Dentro è saldata una grossa vite metallica, la cui punta funge da otturatore. La seconda parte è costituita da un tubo che ha un diametro inferiore, capace di contenere una cartuccia calibro 20, e una impugnatura laterale. Incredibilmente semplice e terribilmente potente. Questo fucile aveva come vantaggio quello di non creare complicanze dopo l'utilizzo: non è necessario fuggire e distruggere le armi dopo l'agguato. Basta smontarlo e il fucile diviene soltanto un tubo spezzato in due, innocuo a ogni eventuale perquisizione.

Prima del sequestro, sentii parlare di questo fucile da un povero cristo, un pastore, uno di quegli emaciati contadini italiani che ancora si aggirano, col loro gregge, per le campagne che circoscrivono i viadotti autostradali e i casermoni di periferia. Spesso questo pastore trovava le sue pecore divise in due, spaccate piuttosto che tagliate, questi corpi magrissi-mi di pecore napoletane dal cui manto si vedono persino le costole, che masticano erba pregna di diossina che fa marcire i denti e ingrigire la lana. Il pastore credeva fosse un'avvisaglia, una provocazione dei suoi miserabili concorrenti di greggi malati. Non capiva. In realtà i fabbricanti del tubo provavano su animali leggeri la potenza del colpo. Le pecore erano il bersaglio migliore per capire nell'immediato la forza dei proiettili e la qualità dell'arma. Lo si comprendeva da quanto l'impatto le faceva capovolgere e spezzare in due nell'aria come bersagli di un videogame.

La questione delle armi è tenuta nascosta nel budello dell'economia, chiusa in un pancreas di silenzio. L'Italia spende in armi ventisette miliardi di dollari. Più soldi della Russia, il doppio di Israele. La classifica l'ha stesa l'Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace, il SIPRI. Se a questi dati dell'economia legale si aggiunge che secondo I'EURISPES tre miliardi e trecento milioni è il business delle armi in mano a camorra, 'ndrangheta, Cosa Nostra e Sacra Corona Unita gestiscono, significa che seguendo l'odore delle armi che Stato e clan gestiscono si arriva ai tre quarti delle armi che circolano in mezzo mondo. H cartello dei Casalesi è in assoluto il gruppo imprenditorial-criminale capace di fornire sul piano internazionale referenti non solo di gruppi, ma di interi eserciti. Durante la guerra anglo-argentina del 1982, la guerra delle Falkland, l'Argentina visse il suo periodo di isolamento economico più cupo. Così la camorra entrò in affari con la difesa argentina divenendo l'imbuto attraverso cui far discendere le armi che nessuno le avrebbe venduto ufficialmente. I clan si erano equipaggiati per una lunga guerra, invece il conflitto era iniziato a marzo e a giugno già se ne vedeva la conclusione. Pochi colpi, pochi morti, pochi consumi. Una guerra che serviva più ai politici che agli imprenditori, più alla diplomazia che all'economia. Ai clan casertani non conveniva svendere per accaparrarsi un guadagno immediato. Il giorno stesso in cui venne decretata la fine del conflitto fu intercettata dai servizi segreti inglesi, una telefonata intercontinentale tra l'Argentina e San Cipriano d'Aversa. Due sole frasi, sufficienti però a comprendere la potenza delle famiglie casertane e la loro capacità diplomatica:

"Pronto?"

"Sì."

"Qua la guerra è finita, mo che dobbiamo fare?"

"Nun te preoccupa', un'altra guerra ci sarà…"

La saggezza del potere possiede una pazienza che spesso gli imprenditori più abili non hanno. I Casalesi nel 1977 avevano trattato l'acquisto di carri armati, i servizi segreti italiani segnalarono che un Leopard smontato e pronto per essere spedito, si trovava alla stazione di Villa Literno. Il commercio dei carri armati Leopard è stato a lungo mercato gestito dalla camorra. Nel febbraio del 1986 venne intercettata una telefonata dove esponenti del clan dei Nuvoletta trattavano l'acquisto di alcuni Leopard con l'allora Germania dell'Est. Anche con l'avvicendarsi dei capi, i Casalesi rimasero sul piano internazionale referenti non solo di gruppi ma di interi eserciti. Un'informativa del SISMI e del centro di controspionaggio di Verona del 1994 segnala che Zeljco Raznatovie, meglio conosciuto come la "tigre Arkan", ebbe rapporti con Sandokan Schiavone, capo dei Casalesi. Arkan fu fatto fuori nel 2000 in un albergo di Belgrado. È stato uno dei criminali di guerra serbi più spietati, capace con le sue incursioni di radere al suolo i paesi musulmani della Bosnia, fondatore di un gruppo nazionalista, i "Volontari della Guardia Serba". Le due tigri si allearono. Arkan chiese armi per i suoi guerriglieri, e soprattutto la possibilità di aggirare l'embargo imposto alla Serbia, facendo entrare capitali e armi sotto forma di aiuti umanitari: ospedali da campo, medicinali e attrezzature mediche. Secondo il SISMI però le forniture — del valore complessivo di svariate decine di milioni di dollari — erano in realtà pagate dalla Serbia mediante prelievi dai propri depositi presso una banca austriaca, ammontanti a ottantacinque milioni di dollari. Quei soldi venivano poi girati a un ente alleato dei clan serbi e campani, che avrebbe dovuto provvedere a ordinare alle varie industrie interessate i beni da dare come aiuto umanitario, pagando con soldi provenienti da attività illecite, e attuando così il riciclaggio degli stessi capitali. E proprio in questo passaggio entrano in scena i clan Casalesi. Sono loro ad aver messo a disposizione le ditte, i trasporti, i beni per effettuare l'operazione di riciclaggio. Servendosi dei suoi intermediari Arkan, secondo le informative, chiese l'intervento dei Casalesi per mettere a tacere i mafiosi albanesi che avrebbero potuto rovinare la sua guerra finanziaria, attaccando da sud o bloccando il commercio di armi. I Casalesi calmarono i loro alleati albanesi, dando armi e concedendo ad Arkan una serena guerriglia. In cambio aziende, imprese, negozi, masserie, allevamenti furono acquistati dagli imprenditori del clan a ottimo prezzo e l'impresa italiana si disseminò in mezza Serbia. Prima di entrare nel fuoco della guerra, Arkan ha interpellato la camorra. Le guerre, dal Sud America ai Balcani, si fanno con gli artigli delle famiglie campane.

Cemento armato

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Mancavo da Casal di Principe da molto. Se per le arti marziali la patria era considerata il Giappone, per il surf l'Australia, per i diamanti la Repubblica della Sierra Leone, per il potere imprenditoriale della camorra è Casal di Principe la capitale. Nella provincia napoletana e casertana il solo provenire da Casale era come una sorta di garanzia di immunità, significava essere più di se stesso, come direttamente emanato dalla ferocia dei gruppi criminali casertani. Si godeva di un rispetto garantito, di una sorta di timore naturale. Persino Benito Mussolini aveva voluto eliminare questo marchio di provenienza, quest'aura criminale, e aveva ribattezzato i due comuni di San Cipriano d'Aversa e Casal di Principe col nome di Albanova. Per inaugurare una nuova alba di giustizia, mandò anche decine di carabinieri incaricati di risolvere il problema "col ferro e col fuoco". Oggi del nome Albanova non rimane che la stazione rugginosa di Casale.

Puoi aver dato pugni al sacco per ore, aver passato pomeriggi sotto un bilanciere a pressare i pettorali, esserti ingollato blister e blister di pillole che fanno gonfiare i muscoli, ma davanti a un accento giusto, davanti a un gesticolare forte, è come se tutti i corpi a terra coperti dai lenzuoli si materializzassero. Ci sono vecchi modi di dire in questi luoghi che riescono a sintetizzare bene la carica letale di certa mitologia violenta: "Camorristi si diventa, ma casalesi si nasce". Oppure quando si litiga, quando ci si sfida con gli sguardi, un attimo prima di prendersi a cazzotti o a coltellate si rende chiara la propria visione di vita: "Vita e morte per me è 'a stessa cosa!". A volte la propria origine, il proprio paese di provenienza possono fare comodo, si possono usare come elemento di fascino, lasciarsi confondere volentieri con l'immagine di violenza, utilizzarli come intimidazione dissimulata. Puoi avere sconti al cinema e credito presso qualche commessa paurosa. Ma capita anche che il tuo paese d'origine ti dia una carica pregiudiziale troppo forte e non vuoi neanche stare lì a dire che non tutti sono affiliati, non tutti sono criminali, che i camorristi sono una minoranza, e prendi una scorciatoia correndo con la mente a un paese vicino, più anonimo, che possa allontanare accostamenti tra te e i criminali: Secondigliano diviene genericamente Napoli, Casal di Principe, Aversa o Caserta. Ci si vergogna o si è orgogliosi a seconda del gioco, a seconda del momento, della situazione, come un vestito, ma che è lui a decidere quando indossarti.

Corleone, in confronto a Casal di Principe, è una città progettata da Walt Disney. Casal di Principe, San Cipriano d'A-versa, Casapesenna. Un territorio con meno di centomila abitanti, ma con milleduecento condannati per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, e un numero esponenziale di indagati e condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa terra subisce da tempo infinito il peso delle famiglie camorriste, una borghesia violenta e feroce che possiede nel clan la sua avanguardia più cruenta e potente. Il clan dei Casalesi — che prende il nome proprio da Casal di Principe — è una confederazione che riunisce in sé in un rapporto di autonomia federativa tutte la famiglie camorristiche del casertano: da Castelvolturno, Villa Literno, Gricignano, San Tammaro, Cesa, sino a Villa di Briano, Mondragone, Carinola, Marcianise, San Nicola La Strada, Calvi Risorta, Lasciano e altre decine e decine di paesi. Ciascuno con il suo capozona, ciascuno inquadrato nella rete dei Casalesi. Il capostipite delle famiglie Casalesi, Antonio Bardellino, era stato il primo in Italia a comprendere che sul lungo termine la cocaina avrebbe di gran lunga soppiantato l'eroina. Eppure per Cosa Nostra e molte famiglie di camorra, l'eroina continuava a essere la merce principale. Gli eroinomani venivano visti come vere e proprie casseforti, mentre la coca negli anni '80 aveva la caratteristica di essere una droga d'elite. Antonio Bardellino aveva compreso però che il grande mercato sarebbe stato di una droga capace di non massacrare in breve tempo, in grado di essere come un aperitivo borghese e non un veleno da reietti. Creò così una ditta di import-export di farina di pesce che esportava dal Sud America e importava nell'aversano. Farina di pesce che nascondeva tonnellate di coca. L'eroina che trattava, Bardellino la smerciava anche in America mandandola a John Gotti, inserendo la droga nei filtri di macchine per il caffè espresso. Una volta sessantasette chili di eroina vennero intercettati dalla narcotici americana, ma per il boss di San Cipriano d'Aversa non fu una disfatta. Fece telefonare a Gotti pochi giorni dopo: "Adesso ne mandiamo il doppio con altri mezzi". Dall'agro aversano nacque il cartello che seppe opporsi a Cutolo e la ferocia di quella guerra è ancora presente nel codice genetico dei clan casertani. Negli anni '80 le famiglie cutoliane vennero eliminate con poche operazioni militari, ma di potenza violentissima. I Di Matteo, quattro uomini e quattro donne, vennero massacrati in pochi giorni. I Casalesi lasciarono vivo solo un bambino di otto anni. I Simeone invece furono uccisi in sette, quasi tutti contemporaneamente. Al mattino la famiglia era viva, presente e potente, la notte stessa era scomparsa. Massacrata. A Ponte Annicchino — nel marzo dell'82 — i Casalesi posizionarono su una collina una mitraglietta da campo, di quelle usate nelle trincee, e spararono massacrando quattro cutoliani.

