Il rischio del pentimento di Augusto La Torre e del suo stato maggiore è che possano esserci forti sconti di pena per il racconto di ciò che è stato, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri, soprattutto alle famiglie albanesi. Come se al fine di evitare ergastoli e faide interne per l'avvicendamento dei poteri, avessero deciso di usare la loro conoscenza dei fatti, riportati con precisione e veridicità, come mediazione per continuare a vivere soltanto del potere legale delle proprie attività. Augusto la cella non l'aveva mai sopportata, non riusciva a resistere a decenni di galera come i grandi boss vicino a cui era cresciuto. Aveva preteso che la mensa del carcere rispettasse la sua dieta vegetariana e siccome amava il cinema, ma non era possibile avere un videoregistratore in cella, più volte chiese a un editore di un'emittente locale dell'Umbria, dove si trovava detenuto, di mandare in onda quando ne aveva voglia, le tre parti de II Padrino, di sera, prima di addormentarsi.

Il pentimento di La Torre ha sempre grondato ambiguità secondo i magistrati, non è riuscito a rinunciare al suo ruolo di boss. E che le rivelazioni da pentito siano state un'estensione del suo potere, lo mostra una lettera che Augusto fece recapitare a suo zio dove lo rassicurava di averlo "salvato" da ogni coinvolgimento nelle vicende del clan, ma da abile narratore non risparmia una chiara minaccia a lui e altri due suoi parenti, scongiurando l'ipotesi che possa nascere a Mon-dragone un'alleanza contro il boss:

"Tuo genero e suo padre si sentono protetti da persone che portano a spasso il loro cadavere."

Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila chiedeva anche danaro, aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste che consegnava sempre al suo autista Pietro Scuttini, e alla madre. Quelle richieste, secondo la magistratura, erano estorsioni. Un biglietto dai toni cortesi, indirizzato al titolare di uno dei più grandi caseifici della costa domizia, è la prova che Augusto continuava a ritenerlo a sua disposizione.

"Caro Peppe ti chiedo un grosso favore perché sto rovinato, se vuoi aiutarmi, ma te lo chiedo soltanto in nome della nostra vecchia amicizia e non per altri motivi e anche se mi dirai di no, stai tranquillo ti salverò sempre! Mi servono urgentemente diecimila euro e poi devi dirmi se puoi darmi mille euro al mese, mi servono per vivere con i miei figli…"

Il tenore di vita a cui era abituata la famiglia La Torre andava ben oltre l'assistenza economica che lo Stato garantisce ai collaboratori di giustizia. Riuscii a comprendere il giro d'affari della famiglia solo dopo aver letto le carte del megasequestro eseguito su disposizione della magistratura di Santa Maria Capua Vetere nel 1992. Sequestrarono beni immobili per il valore attuale di circa duecentotrenta milioni di euro, diciannove imprese per un valore di trecentoventitré milioni di euro, ai quali si aggiunsero altri centotrentatré milioni di euro relativi agli impianti di lavorazione e ai macchinari. Si trattava di numerosi opifici, ubicati tra Napoli e Gaeta, lungo la zona domizia, tra i quali un caseificio, uno zuccherificio, quattro supermercati, nove ville sul mare, fabbricati con annessi terreni, oltre a vetture di grossa cilindrata e motociclette. Ogni azienda aveva circa sessanta dipendenti. I giudici disposero inoltre il sequestro della società che aveva in appalto la raccolta dei rifiuti nel comune di Mon-dragone. Fu un'operazione gigantesca che annullava un potere economico esponenziale, eppure microscopico rispetto al reale giro d'affari del clan. Sequestrarono anche una villa immensa, una villa la cui fama era arrivata anche ad Aberdeen. Quattro livelli a picco sul mare, piscina arredata con un labirinto subacqueo, costruita in zona Ariana di Gaeta, progettata come la villa di Tiberio, non il capostipite del clan di Mondragone, ma l'imperatore che si era ritirato a governare a Capri. Non sono mai riuscito a entrare in questa villa e la leggenda e le carte giudiziarie sono state le lenti attraverso cui ho saputo dell'esistenza di questo mausoleo imperiale, posto a guardia delle proprietà italiane del clan. La zona costiera avrebbe potuto essere una sorta di infinito spazio sul mare, capace di concedere ogni sorta di fantasia all'architettura. Invece col tempo la costa casertana è divenuta un'accozzaglia di case e villette costruite velocemente per invogliare un turismo enorme dal basso Lazio a Napoli. Nessun piano regolatore sulla costa domizia, nessuna licenza. Allora le villette da Castelvolturno a Mondragone sono divenute i nuovi alloggi dove stivare decine di africani e i parchi progettati, le terre che dovevano ospitare nuovi agglomerati di villette e palazzotti per vacanze e turismo sono diventate discariche incontrollate. Nessun depuratore posseduto dai paesi costieri. Un mare marroncino bagna ormai spiagge mischiate a monnezza. In una manciata di anni, ogni lontanissima penombra di bellezza è stata eliminata. D'estate alcuni locali domiziani divenivano veri e propri bordelli, alcuni miei amici si preparavano alla caccia serale mostrando il portafogli vuoto. Non di danaro, ma del francobollo di lamina con anima circolare, ossia del preservativo. Mostravano che andare a Mondragone a scopare senza preservativo era cosa tranquilla: "Stasera si fa senza!".

Il preservativo mondragonese era Augusto La Torre. Il boss aveva deciso di vegliare anche sulla salute dei suoi sudditi. Mondragone divenne una sorta di tempio per la sicurezza totale dalla più temuta delle malattie infettive. Mentre il mondo s'appestava di HIV, il nord del casertano era strettamente sotto controllo. Il clan era attentissimo e così teneva sott'osservazione le analisi di tutti. Per quel che poteva, aveva l'elenco completo dei malati, il territorio non doveva infettarsi. Così seppero subito che un uomo vicino ad Augusto, Fernando Brodella si era beccato I'HIV. Poteva essere rischioso, frequentava le ragazze del paese. Non pensarono di affidarlo a qualche buon medico né di pagargli delle cure adeguate: non fecero come il clan Bidognetti che pagava le operazioni nelle migliori cliniche europee ai propri affiliati, affidandoli ai medici più abili. Brodella fu avvicinato e ucciso a sangue freddo. Eliminare i malati per bloccare l'epidemia: era questo l'ordine del clan. Una malattia infettiva e per di più trasmessa con l'atto meno controllabile, il sesso, poteva essere fermata solo arginando per sempre gli infetti. I malati non avrebbero contagiato nessuno con certezza solo se gli si toglieva la possibilità di vivere.

Anche gli investimenti dei propri capitali in Campania dovevano essere sicuri. Avevano infatti comprato una villa che si trova nel territorio di Anacapri, una struttura che ospitava la stazione locale dei carabinieri. Ricevendo il fitto dai carabinieri erano certi di non incorrere in spiacevoli mancanze. I La Torre, quando capirono che la villa avrebbe reso di più col turismo, sfrattarono i carabinieri e frazionando la struttura in sei appartamenti con giardino e posto auto, la trasformarono in un centro turistico, prima che l'Antimafia arrivasse a sequestrare tutto. Investimenti lindi, sicuri, senza nessun azzardo speculativo sospetto.

