napoletana almeno due membri dovrebbero essere cocainomani e uno eroinomane. Senza contare l'hashish e la marijuana. Eroina, kobret, le droghe leggere e poi le pasticche, quelle che qualcuno chiama ancora ecstasy quando in realtà dell'ecstasy esistono centosettantanove varianti. Qui a Secondigliano sono stra-vendute, le chiamano X file, o il gettone o la caramella. Sulle pasticche c'è un guadagno enorme. Un euro per produrle, tre-cinque euro il costo all'ingrosso, poi rivendute a Milano, Roma o altre zone di Napoli a cinquanta-sessanta euro. A Scampia a quindici euro.

Il mercato secondiglianese ha superato le vecchie rigidità dello smercio di droga; riconoscendo nella cocaina la nuova frontiera. In passato droga d'elite, oggi grazie alle nuove politiche economiche dei clan è divenuta assolutamente accessibile al consumo di massa, con diversi gradi di qualità ma capace di soddisfare ogni esigenza. Il 90 per cento dei consumatori di cocaina secondo le analisi del gruppo Abele sono lavoratori o studenti. La coca si è emancipata dalla categoria di sballo, diviene sostanza usata durante ogni fase del quotidiano, dopo le ore di straordinario, viene presa per rilassarsi, per avere ancora la forza di fare qualcosa che somigli a un gesto umano e vivo e non solo un surrogato di fatica. La coca viene presa dai camionisti per guidare di notte, per resistere ore davanti al computer, per andare avanti senza sosta a lavorare per settimane senza nessun tipo di pausa. Un solvente della fatica, un anestetico del dolore, una protesi alla felicità. Per soddisfare un mercato che ha necessità di droga come risorsa e non soltanto come stordimento bisognava trasformare lo spaccio, renderlo flessibile, slegato dalle rigidità criminali. È questo il salto di qualità compiuto dal clan Di Lauro. La liberalizzazione dello spaccio e dell'approvvigionamento di droga. Per i cartelli criminali italiani la vendita di grosse partite viene tradizionalmente preferita alla vendita di partite medie, e piccole. Per Di Lauro invece la vendita di partite medie è stata scelta per far diffondere una piccola imprenditoria dello spaccio capace di creare nuovi clienti. Una piccola imprenditoria libera, autonoma, in grado di far ciò che vuole con la merce, metterci il prezzo che vuole, diffonderla come e dove vuole. Chiunque può accedere al mercato, per ogni tipo di quantità. Senza necessità di trovare mediatori del clan. Cosa Nostra e la 'ndrangheta irradiano ovunque i loro traffici di droga ma la filiera la devono conoscere, per comprare droga da spacciare attraverso la loro mediazione è necessario essere presentati da affiliati e alleati al clan. Per loro è fondamentale sapere in che zona si andrà a spacciare, con che organizzazione verrà articolata la distribuzione. Non così il Sistema di Secondigliano. L'ordine è laissez faire, laissez passer. Liberismo totale e assoluto. La teoria è che il mercato si autoregola. E così in pochissimo tempo vengono attirati a Secondigliano tutti coloro che vogliono mettere su un piccolo smercio tra amici, che vogliono comprare a quindici e vendere a cento e così pagarsi una vacanza, un master, aiutare il pagamento di un mutuo. La liberalizzazione assoluta del mercato della droga ha portato a un inabissamento dei prezzi.

Lo smercio al dettaglio al di fuori di certe piazze può scomparire. Ora esistono i cosiddetti giri. Il giro dei medici, il giro dei piloti, dei giornalisti, degli impiegati statali. La piccola borghesia sembra il guanto adatto per questa distribuzione informale e iperliberista della merce droga. Uno scambio che sembra amicale, la vendita completamente lontana da strutture criminali, simile a quella delle casalinghe che propongono creme e aspirapolvere alle amiche. Ottimo anche per emancipare da responsabilità morali eccessive. Nessun pu-sher in tuta acetata schiattato agli angoli delle piazze per intere giornate difeso dai pali. Nulla se non prodotto e danaro. Spazio bastante per la dialettica del commercio. Dai dati, forniti dalle più importanti questure d'Italia, un arrestato su tre per traffico di droga è incensurato e completamente estraneo ai percorsi criminali. Il consumo di cocaina, secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità, è schizzato ai massimi storici: +80 per cento (1999–2002). Il numero delle persone dipendenti che si rivolgono al SERT raddoppia ogni anno. L'espansione del mercato è immensa, le coltivazioni transgeniche consentono ormai quattro raccolti l'anno, dunque non ci sono problemi di approvvigionamento di materia prima, e l'assenza di un'organizzazione egemone favorisce la libera iniziativa. Robbie Williams, un famoso cantante cocainomane, per anni disse che "la cocaina è il modo che Dio ha inventato per dirti che hai troppi soldi". Questa frase, che ho letto su qualche giornale, mi tornò in mente quando alle Case Celesti avevo incontrato dei ragazzi che osannavano il prodotto e il luogo: "Se esiste la coca delle Case Celesti significa che Dio non ha dato nessun valore ai soldi".

Le Case Celesti, chiamate così per il colore azzurrino pallido che in origine avevano, costeggiano via Limitone d'Arcano e sono divenute una delle migliori piazze della cocaina in Europa. Un tempo non era così. A rendere questa piazza così conveniente è stato, secondo le indagini, Gennaro Marino McKay. È lui il referente del clan in questo territorio. Non solo referente; il boss Paolo Di Lauro, che stima la sua gestione, gli ha dato la piazza in franchising. Può fare tutto in autonomia, deve solo versare una quota mensile alla cassa del clan. Gennaro e suo fratello Gaetano sono detti i McKay. Tutto è dovuto alla somiglianza che il padre aveva con lo sceriffo Zeb McKay del telefilm Alla conquista del West. Tutta la famiglia così è divenuta non più Marino ma McKay. Gaetano non ha le mani. Ha due protesi di legno. Di quelle rigide. Laccate di nero. Le ha perse combattendo nel 1991. La guerra contro i Puca, una vecchia famiglia cutoliana. Stava maneggiando una bomba a mano, e gli esplose tra le mani facendo saltare in aria le dita. Gaetano McKay ha sempre un accompagnatore, una sorta di maggiordomo, che prende il posto delle sue mani, ma quando deve firmare, riesce a farlo bloccando la penna con le protesi, rendendola un perno, un chiodo fisso sulla pagina, e poi si aggroviglia con il collo e i polsi, riuscendo a tracciare con grafia impercettibilmente sghemba la sua firma.