Antonio Bardellino era affiliato a Cosa Nostra, legato a Ta-no Badalamenti, sodale e amico di Tommaso Buscetta, con cui aveva diviso una villa in Sud America. Quando i Corleo-nesi spazzarono il potere di Badalamenti-Buscetta tentarono di eliminare anche Bardellino, ma senza successo. I siciliani, durante la prima fase di ascesa della Nuova Camorra Organizzata, tentarono di eliminare anche Raffaele Cutolo. Mandarono un killer, Mimmo Bruno, con un traghetto da Palermo, ma questi venne ucciso appena messo piede fuori dal porto. Cosa Nostra ha avuto nei confronti dei Casalesi sempre una sorta di rispetto e soggezione, ma quando, nel 2002, i Casalesi uccisero Raffaele Lubrano — boss di Pignataro Maggiore vicino Capua — uomo affiliato a Cosa Nostra, combinato direttamente da Totò Runa, in molti temevano lo scoppio di una faida. Ricordo che il giorno dopo l'agguato un giornalaio, vendendo il quotidiano locale, si rivolse al cliente biascicando tra i denti i suoi timori:

"Mo se vengono a combattere pure i siciliani perdiamo la pace per tre anni."

"Quali siciliani? I manosi?"

"Sì, i mafiosi."

"Quelli si devono inginocchiare davanti ai Casalesi e succhiare. Solo questo devono fare, zucare tutto e basta."

Una delle dichiarazioni che più mi avevano sconvolto sui mafiosi siciliani l'aveva rilasciata Cannine Schiavone, pentito del clan dei Casalesi, in un'intervista del 2005. Parlava di Cosa Nostra come di un'organizzazione schiava dei politici, incapace di ragionare in termini di affari, come invece facevano i camorristi casertani. Per Schiavone la mafia voleva porsi come anti-Stato, e questo non era un discorso da imprenditori. Non esiste il paradigma Stato-anti Stato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari: con, attraverso e senza lo Stato:

Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c'era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Runa usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci.

Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il metodo per raggirare.

Carmine Schiavone, cugino del boss Sandokan, fu il primo a scoperchiare gli affari del clan dei Casalesi. Quando scelse di collaborare con la giustizia, sua figlia Giuseppina gli lanciò una terribile condanna, forse persino più letale di una condanna a morte. Scrisse infatti parole di fuoco ad alcuni giornali:

"È un grande falso, bugiardo, cattivo e ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Non è mai stato mio padre. Io non so neanche cosa sia la camorra."

Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano: null'altro che imprenditori. Un clan formato da azienda-listi violenti, manager killer, da edili e proprietari terrieri. Ognuno con le proprie bande armate, consorziati tra loro con interessi in ogni ambito economico. La forza del cartello dei Casalesi è sempre stata quella di trattare grandi partite di droga senza avere necessità di alimentare un mercato interno. La grande piazza romana è il loro riferimento di spaccio, ma molta più rilevanza ha assunto il carattere di mediazione nella compravendita di grosse partite. Gli atti della Commissione Antimafia del 2006 segnalano che i Casalesi rifornivano di droga le famiglie palermitane. L'alleanza con i clan nigeriani e albanesi gli ha permesso di emanciparsi dalla gestione diretta dello spaccio e del narcotraffico. I patti con i clan nigeriani di Lagos e Benin City, le alleanze con le famiglie mafiose di Pristina e Tirana, gli accordi con i mafiosi ucraini di Leopo-li e Kiev avevano emancipato i clan Casalesi dalle attività criminali di primo livello. Allo stesso tempo i Casalesi ricevevano un trattamento privilegiato negli investimenti compiuti nei paesi dell'est e nell'acquisto di coca dai trafficanti internazionali con basi in Nigeria. I nuovi leader, le nuove guerre, tutto era avvenuto dopo l'esplosione del clan Bardellino, origine del potere imprenditoriale della camorra di queste terre. Antonio Bardellino, dopo aver raggiunto un dominio totale in ogni ambito economico legale e illegale, dal narcotraffico all'edilizia, si era stabilito a Santo Domingo con una nuova famiglia. Aveva dato ai figli sudamericani gli stessi nomi di quelli di San Cipriano, un modo semplice e comodo per non confondersi. I suoi uomini più fedeli avevano in mano le redini del clan sul territorio. Erano usciti indenni dalla guerra con Cutolo, avevano sviluppato aziende e autorevolezza, si erano espansi ovunque, in Italia settentrionale e all'estero. Mario Iovine, Vincenzo De Falco, Francesco Schiavone "San-dokan", Francesco Bidognetti "Cicciotto di Mezzanotte", Vincenzo Zagaria erano i capi della confederazione Casalese. All'inizio degli anni '8 °Cicciotto di Mezzanotte e Sandokan erano responsabili militari, ma anche imprenditori con interessi in ogni ambito, avevano ormai maturato la possibilità di dirigere l'enorme multicefalo della confederazione. Trovavano però in Mario Iovine, un boss troppo legato a Bardelli-no, un capo restio a una scelta d'autonomia. Attuarono così una strategia sibillina, ma politicamente efficace. Usarono le spigolosità della diplomazia camorristica nell'unico modo che poteva permettere di realizzare i loro scopi: fare scoppiare una guerra interna al sodalizio.

Come racconta il pentito Carmine Schiavone, i due boss pressarono Antonio Bardellino per farlo ritornare in Italia e spingerlo a eliminare Mimi Iovine, fratello di Mario, che aveva un mobilificio ed era formalmente estraneo alle dinamiche di camorra, ma che secondo i due boss aveva per troppe volte svolto il ruolo di confidente dei carabinieri. Per convincere il boss gli avevano raccontato che persino Mario era disposto a sacrificare suo fratello, pur di mantenere ben saldo il potere del clan. Bardellino si lasciò convincere e fece ammazzare Mimi mentre stava andando al lavoro nel suo mobilificio. Subito dopo l'agguato Cicciotto di Mezzanotte e Sandokan fecero pressione su Mario Iovine perché eliminasse Bardellino, dicendogli che aveva osato uccidere suo fratello per un pretesto, soltanto per una voce. Un doppio gioco che sarebbe riuscito a mettere l'uno contro l'altro. Iniziarono a organizzarsi. I delfini di Bardellino erano tutti d'accordo per eliminare il capo dei capi, l'uomo che più di tutti in Campania aveva creato un sistema di potere criminal-imprendito-riale. Il boss fu convinto a spostarsi da Santo Domingo nella villa brasiliana. Gli raccontarono che aveva l'Interpol alle costole. In Brasile, nel 1988, lo andò a trovare Mario Iovine con il pretesto di mettere a punto i loro affari circa l'impresa di import-export di farina di pesce-coca. Un pomeriggio Iovine — non trovandosi più nei calzoni la pistola — prese una mazzuola e sfondò il cranio di Bardellino. Seppellì il corpo in una buca scavata sulla spiaggia brasiliana, dove però non fu mai trovato, e così nacque la leggenda che Antonio Bardellino fosse in realtà ancora vivo a godersi le sue ricchezze in qualche isola sudamericana. Eseguita l'operazione, il boss telefonò immediatamente a Vincenzo De Falco per comunicare la notizia e dare inizio alla mattanza di tutti i bardelliniani. Paride Salzillo, nipote di Bardellino e suo vero erede sul territorio, venne invitato a un summit tra tutti i dirigenti del cartello casalese. Racconta il pentito Carmine Schiavone che lo fecero sedere a capotavola, in rappresentanza dello zio. Poi d'improvviso Sandokan lo aggredì e iniziò a strangolarlo, mentre suo cugino, suo omonimo conosciuto come "Cicciariello", e altri due affiliati Raffaele Diana e Giuseppe Caterino, gli tenevano gambe e braccia. Avrebbe potuto ammazzarlo con una pistolettata o una coltellata allo stomaco come facevano i vecchi boss. Era invece con le mani che doveva ucciderlo, come si ammazzano i vecchi sovrani scalzati dai nuovi. Da quando, nel 1345, Andrea d'Ungheria venne strangolato ad Aversa in una congiura organizzata da sua moglie Giovanna I e dai nobili napoletani comandati da Carlo di Durazzo che ambiva al trono di Napoli, nell'agro aversa-no lo strangolamento era divenuto il simbolo della successione al trono, dell'avvicendarsi violento dei sovrani. Sandokan doveva mostrare a tutti i boss che lui era l'erede, che lui per diritto di ferocia era il nuovo leader dei Casalesi.

Antonio Bardellino aveva creato un sistema complesso di dominio e tutte le cellule imprenditoriali che si erano generate nel suo seno non potevano restare ancora per lungo tempo compattate negli scompartimenti da lui diretti. Erano giunte a maturazione, dovevano esprimere tutto il loro potere, senza più vincoli di gerarchia. Sandokan Schiavone divenne così il leader. Aveva messo su un sistema efficientissimo legato tutto alla sua famiglia. Il fratello Walter coordinava le batterie di fuoco, il cugino Carmine gestiva l'aspetto economico e finanziario, il cugino Francesco fu eletto sindaco di Casal di Principe e l'altro cugino Nicola assessore alle Finanze. Passaggi importanti per riuscire ad affermarsi in paese, che nella fase d'ascesa significa molto. Il potere di Sandokan si affermò nei primi anni del suo dominio anche attraverso stretti legami politici. Per un conflitto con la vecchia Democrazia Cristiana, a Casal di Principe i clan appoggiarono nel 1992 il Partito Liberale Italiano che ebbe la più grande impennata della sua storia: da un risicato 1 per cento balzò, dopo il sostegno del clan, al 30 per cento. Ma tutti gli altri uomini di primo piano del clan erano ostili alla leadership assoluta di Sandokan. Soprattutto i De Falco, gruppo capace di avere dalla propria carabinieri e poliziotti, alleanze imprenditoriali e politiche. Nel 1990 ci furono diverse riunioni dei dirigenti Casalesi. A una fu invitato anche Vincenzo De Falco, soprannominato *"o fuggiasco". I boss avrebbero voluto eliminarlo. Lui non arrivò. Arrivarono invece i carabinieri che arrestarono i convitati. Nel 1991 Vincenzo De Falco venne ucciso, lo crivellarono di colpi nella sua macchina. La polizia lo trovò accasciato su se stesso con lo stereo a palla e una cassetta di Modugno che ancora girava. Dopo questa morte ci fu una spaccatura tra tutte le famiglie della confederazione dei Casalesi. Da un lato le famiglie vicine a Sandokan-Iovine: Zaga-ria, Reccia, Bidognetti, e Caterino; dall'altra le famiglie vicine ai De Falco: Quadrano, La Torre, Luise, Salzillo. I De Falco risposero alla morte del "fuggiasco" ammazzando Mario Iovi-ne a Cascais, in Portogallo nel 1991. Lo crivellarono di colpi mentre era in una cabina telefonica. Con la morte di Iovine fu terreno aperto per Sandokan Schiavone. Ci furono quattro anni di guerre, massacri, quattro anni di mattanze continue tra le famiglie vicine a Schiavone e quelle dei De Falco. Anni di stravolgimenti di alleanze, di clan che passavano da una parte all'altra dello schieramento, non ci fu una vera e propria soluzione, ma una spartizione di territori e poteri. Sandokan divenne l'emblema della vittoria del suo cartello sulle altre famiglie. Dopo, tutti i suoi nemici si riconvertirono in suoi alleati. Cemento e narcotraffico, racket, trasporti, rifiuti e monopolio nel commercio e nelle imposizioni di forniture. Questo era il territorio aziendale dei Casalesi di Sandokan. I consorzi del cemento divennero un'arma fondamentale per i clan Casalesi.