Dopo il pentimento di Augusto, il nuovo boss Luigi Fragno-li sempre fedelissimo dei La Torre iniziò ad avere problemi con alcuni affiliati come Giuseppe Mancone detto "Rambo". Vaga somiglianza con Stallone, corpo pompato in palestra, stava mettendo su una piazza di spaccio che in breve l'avrebbe portato a essere un riferimento importante, e da lì a poco poteva scalciare i vecchi boss ormai con un carisma in frantumi dopo il pentimento. Secondo la Procura Antimafia, i clan mondrago-nesi avevano chiesto alla famiglia Birra di Ercolano di appaltargli alcuni killer. Così, per eliminare "Rambo" giungono a Mondragone, nell'agosto 2003, due ercolanesi. Arrivarono su quegli enormi scooteroni, poco agevoli ma talmente minacciosi d'aspetto che non si può resistere a guidarli per un agguato. Non avevano mai messo piede a Mondragone, ma riuscirono facilmente a individuare che la persona da uccidere era lì al Roxy Bar, come sempre. Lo scooter si fermò. Scese un ragazzo che a passo sicuro si avvicinò a "Rambo", gli scaricò addosso un intero caricatore e poi ritornò in sella allo scooter:

"Tutto a posto? Hai fatto?" ,

"Sì, ho fatto vai vai vai…"

Vicino al bar c'era un gruppo di ragazze, si stavano organizzando per il ferragosto. Appena videro arrivare il ragazzo di corsa capirono subito, non avevano confuso il rumore di un'automatica con quello dei petardi. Tutte si sdraiarono con il viso per terra, temendo di essere viste dal killer e quindi poter diventare dei testimoni. Ma una non abbassò lo sguardo. Una di loro continuò a fissare il killer senza abbassare gli occhi, senza schiacciare il suo seno sul catrame o coprirsi il viso con le mani. Era una maestra d'asilo di trentacinque anni. La donna testimoniò, fece i riconoscimenti, denunciò l'agguato. Nella molteplicità di motivi per cui poteva tacere, far finta di nulla, tornare a casa e vivere come sempre c'era la paura, il terrore delle intimidazioni e ancor più il senso dell'inutile, far arrestare un killer, uno dei tanti. E invece la maestra mondra-gonese trovò nella cianfrusaglia di ragioni per tacere un'unica motivazione, quella della verità. Una verità che ha il sapore della naturalezza, come un gesto solito, normale, ovvio, necessario come il respiro stesso. Denunciò senza chiedere nulla in cambio. Non pretese stipendi, scorta, non impose il prezzo alla sua parola. Svelò ciò che aveva visto, descrisse il viso del killer, gli zigomi spigolosi, le sopracciglia folte. Dopo aver sparato lo scooter fuggì per il paese sbagliando strada più volte, infilandosi in vicoli ciechi, tornando indietro. Piuttosto che killer sembravano turisti schizofrenici. Al processo scaturito dalle testimonianze della maestra venne condannato all'ergastolo Salvatore Cefariello, ventiquattro anni, killer considerato al soldo dei clan ercolanesi. Il magistrato che ha raccolto la testimonianza della maestra, la definì "una rosa nel deserto" spuntata in una terra dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto.

Eppure questa confessione le ha reso la vita difficile, è come se avesse impigliato il filo in un gancio e l'intera sua esistenza si fosse sfilacciata assieme al procedere della sua coraggiosa testimonianza. Stava per sposarsi ed è stata lasciata, ha perso il lavoro, è stata trasferita in una località protetta con uno stipendio minimo passatole dallo Stato per sopravvivere, una parte della famiglia si è allontanata da lei e una solitudine abissale le è crollata sulle spalle. Una solitudine che esplode violenta nel quotidiano quando si ha voglia di ballare e non si ha nessuno con cui farlo, cellulari che suonano a vuoto e amici che lentamente si diradano sino a non farsi sentire più. Non è la confessione in sé che fa paura, non è l'aver indicato un killer che genera scandalo. Non è così banale la logica d'omertà. Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere e questo in una terra dove verità è ciò che ti fa guadagnare e menzogna quello che ti fa perdere, diviene una scelta inspiegabile. Così succede che le persone che ti girano vicino si sentono in difficoltà, si sentono scoperte dallo sguardo di chi ha rinunciato alle regole della vita stessa, che loro invece hanno totalmente accettato. Hanno accettato senza vergogna, perché tutto sommato così deve andare, perché è così che è sempre andato, perché non si può mutare tutto con le proprie forze e quindi è meglio risparmiarle e mettersi in carreggiata e vivere come è concesso di vivere.

Ad Abeerden avevo sbattuto gli occhi contro la materia del successo dell'imprenditoria italiana. È strano osservare queste propaggini lontane, conoscendo il loro centro. Non so come descriverlo ma avere dinanzi i ristoranti, gli uffici, le assicurazioni, i palazzi, è come sentirsi presi per le caviglie, girati a testa in giù e poi sbattuti sino a far cadere dalle tasche gli spiccioli, le chiavi di casa e tutto ciò che può uscire dai pantaloni e dalla bocca, persino l'anima se è possibile commercializzarla. I flussi di capitale partivano ovunque, come raggiera che si alimentava succhiando energia dal proprio centro. Saperlo non è medesima cosa che vederlo. Avevo accompagnato Matteo a un colloquio di lavoro. Ovviamente l'avevano preso. Voleva che rimanessi anch'io ad Aberdeen.

"Qua basta essere quello che sei, Robbe'…"

Matteo aveva avuto bisogno di un'origine campana, aveva avuto bisogno di quell'alone per essere valutato per il suo curriculum, la sua laurea, per la sua voglia di fare. La stessa origine che in Scozia lo portava a essere un cittadino con tutti i normali diritti, in Italia l'aveva costretto a essere considerato poco più di uno scarto d'uomo, senza protezione, senza interesse, uno sconfitto in partenza perché non aveva fatto partire la propria vita nei percorsi giusti. D'improvviso gli era esplosa una felicità mai vista prima. Più andava su di giri, più mi saliva un'amara malinconia. Non sono mai riuscito a sentirmi distante, abbastanza distante da dove sono nato, lontano dai comportamenti delle persone che odiavo, realmente diverso dalle dinamiche feroci che schiacciavano vite e desideri. Nascere in certi luoghi significa essere come il cucciolo del cane da caccia che nasce già con l'odore di lepre nel naso. Contro ogni volontà, dietro la lepre ci corri lo stesso: anche se poi dopo averla raggiunta, puoi lasciarla scappare serrando i canini. E io riuscivo a capire i tracciati, le strade, i sentieri, con ossessione inconsapevole, con una capacità maledetta di capire sino in fondo i territori di conquista.

Volevo soltanto andarmene dalla Scozia, andarmene per non metterci più piede. Partii il prima possibile. Sull'aereo era difficile prendere sonno, i vuoti d'aria, il buio fuori dal finestrino, mi prendevano direttamente alla gola come se una cravatta stringesse forte il suo nodo proprio sul pomo d'Adamo. La claustrofobia forse non era dovuta al posto striminzito e all'aereo minuscolo, né al buio fuori dal finestrino: ma alla sensazione di sentirmi stritolato in una realtà di cose che somigliava a un pollaio di bestie affamate e ammassate, pronte a mangiare per essere mangiate. Come se tutto fosse un unico territorio con un'unica dimensione e un'unica sintassi ovunque comprensibile. Una sensazione di non scampo, una costrizione a essere parte della grande battaglia o a non essere. Tornavo in Italia con in mente chiaramente le due strade più rapide di qualsiasi alta velocità, le quali veicolano in un senso i capitali che vanno a sfociare nella grande economia europea, e nell'altro portavano a sud tutto ciò che altrove avrebbe infettato; facendolo entrare e uscire per le maglie forzate dell'economia aperta e flessibile, riuscendo in un ciclo continuo di trasformazione a creare altrove ricchezze che mai avrebbero potuto innescare qualsivoglia forma di sviluppo nei luoghi dove si originava la metamorfosi. I rifiuti avevano gonfiato la pancia del sud Italia, l'avevano estesa come quello di un ventre gravido, il cui feto non sarebbe mai cresciuto e che avrebbe abortito danaro per poi subito ringravidarsi, fino di nuovo ad abortire, e nuovamente riempirsi sino a sfasciare il corpo, ingolfare le arterie, otturare i bronchi, distruggere le sinapsi. Continuamente, continuamente, continuamente.