Genny McKay, secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli, era riuscito a creare una piazza capace di stoccare e smerciare. D'altronde il buon prezzo ricevuto dai fornitori è dovuto proprio alla capacità di accumulare e in questo la giungla di cemento di Secondigliano, con i suoi centomila abitanti, aiuta. Il corpo delle persone, le loro case, la loro vita quotidiana divengono la grande muraglia che circoscrive i depositi di droga. Proprio la piazza delle Case Celesti ha permesso un inabissamento dei costi della coca. Solitamente si parte da cinquanta-settanta euro al grammo e si arriva sui cento-duecento euro. Qui è scesa a venticinque-cinquanta continuando ad avere una qualità molto alta. Leggendo le indagini della DDA, emerge che Genny McKay è uno degli imprenditori italiani più capaci nel ramo della coca, essendo riuscito a imporsi su un mercato in crescita esponenziale pari a nessun altro. L'organizzazione delle piazze di spaccio poteva avvenire anche a Posillipo, ai Parioli, a Brera, ma è avvenuta a Secondigliano. La manodopera in qualsiasi altro luogo avrebbe avuto un costo elevatissimo. Qui la totale assenza di lavoro, l'impossibilità di trovare altra soluzione di vita che non sia l'emigrazione, rende i salari bassi, bassissimi. Non c'è altro arcano, non c'è da fare appello a nessuna sociologia della miseria, a nessuna metafisica del ghetto. Non potrebbe essere ghetto un territorio capace di fatturare trecento milioni di euro l'anno solo con l'indotto di una singola famiglia. Un territorio dove agiscono decine di clan e le cifre di profitto raggiungono quelle paragonabili solo a una manovra finanziaria. Il lavoro è meticoloso, e i passaggi produttivi costano moltissimo. Un chilo di coca al produttore costa mille euro, quando va al grossista già costa trentamila euro. Trenta chili diventano centocinquanta dopo il primo taglio: un valore di mercato di circa quindici milioni di euro. E se il taglio è maggiore a tre chili ne puoi tirare anche duecento di chili. Il taglio è fondamentale, quello da caffeina, glucosio, mannitolo, paracetamo-lo, lidocaina, benzocaina, anfetamina. Ma anche talco e calcio per i cani quando le emergenze lo impongono. Il taglio determina la qualità, e il taglio fatto male attira morte, polizia, arresti. Occlude le arterie del commercio.

Anche qui i clan di Secondigliano sono in anticipo su tutti e il vantaggio è prezioso. Qui ci sono i Visitors: gli eroinomani. Li chiamano come i personaggi del telefilm degli anni '80 che divoravano topi e sotto un'apparente epidermide umana nascondevano squame verdastre e viscide. I Visitors li usano come cavie, cavie umane, per poter sperimentare i tagli. Provare se un taglio è dannoso, che reazioni genera, sin dove possono spingersi ad allungare la polvere. Quando i "tagliatori" hanno bisogno di molte cavie, abbassano i prezzi. Da venti euro a dose, scendono anche a dieci. La voce circola e gli eroinomani vengono persino dalle Marche, dalla Lucania, per poche dosi. L'eroina è un mercato in totale collasso. Gli eroinomani, i tossici, sono in diminuzione. Disperati. Prendono i bus barcollando, scendono e risalgono sui treni, viaggiano di notte, prendono passaggi, camminano a piedi per chilometri. Ma l'eroina meno costosa del continente merita qualsiasi sforzo. I "tagliatori" dei clan raccolgono i Visitors, gli regalano una dose e poi attendono. In una telefonata riportata nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere del marzo 2005, emessa dal Tribunale di Napoli, due parlano tra loro dell'organizzazione di un provino, un test su cavie umane per provare il taglio della sostanza. Prima si chiamano per organizzarlo:

"Le levi cinque magliette… per le prove allergiche?"

Dopo un po' si risentono:

"Hai provato la macchina?"

"Sì…"

Intendendo ovviamente, se aveva testato:

"Sì, mamma mia, troppo bello, compa' siamo number one, devono chiudere tutti."

Esultavano, felici del fatto che le cavie non erano morte, anzi, avevano gradito molto. Un taglio ben riuscito raddoppia la vendita, se di ottima qualità viene subito richiesto sul mercato nazionale e la concorrenza viene sbaragliata.

Solo dopo aver letto questo scambio di commenti telefonici capii la scena a cui avevo assistito qualche tempo prima. Non riuscivo davvero a comprendere cosa in realtà mi si muoveva davanti agli occhi. Dalle parti di Miano, poco distante da Scampia, c'erano una decina di Visitors. Erano stati chiamati a raccolta. Uno spiazzo davanti a dei capannoni. C'ero finito non per caso ma con la presunzione che sentendo l'alito del reale, quello caldo, quello più vero possibile, si possa arrivare a comprendere il fondo delle cose. Non sono certo sia fondamentale osservare ed esserci per conoscere le cose, ma è fondamentale esserci perché le cose ti conoscano. C'era un tizio vestito bene, anzi direi benissimo, con un completo bianco, una camicia bluastra, scarpe sportive nuovissime. Aprì un panno di daino sul cofano dell'auto. Aveva dentro un po' di siringhe. I Visitors si avvicinarono spingendosi, sembrava una di quelle scene — identiche, medesime, sempre uguali da anni — che mostrano i telegiornali quando in Africa giunge un camion con i sacchi di farina. Un Visitors però si mise a urlare:

"No, non la prendo, se la regalate non la prendo… ci volete ammazzare…"

Bastò il sospetto di uno, che gli altri si allontanarono immediatamente. Il tizio sembrava non aver voglia di convincere nessuno e aspettava. Ogni tanto sputava per terra la polvere che i Visitors camminando alzavano e che gli si posava sui denti. Uno si fece avanti lo stesso, anzi si fece avanti una coppia. Tremavano, erano davvero al limite. In rota, come si dice solitamente. Lui aveva le vene delle braccia inutilizzabili, si tolse le scarpe, e anche le piante dei piedi erano rovinate. La ragazza prese la siringa dallo straccio e se la mise in bocca per reggerla, intanto gli aprì la camicia, lentamente, come se avesse avuto cento bottoni, e poi lanciò l'ago sotto il collo. La siringa conteneva coca. Farla scorrere nel sangue permette di vedere in breve tempo se il taglio funziona o se è sbagliato, pesante, scadente. Dopo un po' il ragazzo iniziò a barcollare, schiumò appena all'angolo della bocca e cadde. Per terra iniziò a muoversi a scatti. Poi si stese supino e chiuse gli occhi, rigido. Il tizio vestito di bianco iniziò a telefonare al cellulare:

"A me pare morto… sì, vabbè, mo gli faccio il massaggio…"

Iniziò a pestare con lo stivaletto il petto del ragazzo. Alzava il ginocchio e poi lasciava cadere la gamba con violenza. Il massaggio cardiaco lo faceva con i calci. La ragazza al suo fianco blaterava qualcosa, lasciando le parole ancora attaccate alle labbra: "Lo fai male, lo fai male. Gli stai facendo male…" Cercando con la forza di un grissino di allontanarlo dal corpo del suo ragazzo. Ma il tizio era disgustato, quasi impaurito da lei e dai Visitors in genere:

"Non mi toccare… fai schifo… non ti azzardare a starmi vicino… non mi toccare che ti sparo!"