Ogni impresa edile deve rifornirsi di cemento dai consorzi, e così questo meccanismo diventava fondamentale per mettere in relazione i clan con tutti gli imprenditori edili esistenti sul territorio e con tutti gli affari possibili. Il prezzo del cemento dei consorzi gestiti dai clan, come dichiarato spesso da Carmine Schiavone, riusciva ad avere vantaggi esponenziali perché, oltre al cemento, le navi dei consorzi distribuivano armi ai paesi mediorientali con embargo. Questo secondo livello di commercio permetteva di abbattere i costi del livello legale. I clan Casalesi guadagnavano in ogni passaggio dell'economia dell'edilizia. Fornendo cemento, fornendo ditte in subappalto per la costruzione e ricevendo una tangente sui grossi affari. Tangente che risultava essere il punto di partenza, poiché senza versarla, le loro ditte economiche ed efficienti non avrebbero lavorato, e nessun'altra ditta avrebbe potuto farlo senza danno alcuno e a buon mercato. Il giro d'affari che la famiglia Schiavone gestisce è quantificabile in cinque miliardi di euro. L'intera potenza economica del cartello delle famiglie Casalesi tra beni immobili, masserie, azioni, liquidità, ditte edili, zuccherifici, cementifici, usura, traffico di droga e di armi, si aggira intorno ai trenta miliardi di euro. La camorra casalese è diventata un'impresa polivalente; la più affidabile della Campania, in grado di partecipare a tutti gli affari. La quantità di capitali accumulati illegalmente le consente di avere spesso un credito agevolato che permette alle sue imprese di sbaragliare la concorrenza con prezzi bassi o con intimidazioni. La nuova borghesia camorrista casalese ha trasformato il rapporto estorsivo in una sorta di servizio aggiuntivo, il racket in una partecipazione all'impresa di camorra. Pagare un mensile al clan può significare concedergli esclusivamente danaro per i suoi affari, ma al contempo può significare anche ricevere protezione economica con le banche, camion in orario, agenti commerciali rispettati. Il racket come un acquisto imposto di servizi. Questa nuova concezione del racket emerge da un'indagine del 2004 della Questura di Caserta, conclusasi con l'arresto di diciotto persone. Francesco Schiavone San-dokan, Michele Zagaria e il clan Moccia erano i più importanti soci di Cirio e Parmalat in Campania. In tutto il casertano, in parte consistente del napoletano, in tutto il basso Lazio, in parte delle Marche e dell'Abruzzo, in parte della Lucania, il latte distribuito dalla Cirio e poi dalla Parmalat aveva conquistato il 90 per cento del mercato. Un risultato ottenuto grazie all'alleanza stretta con la camorra casalese e alle tangenti che le aziende pagavano ai clan per mantenere una posizione di preminenza. Diversi i marchi coinvolti tutti riconducibili all'impero Eurolat, l'azienda passata nel 1999 dalla Cirio di Cragnotti alla Parmalat di Tanzi.

I magistrati avevano disposto il sequestro di tre concessionarie e diverse aziende per la distribuzione e la vendita del latte, tutte, secondo l'accusa, controllate dalla camorra casalese. Le aziende del latte erano intestate a prestanome che agivano per conto dei Casalesi. Prima Cirio, e poi Parmalat, per ottenere il ruolo di cliente speciale, avevano trattato direttamente con il cognato di Michele Zagaria, latitante da un decennio e reggente del clan dei Casalesi. Il trattamento di favore era conquistato innanzitutto attraverso politiche commerciali. I marchi della Cirio e della Parmalat concedevano ai distributori uno sconto speciale — dal 4 al 6,5 per cento, invece del consueto 3 per cento circa — oltre a vari premi di produzione, così anche i supermercati e i dettaglianti potevano strappare buoni sconti sui prezzi: i Casalesi costruivano in questo modo un consenso diffuso nei confronti del loro predominio commerciale. Dove poi non arrivavano il pacifico convincimento e l'interesse comune, entrava in azione la violenza: minacce, estorsioni, distruzione dei camion per il trasporto delle merci. Pestavano i camionisti, rapinavano i Tir delle aziende concorrenti, bruciavano i depositi. Un clima di paura diffusa, tanto che nelle zone controllate dai clan era impossibile non solo distribuire, ma anche trovare qualcuno che fosse disposto a vendere marchi diversi da quelli imposti dai Casalesi. A pagare, alla fine, erano i consumatori: perché in una situazione di monopolio e di mercato bloccato, i prezzi finali erano fuori da ogni controllo per mancanza di una vera concorrenza.

Il grande accordo tra le aziende nazionali del latte e la camorra era venuto fuori nell'autunno del 2000, quando un affiliato dei Casalesi, Cuono Lettiero, aveva cominciato a collaborare con i magistrati e a raccontare i rapporti commerciali stretti dai clan. La certezza di avere una vendita costante era il modo più diretto e automatico per avere garanzie con le banche, era il sogno di ogni grande impresa. In una situazione del genere Cirio e Parmalat risultavano ufficialmente "parti offese" cioè vittime delle estorsioni, ma gli investigatori si sono convinti che il clima degli affari era relativamente disteso e le due parti, le imprese nazionali e i camorristi locali agivano con reciproca soddisfazione.

Mai Cirio e Parmalat avevano denunciato di subire in Campania le imposizioni dei clan, seppure nel 1998 un funzionario della Cirio era stato vittima di un'aggressione nella sua abitazione nel casertano, dov'era stato selvaggiamente picchiato con un bastone sotto gli occhi della moglie e della figlia di nove anni perché non aveva obbedito a ordini dei clan. Nessuna ribellione, nessuna denuncia: la sicurezza del monopolio era meglio dell'incertezza del mercato. I soldi distribuiti per mantenere il monopolio e occupare il mercato campano dovevano essere giustificati nei bilanci delle aziende: nessun problema, nel Paese della finanza creativa e della depenalizzazione del falso in bilancio. False fatturazioni, false sponsorizzazioni, falsi premi di fine anno sui volumi di latte venduto risolvevano ogni problema contabile. Dal 1997 risultano finanziate, a questo proposito, manifestazioni inesistenti: la Sagra della mozzarella, Musica in piazza, persino la festa di San Tammaro, patrono di Villa Literno. La Cirio finanziava, come attestato di stima per il lavoro svolto, anche una società sportiva gestita di fatto dal clan Moccia, la Polisportiva Afragolese, oltre a una fitta rete di club sportivi, musicali, ricreativi: la "società civile" dei Casalesi nel territorio.

Il potere del clan negli ultimi anni è cresciuto enormemente riuscendo ad arrivare nell'est Europa: Polonia, Romania, Ungheria. Proprio in Polonia, nel marzo 2004, era stato arrestato Francesco Schiavone, Cicciariello, il cugino di San-dokan, il boss baffuto e tracagnotto, una delle personalità principali del sodalizio camorristico. Era ricercato per dieci omicidi, tre sequestri di persona, nove tentativi di omicidio e numerose violazioni delle leggi in materia di armi, oltre che per estorsione. Lo beccarono mentre era andato a fare la spesa con la sua compagna romena, Luiza Boetz di venticinque anni. Cicciariello si faceva chiamare Antonio e risultava un semplice imprenditore italiano di cinquantuno anni. Ma che qualcosa non andasse nella sua vita, la compagna doveva averlo intuito, visto che Luiza, per raggiungerlo a Kro-sno, vicino a Cracovia, in Polonia, aveva fatto un giro tortuoso in treno, per depistare eventuali segugi di polizia. Un viaggio con varie tappe, l'avevano pedinata attraverso tre frontiere e poi l'inseguimento in auto fino alla periferia della città polacca. Cicciariello l'avevano fermato alla cassa del supermercato, si era tagliato i baffi, stirato i capelli crespi, era dimagrito. Si era trasferito in Ungheria ma continuava a incontrare la sua compagna in Polonia. Aveva enormi affari, allevamenti, terre edificabili acquistate, mediazioni con imprenditori del luogo. Il rappresentante italiano del SECI, il centro dell'Europa sudorientale contro la criminalità transfrontaliera, aveva denunciato che Schiavone e i suoi uomini andavano spesso in Romania e avevano avviato affari importanti nelle città di Barlad (est del paese), Sinaia (centro), Cluj (ovest) e anche sul litorale del Mar Nero. Cicciariello Schiavone aveva due amanti: oltre a Luiza Boetz anche Cristina Coremanciau, anche lei romena. A Casale la notizia del suo arresto, "per mezzo di una donna", sembrò giungere come uno sberleffo al boss. Un giornale locale titolò, quasi come per sbeffeggiarlo, "Cicciariello arrestato con l'amante". In realtà le due amanti erano vere e proprie manager che avevano curato per lui gli investimenti in Polonia e Romania, divenendo fondamentali per i suoi affari. Cicciariello era uno degli ultimi boss della famiglia Schiavone a essere arrestato. Molti dirigenti e gregari del clan dei Casalesi erano finiti dentro in vent'anni di potere e faide. Il maxiprocesso "Spartacus", chiamato come il gladiatore ribelle che proprio da queste terre tentò la più grande insurrezione che Roma avesse conosciuto, raccoglieva la summa delle indagini contro il cartello dei Casalesi e tutte le sue diramazioni.

Il giorno della sentenza andai al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Infilai la mia Vespa in un interstizio tra due auto, e riuscii a entrare in tribunale. Mi aspettavo telecamere, macchine fotografiche. Ce n'erano pochissime, e solo di giornali e tv locali. Carabinieri e poliziotti invece erano dappertutto. Circa duecento. Due elicotteri sorvolavano il tribunale a bassa quota, lasciando entrare il rumore delle pale nelle orecchie di tutti. Cani antibomba, volanti. Una tensione altissima. Eppure la stampa nazionale e le tv erano assenti. Il più grande processo contro un cartello criminale per numerodi imputati e condanne proposte era stato completamente

ignorato dai media. Gli addetti ai lavori conoscono il processo "Spartacus" per un numero: 3615, che è il numero del registro generale attribuito all'inchiesta con circa milletrecento inquisiti avviata dalla DDA nel 1993, partendo dalle dichiarazioni di Carmine Schiavone.

Un processo durato sette anni e ventuno giorni, per seicen-toventisei udienze complessive, n processo di mafia più complesso in Italia negli ultimi quindici anni. Cinquecento testimoni sentiti, oltre ai ventiquattro collaboratori di giustìzia, di cui sei imputati. Acquisiti novanta faldoni di atti, sentenze di altri processi, documenti, intercettazioni. Dopo quasi un anno dal blitz del 1995, arrivarono anche le inchieste-figlie di "Spartacus". "Spartacus 2" e "Regi Lagni", ossia il recupero dei canali borbonici che risalivano al diciottesimo secolo, che da allora non ricevevano ristrutturazione adeguata. H recupero dei Regi Lagni fu per anni pilotato dai clan che generarono — secondo le accuse — appalti miliardari inutilizzati per ristrutturare le vecchie strutture borboniche, e invece fatti defluire verso le loro imprese edili che sarebbero divenute vincenti in tutt'Italia negli anni successivi. E poi il processo "Aima", le truffe che i clan Casalesi avevano fatto nei famosi centri dello scamazzo, ossia dove la Comunità europea raccoglieva, scamazzandola, la fratta prodotta in eccesso dando in cambio un indennizzo ai contadini. Nei grandi crateri dove veniva sversata la frutta, i clan ci gettavano monnezza, ferro, rimasugli di lavori edili. Prima però tutta la schifezza se la facevano pesare come se fosse stata frutta. E ricevevano ovviamente i soldi di indennizzo, mentre la frutta dei loro appezzamenti continuava a essere venduta ovunque. Furono emessi centotrentuno decreti di sequestro riguardanti imprese, terreni, aziende agricole, per un valore complessivo di centinaia di milioni di euro. Destinatarie dei sequestri anche due società di calcio, l'Albanova, che militava nel campionato C2, e il Casal di Principe.