Terra dei fuochi

Immaginare non è complicato. Formarsi nella mente una persona, un gesto, o qualcosa che non esiste, non è difficile. Non è complesso immaginare persino la propria morte. Ma la cosa più complicata è immaginare l'economia in tutte le sue parti. I flussi finanziari, le percentuali di profitto, le contrattazioni, i debiti, gli investimenti. Non ci sono fisionomie da visualizzare, cose precise da ficcarsi in mente. Si possono immaginare le diverse determinazioni dell'economia, ma non i flussi, i conti bancari, le operazioni singole. Se si prova a immaginarla, l'economia, si rischia di tenere gli occhi chiusi per concentrarsi e spremersi sino a vedere quelle psichedeliche deformazioni colorate sullo schermo della palpebra.

Sempre più tentavo di ricostruire in mente l'immagine dell'economia, qualcosa che potesse dare il senso della produzione, della vendita, le operazioni dello sconto e dell'acquisto. Era impossibile trovare un'organigramma, una precisa compattezza iconica. Forse l'unico modo per rappresentare l'economia nella sua corsa era intuire ciò che lasciava, inseguirne gli strascichi, le parti che come scaglie di pelle morta lasciava cadere mentre macinava il suo percorso.

Le discariche erano l'emblema più concreto d'ogni ciclo economico. Ammonticchiano tutto quanto è stato, sono lo strascico vero del consumo, qualcosa in più dell'orma lasciata da ogni prodotto sulla crosta terrestre. Il sud è il capolinea di tutti gli scarti tossici, i rimasugli inutili, la feccia della produzione. Se i rifiuti sfuggiti al controllo ufficiale — secondo una stima di Legambiente — fossero accorpati in un'unica soluzione, nel loro complesso diverrebbero una catena montuosa da quattordici milioni di tonnellate: praticamente come una montagna di 14.600 metri con una base di tre ettari. Il Monte Bianco è alto 4.810 metri, l'Everest 8.844. Questa montagna di rifiuti, sfuggiti ai registri ufficiali, sarebbe la più grande montagna esistente sulla terra. È così che ho immaginato il DNA dell'economia, le sue operazioni commerciali, le sottrazioni e le somme dei commercialisti, i dividendi dei profitti: come questa enorme montagna. Una catena montuosa enorme che — come fosse stata fatta esplodere — si è dispersa per la parte maggiore nel sud Italia, nelle prime quattro regioni con il più alto numero di reati ambientali: Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. Lo stesso elenco di quando si parla dei territori con i maggiori sodalizi criminali, con il maggior tasso di disoccupazione e con la partecipazione più alta ai concorsi per volontari nell'esercito e nelle forze di polizia. Un elenco sempre uguale, perenne, immutabile. Il casertano, la terra dei Mazzoni, tra il Garigliano e il Lago Patria, per trent'anni ha assorbito tonnellate di rifiuti, tossici e ordinari.

La zona più colpita dal cancro del traffico di veleni si trova tra i comuni di Grazzanise, Cancello Arnone, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno, Casal di Principe — quasi trecento chilometri quadrati di estensione — e nel perimetro napoletano di Giugliano, Qualiano, Villaricca, Nola, Acerra e Mariglia-no. Nessun'altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico maggiore di rifiuti, tossici e non tossici, sversati illegalmente. Grazie a questo business, il fatturato piovuto nelle tasche dei clan e dei loro mediatori ha raggiunto in quattro anni quarantaquattro miliardi di euro. Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29.8 per cento, paragonabile solo all'espansione del mercato della cocaina. Dalla fine degli anni '90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti. Già nella relazione al Parlamento, fatta nel 2002 dal Ministro dell'Interno, si parlava chiaramente di un passaggio dalla raccolta dei rifiuti a un patto imprenditoriale con alcuni addetti ai lavori, finalizzato all'esercizio di un controllo totale sull'intero ciclo. Il clan dei Casalesi, nella sua doppia diramazione, una diretta da Schiavone Sandokan e l'altra da Francesco Bidognetti, alias Cicciotto di Mezzanotte, si spartisce il grande business, un così enorme mercato che — pur con continue tensioni — non li ha mai portati a uno scontro frontale. Ma i Casalesi non sono da soli. C'è il clan Maliardo di Giugliano, un cartello abilissimo nel dislocare in maniera rapida i proventi dei propri traffici, e capace di veicolare sul proprio territorio una quantità immensa di rifiuti. Nel giuglianese è stata scoperta una cava dismessa completamente ricolma di rifiuti. La stima della quantità sversata corrisponde a circa ventottomila Tir. Una massa rappresentabile immaginando una fila di camion, uno appoggiato al paraurti dell'altro, che va da Caserta a Milano.

I boss non hanno avuto alcun tipo di remora a foderare di veleni i propri paesi, a lasciar marcire le terre che circoscrivono le proprie ville e i propri domini. La vita di un boss è breve, il potere di un clan tra faide, arresti, massacri ed ergastoli non può durare a lungo. Ingolfare di rifiuti tossici un territorio, circoscrivere i propri paesi di catene montuose di veleni può risultare un problema solo per chi possiede una dimensione di potere a lungo termine e con responsabilità sociale. Nel tempo immediato dell'affare c'è invece solo il margine di profitto elevato e nessuna controindicazione. La parte più consistente dei traffici di rifiuti tossici ha un vettore unico: nord-sud. Dalla fine degli anni '90 diciottomila tonnellate di rifiuti tossici partiti da Brescia sono stati smaltiti tra Napoli e Caserta e un milione di tonnellate, in quattro anni, sono tutte finite a Santa Maria Capua Vetere. Dal nord i rifiuti trattati negli impianti di Milano, Pavia e Pisa venivano spediti in Campania. La Procura di Napoli e quella di Santa Maria Capua Vetere hanno scoperto nel gennaio 2003, grazie alle indagini coordinate dal pubblico ministero Donato Ceglie, che in quaranta giorni oltre seimilacinquecento tonnellate di rifiuti dalla Lombardia sono giunte a Trentola Ducenta, vicino a Caserta.

Le campagne del napoletano e del casertano sono mappamondi della monnezza, cartine al tornasole della produzione industriale italiana. Visitando discariche e cave è possibile vedere il destino di interi decenni di prodotti industriali italiani. Mi è sempre piaciuto girare con la Vespa nelle stradu-cole che costeggiano le discariche. È come camminare sui residui di civiltà, stratificazioni di operazioni commerciali, è come fiancheggiare piramidi di produzioni, tracce di chilometri consumati. Strade di campagna spesso terribilmente cementificate per agevolare l'arrivo dei camion. Territori dove la geografia degli oggetti si compone di un mosaico vario e molteplice. Ogni scarto di produzione e d'attività ha la sua cittadinanza in queste terre. Una volta un contadino stava arando un campo che aveva appena comperato, esattamente al confine tra il napoletano e il casertano. Il motore del trattore si ingolfava, era come se la terra quel giorno fosse particolarmente compatta. D'improvviso iniziarono a spuntare ai lati del vomere brandelli di carta. Erano soldi. Migliaia e migliaia di banconote, centinaia di migliaia. Il contadino si catapultò dal trattore e iniziò a raccogliere freneticamente tutti i brandelli di danaro, come un bottino nascosto chissà da quale bandito, frutto di chissà quale immensa rapina. Erano soltanto soldi tagliuzzati e scoloriti. Banconote triturate provenienti dalla Banca d'Italia, tonnellate di balle di soldi consumati e finiti fuori conio. Il tempio della lira era finito sotto terra, i rimasugli della vecchia cartamoneta rilasciavano il loro piombo in un campo di cavolfiori.