Continuò a tirare calci in petto al ragazzo; poi con il piede poggiato sullo sterno ritelefonò:

"Questo è schiattato. Ah, il fazzolettino… aspetta che mo vedo…"

Prese un fazzolettino di carta dalla tasca, lo bagnò con una bottiglietta d'acqua e lo stese aperto sulle labbra del ragazzo. Se soltanto avesse avuto un flebile fiato avrebbe forato il kleenex, dimostrando di essere ancora vivo. Precauzione che aveva usato perché non voleva neanche sfiorare quel corpo. Richiamò per l'ultima volta:

"È morto. Dobbiamo fare tutto più leggero…"

Il tizio rientrò in auto dove l'autista non aveva neanche per un secondo smesso di zompettare sul sedile ballando una musica di cui non riuscivo a sentire neanche un rumore, nonostante si muovesse come se fosse stata al massimo volume. In pochi minuti tutti si allontanarono dal corpo, passeggiando per questo frammento di polvere. Rimase il ragazzo steso a terra. E la fidanzata, piagnucolante. Anche il suo lamento rimaneva attaccato alle labbra, come se l'eroina permettesse una cantilena rauca come unica forma di espressione vocale.

Non riuscii a capire perché la ragazza lo fece, ma si calò il pantalone della tuta e accovacciandosi proprio sul viso del ragazzo gli pisciò in faccia. Il fazzolettino gli si attaccò sulle labbra e sul naso. Dopo un po' il ragazzo sembrò riprendere i sensi, si passò una mano sul naso e la bocca, come quando ci si toglie l'acqua dal viso dopo essere usciti dal mare. Questo Lazzaro di Miano resuscitato da chissà quali sostanze contenute nell'urina, lentamente si alzò. Giuro che se non fossi stato stordito dalla situazione, avrei gridato al miracolo. Invece camminavo avanti e indietro. Lo faccio sempre quando sento di non capire, di non sapere cosa fare. Occupo spazio, nervosamente. Facendo così devo aver attirato l'attenzione, poiché i Visitors iniziarono ad avvicinarmi, a urlarmi contro. Pensavano fossi un uomo legato al tizio che stava quasi uccidendo quel ragazzo. Mi gridavano contro: "Tu… tu… volevi ammazzarlo…".

Mi si fecero intorno, mi bastò allungare il passo per seminarli, ma continuavano a seguirmi, a racimolare da terra schifezze varie e lanciarmele. Non avevo fatto niente. Se non sei un tossico, sarai uno spacciatore. Spuntò d'improvviso un camion. Dai depositi ne uscivano a decine tutte le mattine. Frenò vicino ai piedi, e sentii una voce che mi chiamava. Era Pasquale. Aprì lo sportello e mi fece salire. Non un angelo custode che salva il suo protetto, ma piuttosto due topi che percorrono la stessa fogna e si tirano per la coda.

Pasquale mi guardò con la severità di un padre che tutto aveva previsto. Quel ghigno che basta a sé, e non deve neanche perdere tempo a pronunciarsi per rimproverare. Io invece gli fissavo le mani. Sempre più rosse, screpolate, spaccate sulle nocche e anemiche nel palmo. Difficile che i polpastrelli abituati alle sete e ai velluti dell'alta moda possano accomodarsi per dieci ore sui manubri di un camion. Pasquale parlava ma continuavano a distrarmi le immagini dei Visitors. Scimmie. Anzi meno che scimmie. Cavie. A testare il taglio di una droga che girerà mezza Europa e non può rischiare di ammazzare qualcuno. Cavie umane che permetteranno a romani, napoletani, abruzzesi, lucani, bolognesi, di non finire male, di non colare sangue dal naso e schiuma dai denti. Un Visitors morto a Secondigliano è solo un ennesimo disperato su cui nessuno farà indagini. Già tanto sarà raccoglierlo da terra, pulirgli il viso dal vomito e dal piscio e sotterrarlo. Altrove ci sarebbero analisi, ricerche, congetture sulla morte. Qui solo: overdose.

Il camion di Pasquale attraversava le strade statali che annodano il territorio nord di Napoli. Capannoni, depositi, luoghi dove raccogliere detriti, e roba sparsa, arrugginita, gettata ovunque. Non ci sono agglomerati industriali. C'è puzza di ciminiere ma mancano le fabbriche. Le case si seminano lungo le strade, e le piazze si fanno intorno a un bar. Un deserto confuso, complicato. Pasquale aveva capito che non lo stavo ascoltando così frenò di botto. Senza accostare, giusto per farmi dare una frustata con la schiena e scuotermi. Poi mi fissò e disse: "A Secondigliano le cose stanno per andare male… "'a vicchiarella" è in Spagna, con i soldi di tutti. Devi smettere di girare da queste parti, sento la tensione ovunque. Pure il catrame mo si stacca da terra per andare via di qua…".

Avevo deciso di seguire quello che stava per accadere a Secondigliano. Più Pasquale segnalava la pericolosità della situazione, più mi convincevo che non era possibile non tentare di comprendere gli elementi del disastro. E comprendere significava almeno farne parte. Non c'è scelta, e non credo vi fosse altro modo per capire le cose. La neutralità e la distanza oggettiva sono luoghi che non sono mai riuscito a trovare. Raffaele Amato '"a vicchiarella", il responsabile delle piazze spagnole, un dirigente del secondo livello del clan, era fuggito a Barcellona con i soldi della cassa dei Di Lauro. Questo si diceva. In realtà non aveva versato la sua quota al clan mostrando in tal modo di non avere più alcun tipo di sudditanza con chi lo voleva mettere a stipendio. Aveva ufficializzato la scissione. Per ora trattava solo in Spagna, territorio da sempre egemonizzato dai clan. In Andalusia i Casalesi del casertano, sulle isole i Nuvoletta di Marano, e a Barcellona gli "scissionisti". Questo il nome che qualcuno comincia a dare agli uomini dei Di Lauro che si sono allontanati. I primi cronisti che seguono la cosa. I cronisti di nera. Per tutti a Secondigliano sono invece gli Spagnoli. Così chiamati proprio perché in Spagna hanno il loro leader e hanno iniziato a controllare non solo le piazze ma anche i traffici; siccome Madrid è uno degli snodi fondamentali per il traffico di cocaina proveniente dalla Colombia e dal Perù. Gli uomini legati ad Amato per anni, secondo le indagini, avevano fatto circolare quintali di droga attraverso uno stratagemma geniale. Usavano i camion della spazzatura. Sopra rifiuti, e sotto droga. Un metodo infallibile per evitare controlli. Nessuno fermerebbe un camion della spazzatura di notte mentre carica e scarica immondizia e al contempo trasporta quintali di droga.