L'inchiesta prese in esame anche l'imposizione da parte del clan dell'affidamento di subappalti per opere pubbliche a imprese vicine all'organizzazione, con la conseguente gestione di forniture di calcestruzzo e le attività di movimentazione terra. Un altro rilevante capitolo dell'inchiesta concerneva le truffe ai danni della CEE, in particolare riguardo ai contributi ottenuti illecitamente nel comparto agro-alimentare. E poi centinaia di omicidi, alleanze imprenditoriali. Mentre ero lì in attesa della sentenza come tutti, pensavo che quello non era un processo come altri, non un semplice e ordinario processo contro famiglie camorriste della provincia meridionale. Quello sembrava una sorta di processo alla storia, come una Norimberga di una generazione di camorra, ma a differenza dei generalissimi del Reich, molti dei camorristi che erano lì continuavano a comandare, a essere i riferimenti dei loro imperi. Una Norimberga senza vincitori. Gli imputati nelle gabbie, in silenzio. Sandokan era in videoconferenza, immobile nel carcere di Viterbo. Sarebbe stato troppo rischioso spostarlo. In aula si sentiva solo il vociare degli avvocati: oltre venti studi legali coinvolti e più di cinquanta tra avvocati e assistenti avevano studiato, seguito, osservato, difeso. I parenti degli imputati erano tutti ammucchiati in una saletta di fianco all'aula bunker, fissavano tutti il monitor. Quando il presidente della corte Catello Marano prese le trenta pagine del dispositivo del processo, calò il silenzio. I respiri pesanti, il deglutire di centinaia di gole, il ticchettìo di centinaia di orologi, il vibrare silenzioso di decine di cellulari privati della suoneria. Il silenzio era nervoso, accompagnato da un'orchestra di suoni d'ansia di contorno. Il presidente iniziò a leggere prima l'elenco dei condannati, poi quello degli assolti. Ventuno ergastoli, oltre settecentocinquanta anni di galera inflitti. Per ventuno volte il presidente ripetè la condanna di carcere a vita, e spesso ripeteva anche i nomi dei condannati. E altre settanta volte diede lettura degli anni che altri uomini, i gregari e i manager, dovevano trascorrere in carcere per pagare il prezzo delle loro alleanze con il terribile potere casalese. All'una e mezzo tutto stava per concludersi. Sandokan chiese di parlare. Si agitava, voleva reagire alla sentenza, ribadire la sua tesi, quella del suo collegio difensivo: che lui era un imprenditore vincente, che un complotto di magistrati invidiosi e marxisti aveva considerato la potenza della borghesia dell'agro aversano una forza criminale e non il frutto di capacità imprenditoriali ed economiche. Voleva sbraitare che la sentenza era un'ingiustizia. Tutti i morti del casertano, nel suo solito ragionamento, venivano ascritti a faide dovute alla cultura contadina del posto e non a conflitti di camorra. Ma a Sandokan quella volta non fu permesso di parlare. Venne zittito come uno scolaro rumoroso. Iniziò a sbraitare e i giudici fecero togliere l'audio. Si continuò a vedere un omone barbuto che si dimenava sino a quando anche il video si spense. L'aula si svuotò immediatamente, i poliziotti e i carabinieri andarono lentamente via, mentre l'elicottero continuava a sorvolare l'aula bunker. È strano, ma non avevo la sensazione che il clan dei Casalesi fosse stato sconfitto. Molti uomini erano stati sbattuti per un po' di anni in carcere, dei boss non sarebbero più usciti di galera per tutta la loro vita, qualcuno magari avrebbe col tempo deciso di pentirsi e riprendersi così un po' di esistenza fuori dalle sbarre. La rabbia di Sandokan doveva essere quella asfissiante dell'uomo di potere che possiede nella testa l'intera mappa del suo impero, ma non può controllarla direttamente.

I boss che decidono di non pentirsi vivono di un potere metafisico, quasi immaginario, e devono fare di tutto per dimenticare gli imprenditori che loro stessi hanno sostenuto e lanciato e che, non essendo membri del clan, riescono a farla franca. I boss, se ne avessero voglia, potrebbero far finire in galera anche loro, ma dovrebbero pentirsi, e questo interromperebbe immediatamente la loro autorità massima e metterebbe a rischio tutti i loro familiari. E poi, cosa ancora più tragica per un boss, molte volte i percorsi dei loro danari, i loro investimenti legali, non riuscirebbero neanche a map-parli. Pur confessando, pur svelando il loro potere non saprebbero mai sino in fondo dove sono finiti i loro soldi. I boss pagano sempre, non possono non pagare. Ammazzano, gestiscono batterie militari, sono il primo anello dell'estrazione di capitale illegale e questo renderà i loro crimini sempre identificabili e non diafani come i crimini economici dei loro colletti bianchi. Del resto i boss non possono essere eterni. Cutolo lascia a Bardellino, Bardellino a Sandokan, San-dokan a Zagaria, La Monica a Di Lauro, Di Lauro agli Spagnoli e loro a chissà quali altri. La forza economica del Sistema camorra è proprio nel continuo ricambio di leader e di scelte criminali. La dittatura di un uomo nei clan è sempre a breve termine, se il potere di un boss durasse a lungo farebbe levitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigidendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato non esplorandone di nuovi. Invece che divenire un valore aggiunto all'economia criminale diverrebbe ostacolo agli affari. E allora appena un boss raggiunge il potere, dopo poco emergeranno nuove figure pronte a prenderne il posto con la volontà di espandersi e camminare sulle spalle dei giganti che loro stessi hanno contribuito a creare. Lo ricordava sempre uno dei più attenti osservatori delle dinamiche di potere, il giornalista Riccardo Orioles: "La criminalità non è il potere, ma uno dei poteri". Non ci sarà mai un boss che vuole sedere al governo. Se la camorra fosse tutto il potere non ci sarebbe il suo business che risulta essenziale nel meccanismo dello scalino legale e illegale. In questo senso ogni arresto, ogni maxiprocesso, sembra piuttosto un modo per avvicendare capi, per interrompere fasi, piuttosto che un'azione capace di distruggere un sistema di cose.

I visi pubblicati in successione il giorno dopo dai giornali, uno a fianco all'altro, i visi dei boss, dei gregari, dei ragazzini affiliati e di vecchi avanzi di galera, rappresentavano non un girone infernale di criminali, ma tasselli di un mosaico di potere che nessuno per vent'anni aveva potuto ignorare o sfidare. Dopo la sentenza "Spartacus", i boss in carcere iniziarono a lanciare minacce implicite ed esplicite ai giudici, ai magistrati, ai giornalisti, a tutti coloro che ritenevano responsabili di aver fatto di un manipolo di manager del cemento e delle bufale dei killer agli occhi della legge. II senatore Lorenzo Diana continuava a essere il bersaglio privilegiato del loro odio. Con lettere inviate a giornali locali, esplicite minacce lanciate durante i processi. Subito dopo la

sentenza "Spartacus" alcune persone erano entrate nell'allevamento di trote del fratello del senatore, le avevano sparse d'intorno, e fatte morire lentamente, lasciandole dimenare in terra, asfissiate dall'aria. Alcuni pentiti avevano addirittura segnalato tentativi di agguato da parte di "falchi" dell'organizzazione contro il senatore. Operazioni poi fermate dalla mediazione dei settori più diplomatici del clan. Ad averli dissuasi era stata anche la scorta. La scorta armata non è mai un limite per i clan. Non hanno paura di auto blindate e poliziotti, ma è un segnale, il segnale che quell'uomo che vogliono eliminare non è solo, non potranno facilmente sbarazzarsene come se si trattasse di un individuo la cui morte non interesserebbe che la propria cerchia di familiari. Lorenzo Diana è uno di quei politici che ha deciso di mostrare la complessità del potere casalese e non di denunciare genericamente dei criminali. È nato a San Cipriano d'Aversa, ha vissuto osservando da vicino l'emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all'altro possa risvegliarsi l'attenzione dei media nazionali sul potere casale-se, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall'inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai.

Con il processo giunto a sentenza tra i Bidognetti e gli Schiavone poteva scoppiare un conflitto aperto. Per anni si erano fronteggiati attraverso vari clan a loro confederati, poi gli affari comuni avevano sempre prevalso sui contrasti.

I Bidognetti dispongono di potenti batterie di fuoco, il loro territorio è il nord del casertano, un dominio che giunge sino alla costa domizia. Ferocissimi, a Castelvolturno avevano bruciato vivo un barista, Francesco Salvo, titolare del locale in cui lavorava, il Tropicana, punito per aver osato sostituire i videopoker dei Bidognetti con quelli gestiti da un clan rivale. I Mezzanotte erano arrivati a lanciare una bomba al fosforo contro l'auto di Gabriele Spenuso, mentre camminava sulla Nola-Villa Literno. Domenico Bidognetti aveva ordinato l'eliminazione di Antonio Magliulo nel 2001, perché aveva osato fare avances, nonostante fosse un uomo sposato, a una ragazza, cugina di un boss. L'avevano legato a una sedia, su una spiaggia, e dinanzi al mare avevano iniziato a imbottirgli la bocca e le narici di sabbia. Per respirare Magliulo inghiottiva e sputava sabbia e cercava di soffiarla fuori dal naso. Vomitava, masticava, agitava il collo, impastava con la saliva la rena creando una specie di primitivo cemento, una materia collosa che lentamente lo affogò. La ferocia dei Mezzanotte era direttamente proporzionale al potere imprenditoriale. Legati al ciclo dei rifiuti, i Bidognetti avevano stretto — secondo diverse indagini della DDA di Napoli del 1993 e del 2006 — alleanze con la massoneria deviata della P2. Smaltivano illegalmente, e a prezzi molto convenienti, i rifiuti tossici di imprenditori legati alla loggia. Un nipote di Cicciotto di Mezzanotte, Gaetano Cerci, arrestato nell'ambito dell'operazione "Adelphi" sulle ecomafie, era il contatto tra la camorra casalese e alcuni massoni, e si incontrava molto spesso per affari direttamente con Licio Gelli. Affare che gli inquirenti sono riusciti a scoprire nel volume finanziario di una sola impresa coinvolta e che è stato quantificato in oltre trentacinque milioni di euro. I due boss, Bidognetti e Schiavone, entrambi in galera, entrambi con ergastoli sulle spalle, avrebbero potuto tentare di sfruttare ognuno la condanna dell'altro per sguinzagliare i propri uomini e tentare di eliminare il clan rivale. Ci fu un momento in cui tutto sembrò crollare in un enorme conflitto, di quelli che portano morti a grappolo ogni giorno.