Vicino a Villaricca i carabinieri individuarono un terreno dove erano state accumulate le carte utilizzate per la pulizia delle mammelle delle vacche, provenienti da centinaia di allevamenti veneti, emiliani, lombardi. Le mammelle delle vacche vengono continuamente pulite, due, tre, quattro volte al giorno. Ogni volta che devono inserire le ventose dei mungitori automatici gli stallieri devono pulirle. Spesso poi le vacche si ammalano di mastiti e patologie simili, e iniziano a secernere pus e sangue, ma la vacca non viene messa a riposo: semplicemente ogni mezz'ora bisogna nettarla, altrimenti il pus e il sangue finiscono nel latte e interi fusti si pregiudicano. Quando passavo per le colline di carta di mammella, sentivo puzza di latte andato a male. Forse era solo suggestione, forse quel colore giallastro delle carte ammonticchiate deformava anche i sensi. Fatto è che questi rifiuti, accumulati in decenni, hanno ristrutturato gli orizzonti, fondato nuovi odori, fatto comparire chiazze di colline inesistenti, le montagne divorate dalle cave hanno d'improvviso riavuto la massa perduta. Passeggiare nell'entroterra campano è come assorbire gli odori di tutto quanto producono le industrie. A vedere mescolato alla terra il sangue arterioso e venoso delle fabbriche di tutto il territorio, viene in mente qualcosa di simile alla palla di plastilina assemblata dai bambini con tutti i colori disponibili. Vicino a Grazzanise era stata accumulata tutta la terra di spazzamento della città di Milano. Per decenni tutta la spazzatura raccolta nelle pattumiere dai netturbini milanesi, quella scopata al mattino, era stata raccolta e spedita da queste parti. Dalla provincia di Milano ogni giorno ottocento tonnellate di rifiuti finiscono in Germania. La produzione complessiva è però di milletrecento tonnellate. Ne mancano quindi all'appello cinquecento. Non si sa dove vanno a finire. Con grande probabilità questi rifiuti fantasma vengono sparpagliati in giro per il Mezzogiorno. Ci sono anche i toner delle stampanti ad ammorbare la terra, come scoperto dall'operazione del 2006 "Madre Terra" coordinata dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Tra Villa Literno, Castelvolturno e San Tammaro, i toner delle stampanti d'ufficio della Toscana e della Lombardia venivano sversati di notte da camion che ufficialmente trasportavano compost, un tipo di concime. L'odore era acido e forte, ed esplodeva ogni volta che pioveva. Le terre erano cariche di cromo esavalente. Se inalato, si fissa nei globuli rossi e nei capelli e provoca ulcere, difficoltà respiratorie, problemi renali e cancro ai polmoni. Ogni metro di terra ha il suo carico particolare di rifiuti. Una volta un mio amico dentista mi aveva raccontato che alcuni ragazzi gli avevano portati dei teschi. Dei teschi veri, di esseri umani, per fargli pulire i denti. Come tanti piccoli Amleto avevano in una mano il cranio e nell'altra una mazzetta di soldi per pagare l'intervento di pulizia dentale. Il dentista li cacciava dal suo studio e poi mi faceva telefonate nervose: "Ma dove cazzo li prendono 'stì. teschi? Dove se li vanno a cercare?". Immaginava scene apocalittiche, riti satanici, ragazzini iniziati al verbo di Belzebù. Ridevo. Non era difficile capire da dove venivano. Passando vicino Santa Maria Capua Vetere una volta avevo bucato la ruota della Vespa. Il pneumatico si era tagliato passando sopra a una specie di bastone affilato che credevo fosse un femore di bufalo. Ma era troppo piccolo. Era un femore umano. I cimiteri fanno esumazioni periodiche, tolgono quello che i becchini più giovani chiamano "gli arcimorti", quelli messi sotto terra da più di quarant'anni. Dovrebbero smaltirli assieme alle bare e a tutto il materiale cimiteriale, lucine comprese, attraverso ditte specializzate. H costo dello smaltimento è elevatissimo, e così i direttori dei cimiteri danno una mazzetta ai becchini per farli scavare, e poi buttano tutto sui camion. Terra, bare macerate e ossa. Trisavoli, bisnonni, avi di chissà quali città si ammonticchiavano nelle campagne casertane. Se ne sversavano talmente tanti, come scoperto dai NAS di Caserta nel febbraio 2006, che ormai la gente quando passava vicino si faceva il segno della croce, come fosse un cimitero. I ragazzini fregavano i guanti da cucina alle loro madri e — scavando con mani e cucchiai — cercavano i teschi e le gabbie toraciche intatte. Un teschio con i denti bianchi, i venditori dei mercatini delle pulci potevano comprarlo anche a cento euro. Una gabbia toracica intatta invece, con tutte le costole al loro posto, fino a trecento euro. Tibie, femori e braccia non hanno mercato. Le mani sì, ma si perdono facilmente i pezzi nella terra. I teschi

con i denti neri valgono cinquanta euro. Non hanno un grande mercato, alla clientela sembra non fare schifo l'idea della morte, quanto piuttosto il fatto che lo smalto dei denti lentamente inizi a marcire.

Da nord verso sud i clan riescono a drenare di tutto. Il vescovo di Nola definì il sud Italia la discarica abusiva dell'Italia ricca e industrializzata. Le scorie derivanti dalla metallurgia termica deU'alluminio, le pericolose polveri di abbattimento fumi, in particolare quelle prodotte dall'industria siderurgica, dalle centrali termoelettriche e dagli inceneritori. Le morchie di verniciatura, i liquidi reflui contaminati da metalli pesanti, amianto, terre inquinate provenienti da attività di bonifica che vanno a inquinare altri terreni non contaminati. E ancora rifiuti prodotti da società o impianti pericolosi di petrolchimici storici come quello dell'ex Enichem di Priolo, i fanghi conciari della zona di Santa Croce sull'Arno, i fanghi dei depuratori di Venezia e di Forlì di proprietà di società a prevalente capitale pubblico.

Il meccanismo dello smaltimento illecito parte da imprenditori di grosse aziende o anche da piccole imprese che vogliono smaltire a prezzi irrisori le loro scorie, il materiale di risulta da cui più nulla è possibile ricavare se non costi. Al secondo passaggio ci sono i titolari di centri di stoccaggio che attuano la tecnica del giro di bolla, raccolgono i rifiuti e in molti casi li miscelano con rifiuti ordinari, diluendo la concentrazione tossica e declassificando, rispetto al CER, il catalogo europeo dei rifiuti, la pericolosità dei rifiuti tossici.