Cosimo Di Lauro aveva intuito — secondo quanto emerge dalle indagini — che i dirigenti stavano versando nella cassa del clan sempre meno capitale. Le puntate erano state fatte con capitale dei Di Lauro, ma una grossa parte del profitto che doveva essere ripartito era stato trattenuto. Le puntate sono gli investimenti che ogni dirigente fa nell'acquisto di una partita di droga con capitale dei Di Lauro. Puntata. Il nome deriva dall'economia irregolare e iperliberista della coca e delle pasticche per cui non c'è elemento di certezza e calibro. Si punta, anche in questo caso, come su una roulette. Se punti centomila euro e le cose ti vanno bene, in quattordici giorni divengono trecentomila. Quando mi imbatto in questi dati di accelerazione economica, ricordo sempre quando Giovanni Falcone trovandosi in una scuola fece un esempio finito poi su centinaia di quaderni di scolari: "Per capire che la droga è un'economia florida, pensate che mille lire investite il 1° settembre nella droga diventano cento milioni il 1° agosto dell'anno successivo".

Le cifre che i dirigenti versavano nelle casse dei Di Lauro continuavano a essere astronomiche, ma progressivamente minori. Sul lungo periodo una prassi del genere avrebbe rafforzato alcuni a scapito di altri e lentamente, appena il gruppo ne avrebbe avuto la forza organizzativa e militare, avrebbe dato una spallata a Paolo Di Lauro. La spallata finale, quella che non conosce rimedio. Quella che avviene col piombo e non con la concorrenza. Così Cosimo ordina di mettere tutti a stipendio. Li vuole tutti strettamente alle sue dipendenze. Una scelta in controtendenza con le decisioni che sino ad allora aveva preso suo padre, ma necessaria per proteggere i propri affari, la propria autorità, la propria famiglia. Non più imprenditori consorziati, liberi di decidere le quantità di danaro da investire, le qualità e i tipi di droghe da immettere nel mercato. Non più liberi livelli autonomi all'interno di una impresa multilevel, ma dipendenti. Messi a stipendio. Cinquantamila euro al mese, qualcuno dice. Una cifra enorme. Ma pur sempre uno stipendio. Pur sempre un ruolo di sottoposto. Pur sempre la fine del sogno imprenditoriale a scapito di un lavoro da dirigente. E poi la rivoluzione amministrativa non terminava qui. I pentiti raccontano che Cosimo aveva imposto una trasformazione generazionale. I dirigenti non dovevano avere più di trent'anni. Ringiovanire, subito, nell'immediato i vertici. Il mercato non permette concessioni a plusvalori umani. Non concede nulla. Devi vincere, commerciare. Ogni vincolo, fosse affetto, legge, diritto, amore, emozione, religione, ogni vincolo è una concessione alla concorrenza, un inciampo per la sconfitta. Tutto può esserci, ma solo dopo la priorità della vittoria economica, dopo la certezza del dominio. Per una sorta di residuo rispetto, i vecchi boss venivano ascoltati anche quando proponevano idee vetuste, ordini inefficaci e le loro decisioni erano prese spesso in considerazione esclusivamente in nome della loro età. E soprattutto l'età poteva mettere a repentaglio la leadership dei figli di Paolo Di Lauro.

Ora invece erano tutti sullo stesso piano: nessuno può fare appello a passati mitici, esperienze pregresse, rispetto dovuto. Tutti devono confrontarsi con la qualità delle proprie proposte, la capacità di gestione, la forza del proprio carisma. Quando i gruppi di fuoco secondiglianesi iniziarono a mostrare la propria forza militare, la scissione non era ancora avvenuta. Stava maturando. Uno dei primi obiettivi fu Ferdinando Bizzarro, "bacchetella" o anche "zio Fester" come il personaggio calvo, basso e viscido della Famiglia Addams. Bizzarro era il ras di Melito. Ras è espressione che intende definire chi possiede un'autorità forte ma non totale, pur sempre sottoposta al boss, alla massima carica. Bizzarro aveva smesso di essere un diligente capozona dei Di Lauro. Il danaro voleva gestirlo da solo. E anche le decisioni cardine, non solo quelle amministrative, voleva prenderle lui. La sua non era una rivolta classica, voleva soltanto promuoversi come interlocutore nuovo, autonomo. Ma si era autopromosso. I clan a Melito sono feroci. Territorio di fabbriche in nero, di produzione di scarpe di altissima qualità per i negozi di mezzo mondo. Queste fabbriche sono fondamentali per la liquidità da prestare a usura. Il proprietario di una fabbrica in nero appoggia quasi sempre il politico, o il capozona del clan che farà eleggere il politico, che gli farà ottenere meno controlli sulla sua attività. I clan camorristici secondiglianesi non sono mai stati schiavi dei politici, non hanno mai avuto piacere nello stabilire patti programmatici, ma da queste parti è fondamentale avere amici.

E proprio colui che era stato riferimento di Bizzarro nelle istituzioni divenne il suo angelo della morte. Per ammazzare Bizzarro il clan aveva chiesto l'aiuto di un politico: Alfredo Cicala. A dare precise indicazioni su dove poter rintracciare Bizzarro, secondo le indagini della DDA di Napoli, fu proprio Cicala, l'ex sindaco di Melito, nonché ex dirigente locale del partito della Margherita. A leggere le intercettazioni non sembra si stia organizzando un omicidio, ma semplicemente avvicendando dei capi. Non c'è differenza. Gli affari devono andare avanti, la decisione di Bizzarro di rendersi autonomo rischiava di ingolfare il business. Bisogna farlo con ogni mezzo, con ogni potenza. Quando muore la madre di Bizzarro, gli affiliati di Di Lauro pensano di andare al funerale e sparare, sparare su tutto e tutti. Fare fuori lui, il figlio, i cugini. Tutti. Erano pronti. Ma Bizzarro e suo figlio non si fecero vedere al funerale. L'organizzazione dell'agguato però continua. Capillare al punto che il clan comunica con un fax ai propri affiliati cosa sta accadendo e le cose da fare:

"Non c'è più nessuno di Secondigliano, lui ha cacciato via tutti… sta uscendo solo il martedì e il sabato con quattro auto-a voi vi hanno raccomandato di non muovervi per nessuna ragione. Zio Fester ha mandato il messaggio che per Pasqua vuole duecentocinquanta euro a negozio e non ha paura di nessuno. In settimana dovranno torturare Siviere"

E così, via fax si concerta una strategia. Si mette in agenda una tortura come una fattura commerciale, un'ordinazione, una prenotazione d'aereo. E si denunciano le azioni di un traditore. Bizzarro usciva con una scorta di quattro auto, aveva imposto un racket di 250 euro mensili. Siviero, uomo di Bizzarro, suo autista fedele, andava torturato magari per fargli uscire di bocca i percorsi che il suo capozona avrebbe fatto in futuro. Ma l'almanacco di ipotesi per massacrare Bizzarro non termina qui. Pensano di andare a casa del figlio e "non risparmiare nessuno". E poi una telefonata: un killer è quasi disperato per l'occasione persa, poiché viene a sapere che Bizzarro ha messo il naso fuori, in piazza, di nuovo a mostrare il suo potere e la sua incolumità. E sbraita per l'occasione persa:

"Mannaggia la madonna che ci stiamo perdendo, quello è stato tutta la mattina in piazza…"

Nulla è nascosto. Tutto sembra chiaro, ovvio, suturato alla pelle del quotidiano. Ma l'ex sindaco di Melito segnala in quale albergo Bizzarro si rintana con la sua amante, dove va a consumare tensione e sperma. A tutto ci si può ridurre. A vivere con le luci spente così da non dare segnale di presenza in casa, a uscire con quattro auto di scorta, a non telefonare e ricevere telefonate, a non andare al funerale della propria madre. Ma ridursi a non incontrare la propria amante ha il gusto della beffa, della fine di ogni potere.