Nella primavera del 2005 il figlio più piccolo di Sandokan era andato a una festa a Parete, territorio dei Bidognetti, e qui aveva iniziato — secondo le indagini — a corteggiare una ragazza, nonostante questa fosse già accompagnata. Il rampollo degli Schiavone era senza scorta e credeva che il solo fatto di essere figlio di Sandokan lo avrebbe reso immune da ogni tipo di aggressione. Non andò così. Un gruppetto di persone lo trascinò fuori casa e lo riempì di schiaffi, di pugni e calci nel sedere. Dopo il mazziatone dovette correre in ospedale a farsi suturare la testa. Il giorno dopo una quindicina di persone, in moto e in macchina, si presentarono dinanzi al bar Penelope, dove si ritrovavano solitamente i ragazzi che avevano pestato il rampollo. Entrarono con mazze da baseball e sfasciarono ogni cosa, pestarono a sangue chiunque si trovasse dentro, ma non riuscirono a individuare i responsabili dell'affronto a Schiavone, che molto probabilmente erano riusciti a scappare, forse da un'altra uscita del bar. Allora il commando li aveva rincorsi in strada e aveva iniziato a sparare una decina di colpi, tra la gente, in piazza, colpendo all'addome un passante. Per risposta il giorno dopo tre moto giunsero al caffè Matteotti di Casal di Principe, dove spesso si ritrovano gli affiliati più giovani del clan Schiavone. I motociclisti scesero lentamente, per dare il tempo ai passanti di scappare, e iniziarono anche loro a sfasciare ogni cosa. Vennero segnalate scazzottate e più di sedici accoltellati. L'aria era pesante, una nuova guerra era pronta a partire.

A far aumentare la tensione giunse inaspettata la confessione di un pentito, Luigi Diana, il quale aveva dichiarato, secondo un giornale locale, che Bidognetti era il responsabile del primo arresto di Schiavone, era lui che aveva collaborato con i carabinieri rivelando la latitanza in Francia del boss. Le batterie di fuoco si stavano preparando e i carabinieri erano pronti a raccogliere i cadaveri della mattanza. Tutto fu fermato da Sandokan stesso, con un gesto pubblico. Nonostante il regime di carcere duro riuscì a mandare una lettera aperta a un giornale locale, pubblicata il 21 settembre 2005 direttamente in prima pagina. Il boss, come un manager affermato, risolse il conflitto smentendo ciò che aveva detto il pentito, a cui tra l'altro poche ore dopo il pentimento avevano ucciso un familiare:

"La soffiata, anzi chi mise fiato alle trombe e permise il mio arresto in Francia, fu, come accertato probatoriamente fatta da Carmine Schiavone, e non già Cicciotto Bidognetti. La verità è che tale individuo che risponde al nome del pentito Luigi Diana dice falsità e vuole mettere zizzania per tornaconti personali."

Inoltre "suggerisce" al direttore del giornale di raccontare bene le notizie:

"Vi prego di non farvi strumentalizzare da questo delatore, molto, ma molto prezzolato e di non incorrere nell'errore di trasformare il vostro quotidiano di cronaca in un giornale scandalistico, che inevitabilmente perderebbe di credibilità come un giornale vostro concorrente a cui non ho rinnovato l'abbonamento, cosa che come me molti faranno, non comprando un giornale così strumentalizzato."

Con la lettera, Sandokan delegittima il giornale concorrente del quotidiano a cui ha indirizzato la lettera, e ufficialmente lo elegge a suo nuovo interlocutore.

"Non commento nemmeno il fatto che il giornale vostro concorrente è abituato a scrivere falsità. Il sottoscritto è come l'acqua di fonte: trasparente in tutto!"

Sandokan invitò i suoi uomini a comprare il nuovo giornale e non più il vecchio, da decine di carceri in tutt'Italia arrivarono richieste d'abbonamento per il nuovo giornale prescelto dal boss e disdette d'abbonamento per quello criticato. Il boss chiuse la sua lettera di pace con Bidognetti scrivendo:

"La vita ti chiede sempre ciò che sei capace di affrontare. A questi cosiddetti pentiti la vita gli ha chiesto di affrontare il fango. Come ai porci!"

Il cartello dei Casalesi non era sconfitto. Risultava persino rinvigorito. Secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli, il cartello è attualmente gestito da una diarchia retta da Antonio Iovine, detto "'o ninno" ossia il poppante, perché raggiunse i vertici del clan ancora ragazzino, e Michele Za-garia, il boss manager di Casapesenna, detto "capastorta" per l'irregolarità del suo viso, ma che pare ora si faccia chiamare "Manera". Entrambi i boss sono latitanti da anni e inseriti nell'elenco del Ministero dell'Interno tra i più pericolosi fuggiaschi italiani. Irreperibili, eppure sicuramente sempre presenti nel loro paese. Nessun boss può, per troppo tempo, abbandonare le proprie radici perché è su queste che tutto il potere si edifica e tutto il potere può crollare.

Poche manciate di chilometri, paesi minuscoli, budelli di viottoli, e masserie sperdute per le campagne, eppure impossibile beccarli. Sono in paese. Si muovono su percorsi internazionali ma tornano in paese, per la parte maggiore dell'anno stanno in paese. Lo sanno tutti. Eppure non li beccano. Le strutture di copertura sono così efficienti da impedire l'arresto. Le loro ville continuano a essere abitate da parenti e famiglie. Quella di Antonio Iovine a San Cipriano somiglia a un palazzotto liberty, mentre la villa di Michele Zagaria invece è un vero e proprio complesso edilizio tra San Cipriano e Casapesenna, una casa con al posto del tetto una cupola di vetro per permettere alla luce di entrare e alimentare la crescita di un enorme albero che troneggia al centro del salone. La famiglia Zagaria possiede decine di aziende satellite in tutta Italia ed è — secondo i magistrati della DDA di Napoli — la prima impresa italiana nel movimento terre. La più potente in assoluto. Una supremazia economica che non nasce dalla diretta attività criminosa, ma dalla capacità di equilibrare capitali leciti e illeciti.

Queste ditte riescono a proporsi in modo profondamente concorrenziale. Hanno vere e proprie colonie criminali in Emilia, Toscana, Umbria e Veneto, dove certificazioni e controlli antimafia sono più blandi e permettono il trasferimento di interi rami d'azienda. I Casalesi prima imponevano il pizzo agli imprenditori campani al nord adesso gestiscono direttamente il mercato. Nel modenese e nell'aretino i Casalesi hanno in mano la maggior parte degli affari edilizi e si portano dietro manodopera essenzialmente casertana.

Le indagini in corso mostrano che le imprese edili legate al clan dei Casalesi si sono infiltrate nei lavori dell'alta velocità al nord, dopo averlo fatto al sud. Come dimostra un'inchiesta coordinata dal giudice Franco Imposimato del luglio 1995, le grandi imprese vincitrici dell'appalto della TAV Napoli-Roma avevano subappaltato i lavori a Edilsud, legata proprio a Michele Zagaria, ma anche ad altre decine di imprese legate al cartello casalese. Un affare, quello dell'alta velocità Napoli-Roma, che ha fruttato circa diecimila miliardi di lire.

Le inchieste dimostrarono che il clan Zagaria aveva già fatto accordi con le 'ndrine calabresi per partecipare con le proprie aziende agli appalti, qualora le linee dell'alta velocità avessero raggiunto Reggio Calabria. Erano pronti i Casa-lesi, come lo sono ora. La costola di Casapesenna del sodalizio casalese è riuscita a penetrare — secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli degli ultimi anni — in una serie di lavori pubblici al centro-nord partecipando alla ricostruzione dell'Umbria dopo il terremoto del 1997. Ogni grande appalto e cantiere le ditte di camorra dell'agro aversano lo possono dominare in ogni passaggio. Noli a freddo, movimento terre, trasporti, inerti, manodopera.

Le ditte dell'agro aversano sono pronte per intervenire: organizzate, economiche, veloci, efficienti. Le imprese edili a Casal di Principe sono ufficialmente cinquecentodiciassette. Moltissime sono diretta emanazione dei clan, altre centinaia si trovano in tutti i paesi dell'agro aversano, un esercito pronto a cementificare ogni cosa. I clan non sembrano aver bloccato lo sviluppo del territorio, quanto piuttosto dirottato nelle loro casse i vantaggi. In un fazzoletto di pochissimi chilometri negli ultimi cinque anni sono stati edificati dei veri e propri troni commerciali di cemento: uno dei più grandi cinemamultisala d'Italia, a Marcianise, il più grande centro commerciale del sud Italia a Teverola, il più grande centro commerciale d'Europa sempre a Marcianise, tutto in una regione con altissimi tassi di disoccupazione e con un'emorragia continua di emigrazione. Enormi agglomerati commerciali che piuttosto che nonluoghi — come li avrebbe definiti l'etnologo Marc Auge — parevano degli inizioluoghi. Supermercati dove tutto ciò che poteva essere comprato e consumato deve permettere alla cartamoneta di far battezzare capitali e danari che altrimenti non avrebbero trovato precisa origine legittima. Luoghi da dove deve iniziare l'origine legale del danaro, il battesimo ufficiale. Più centri commerciali si edificano, più cantieri si innalzano, più merci giungono, più fornitori lavorano, più trasporti avvengono, più velocemente il danaro riuscirà a oltrepassare i perimetri frastagliati dei territori illegali in quelli legali.

I clan hanno beneficiato dallo sviluppo strutturale della provincia e sono pronti a prendere parte al bottino. Attendono con ansia l'inizio delle grandi opere sul territorio: la metropolitana di Aversa e l'aeroporto di Grazzanise, che sarà uno dei più grandi d'Europa, costruito a poca distanza dalle masserie che furono di Cicciariello e di Sandokan.

I Casalesi hanno disseminato la provincia di loro beni. Soltanto i beni immobili sequestrati dalla DDA di Napoli nell'ultima manciata di anni ammontano a settecentocinquanta milioni di euro. Gli elenchi sono spaventosi. Solo per il procedimento del processo "Spartacus" avevano sequestrato centonovantanove fabbricati, cinquantadue terreni, quattordici società, dodici autovetture e tre imbarcazioni. Nel corso degli anni erano stati sequestrati a Schiavone e ai suoi fiduciari, in un procedimento del 1996, beni per quattrocentocinquanta miliardi, aziende, villini, terreni, fabbricati e automobili di grossa cilindrata (tra cui la Jaguar su cui trovarono Sandokan all'epoca del primo arresto). Sequestri che avrebbero distrutto qualsiasi azienda, perdite che avrebbero messo sul lastrico ogni imprenditore, vere e proprie mazzate economiche che avrebbero ingolfato qualsiasi gruppo economico. Qualsiasi, ma non il cartello dei Casalesi. Ogni volta che leggevo dei sequestri di immobili, ogni volta che avevo dinanzi agli occhi gli elenchi di beni che la DDA sequestrava ai boss, mi saliva una sensazione di sconforto e stanchezza, ovunque mi girassi sembrava che tutto fosse loro. Tutto. Terre, bufale, masserie, cave, rimessaggi d'auto e caseifici, alberghi e ristoranti. Una sorta di onnipotenza camorrista, non riuscivo a vedere altro che non fosse loro proprietà.