I chimici sono fondamentali per ribattezzare un carico da rifiuti tossici in innocua immondizia. Molti forniscono un formulario di identificazione falso con codici di analisi menzognere. Poi ci sono i trasportatori che percorrono il paese per raggiungere il sito prescelto per smaltire, e infine ci sono gli smaltitori. Questi possono essere gestori di discariche autorizzate o di un impianto di compostaggio dove i rifiuti vengono coltivati per farne concime, ma possono anche essere proprietari di cave dismesse o di terreni agricoli adibiti a discariche abusive. Laddove c'è uno spazio con un proprietario, lì può esserci uno smaltitore. Elementi necessari nel far funzionare l'intero meccanismo sono i funzionari e dipendenti pubblici che non controllano, né verificano le varie operazioni, o danno in gestione cave e discariche a persone chiaramente inserite nelle organizzazioni criminali. I clan non devono fare patti di sangue con i politici, né allearsi con interi partiti. Basta un funzionario, un tecnico, un dipendente, uno qualsiasi che vuole far lievitare il proprio stipendio e così, con estrema flessibilità e silenziosa discrezione, si riesce a ottenere che l'affare si svolga, con profitto per ogni parte coinvolta. I veri artefici della mediazione però sono gli stakeholder. Sono loro i veri geni criminali dell'imprenditoria dello smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi. In questo territorio, tra Napoli, Salerno e Caserta si foggiano i migliori stakeholder d'Italia. Per stakeholder si intende — nel gergo aziendale — quelle figure d'impresa che sono coinvolte nel progetto economico e che con la loro attività sono direttamente, o indirettamente, in grado di influenzarne gli esiti. Gli stakeholder dei rifiuti tossici erano ormai divenuti un vero e proprio ceto dirigente. E non era raro sentirmi dire nei periodi di marcescente disoccupazione della mia vita: "Sei laureato, le competenze ce le hai, perché non ti metti a fare lo stake?".

Per i laureati del sud, senza padri avvocati o notai, era una strada certa all'arricchimento e alle soddisfazioni professionali. Laureati, bella presenza, divenivano mediatori dopo qualche anno passato negli USA O in Inghilterra a specializzarsi in politiche dell'ambiente. Ne ho conosciuto uno. Uno dei primi, uno dei migliori. Prima di ascoltarlo, prima di osservare il suo lavoro non avevo capito nulla della miniera dei rifiuti. Si chiamava Franco, l'avevo conosciuto in treno, di ritorno da Milano. Si era ovviamente laureato alla Bocconi ed era diventato esperto in Germania di politiche per il recupero ambientale. Una delle abilità somme degli stakeholder è quello di conoscere a memoria il CER e di comprendere come destreggiarsi al suo interno. Questo gli permetteva di capire come trattare i rifiuti tossici, come aggirare le norme, come presentarsi alla comunità imprenditoriale con scorciatoie clandestine. Franco era originario di Villa Literno e voleva coinvolgermi nel suo mestiere. Aveva iniziato a raccontarmi del suo lavoro partendo dall'aspetto. Norme e divieti del successo di uno stakeholder. Se ti stavi stempiando, o avevi la chierica, dovevi evitare tassativamente riporti e parrucchi-ni. Era vietato, per un'immagine vincente, avere capelli lunghi ai lati del cranio per coprire gli spazi vuoti della pelata. Il cranio doveva essere rasato, o al massimo con una rada peluria di capelli corti. Secondo Franco, lo stakeholder se invitato a una festa, doveva essere sempre accompagnato da una donna, ed evitare di fare lo squallido tampinatore di tutte le gonne presenti. Se non aveva una fidanzata o non ne aveva una all'altezza, lo stakeholder doveva pagare le escort, le accompagnatrici di lusso, quelle più eleganti. Gli stakeholder dei rifiuti si presentano dai proprietari delle imprese chimiche, dalle concerie, dalle fabbriche di plastica e propongono il loro listino di prezzi.

Lo smaltimento è un costo che nessun imprenditore italiano sente necessario. Gli stake ripetono sempre la stessa medesima metafora: "Per loro è più utile la merda che cacano piuttosto che i rifiuti, per smaltire i quali devono sborsare valigie di soldi". Non devono però mai dare l'impressione di star offrendo un'attività criminale. Gli stakeholder mettono in contatto le industrie con gli smaltitori dei clan e, seppure da lontano, coordinano ogni passaggio dello smaltimento.

Esistono due tipi di produttori di rifiuti: quelli che non hanno altro obiettivo se non risparmiare sul prezzo del servizio, non curandosi dell'affidabilità delle ditte a cui appaltano lo smaltimento. Sono quelli che vedono la loro responsabilità terminare appena fanno uscire i fusti dei veleni dal perimetro delle loro aziende. E quelli direttamente implicati nelle operazioni illegali, che smaltiscono loro stessi illegalmente i rifiuti. In entrambi i casi la mediazione degli stakeholder è necessaria per garantire i servizi di trasporto e l'indicazione del luogo di smaltimento, e l'aiuto per rivolgersi a chi di dovere per la declassificazione di un carico. L'ufficio degli stakeholder è la loro automobile. Con un telefono e un portatile muovono centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti. Il loro guadagno va a percentuali sui contratti con le aziende, in relazione ai chili appaltati da smaltire. Gli stakeholder hanno un listino variabile. I diluenti, che per esempio uno stakeholder legato ai clan può smaltire, vanno dai dieci ai trenta centesimi al chilo. Il pentasolfuro di fosforo un euro al chilo. Terre di spazzamento delle strade, cinquantacinque centesimi al chilo; imballaggi con residui di rifiuti pericolosi, un euro e quaranta centesimi al chilo; fino a due euro e trenta centesimi al chilo le terre contaminate; gli inerti cimiteriali quindici centesimi al chilo; ifluff, le parti non in metallo delle auto, un euro e ottantacinque centesimi al chilogrammo, trasporto compreso. I prezzi proposti ovviamente tengono conto delle esigenze dei clienti e delle difficoltà di trasporto. I quantitativi gestiti dagli stakeholder sono enormi, i loro margini di guadagno esponenziali.

L'"Operazione Houdini" del 2004 ha dimostrato che un unico impianto in Veneto gestiva illegalmente circa duecentomila tonnellate di rifiuti l'anno. Il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici impone prezzi qhe vanno dai ventuno a sessantadue centesimi al chilo. I clan forniscono lo stesso servizio a nove o dieci centesimi al chilo. Gli stakeholder campani sono riusciti, nel 2004, a garantire che ottocento tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di una azienda chimica, fossero trattate al prezzo di venticinque centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell'80 per cento sui prezzi ordinari.

La reale forze dei mediatori, degli stakeholder che lavorano con la camorra, è la capacità di garantire un servizio in ogni sua parte, mentre i mediatori delle imprese legali propongono prezzi maggiorati, esenti dal trasporto. Eppure gli stakeholder non vengono quasi mai affiliati nei clan. Non serve. La non affiliazione è un vantaggio per le due parti. Gli stakeholder possono lavorare per diverse famiglie, come battitori liberi, senza dover subire obblighi militari, particolari imposizioni, senza divenire pedine da battaglia. In ogni operazione della magistratura ne beccano diversi, ma le condanne non sono mai pesanti, poiché è difficile dimostrare la loro diretta responsabilità, dato che formalmente non prendono parte a nessun passaggio della catena dello smaltimento criminale dei rifiuti.

Col tempo ho imparato a vedere con gli occhi degli stakeholder. Uno sguardo diverso da quello del costruttore. Un costruttore vede lo spazio vuoto come qualcosa da riempire, cerca di mettere il pieno nel vuoto; gli stakeholder pensano invece a come trovare il vuoto nel pieno.