È in albergo Bizzarro il 26 aprile 2004, all'hotel Villa Giulia, al terzo piano. A letto con la sua amante. E. commando arriva. Hanno la pettorina della polizia. Nella hall dell'albergo si fanno dare la carta magnetica per aprire, il portiere non chiede neanche il tesserino di riconoscimento ai presunti poliziotti. Battono alla sua porta. Bizzarro è ancora in mutande ma lo sentono avvicinarsi alla porta. Iniziano a sparare. Due raffiche di pistola. La scardinano, la trapassano e colpiscono il suo corpo. I colpi poi sfondano la porta e lo finiscono sparandogli alla testa. Proiettili e schegge di legno conficcati nella carne. Il percorso della mattanza si è ormai configurato. Bizzarro è stato il primo. O uno dei primi. O quantomeno il primo su cui si è testata la forza del clan Di Lauro. Una forza capace di catapultarsi su chiunque osi rompere l'alleanza, distruggere il patto d'affari. L'organigramma degli scissionisti non è ancora certo, non si comprende d'immediato. L'aria che si respira è tesa, ma sembra che si attenda ancora qualcosa. Ma a fare chiarezza, a dare origine al conflitto, arriva qualche mese dopo l'omicidio di Bizzarro qualcosa come una dichiarazione di guerra. Il 20 ottobre 2004 Fulvio Montanino e Claudio Salerno — secondo le indagini, fedelissimi di Cosimo e responsabili di alcune piazze di spaccio — vengono ammazzati con quattordici colpi. Sfumata la riunione trappola, in cui Cosimo e suo padre avrebbero dovuto essere fatti fuori, quest'agguato è l'inizio delle ostilità. Quando arrivano i morti non c'è altro da fare che combattere. Tutti i capi hanno deciso di ribellarsi ai figli di Di Lauro: Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, e poi i nuovi dirigenti Raffaele Amato, Gennaro McKay Marino, Arcangelo Abate, Giacomo Migliaccio. Fedeli a Di Lauro rimangono i De Lucia, Giovanni Cortese, Enrico D'Avanzo e un nutrito gruppo di gregari. Assai nutrito. Ragazzi a cui è promessa la scalata al potere, il bottino, la crescita economica e sociale nel clan. La dirigenza del gruppo viene assunta dai figli di Paolo Di Lauro. Cosimo, Marco e Ciro. Cosimo, con grande probabilità, ha intuito che rischierà la morte o il carcere. Arresti e crisi economica. Ma la scelta è obbligata: o attendere lentamente di essere sconfitti dalla crescita di un clan nel proprio seno, o tentare di salvare gli affari, o almeno la propria pelle. Sconfitti nel potere economico significa immediatamente sconfitti anche nella carne.

È guerra. Nessuno comprende come si combatterà, ma tutti sanno con certezza che sarà terribile e lunga. La più spietata che il sud Italia abbia mai visto negli ultimi dieci anni. I Di Lauro hanno meno uomini, sono molto meno forti, molto meno organizzati. In passato hanno sempre reagito con forza a scissioni interne. Scissioni date dalla gestione liberista che ad alcuni sembrava un lasciapassare per l'autonomia, per mettere su il proprio centro imprenditoriale. Una libertà invece quella del clan Di Lauro che viene concessa e non si può pretendere di possedere. Nel 1992 il vecchio gruppo dirigente risolse la scissione di Antonio Rocco, capo-zona di Mugnano, al bar Fulmine, entrando armato di mitra e bombe a mano. Massacrarono cinque persone. Per salvarsi Rocco si pentì, e lo Stato accogliendo la sua collaborazione mise sotto protezione quasi duecento persone, tutte pronte a entrare nel mirino dei Di Lauro. Ma non servì a nulla il pentimento. Le dirigenze del sodalizio non furono scalfite dalle dichiarazioni del pentito.

Questa volta invece gli uomini di Cosimo Di Lauro iniziano a essere preoccupati, come mostra l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Napoli il 7 dicembre 2004. Due affiliati, Luigi Petrone e Salvatore Tamburino, si telefonano e commentano la dichiarazione di guerra avvenuta con l'uccisione di Montanino e Salerno.

Petrone: "Hanno ucciso a Fulvio".

Tamburino: "Ah…".

Petrone: "Hai capito?".

Inizia a prendere forma la strategia di lotta, quella dettata secondo Tamburino da Cosimo Di Lauro. Prenderli uno per uno, e massacrarli, se fosse stato necessario anche con le bombe.

Tamburino: "Proprio le bombe, proprio, o no? Questo ha detto Cosimino mo li mando a prendere a uno alla volta… li faccio… malamente, ha detto… tutti quanti…".

Petrone: "Quelli là… L'importante che ci sta la gente, che "faticano"…".

Tamburino: "Gino, ce ne sono a milioni qua. Sono tutti guaglioni… tutti guaglioni… mo ti faccio vedere che combina quello…".

La strategia è nuova. Prendere nella guerra ragazzini, elevarli a rango di soldati, trasformare la macchina perfetta dello spaccio, dell'investimento, del controllo del territorio in un congegno militare. Garzoni di salumieri e macellai, meccanici, camerieri, ragazzini disoccupati. Tutti dovevano divenire la forza nuova e inaspettata del clan. Dalla morte di Montanino comincia un lungo e sanguinoso botta e risposta, con morti su morti: uno, due agguati al giorno, prima i gregari dei due clan, poi i parenti, l'incendio delle case, i pestaggi, i sospetti.

Tamburino: "Cosimino è proprio freddo, ha detto "Mangiamo, beviamo, chiaviamo". Che dobbiamo fare… è successo, andiamo avanti".

Petrone: "Ma io non ce la faccio a mangiare. Ho mangiato per mangiare…".

L'ordine di combattere non dev'essere disperato. L'importante è mostrarsi vincenti. Per un esercito come per un'azienda. Chi si mostra in crisi, chi fugge, chi scompare, chi si rannicchia in sé ha già perso. Mangiare, bere, chiavare. Come se non fosse accaduto nulla, come se nulla stesse accadendo. Ma i due personaggi sono pieni di timore, non sanno quanti affiliati sono passati con gli Spagnoli e quanti sono rimasti con la loro parte.