C'era un imprenditore che più d'ogni altro aveva avuto questo potere totale, quello di divenire padrone d'ogni cosa: Dante Passarelli di Casal di Principe. Venne arrestato anni fa per associazione camorristica, accusato di essere il cassiere del clan dei Casalesi, l'accusa propose la condanna a otto anni di reclusione per 416 bis. Non era semplicemente uno dei moltissimi imprenditori che facevano affari con e per mezzo dei clan. Passarelli era l'Imprenditore in assoluto, il numero uno, il più vicino, il più fidato. Era un ex salumiere con grandi capacità commerciali e queste qualità gli erano bastate, poiché venne prescelto — secondo le accuse — per divenire l'investitore di una parte dei capitali del clan. Divenne grossista e poi industriale. Da imprenditore della pasta era diventato anche imprenditore edile e poi dallo zucchero era passato al catering, fino al calcio. Il patrimonio di Dante Passarelli, secondo una stima della DIA, valeva tra i trecento e i quattrocento milioni di euro. Buona parte di quella ricchezza era frutto di partecipazioni azionarie e cospicue quote di mercato nel settore agro-alimentare. Era di sua proprietà riparti, uno dei più importanti zuccherifici italiani. Era leader nella distribuzione dei pasti con la Passarelli Dante e figli, che si era aggiudicata l'appalto per le mense degli ospedali di Santa Maria Capua Vetere, Capua e Sessa Aurunca, era proprietario di centinaia di appartamenti, sedi commerciali e industriali. Al momento del suo arresto, il 5 dicembre 1995, quei beni furono sottoposti a sequestro: nove fabbricati a Villa Literno; un appartamento a Santa Maria Capua Vetere; un altro a Pinetamare; un fabbricato a Casal di Principe. E poi: terreni a Castelvolturno, a Casal di Principe, a Villa Literno, a Cancello Arnone, il complesso agricolo La Balzana, a Santa Maria la Fossa, composto da duecentonove ettari di terreno e quaranta fabbricati rurali. E poi il suo fiore all'occhiello, An-fra III, un lussuosissimo yacht con decine di stanze, parquet, e vasca idromassaggio a bordo, tenuto in rimessaggio a Gallipoli. Su Anfra III Sandokan e consorte avevano fatto una crociera nelle isole greche. Le indagini stavano procedendo alla progressiva confisca dei beni quando Dante Passarelli venne trovato morto, nel novembre 2004, caduto dal balcone di una delle sue case. Fu la moglie a trovare il corpo. La testa spaccata, la spina dorsale frantumata. Le indagini sono tuttora in corso. Non si comprende ancora se è stata fatalità, o una notissima mano anonima a far cadere l'imprenditore dal balcone in costruzione. Con la sua morte tutti i beni, che sarebbero dovuti passare alla disponibilità dello Stato, sono tornati alla famiglia. H destino di Passarelli è stato quello di un commerciante che per la sua qualità imprenditoriale aveva ricevuto capitali che mai avrebbe potuto gestire, e li ha fatti levitare in maniera egregia. Poi è arrivato l'intoppo, le inchieste giudiziarie, e lo stesso patrimonio non è riuscito a difenderlo dal sequestro. Come la qualità d'aziendalista gli aveva dato un impero, così la sconfitta dei sequestri gli aveva dato la morte. I clan non permettono errori. Quando segnalarono a Sandokan, durante un processo, che Dante Passarelli era morto, il boss serenamente disse: "Pace aH'anima sua".

Il potere dei clan rimaneva il potere del cemento. Era sui cantieri che sentivo fisicamente, nelle budella, tutta la loro potenza. Per diverse estati ero andato a lavorare nei cantieri, per farmi impastare cemento non mi bastava altro che comunicare al capomastro la mia origine e nessuno mi rifiutava il lavoro. La Campania forniva i migliori edili d'Italia, i più bravi, i più veloci, i più economici, i meno rompicoglioni. Un lavoro bestiale che non sono mai riuscito a imparare particolarmente bene, un mestiere che ti può fruttare un gruzzolo cospicuo solo se sei disposto a giocarti ogni forza, ogni muscolo, ogni energia. Lavorare in ogni condizione climatica, con il passamontagna in viso così come in mutande. Avvicinarmi al cemento, con le mani e col naso, è stato l'unico modo per capire su cosa si fondava il potere, quello vero.

Fu quando morì Francesco Iacomino però che compresi sino in fondo i meccanismi dell'edilizia. Aveva trentatré anni quando lo trovarono con la tuta da lavoro sul selciato, all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio a Ercolano. Era caduto da un'impalcatura. Dopo l'incidente erano scappati tutti, geometra compreso. Nessuno ha chiamato l'autoambulanza, temendo potesse arrivare prima della loro fuga. Allora, mentre scappavano, avevano lasciato il corpo a metà strada, ancora vivo, mentre sputava sangue dai polmoni. Quest'ennesima notizia di morte, uno dei trecento edili che crepavano ogni anno nei cantieri in Italia si era come ficcata in qualche parte del mio corpo. Con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di quelle che somigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa.

Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra. Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo forse anch'io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell'attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l'Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all'assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria,

sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini. Ci sono andato da solo, anche se queste cose per renderle meno patetiche bisognerebbe farle in compagnia. In banda. Un gruppo di fedeli lettori, una fidanzata. Ma io ostinatamente sono andato da solo.

Casarsa è un bel posto, uno di quei posti dove ti viene facile pensare a qualcuno che voglia campare di scrittura, e invece ti è difficile pensare a qualcuno che se ne va dal paese per scendere più giù, oltre la linea dell'inferno. Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. Pier Paolo Pasolini. Il nome uno e trino, come diceva Caproni, non è il mio santino laico, né un Cristo letterario. Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell'architettura dell'autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura.

Presi il treno da Napoli per Pordenone, un treno lentissimo dal nome assai eloquente sulla distanza che doveva percorrere: Marco Polo. Una distanza enorme sembra separare il Friuli dalla Campania. Partito alle otto meno dieci arrivai in Friuli alle sette e venti del giorno dopo, attraversando una notte freddissima che non mi diede tregua per dormire neanche un po'. Da Pordenone con un bus arrivai a Casarsa e scesi camminando a testa bassa come chi sa già dove andare e la strada può anche riconoscerla guardandosi la punta delle scarpe. Mi persi, ovviamente. Ma dopo aver vagato inutilmente riuscii a raggiungere via Valvasone, il cimitero dove è sepolto Pasolini e tutta la sua famiglia. Sulla sinistra, poco dopo l'ingresso, c'era un'aiuola di terra nuda. Mi avvicinai a questo quadrato con al centro due lastre di marmo bianco, piccole, e vidi la tomba. "Pier Paolo Pasolini (1922–1975)." Al fianco, poco più in là, quella della madre. Mi sembrò d'essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai a articolare il mio io so, l'io so del mio tempo.

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d'economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: "È falso" all'orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità.

Cerco sempre di calmare quest'ansia che mi prende ogni volta che cammino, ogni volta che salgo scale, prendo ascensori, quando struscio le suole su zerbini e supero soglie. Non posso fermare un rimuginio d'anima perenne su come sono stati costruiti palazzi e case. E se poi ho qualcuno a portata di parola riesco con difficoltà a trattenermi dal raccontare come si tirano su piani e balconi sino al tetto. Non è un senso di colpa universale che mi pervade, né un riscatto morale verso chi è stato cassato dalla memoria storica. Piuttosto cerco di dismettere quel meccanismo brechtiano che invece ho connaturato, di pensare alle mani e ai piedi della storia. Insomma più alle ciotole perennemente vuote che portarono alla presa della Bastiglia che ai proclami della Gironda e dei Giacobini. Non riesco a non pensarci. Ho sempre questo vizio. Come qualcuno che guardando Vermeer pensasse a chi ha mescolato i colori, tirato la tela coi legni, assemblato gli orecchini di perle, piuttosto che contemplare il ritratto. Una vera perversione. Non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale, e non mi distrae da come si mettono in torre le impalcature il vedere una verticale di finestre. Non riesco a far finta di nulla. Non riesco proprio a vedere solo il parato e penso alla malta e alla cazzuola. Sarà forse che chi nasce in certi meridiani ha rapporto con alcune sostanze in modo singolare, unico. Non tutta la materia viene recepita allo stesso modo in ogni luogo. Credo che in Qatar l'odore di petrolio e benzina rimandi a sensazioni e sapori che sanno di residenze immense, occhiali da sole e limousine. Lo stesso odore acido del carbonfossile, a Minsk, credo rimandi a facce scure, fughe di gas, e città affumicate mentre in Belgio rimanda all'odore d'aglio degli italiani e alla cipolla dei magh-rebini. Lo stesso accade col cemento per l'Italia, per il mezzogiorno. Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: gare d'appalto, appalti, cave, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature, operai. L'armamentario dell'imprenditore italiano è questo. L'imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile, conquistare fiducia, assumere persone nel tempo adatto di un'elezione, distribuire salari, accaparrarsi finanziamenti, moltiplicare il proprio volto sulle facciate dei palazzi che si edificano. Il talento del costruttore è quello del mediatore e del rapace. Possiede la pazienza del certosino compilatore di documentazioni burocratiche, di attese interminabili, di autorizzazioni sedimentate come lente gocce di stalattiti. E poi il talento di rapace, capace di planare su terreni insospettabili sottrarli per pochi quattrini e poi serbarli sino a quando ogni loro centimetro e ogni buco divengono rivendibili a prezzi esponenziali. L'imprenditore rapace sa come usare becco e artigli. Le banche italiane sanno accordare ai costruttori il massimo credito, diciamo che le banche italiane sembrano edificate per i costruttori. E quando proprio non ha meriti e le case che costruirà non bastano come garanzie, ci sarà sempre qualche buon amico che garantirà per lui. La concretezza del cemento e dei mattoni è l'unica vera materialità che le banche italiane conoscono. Ricerca, laboratorio, agricoltura, artigianato, i direttori di banca li immaginano come territori vaporosi, iperurani senza presenza di gravità. Stanze, piani, piastrelle, prese del telefono e della corrente, queste le uniche concretezze che riconoscono. Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezz'Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiate da contadini che mai avevano visto questi mammut di ferro e gomma. Erano riusciti a rimanere, a resistere senza emigrare e sotto i loro occhi gli portavano via tutto. Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova. Ora non è più il fiume che va al mare, ma il mare che entra nel fiume. Ora nel Volturno si pescano le spigole, e i contadini non ci sono più. Senza terra hanno iniziato ad allevare le bufale, dopo le bufale hanno messo su piccole imprese edili assumendo giovani nigeriani e sudafricani sottratti ai lavori stagionali, e quando non si sono consorziati con le imprese dei clan hanno incontrato la morte precoce. Io so e ho le prove. Le ditte d'estrazione vengono autorizzate a sottrarre quantità minime, e in realtà mordono e divorano intere montagne. Montagne e colline sbriciolate e impastate nel cemento finiscono ovunque. Da Tenerife a Sassuolo. La deportazione delle cose ha seguito quella degli uomini. In una trattoria di San Felice a Cancello, ho incontrato don Salvatore, vecchio mastro. Una specie di salma ambulante, non aveva più di cinquantanni, ma ne dimostrava ottanta. Mi ha raccontato che per dieci anni ha avuto il compito di smistare nelle impastatrici le polveri di smaltimento fumi. Con la mediazione delle ditte dei clan lo smaltimento occultato nel cemento è divenuta la forza che permette alle imprese di presentarsi alle gare d'appalto con prezzi da manodopera cinese. Ora garage, pareti e pianerottoli hanno nel loro petto i veleni. Non accadrà nulla sin quando qualche operaio, magari maghrebino, inalerà le polveri crepando qualche anno dopo e incolperà la malasorte per il suo cancro.

Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Io so che prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari, in acquirenti di quotidiani, prima di tutto questo e dietro tutto questo c'è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. Lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell'economia italiana. La costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Ferruccio Parri, non Luigi Einaudi, non Pietro Nenni, non il comandante Valerio. Furono i palazzinari a tirare per lo scalpo l'Italia affossata dal crac Sindona e dalla condanna senza appello del Fondo Monetario Internazionale. Cementifici, appalti, palazzi e quotidiani.