Franco, quando camminava, non osservava il paesaggio, ma pensava a come poterci ficcare qualcosa dentro. Come vedere tutto l'esistente a mo' di grande tappeto e cercare nelle montagne, ai lati delle campagne, il lembo da sollevare per spazzarci sotto tutto quanto è possibile. Una volta, mentre camminavamo, Franco notò la piazzola abbandonata di una pompa di benzina, e pensò immediatamente che i serbatoi sotterranei avrebbero potuto ospitare decine di piccoli fusti di rifiuti chimici. Una tomba perfetta. E così era la sua vita, una continua ricerca di vuoto. Franco poi aveva cessato di fare lo stakeholder, di macinare chilometri con le auto, a presentarsi agli imprenditori del nord est, a essere chiamato in mezza Italia. Aveva messo su un corso di formazione professionale. Gli allievi più importanti di Franco erano cinesi. Venivano da Hong Kong. Gli stakeholder orientali avevano imparato da quelli italiani a trattare con le aziende d'ogni parte d'Europa, a proporre prezzi e soluzioni veloci. Quando in Inghilterra avevano aumentato i costi dello smaltimento, si presentarono gli stakeholder cinesi allievi dei campani. A Rotterdam la polizia portuale olandese ha scoperto nel marzo 2005, in partenza per la Cina, mille tonnellate di rifiuti urbani inglesi spacciati ufficialmente per carta da macero da riciclare. Un milione di tonnellate di rifiuti hi-tech ogni anno partono dall'Europa e vengono sversati in Cina. Gli stakeholder li dislocano a Guiyu, a nord est di Hong Kong. Intombati, stipati sottoterra, affondati nei laghi artificiali. Come nel casertano. Hanno così velocemente inquinato Guiyu che le falde acquifere sono completamente compromesse, al punto da essere costretti a importare dalle province vicine l'acqua potabile. Il sogno degli stakeholder di Hong Kong è fare di Napoli il porto di snodo dei rifiuti europei, un centro di raccolta galleggiante dove poter stipare nei container l'oro di spazzatura da intombare nelle terre di Cina.

Gli stakeholder campani erano i migliori, avevano battuto la concorrenza dei calabresi, dei pugliesi e dei romani perché, grazie ai clan, avevano fatto delle discariche campane un enorme discount, senza soluzione di continuità. In trent'anni di traffici sono riusciti a incamerare di tutto, a smaltire ogni cosa con un unico obiettivo: abbattere i costi e aumentare le quantità da appaltare. L'inchiesta "Re Mida" del 2003, che prende il nome da una telefonata intercettata di un trafficante: "E noi appena tocchiamo la monnezza la facciamo diventare oro", mostrava che ogni passaggio del ciclo dei rifiuti riceveva la sua quota di profitto.

Quando ero in macchina con Franco ascoltavo le sue telefonate. Dava consulenze immediate su come e dove smaltire i rifiuti tossici. Parlava di rame, arsenico, mercurio, cadmio, piombo, cromo, nichel, cobalto, molibdeno, passava dai residui di conceria a quelli ospedalieri, dai rifiuti urbani ai pneumatici, spiegava come trattarli, aveva in mente interi elenchi di persone e siti di smaltimento a cui rivolgersi. Pensavo ai veleni mischiati al compost, pensavo alle tombe per fusti ad alta tossicità scavate nel corpo delle campagne. Divenivo pallido. Franco se n'accorgeva.

"Ti fa schifo questo mestiere? Robbe', ma lo sai che gli stakeholder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo alle loro aziende?"

Franco era nato in un luogo che l'aveva addestrato bene, sin da bambino. Sapeva che negli affari si guadagna o si perde — non c'è spazio per altro — e lui non voleva perdere, né far perdere coloro per cui lavorava. Ciò che si diceva e mi diceva, le scuse che si raccontava erano però dati feroci, una lettura inversa rispetto a come avevo sino ad allora visto lo smaltimento dei rifiuti tossici. Unendo tutti i dati emersi dalle inchieste condotte dalla Procura di Napoli e dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere dalla fine degli anni '90 a oggi, è possibile comprendere che il vantaggio economico per le aziende che si sono rivolte a smaltitori della camorra è quantificabile in cinquecento milioni di euro. Ero cosciente che le inchieste giudiziarie avevano scoperto solo una percentuale parziale delle infrazioni e quindi mi veniva come una vertigine. Molte aziende settentrionali erano riuscite a crescere, assumere, erano riuscite a rendere competitivo l'intero tessuto industriale del paese al punto da poterlo spingere in Europa, liberando le aziende dalla zavorra del costo dei rifiuti che gli era stata alleggerita dai clan napoletani e casertani. Schiavone, Maliardo, Moccia, Bidognetti, La Torre e tutte le altre famiglie avevano offerto un servizio criminale in grado di rilanciare l'economia e renderla competitiva. L'operazione "Cassiopea" del 2003 dimostrò che ogni settimana partivano dal nord al sud quaranta Tir ricolmi di rifiuti e — secondo la ricostruzione degli inquirenti — venivano sversati, seppelliti, gettati, interrati cadmio, zinco, scarto di vernici, fanghi da depuratori, plastiche varie, arsenico, prodotti delle acciaierie, piombo. La direttrice nord-sud era la strada privilegiata dai trafficanti. Molte imprese venete e lombarde, attraverso gli stakeholder, avevano adottato un territorio nel napoletano o nel casertano trasformandolo in un'enorme discarica. Si stima che negli ultimi cinque anni in Campania siano stati smaltiti illegalmente circa tre milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipo, di cui un milione solo nella provincia di Caserta. Il casertano è un'area che nel "piano regolatore" dei clan è stata assegnata alla sepoltura dei rifiuti.

Un ruolo rilevante, nella geografia dei traffici illeciti, viene svolto dalla Toscana, la regione più ambientalista d'Italia. Qui si concentrano diverse filiere dei traffici illegali, dalla produzione all'intermediazione, tutte emerse in almeno tre inchieste: l'operazione "Re Mida", l'operazione "Mosca" e quella denominata "Agricoltura biologica" del 2004.

Dalla Toscana non arrivano soltanto ingenti quantitativi di rifiuti gestiti illegalmente. La regione diviene una vera e propria base operativa fondamentale per tutta una serie di soggetti impegnati in queste attività criminali: dagli stakeholder ai chimici conniventi, sino ai proprietari dei siti di compostaggio che permettono di fare le miscele. Ma il territorio del riciclaggio dei rifiuti tossici sta aumentando i suoi perimetri. Altre inchieste hanno rivelato il coinvolgimento di regioni che sembravano immuni, come l'Umbria e il Molise. Qui, grazie all'operazione "Mosca", coordinata dalla Procura della Repubblica di Larino nel 2004, è emerso lo smaltimento illecito di centoventi tonnellate di rifiuti speciali provenienti da industrie metallurgiche e siderurgiche. I clan erano riusciti a triturare trecentoventi tonnellate di manto stradale dismesso ad altissima densità catramosa, e avevano individuato un sito di compostaggio disponibile a mischiarlo'a terra, e quindi a occultarlo nelle campagne umbre. Il riciclo arriva a metamorfosi capaci di guadagnare esponenzialmente a ogni singolo passaggio. Non bastava nascondere i rifiuti tossici, ma si poteva trasformarli in fertilizzanti, ricevendo quindi danaro per vendere i veleni. Quattro ettari di terreno a ridosso del litorale molisano furono coltivati con concime ricavato dai rifiuti delle concerie. Vennero rinvenute nove tonnellate di grano contenenti un'elevatissima concentrazione di cromo. I trafficanti avevano scelto il litorale molisano — nel tratto da Termoli a Campomarino — per smaltire abusivamente rifiuti speciali e pericolosi provenienti da diverse aziende del nord Italia. Ma è il Veneto il vero centro di stoccaggio, secondo le indagini coordinate negli ultimi anni dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Da anni alimenta i traffici illegali sul territorio nazionale. Le fonderie settentrionali fanno smaltire le scorie senza precauzioni, mischiandolo al compost usato per concimare centinaia di campi agricoli.