Tamburino: "E che ne sappiamo quanti di loro si sono buttati con quelli là… non lo sappiamo!".

Petrone: "Ah! quanti di loro si sono portati? Ne sono rimasti un sacco di loro qua Totore! Non ho capito… a questi qua… non gli piacciono i Di Lauro?".

Tamburino: "Io se fossi Cosimino sai che farei? Comincerei a uccidere a tutti quanti. Pure se tenessi il dubbio… a tutti quanti. Inizierei a togliere… hai capito! La prima melma da mezzo…".

Uccidere tutti. Tutti quanti. Anche col dubbio. Anche se non sai da che parte stanno, anche se non sai se hanno una parte. Spara! È melma. Melma, solo melma. Dinanzi alla guerra, al pericolo della sconfitta, alleati e nemici sono ruoli interscambiabili. Piuttosto che individui divengono elementi su cui testare la propria forza e oggettivarla. Solo dopo si creeranno d'intorno le parti, gli alleati, i nemici. Ma prima di allora, bisogna iniziare a sparare.

Il 30 ottobre 2004 si presentano a casa di Salvatore de Ma-gistris: un signore sessantenne che ha sposato la madre di Biagio Esposito, uno scissionista, uno Spagnolo. Vogliono sapere dove si è nascosto. I Di Lauro devono prenderli tutti: prima che si organizzino, prima che possano rendersi conto di essere in maggioranza. Gli spezzano braccia e gambe con un bastone, gli maciullano il naso. Per ogni colpo gli chiedono informazioni sul figlio di sua moglie. Lui non risponde, e a ogni silenzio fanno cadere un altro colpo. Lo riempiono di calci, deve confessare. Ma non lo fa. O forse non sa davvero il luogo del nascondiglio. Morirà dopo un mese di agonia.

Il 2 novembre viene ucciso Massimo Galdiero in un parcheggio. Dovevano colpire il fratello Gennaro, presunto amico di Raffaele Amato. Il 6 novembre viene ammazzato in via Labriola Antonio Landieri, per beccarlo sparano su tutto il gruppo che gli era vicino. Rimarranno ferite in modo grave altre cinque persone. Tutte gestivano una piazza di coca e pare fossero dipendenti di Gennaro McKay. Gli Spagnoli però rispondono e il 9 novembre fanno trovare una Fiat Punto bianca in mezzo a una strada. Dribblano posti di blocco e lasciano l'auto in via Cupa Perrillo. È pieno pomeriggio quando la polizia trova tre cadaveri. Stefano Maisto, Mario Maisto e Stefano Mauriello. I poliziotti, qualsiasi portiera aprano, trovano un corpo. Davanti, dietro, nel portabagagli. A Mugnano, il 20 novembre, ammazzano Biagio Migliaccio. Lo vanno a uccidere nella concessionaria dove lavorava. Gli dicono: "Questa è una rapina" e poi sparano al petto. L'obiettivo era suo zio Giacomo. Lo stesso giorno rispondono gli Spagnoli ammazzando Gennaro Emolo, padre di un fedelissimo dei Di Lauro accusato di far parte del braccio militare. Il 21 novembre i Di Lauro fanno fuori, mentre si trovano in una tabaccheria Domenico Riccio e Salvatore Gagliardi, persone vicine a Raffaele Abbinante. Un'ora dopo, viene ammazzato Francesco Tortora. I killer non vanno in moto ma in auto. Si avvicinano, gli sparano, poi lo raccolgono come un sacco. Lo caricano e lo portano alla periferia di Casavatore dove danno fuoco all'au to e al corpo. Due cose utili in una. A mezzanotte del 22 i carabinieri trovano un'auto bruciata. Un'altra.

Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina, Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuoiate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria.

Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra. I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all'opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei soldati morti. Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all'auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos'altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos'altro è possibile, cos'altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po' si alzano i commenti: "Si ammazzano tra loro, meglio così!". "Se fai il camorrista ecco cosa ti accade." "lì è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza." I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all'ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita.

Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi le punte delle scarpe. I commenti s'interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l'avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l'avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l'ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov'è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati e. fare il "servizio" forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente.

Gelsomina Verde, Mina: il diminutivo con cui veniva chiamata nel quartiere. La chiamano così anche i giornali quando cominciano a vezzeggiarla col senso di colpa del giorno dopo. Sarebbe stato facile non distinguerla dalla carne di quelli che si ammazzano fra di loro. O, se fosse stata viva, continuare a considerarla la ragazza di un camorrista, una delle tante che accettano per i soldi o per il senso di importanza che ti dà. Nulla più che l'ennesima "signora" che gode della ricchezza del marito camorrista. Ma il "Saracino", come chiamano Gennaro Notturno, è agli inizi. Poi sé diventa capozo-na e controlla gli spacciatori, arriva a mille-duemila euro. Ma è una carriera lunga. Duemilacinquecento euro pare sia il prezzo per l'indennizzo di un omicidio. E poi se hai bisogno di togliere le tende perché i carabinieri ti stanno beccando, il clan ti paga un mese al nord Italia o all'estero. Anche lui forse sognava di diventare boss, di dominare su mezza Napoli e di investire in tutt'Europa.

Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di periferia intorno a cui circola come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzini e vecchi novantenni catarrosi. O forse si saranno incontrati in qualche discoteca. Un giro a piazza Plebiscito, un bacio prima di tornare a casa. Poi i sabati trascorsi assieme, qualche pizza in compagnia, la porta della stanza chiusa a chiave la domenica dopo pranzo quando gli altri si addormentano sfiniti dalla mangiata. E così via. Come si fa sempre, come accade per tutti e per fortuna. Poi Gennaro entra nel Sistema. Sarà andato da qualche amico camorrista, si sarà fatto presentare e poi avrà iniziato a faticare per Di Lauro. Immagino che forse la ragazza avrà saputo, avrà tentato di cercargli qualcos'altro da fare, come spesso accade a molte ragazze di queste parti, di sbattersi per i propri fidanzati. Ma forse alla fine si sarà dimenticata del mestiere di Gennaro. Insomma, è un lavoro come un altro. Guidare un'auto, trasportare qualche pacco, si inizia con piccole cose. Da niente. Ma che ti fanno vivere, ti fanno lavorare e a volte provare anche la sensazione di essere realizzato, stimato, gratificato. Poi la storia tra loro è finita.