Nell'edilizia finiscono gli affiliati al giro di boa. Dopo che si fa una carriera da killer, da estorsore o da palo, §i finisce nell'edilizia o a raccogliere spazzatura. Piuttosto che filmati e conferenze a scuola, potrebbe essere interessante prendere i nuovi affiliati e portarli a fare un giro per cantieri mostrando il destino che li attende. Se galera e morte dovessero risparmiarli staranno su un cantiere, invecchiando e scatarrando sangue e calce. Mentre imprenditori e affaristi che i boss credevano di gestire avranno committenze milionarie. Di lavoro si muore. In continuazione. La velocità di costruzioni, la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d'orario. Turni disumani nove-dodici ore al giorno compreso sabato e domenica. Cento euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di cinquanta euro ogni dieci ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un'auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. La somma che l'assicurazione pagherà verrà girata alla famiglia come liquidazione. Non è raro che per simulare l'incidente si feriscano anche i simulatori in modo grave, soprattutto quando c'è da ammaccare un'auto contro il muro, prima di darle fuoco con il cadavere dentro. Quando il mastro è presente il meccanismo funziona bene. Quando è assente spesso il panico attanaglia gli operai. E allora si prende il ferito grave, il quasi cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino a una strada che porta all'ospedale. Si passa con la macchina si adagia il corpo e si fugge. Quando proprio lo scrupolo è all'eccesso si avverte un'autoambulanza. Chiunque prende parte alla scomparsa o all'abbandono del corpo quasi cadavere sa che lo stesso faranno i colleghi qualora dovesse accadere al suo corpo di sfracellarsi o infilzarsi. Sai per certo che chi ti è a fianco in caso di pericolo ti soccorrerà nell'immediato per sbarazzarsi di te, ti darà il colpo di grazia. E così si ha una specie di diffidenza nei cantieri. Chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo boia, o tu il suo. Non ti farà soffrire, ma sarà colui che ti lascerà crepare da solo su un marciapiede o ti darà fuoco in un'auto. Tutti i costruttori sanno che funziona in questo modo. E le ditte del sud danno garanzie migliori. Lavorano e scompaiono e ogni guaio se lo risolvono senza clamore. Io so e ho le prove. E le prove hanno un nome. In sette mesi nei cantieri a nord di Napoli sono morti quindici operai edili. Caduti, finiti sotto pale meccaniche, o spiaccicati da gru gestite da operai stremati dalle ore di lavoro. Bisogna far presto. Anche se i cantieri durano anni, le ditte in subappalto devono lasciar posto subito ad altre. Guadagnare, battere cassa e andare altrove. Oltre il 40 per cento delle ditte che operano in Italia sono del sud. Agro aversano, napoletano, salernitano. A sud possono ancora nascere gli imperi, le maglie dell'economia si possono forzare e l'equilibrio dell'accumulazione originaria non è stato ancora completato. A sud bisognerebbe appendere, dalla Puglia alla Calabria, dei cartelloni con il BENVENUTO per gli imprenditori che vogliono lanciarsi nell'agone del cemento e in pochi anni entrare nei salotti romani e milanesi. Un BENVENUTO che sa di buona fortuna dato che la ressa è molta e pochissimi galleggiano sulle sabbie mobili. Io so. E ho le prove. E i nuovi costruttori, proprietari di banche e di panfili, principi del gossip e maestà di nuove baldracche celano il loro profitto. Forse hanno ancora un'anima. Hanno vergogna di dichiarare da dove vengono i propri guadagni. Nel loro paese modello, negli USA, quando un imprenditore riesce a divenire riferimento finanziario, quando raggiunge fama e successo accade che convoca analisti e giovani economisti per mostrare la propria qualità economica, e svelare le strade battute per la vittoria sul mercato. Qui silenzio. E il danaro è solo danaro. E gli imprenditori vincenti che vengono dall'aversano, da una terra malata di camorra, rispondono senza vergogna a chi li interroga sul loro successo: "Ho comprato a dieci e venduto a trecento". Qualcuno ha detto che a sud si può vivere come in un paradiso. Basta fissare il cielo e mai, mai osare guardare in basso. Ma non è possibile. L'esproprio d'ogni prospettiva ha sottratto anche gli spazi della vista. Ogni prospettiva si imbatte in balconi, soffitte, mansarde, condomini, palazzi abbracciati, quartieri annodati. Qui non pensi che qualcosa possa cascare dal cielo. Qui scendi giù. Ti inabissi. Perché c'è sempre un abisso nell'abisso. Così quando calpesto scale e stanze, quando salgo negli ascensori, non riesco a non sentire. Perché io so. Ed è una perversione. E così quando mi trovo tra i migliori e vincenti imprenditori non mi sento bene. Anche se questi signori sono eleganti, parlano con toni pacati, e votano a sinistra. Io sento l'odore della calce e del cemento, che esce dai calzini, dai gemelli di Bulgari, dalle loro librerie. Io so. Io so chi ha costruito il mio paese e chi lo costruisce anche adesso. So che stanotte parte un treno da Reggio Calabria che si fermerà a Napoli a mezzanotte e un quarto e sarà diretto a Milano. Sarà colmo. E alla stazione i furgoncini e le Punto polverose preleveranno i ragazzi per nuovi cantieri. Un'emigrazione senza residenza che nessuno studierà e valuterà poiché rimarrà nelle orme della polvere di calce e solo lì. Io so qual è la vera Costituzione del mio tempo, qual è la ricchezza delle imprese. Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri. Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri.


Don Peppino Diana

Quando penso alla lotta ai clan di Casal di Principe, di San Cipriano, di Casapesenna e in tutti i territori egemonizzati da loro, da Parete a Formia, penso sempre ai lenzuoli bianchi. Ai lenzuoli bianchi che pendono da ogni balcone, legati a ogni ringhiera, annodati a tutte le finestre. Bianco, tutto bianco, una pioggia di stoffe candide. Furono il rabbioso lutto issato quando si svolsero i funerali di don Peppino Diana. Avevo sedici anni, era il marzo 1994. Mi svegliò mia zia, come sempre, ma con una violenza strana, mi svegliò tirandomi il lenzuolo in cui ero rannicchiato, come si fa quando si srotola un salame dalla carta. Quasi cascai giù dal letto. Mia zia non disse niente e camminava facendo un rumore fortissimo, come se sfogasse tutto il nervosismo sui talloni. Annodava questi lenzuoli alle ringhiere di casa, stretti, neanche un tornado avrebbe potuto scioglierli. Spalancava le finestre, faceva entrare le voci, uscire i rumori di casa, persino gli stipi dei mobili erano aperti. Ricordo il fiume di scout che avevano dismesso la loro aria scanzonata da bravi figli di famiglia e sembravano portare annodata ai loro bizzarri foulard gialli e verdi una rabbia forte, perché don Peppino era uno di loro. Mai più mi è capitato di rivedere scout così nervosi e così poco attenti a tutte quelle forme di ordine e compostezza che invece li accompagnano sempre nelle loro lunghe marce. Di quel giorno ho solo ricordi a chiazze, una memoria a pelle di dalmata. Don Peppino Diana ha avuto una storia strana, una di quelle che una volta conosciuta, bisogna poi conservarla da qualche parte del proprio corpo. In fondo alla gola, stretta nel pugno, vicino al muscolo del petto, sulle coronarie. Una storia rara, sconosciuta ai più.

Don Peppino aveva studiato a Roma e lì doveva rimanere a fare carriera lontano dal paese, lontano dalla terra di provincia, lontano dagli affari sporchi. Una carriera clericale, da buon figlio borghese. Ma aveva d'improvviso deciso di tornare a Casal di Principe come chi non riesce a togliersi di dosso un ricordo, un'abitudine, un odore. Forse come chi ha perennemente la sensazione smaniosa di dover fare qualcosa e di non riuscire a trovare pace fin quando non la realizza o almeno tenta di farlo. Don Peppino divenne giovanissimo sacerdote della chiesa di San Nicola di Bari, una chiesa dalla struttura moderna che sembrava, anche nell'estetica, perfetta per la sua idea di impegno. Girava per il paese in jeans e non in tonaca come era accaduto sino ad allora ai preti che si portavano addosso un'autorità cupa come l'abito talare. Don Peppino non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi, né andava confortando donne cornute, aveva cambiato con naturalezza il ruolo del prete di provincia. Aveva deciso di interessarsi delle dinamiche di potere: non solo dei corollari della miseria, non voleva soltanto nettare la ferita, ma comprendere i meccanismi della metastasi, bloccare la cancrena, fermare l'origine di ciò che rendeva la sua terra una miniera di capitali e un tracciato di cadaveri. Fumava anche il sigaro ogni tanto in pubblico, altrove poteva sembrare un gesto innocuo. Da queste parti i preti tendevano ad avere atteggiamenti di finta privazione del superfluo e nelle loro stanze davano sfogo alle pigre debolezze. Don Peppino aveva deciso di lasciare somigliare la sua faccia sempre più a se stesso, come una garanzia di trasparenza in una terra dove i volti invece devono orientarsi in smorfie pronte a mimare ciò che si rappresenta, aiutati dai soprannomi che caricano il proprio corpo del potere che si vuole suturare alla propria epidermide. Aveva l'ossessione del fare, aveva iniziato a realizzare un centro di accoglienza dove offrire vitto e alloggio ai primi immigrati africani. Era necessario accoglierli, evitare — come poi accadrà — che i clan potessero iniziare a farne dei perfetti soldati. Per realizzare il progetto aveva devoluto anche alcuni risparmi personali accumulati con l'insegnamento. Attendere aiuti istituzionali può essere cosa così lenta e complicata da divenire il più reale dei motivi per l'immobilità. Da quando era sacerdote aveva visto l'avvicendarsi dei boss, l'eliminazione di Bardellino e il potere di Sandokan e di Cicciotto di Mezzanotte, i massacri tra bardelliniani e Casalesi poi tra i dirigenti vincenti.

Un episodio rimasto famoso nelle cronache di quel periodo fu un corteo di diverse automobili che sfilò per le strade del paese. Erano circa le sei del pomeriggio quando una decina di auto fecero una sorta di carosello sotto le case dei nemici. I gruppi vincenti di Schiavone andarono a sfidare sotto le loro case gli avversari. Ero un ragazzino, ma i miei cugini giurano di averlo visto con i propri occhi. Le auto procedevano lentamente per le strade di San Cipriano, Casapesenna e Casal di Principe, e gli uomini sedevano cavalcioni sui finestrini con una gamba dentro l'auto e l'altra penzoloni. Tutti con i mitra in mano e il volto scoperto. Procedendo a passo lento, il corteo raccoglieva progressivamente altri affiliati che scendevano di casa con fucili e semiautomatiche, e proseguivano a piedi dietro le auto. Una vera e propria manifestazione pubblica armata di affiliati contro altri. Si fermavano sotto le case degli avversari. Di chi aveva osato opporsi al loro predominio.

"Scendete uomini di merda! Scendete di casa… se avete le palle!"

Durò almeno un'ora questo corteo. Girò indisturbato mentre le saracinesche dei negozi, dei bar, si abbassavano all'istante. Per due giorni ci fu un coprifuoco totale. Nessuno uscì di casa, neanche per comprare il pane. Don Peppino comprese che era necessario programmare un piano di lotta.