Gli stakeholder campani spesso utilizzano le strade del narcotraffico che i clan mettono a disposizione per trovare nuovi territori da scavare, nuove tombe da riempire. Già nell'inchiesta "Re Mida" diversi trafficanti stavano tessendo rapporti per organizzare un traffico di rifiuti in Albania e in Costarica. Ma ogni canale ormai è diventato possibile. Traffici verso est, verso la Romania, dove i Casalesi hanno centinaia e centinaia di ettari di terreno; o nei paesi africani, Mozambico, Somalia e Nigeria. Tutti paesi dove i clan hanno da sempre appoggi e contatti. Una delle cose che mi sconvolgeva era vedere i volti dei colleghi di Franco, i visi degli stakeholder campani tesi e preoccupati i giorni dello tsunami. Appena osservavano le immagini del disastro nei telegiornali, impallidivano. Era come se ognuno di loro avesse mogli, amanti e figli in pericolo. In realtà in pericolo c'era qualcosa di più prezioso: i loro affari. A causa dell'onda del maremoto infatti vennero trovati sulle spiagge della Somalia, tra Obbia e Warsheik, centinaia di fusti stracolmi di rifiuti pericolosi o radioattivi intombati negli anni '80 e '90. L'attenzione avrebbe potuto bloccare i loro nuovi traffici, le nuove valvole di sfogo. Ma il rischio fu subito scongiurato. Le campagne di beneficenza per i profughi distolsero l'attenzione sui bidoni di veleni fuoriusciti dalla terra, che galleggiavano a fianco dei cadaveri. Il mare stesso stava divenendo territorio di smaltimento continuo. Sempre più i trafficanti riempivano le stive delle navi di rifiuti e poi, simulando un incidente, le lasciavano affondare. Il guadagno era doppio. L'assicurazione pagava per l'incidente e i rifiuti si intombavano in mare, sul fondo.

Mentre i clan trovavano spazio ovunque per i rifiuti, l'amministrazione della regione Campania dopo dieci anni di commissariamento per infiltrazioni camorristiche non riusciva più a trovare il modo di smaltire la sua spazzatura. In Campania finivano illegalmente i rifiuti d'ogni parte d'Italia, mentre la monnezza campana nelle situazioni di emergenza veniva spedita in Germania a un prezzo di smaltimento cinquanta volte superiore a quello che la camorra proponeva ai suoi clienti. Le indagini segnalano che solo nel napoletano su diciotto ditte di raccoglimento rifiuti, quindici sono direttamente legate ai clan camorristici.

Il territorio è ingolfato di spazzatura, e sembra impossibile trovare soluzione. Per anni i rifiuti sono stati ammonticchiati in ecoballe, enormi cubi di spazzatura tritata e imballata in fasce bianche. Solo per smaltire quelle accumulate sino a ora ci vorrebbero cinquantasei anni. L'unica soluzione che sembra essere proposta è quella degli inceneritori. Come ad Acerra, che ha generato rivolte e proteste feroci che hanno censurato persino la semplice idea di un possibile inceneritore in quelle zone. Verso gli inceneritori i clan hanno un atteggiamento ambivalente. Da un lato sono contrari, poiché vorrebbero continuare a vivere di discariche e incendi, e l'emergenza permette in più di speculare sulle terre di smaltimento delle ecoballe, terre che loro stesso affittano'; Nel caso però si dovesse realizzare l'inceneritore sono già pronti per entrare in subappalto per la costruzione, e successivamente per la gestione. Laddove le inchieste giudiziarie non sono ancora arrivate, la popolazione è già giunta. Terrorizzata, nervosa, spaventata. Temono che gli inceneritori possano diventare delle fornaci perenni dei rifiuti di mezz'Italia a disposizione dei clan, e quindi tutte le garanzie sulla sicurezza ecologica dell'inceneritore andrebbero a vanificarsi contro i veleni che i clan imporrebbero di bruciare. Migliaia di persone sono in stato di allerta ogni qual volta si dispone la riapertura di una discarica esaurita. Temono che possano arrivare da ogni parte rifiuti tossici spacciati per rifiuti ordinari, e così resistono sino allo stremo piuttosto che rischiare di fare del proprio paese un deposito incontrollato di nuova feccia. A Basso dell'Olmo, vicino Salerno, quando il commissario regionale, nel febbraio 2005, tentò di riaprire la discarica iniziarono a formarsi spontaneamente picchetti di cittadini che impedivano l'arrivo dei camion e l'accesso alla discarica. Un presidio continuo, costante, a ogni costo. Carmine Iuorio, trentaquattro anni, durante una notte terribilmente fredda, mentre teneva il presidio, è morto assiderato. Il mattino, quando sono andati a svegliarlo, aveva i peli della barba ghiacciati e le labbra livide. Era cadavere da almeno tre ore.

L'immagine di una discarica, di una voragine, di una cava, divengono sempre più sinonimi concreti e visibili di pericolosità mortale per chi ci vive intorno. Quando le discariche stanno per esaurirsi si dà fuoco ai rifiuti. C'è un territorio nel napoletano che ormai è definito la terra dei fuochi, fi triangolo Giugliano-Villaricca-Qualiano. Trentanove discariche, di cui ventisette con rifiuti pericolosi. Un territorio in cui aumentano del 30 per cento all'anno. La tecnica è collaudata e viene messa in pratica a ritmo costante. I più bravi a organizzare i fuochi sono i ragazzini ROM. I clan gli danno cinquanta euro a cumulo bruciato. La tecnica è semplice. Circoscrivono ogni enorme cumulo di rifiuti con i nastri delle bobine di videocassette, poi gettano alcol e benzina su tutti i rifiuti e, facendo dei nastri una miccia enorme, si allontanano. Con un accendino danno fuoco al nastro e tutto in pochi secondi diviene una foresta di fuoco, come avessero sganciato bombe al napalm. Dentro al fuoco gettano resti delle fonderie, colle e morchie di nafta. Fumo nerissimo e fuoco contaminano di diossina ogni centimetro di terra. L'agricoltura di questi luoghi, che esportava verdura e frutta fino in Scandinavia, crolla a picco. I frutti spuntano malati, le terre divengono infertili. Ma la rabbia dei contadini e lo sfacelo diventano ennesimo elemento di vantaggio, poiché i proprietari terrieri disperati svendono le proprie coltivazioni, e i clan acquistano nuove terre, nuove discariche a basso, bassissimo costo. Intanto si crepa di tumore continuamente. Un massacro silenzioso, lento, difficile da monitorare, poiché c'è un esodo verso gli ospedali del nord per quelli che cercano di vivere il più possibile. L'Istituto Superiore di Sanità ha segnalato che la mortalità per cancro in Campania, nelle città dei grandi smaltimenti di rifiuti tossici, è aumentata negli ultimi anni del 21 per cento. Bronchi che marciscono, trachee che iniziano ad arrossarsi e poi la TAC in ospedale, e le macchie nere che denunciano il tumore. Chiedendo il luogo di provenienza dei malati campani spesso viene fuori l'intero percorso dei rifiuti tossici.

Una volta avevo deciso di attraversare a piedi la terra dei fuochi. Mi ero coperto naso e bocca con un fazzoletto, l'avevo legato sul viso, come facevano anche i ragazzini ROM quando andavano a incendiare i rifiuti. Sembravamo bande di cowboy tra deserti di spazzatura bruciata. Camminavo tra le terre divorate dalla diossina, riempite dai camion e svuotate dal fuoco, così da non rendere mai saturi questi buchi.