Quei pochi mesi però sono bastati. Sono bastati per associare Gelsomina alla persona di Gennaro. Renderla "tracciata" dalla sua persona, appartenente ai suoi affetti. Anche se la loro relazione era terminata, forse mai realmente nata. Non importa. Sono solo congetture e immaginazioni. Ciò che resta è che una ragazza è stata torturata e uccisa perché l'hanno vista mentre dava una carezza e un bacio a qualcuno, qualche mese prima, in qualche parte di Napoli. Mi sembra impossibile crederci. Gelsomina sgobbava molto, come tutti da queste parti. Spesso le ragazze, le mogli devono da sole mantenere le famiglie perché moltissimi uomini cadono in depressione per anni. Anche chi vive a Secondigliano, anche chi vive nel "Terzo Mondo", riesce a avere una psiche. Non lavorare per anni ti trasforma, essere trattati come mezze merde dai propri superiori, niente contratto, niente rispetto, niente danaro, ti uccide. O divieni un animale o sei sull'orlo della fine. Gelsomina quindi faticava come tutti quelli che devono fare almeno tre lavori per riuscire ad accaparrarsi uno stipendio che passava per metà alla famiglia. Faceva anche del volontariato con gli anziani di queste parti, cosa su cui si sono sprecate le lodi dei giornali che parevano fare a gara nel riabilitarla. A fianco ai servizi su Mina Verde capitò anche un'intervista alla moglie di Raffaele Cutolo. Donna Immacolata vi sostiene che la camorra, quella vera, quella di suo marito, non uccideva mai le donne. Aveva una forte etica, fatta da uomini d'onore. Bisognava forse ricordarle che negli anni '8 °Cutolo fece sparare in faccia a una bambina di pochi anni, figlia del magistrato Lamberti, davanti al padre. Ma i quotidiani l'ascoltano, le concedono fiducia, le danno credito e autorevolezza sperando che il potere della camorra possa ritornare come un tempo. La camorra del passato è sempre migliore rispetto a quella che è o che sarà.

In guerra non è possibile più avere rapporti d'amore, legami, relazioni, tutto può divenire elemento di debolezza. H terremoto emozionale che avviene negli affiliati ragazzini è registrato nelle intercettazioni fatte dai carabinieri, come quella tra Francesco Venosa e Anna, la sua ragazza, trascritta nel decreto di fermo emesso dalla Procura Antimafia di Napoli nel febbraio 2006. È l'ultima telefonata prima di cambiare numero, Francesco fugge nel Lazio, avverte suo fratello Giovanni con un SMS di non osare scendere per strada, è sotto tiro:

"Ciao fratello tv.tb. ti race non scendere per nessun motivo. Ok?"

Francesco deve spiegare alla sua ragazza che deve andare via, e che la vita di uomo di Sistema è complicata:

"Io ormai ho diciotto anni… non si scherza… questi ti buttano… ti ammazzano, Anna!"

Anna però è ostinata, vorrebbe fare il concorso per diventare maresciallo dei carabinieri, cambiare la sua vita e farla cambiare a Francesco. Al ragazzo non dispiace affatto che Anna voglia entrare nei carabinieri, ma si sente ormai troppo vecchio per mutare vita:

Francesco: "Te l'ho detto, mi fa piacere per te… Però la mia vita è un'altra… E io non la cambio la mia vita".

Anna: "Ah, bravo, mi fa piacere… Continua sempre così, hai capito?".

Francesco: "Anna, Anna… non fare così…".

Anna: "Ma tu tieni diciotto anni, puoi cambiare benissimo… Ma perché stai già rassegnato? Non lo so…".

Francesco: "Non la cambio la mia vita, per nessun motivo al mondo".

Anna: "Ah, perché tu stai bene così".

Francesco: "No, Anna, io non sto bene così, ma per il momento abbiamo subito… e dobbiamo recuperare il rispetto perso… La gente quando camminiamo nel rione non aveva il coraggio di guardarci in faccia… adesso alzano tutti la testa".

Per Francesco, che è uno Spagnolo, l'oltraggio più grave è che nessuno più si sente in soggezione dinanzi al loro potere. Hanno subito troppi morti e così nel suo rione tutti lo vedono come afferente a un gruppo di killer cialtroni, camorristi falliti. Questo è intollerabile, bisogna reagire anche a costo della vita. La fidanzata cerca di frenarlo, di non farlo sentire già un condannato:

Anna: "Non ti devi mettere nel bordello, cioè tu puoi benissimo vivere…".

Francesco: "No, non la voglio cambiare la vita mia…".

Il giovanissimo scissionista è terrorizzato dal fatto che i Di Lauro possano prendersela con lei, ma la rassicura dicendo che lui aveva molte ragazze, quindi nessuno può associare Anna con lui. Poi le confessa, da adolescente romantico, che lei ora è l'unica…

"… A finale io tenevo trenta donne nel rione… ora però dentro là mi sento solo con te…"

Anna sembra tralasciare ogni paura di ritorsione, come una ragazzina qual è, pensa solo all'ultima frase che Francesco ha pronunciato:

Anna: "Ci vorrei credere".

La guerra continua. Il 24 novembre 2004 ammazzano Salvatore Abbinante. Gli sparano in faccia. Nipote di uno dei dirigenti degli Spagnoli, Raffaele Abbinante, uomo di Marano. Il territorio dei Nuvoletta. I maranesi per avere una partecipazione attiva al mercato di Secondigliano fecero trasferire al rione Monterosa molti uomini con le loro famiglie e Raffaele Abbinante è, secondo le accuse, il dirigente di questa quota mafiosa in seno a Secondigliano. Era uno dei personaggi con maggiore carisma in Spagna dove comandava nel territorio della Costa del Sol. In una maxi inchiesta del 1997 furono sequestrati duemilacinquecento chili di hashish, milleventi pasticche di ecstasy, millecinquecento chili di cocaina. I magistrati dimostrarono che i cartelli napoletani degli Abbinante e dei Nuvoletta gestivano la quasi totalità dei traffici di droga sintetica in Spagna e in Italia. Dopo l'omicidio di Salvatore Abbinante si temeva che i Nuvoletta intervenissero, che Cosa Nostra decidesse di dire la sua nella faida secondiglianese. Non avvenne nulla, almeno militarmente. I Nuvoletta aprirono i confini dei loro territori agli scissionisti in fuga, questo fu il segnale di critica degli uomini di Cosa Nostra in Campania alla guerra di Cosimo. Il 25 novembre i Di Lauro ammazzano Antonio Esposito nel suo negozio di alimentari. Quando arrivai sul posto il suo corpo si trovava tra bottiglie d'acqua e buste di latte. Lo raccolsero, erano in due, sollevandolo per la giacca e per i piedi lo misero in una bara di metallo. Quando la macchina mortuaria andò via, comparve nel negozio una signora che iniziò a mettere in ordine le buste sul pavimento, pulì gli schizzi di sangue finiti sulla vetrina dei salumi. I carabinieri lasciarono fare. Le tracce balistiche, le orme, gli indizi erano stati già raccolti. L'inutile almanacco delle tracce era stato già riempito. Per tutta la notte quella donna mise a posto il negozio, come se riordinare potesse cancellare ciò che era accaduto, come se il ritorno dell'ordine delle buste di latte e la messa in riga delle merendine potesse relegare solo ai pochi minuti in cui è avvenuto l'agguato, solo a quei minuti, il peso della morte.