Il fumo che attraversavo non era denso, era come se fosse una patina collosa che si posava sulla pelle lasciando una sensazione di bagnato. Non lontano dai fuochi, c'erano una serie di villette poggiate tutte su una enorme x di cemento armato. Erano case adagiate su discariche chiuse. Discariche abusive che — dopo esser state utilizzate sino all'orlo, dopo aver bruciato tutto ciò che poteva essere bruciato — si erano esaurite. Colme sino a esplodere. I clan erano riusciti a riconvertirle in terreni edificabili. Del resto ufficialmente erano luoghi di pastorizia e coltivazione. E così avevano tirato su graziosi agglomerati di villette. Il terreno però non dava affidabilità, avrebbero potuto esserci smottamenti, improvvise voragini, e così maglie di cemento armato strutturate come resistenti x di rinforzo rendevano sicure le abitazioni. Villette vendute a basso prezzo, seppure tutti sapevano che si reggevano su tonnellate di rifiuti. Impiegati, pensionati, operai, di fronte alla possibilità di avere una villa non andavano a guardare nella bocca del terreno su cui posavano i pilastri delle loro case.

Il paesaggio della terra dei fuochi aveva l'aspetto di un'apocalisse continua e ripetuta, routinaria, cóme se nel suo disgusto fatto di percolato e copertoni non ci fosse più nulla di cui stupirsi. Nelle inchieste veniva segnalato un metodo per tutelare lo scarico di materiale tossico dall'interferenza di poliziotti e forestali, un metodo antico, usato dai guerriglieri, dai partigiani, in ogni angolo di mondo. Usavano i pastori come pali. Pascolavano pecore, capre e qualche vacca. I migliori pastori in circolazione venivano assunti per badare agli intrusi, piuttosto che a montoni e agnelli. Appena vedevano macchine sospette avvertivano. Lo sguardo e il cellulare erano armi inattaccabili. Li vedevo spesso gironzolare con i loro greggi rinsecchiti e obbedienti al seguito. Una volta li avvicinai, volevo vedere le strade dove i ragazzini smaltitori si esercitavano per guidare i camion. Ormai i camionisti non volevano più guidare i carichi sino allo sversamento. L'inchiesta "Eldorado" del 2003 aveva dimostrato che venivano sempre di più utilizzati i minori per queste operazioni. I camionisti non si fidavano a entrare troppo in contatto con i rifiuti tossici. Del resto era stato proprio un camionista a far partire la prima importante inchiesta sul traffico di rifiuti nel 1991. Mario Tamburrino era andato in ospedale con gli occhi gonfi, le orbite sembravano tuorli d'uovo che le palpebre non contenevano più. Era completamente accecato, le mani avevano perso il primo strato di epidermide, gli bruciavano come se gli avessero incendiato benzina sul palmo. Un fusto tossico gli si era aperto vicino al viso, e tanto era bastato per accecarlo e quasi bruciarlo vivo. Bruciarlo a secco, senza fiamme. Dopo quell'episodio i camionisti chiedevano di trasportare i fusti nei carichi dell'autotreno, tenendoli a distanza col rimorchio e non sfiorandoli mai. I più pericolosi erano i camion che trasportavano il compost adulterato, concime mischiato a veleni. Solo inalarli avrebbe potuto compromettere per sempre l'apparato respiratorio. L'ultimo passaggio, quando i Tir dovevano scaricare i fusti in alcuni camioncini che li avrebbero traghettati direttamente nella fossa della discarica, era il più rischioso. Nessuno voleva trasportarli. I fusti nei camioncini venivano stipati uno sopra all'altro e spesso si ammaccavano, facendo venir fuori le esalazioni. Così, appena gli autotreni giungevano, i camionisti non scendevano neanche. Li lasciavano svuotare. Poi dei ragazzini avrebbero portato a destinazione il carico. Un pastore mi indicò una strada in discesa dove si esercitavano a guidare, prima dell'arrivo del carico. In discesa gli insegnavano a frenare, con due cuscini sotto il sedere per farli arrivare ai pedali. Quattordici, quindici, sedici anni. Duecentocinquanta euro a viaggio. Li reclutavano in un bar, il proprietario sapeva e non osava neanche ribellarsi ma rivelava il suo giudizio sui fatti a chiunque, davanti ai cappuccini e ai caffè che serviva.

"Quella roba che gli fanno portare, più se la buttano in corpo quando respirano, prima li farà schiattare. Questi li mandano a morire, non a guidare."

I piccoli autisti, più sentivano dire che la loro era un'attività pericolosa, mortale, più sentivano di essere all'altezza di una missione così importante. Cacciavano il petto in fuori e uno sguardo sprezzante dietro gli occhiali da sole. Si sentivano bene, anzi sempre meglio, nessuno di loro neanche per un istante, poteva immaginarsi dopo una decina d'anni a fare la chemioterapia, a vomitare bile con stomaco, fegato e pancia spappolati.

Continuava a piovere. In pochissimo tempo l'acqua inzuppò la terra che ormai non riusciva ad assorbire più nulla. I pastori impassibili si andarono a sedere come tre santoni emaciati sotto una specie di pensilina costruita con le lamiere. Continuavano a fissare la strada mentre le pecore si mettevano in salvo, arrampicandosi su una collina di spazzatura. Uno dei pastori manteneva un bastone che spingeva contro la tettoia, inclinandola per evitare che si riempisse d'acqua e cascasse sulle loro teste. Ero completamente zuppo, ma tutta l'acqua che mi crollava addosso non riusciva a spegnere una sorta di bruciore che mi saliva dallo stomaco e si irradiava sino alla nuca. Cercavo di capire se i sentimenti umani erano in grado di fronteggiare una così grande macchina di potere, se era possibile riuscire ad agire in un modo, in un qualche modo, in un modo possibile che permettesse di salvarsi dagli affari, permettesse di vivere al di là delle dinamiche di potere. Mi tormentavo, cercando di capire se fosse possibile tentare di capire, scoprire, sapere senza essere divorati, triturati. O se la scelta era tra conoscere ed essere compromessi o ignorare — e riuscire quindi a vivere serenamente. Forse non restava che dimenticare, non vedere. Ascoltare la versione ufficiale delle cose, trasentire solo distrattamente e reagire con un lamento. Mi chiedevo se potesse esistere qualcosa che fosse in grado di dare possibilità di una vita felice, o forse dovevo solo smettere di fare sogni di emancipazione e libertà anarchiche e gettarmi nell'arena, ficcarmi una semiautomatica nelle mutande e iniziare a fare affari, quelli veri. Convincermi di essere parte del tessuto connettivo del mio tempo e giocarmi tutto, comandare ed essere comandato, divenire una belva da profitto, un rapace della finanza, un samurai dei clan; e fare della mia vita un campo di battaglia dove non si può tentare di sopravvivere, ma solo di crepare dopo aver comandato e combattuto.

Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d'Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale. Sembrava impossibile avere un momento di pace, non vivere sempre all'interno di una guerra dove ogni gesto può divenire un cedimento, dove ogni necessità si trasformava in debolezza, dove tutto devi conquistarlo strappando la carne all'osso. In terra di camorra, combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è la presa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio. È qualcosa di più essenziale, di ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d'affermazione dei clan, le loro cinetiche d'estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l'esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L'unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.

Avevo i piedi immersi nel pantano. L'acqua era salita sino alle cosce. Sentivo i talloni sprofondare. Davanti ai miei occhi galleggiava un enorme frigo. Mi ci lanciai sopra, lo avvinghiai stringendolo forte con le braccia e lasciandomi trasportare. Mi venne in mente l'ultima scena di Papillon, il film con Steve McQueen tratto dal romanzo di Henri Charrière. Anch'io, come Papillon, sembravo galleggiare su un sacco colmo di noci di cocco, sfruttando le maree per fuggire dalla Cayen-na. Era un pensiero ridicolo, ma in alcuni momenti non c'è altro da fare che assecondare i tuoi deliri come qualcosa che non scegli, come qualcosa che subisci e basta. Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni, come Papillon, con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: "Maledetti bastardi, sono ancora vivo!".


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