Intanto a Scampia si era sparsa la voce che Cosimo Di Lauro avrebbe dato centocinquantamila euro a chiunque fosse riuscito a dare notizie fondamentali per rintracciare Gennaro Marino McKay. Una taglia alta, ma non altissima, per un impero economico come quello del Sistema di Secondigliano. Anche nel decidere la somma della taglia si è avuto l'accorgimento di non volere sovrastimare il nemico. Ma la taglia non porta frutti, arriva prima la polizia. In via Fratelli Cervi, al tredicesimo piano del palazzo, si erano riuniti tutti i dirigenti degli scissionisti rimasti ancora in zona. Come precauzione avevano blindato il pianerottolo. Al termine della rampa di scale una gabbia con tanto di cancelletto chiudeva il pianerottolo. Le porte blindate poi rendevano sicuro il luogo dell'incontro. La polizia circondò l'edificio. Ciò che li aveva blindati contro eventuali attacchi dei nemici, ora li condannava ad attendere senza poter far nulla, aspettare che i flex tagliassero le inferriate e la porta blindata venisse sfondata. Mentre attendevano l'arresto, gettarono dalla finestra uno zaino con mitra, pistole e bombe a mano. Cadendo il mitra sparò una raffica. Un colpo sfiorò un poliziotto che presidiava il palazzo, gli carezzò quasi la nuca. Per nervosismo iniziò a saltare, poi a sudare e infine ad avere una crisi d'ansia respirando convulsamente.


Crepare per un proiettile di rimbalzo sputato da un mitra lanciato dal tredicesimo piano è un'ipotesi che non si prende in considerazione. Quasi in un delirio iniziò a parlare da solo, a insultare tutti, farfugliava nomi e agitava le mani come se volesse liberarsi di zanzare dinanzi al viso e continuava:

"Se li sono cantati. Visto che loro non riuscivano ad arrivarci, se li sono cantati e ci hanno mandato noi… Noi facciamo il gioco di uno e dell'altro, gli salviamo la vita, a questi. Lasciamoli qua, si scannassero tra loro, si scannassero rutti, a noi che ce ne fotte?"

I suoi colleghi mi fecero segno di allontanarmi. Quella notte nella casa di via Fratelli Cervi arrestarono Arcangelo Abete e la sorella Anna, Massimiliano Cafasso, Ciro Mauriel-lo, Gennaro Notturno, l'ex fidanzato di Mina Verde, e Raffaele Notturno. Ma il vero colpo dell'arresto fu Gennaro McKay. Il leader scissionista. I Marino erano stati obiettivi primi della faida. Avevano bruciato le sue proprietà: il ristorante "Orchidea" in via Diacono a Secondigliano, una panetteria in corso Secondigliano e una pizzetteria in via Pietro Nenni ad Arzano. E anche la casa di Gennaro McKay, una villa in legno stile dacia russa situata in via Limitone d'Arza-no, era stata incendiata. Tra cubi di cemento armato, strade lacerate, tombini occlusi e illuminazione sporadica il boss delle Case Celesti era riuscito a strappare una parte di territorio e organizzarlo come un angolo di montagna. Aveva fatto costruire una villa di legno prezioso con nel giardino le palme libiche, le più costose. Qualcuno dice che era stato per affari in Russia ed era stato ospitato in una dacia, innamorandosene. E allora niente e nessuno poteva impedire a Gennaro Marino di far costruire nel cuore di Secondigliano una dacia, simbolo della forza dei suoi affari e ancor più promessa di successo per i suoi guaglioni che se sapevano come comportarsi prima o poi avrebbero potuto raggiungere quel lusso, anche alla periferia di Napoli, anche nel margine più cupo del Mediterraneo. Ora della dacia rimane solo lo scheletro di cemento e i legni carbonizzati. Il fratello di Gennaro,

Gaetano, fu scovato dai carabinieri in una camera del lussuoso albergo La Certosa a Massa Lubrense. Per non rischiare la pelle si era rinchiuso in una camera sul mare, un modo inaspettato per sottrarsi al conflitto. Il maggiordomo, l'uomo che sostituiva le sue mani, appena arrivarono i carabinieri li fissò in viso dicendo "mi avete rovinato la vacanza".

Ma l'arresto del gruppo degli Spagnoli non riuscì a tamponare l'emorragia della faida. Giuseppe Bencivenga viene ucciso il 27 novembre. Il 28 sparano a Massimo de Felice e poi il 5 dicembre è il turno di Enrico Mazzarella.

La tensione diviene una sorta di schermo che si frappone tra le persone. In guerra gli occhi smettono di essere distratti. Ogni faccia, ogni singola faccia deve dirti qualcosa. La devi decifrare. La devi fissare. Tutto muta. Devi sapere in quale negozio entrare, essere certo di ogni parola che pronunci. Per scegliere di passeggiare con qualcuno, devi sapere chi è. Devi raggiungere qualcosa sul suo conto che possa essere di più di una certezza, eliminare ogni possibilità che sia pedina sulla scacchiera del conflitto. Camminare vicini, rivolgersi la parola significa condividere il campo. In guerra tutti i sensi moltiplicano la propria soglia di attenzione, è come se si percepisse più acutamente, si guardasse più a fondo, si sentissero gli odori in maniera più forte. Anche se ogni accortezza non serve a nulla dinanzi alla decisione di un massacro. Quando si colpisce non si bada a chi salvare e chi condannare. In un'intercettazione telefonica, Rosario Fusco, accusato di essere un capozona dei Di Lauro, ha la voce molto tesa e cerca di essere convincente rivolgendosi al figlio:

"… Tu non devi stare con nessuno, questo è poco ma certo, io te l'ho scritto pure: vuoi scendere, a babbo, vuoi andare a fare una camminata con una ragazza, soltanto non devi stare con nessun ragazzo, perché non sappiamo con chi stanno o a chi appartengono. Allora se devono fare qualcosa a quello, tu ti trovi vicino, ti fanno pure a te. Hai capito qual è il problema oggi, questo, a babbo…"

Il problema è che non ci si può sentire esclusi. Non basta presumere che la propria condotta di vita potrà mettere al riparo da ogni pericolo. Non vale più dirsi: "si ammazzano tra loro". Durante un conflitto di camorra tutto quello che è stato costantemente costruito viene messo in pericolo, una recinzione di sabbia abbattuta da un'onda di risacca. Le persone cercano di passare silenziose, di ridurre al rrtinimo la loro presenza nel mondo. Poco trucco, colori anonimi, ma non solo. Chi ha l'asma e non riesce a correre si chiude in casa a chiave, ma trovando una scusa, inventandosi una motivazione, perché svelare di stare chiuso in casa potrebbe risultare una dichiarazione di colpevolezza: di non si sa quale colpa, ma pur sempre una confessione di paura. Le donne non indossano più tacchi alti, inadatti a correre. A una guerra non dichiarata ufficialmente, non riconosciuta dai governi e non raccontata dai reporter, corrisponde una paura non dichiarata, una paura che si ficca sotto pelle.

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