Era necessario tracciare apertamente un percorso da seguire, non più testimoniare singolarmente, ma organizzare la testimonianza e coordinare un nuovo impegno delle chiese del territorio. Scrisse, firmandolo assieme a tutti i preti della fo-ranìa di Casal di Principe, un documento inaspettato, un testo religioso, cristiano, con una traccia di disperata dignità umana, che rese quelle parole universali, capaci di superare i perimetri religiosi e di far tremare sin nella voce le sicurezze dei boss, che arrivarono a temere quelle parole più di un blitz dell'Antimafia, più del sequestro delle cave e delle betoniere, più delle intercettazioni telefoniche che tracciano un ordine di morte. Era un documento vivo con un titolo romanticamente forte: "Per amore del mio popolo non tacerò". Distribuì lo scritto il giorno di Natale, non appese le pagine alle porte della sua chiesa, non doveva come Lutero riformare nessuna chiesa romana, aveva altro cui pensare don Pep-pino. Tentare di comprendere come poter creare una strada trasversale ai poteri, l'unica in grado di mettere in crisi l'autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.

Don Peppino scavò un percorso nella crosta della parola, erose dalle cave della sintassi quella potenza che la parola pubblica, pronunciata chiaramente, poteva ancora concedere. Non ebbe l'indolenza intellettuale di chi crede che la parola ormai abbia esaurito ogni sua risorsa che risulta capace solo di riempire gli spazi tra un timpano e l'altro. La parola come concretezza, materia aggregata di atomi per intervenire nei meccanismi delle cose, come malta per costruire, come punta di piccone. Don Peppino cercava una parola necessaria come secchiata d'acqua sugli sguardi imbrattati. Il tacere in queste terre non è la banale omertà silenziosa che si rappresenta di coppole e sguardo abbassato. Ha molto più a che fare col "non mi riguarda". L'atteggiamento solito in questi luoghi, e non solo, una scelta di chiusura che è il vero voto messo nel seggio dello stato di cose. La parola diviene un urlo. Controllato e lanciato acuto e alto contro un vetro blindato: con la volontà di farlo esplodere.

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. […] La camorra oggi è ima forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario, traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce schiere di giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato […]

Don Peppino aveva come priorità ricordare che bisognava, dinanzi all'ondata del potere dei clan, non più contenere l'attività nel silenzio del confessionale. Setacciò così la voce dei profeti per sostenere la necessità prioritaria di scendere per le strade, di denunciare, di agire come condizione assoluta per dare ancora un senso al proprio essere.

II nostro impegno profetico di denuncia non deve le non può venire meno, Dio ci chiama a essere profeti.

Il Profeta fa da sentinella: vede l'ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16–18);

Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);

Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive la solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18–23);

Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 — Isaia 58).

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla chiesa che non rinunci al suo ruolo "profetico" affinché gli strumenti della denuncia e dell'annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà dei valori etici e civili.

Il documento non aveva la volontà di risultare corretto verso il potere politico, che non considerava soltanto sostenuto dai clan ma anzi persino determinato da scopi comuni, né accondiscendente verso la realtà sociale. Don Peppino non voleva credere che il clan fosse la scelta del male fatta da qualcuno, ma era invece il risultato di condizioni precise, di meccanismi determinati, di cause identificabili e incancrenite. Mai la Chiesa, mai nessuno in questi territori aveva avuto un tale impegno chiarificatore.

La diffidenza e la sfiducia dell'uomo del sud nei confronti delle istituzioni per la secolare insufficienza di una politica atta a risolvere i pesanti problemi che travagliano il Mezzogiorno, particolarmente quelli relativi al lavoro, alla casa, alla sanità e all'istruzione;

il sospetto, non sempre infondato, di una complicità con la camorra da parte di uomini politici che, in cambio del sostegno elettorale, o addirittura per scopi comuni, assicurano copertura e favori;

il diffuso senso di insicurezza personale e di rischio permanente, derivante dalla insufficiente tutela giuridica delle persone e dei beni, dalla lentezza della macchina giudiziaria, dalle ambiguità degli strumenti legislativi.[…] il che determina, non di rado, il ricorso alla difesa organizzata per clan o all'accettazione della protezione camorristica;

la mancanza di chiarezza nel mercato del lavoro, per cui trovare una occupazione è più una operazione di tipo ca-morristico-clientelare che il perseguimento di un diritto fondato sulla legge del collocamento;

la carenza o l'insufficienza, anche nell'azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l'uomo e il cittadino maturo.

Don Peppino aveva organizzato una marcia anticamorra alla fine degli anni '80, dopo che c'era stato un assalto di massa alla caserma dei carabinieri di San Cipriano d'Aversa. Decine di persone volevano distruggere gli uffici e pestare gli ufficiali perché alcuni carabinieri avevano osato intervenire durante un litigio tra due ragazzi del paese nel bel mezzo di una serata di spettacolo per i festeggiamenti del santo patrono. La caserma di San Cipriano è schiacciata in un vicolo, non c'era via di salvezza per marescialli e appuntati. Dovettero intervenire i capizona del clan per sedare la rivolta, mandati direttamente dai boss a salvare il manipolo di carabinieri. All'epoca dominava ancora Antonio Bardellino, e suo fratello Ernesto era il sindaco del paese.

Noi, Pastori delle Chiese della Campania, non intendiamo, però, limitarci a denunciare queste situazioni; ma, nell'ambito delle nostre competenze e possibilità, intendiamo contribuire al loro superamento, anche mediante una revisione e integrazione dei contenuti e dei metodi dell'azione pastorale.

Don Peppino iniziò a mettere in dubbio la fede cristiana dei boss, a negare esplicitamente che ci potesse essere alleanza tra il credo cristiano e il potere imprenditoriale, militare e politico dei clan. In terra di camorra il messaggio cristiano non viene visto in contraddizione con l'attività camorristica: il clan che finalizza la propria attività al vantaggio di tutti gli affiliati considera il bene cristiano rispettato e perseguito dall'organizzazione. La necessità di uccidere i nemici e i traditori viene vista come una trasgressione lecita, il non uccidere inscritto nelle tavole di Mosè può nell'argomentazione dei boss essere sospeso se l'omicidio avviene per un motivo superiore, ovvero la salvaguardia del clan, degli interessi dei suoi dirigenti, del bene del gruppo e quindi di tutti. Ammazzare è un peccato che verrà compreso e perdonato da Cristo in nome della necessità dell'atto.

A San Cipriano d'Aversa Antonio Bardellino affiliava con il rituale della pungitura, usato anche da Cosa Nostra: una modalità che apparteneva a rituali che progressivamente sono andati scomparendo. Il polpastrello destro dell'aspirante veniva punto con uno spillo e il sangue fatto colare sull'immagine della Madonna di Pompei. Poi questa veniva fatta bruciare su una candela e passata di mano in mano a tutti i dirigenti del clan che erano disposti in piedi lungo il perimetro di una tavola. Se tutti gli affiliati baciavano la Madonna, il nuovo presentato diveniva ufficialmente parte del clan. La religione è un riferimento costante per l'organizzazione camorristica, non soltanto come forma scaramantica o residuo culturale ma come forza spirituale che ne determina le scelte più intime. Le famiglie camorristiche, e in particolar modo i boss maggiormente carismatici, spesso considerano il proprio agire come un calvario, un assumersi sulla propria coscienza il dolore e il peso del peccato per il benessere del gruppo e degli uomini su cui regnano.

A Pignataro Maggiore il clan Lubrano fece restaurare a proprie spese un affresco raffigurante una Madonna. È detta la "Madonna della camorra", poiché a lei si sono rivolti per chiedere protezione i più importanti latitanti di Cosa Nostra fuggiti dalla Sicilia a Pignataro Maggiore. Non è difficile infatti immaginarsi Totò Rima, Michele Greco, Luciano Liggio o Bernardo Provenzano, chini sugli scranni dinanzi all'affresco della Madonna, che implorano di essere illuminati nelle loro azioni e protetti nelle loro fughe.

Quando Vincenzo Lubrano venne assolto organizzò un pellegrinaggio con diversi pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio, artefice, secondo lui, dell'assoluzione. Statue a grandezza naturale di Padre Pio, copie di terracotta e bronzo del Cristo che campeggia a braccia aperte sul Pào de Agucar di Rio, sono presenti in moltissime ville di boss della camorra. A Scampia nei laboratori di stoccaggio della droga spesso vengono tagliati trentatré panetti di hashish per volta, come gli anni di Cristo. Poi ci si ferma per trentatré minuti, si fa il segno della croce e si riprende il lavoro. Una sorta di omaggio a Cristo per propiziarsi guadagni e tranquillità. Lo stesso accade con le bustine di coca che spesso, prima della distribuzione ai pusher, il capozona bagna e benedice con l'acqua di Lourdes sperando che le partite non uccidano nessuno, anche perché della cattiva qualità della roba ne risponderebbe lui direttamente.

Il Sistema camorra è un potere che non coinvolge soltanto i corpi, né dispone soltanto della vita di tutti, ma pretende di artigliare anche le anime. Don Peppino volle iniziare a fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all'onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l'amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime.

Il documento tentò addirittura di entrare nel merito dei sacramenti. Tenere lontano ogni sorta di sovrapposizione tra la comunione, il ruolo del padrino, il matrimonio e le strategie camorristiche. Allontanare i patti, le alleanze dei clan dai simboli religiosi. Al solo pensiero di pronunciare una cosa del genere i preti del luogo sarebbero scappati in bagno dalla paura tenendosi lo stomaco in mano. Chi avrebbe cacciato dall'altare un boss pronto a battezzare il figlio di un affiliato? Chi avrebbe rifiutato di celebrare un matrimonio solo perché frutto dell'alleanza tra famiglie? Don Peppino era stato chiaro.

Non permettere che la funzione di "padrino" nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l'onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale.

Don Peppino sfidò il potere della camorra nel momento in cui Francesco Schiavone, Sandokan, era latitante, quando si nascondeva nel bunker sotto la sua villa in paese, mentre le famiglie Casalesi erano in guerra tra loro e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete consolatore, che accompagna le bare dei ragazzini soldato massacrati alla fossa e bisbiglia "fatevi coraggio" alle madri in nero. In un'intervista dichiarò: "Noi dobbiamo fendere la gente per metterla in crisi". Prese anche posizione politica, chiarendo che la priorità sarebbe stata la lotta al potere politico come espressione di quello imprenditorial-criminale, che l'appoggio sarebbe andato ai progetti concreti, alle scelte di rinnovamento, non ci sarebbe stata alcuna imparzialità da parte sua. "Il partito si confonde con il suo rappresentante, spesso i candidati favoriti dalla camorra non hanno né politica né partito, ma solo un ruolo da giocare o un posto da occupare." L'obiettivo non era vincere la camorra. Come lui stesso ricordava "vincitori e vinti sono sulla stessa barca". L'obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare, denunciare, fare l'elettrocardiogramma al cuore del potere economico come un modo per comprendere come spaccare il miocardio dell'egemonia dei clan.

Mai per un momento nella mia vita mi sono sentito devoto, eppure la parola di don Peppino aveva un'eco che riusciva ad andare oltre il tracciato religioso. Foggiava un metodo nuovo che andava a rifondare la parola religiosa e politica. Una fiducia nella possibilità di azzannare la realtà, senza lasciarla se non dilaniandola. Una parola capace di inseguire il percorso del danaro seguendone il tanfo.

Si crede che il danaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. E è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il danaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione. Simili odori si sanno riconoscere solo quando le narici si strofinano contro ciò che li emana. Don Peppino Diana aveva compreso che doveva tenere la faccia su quella terra, attaccarla sulle schiene, sugli sguardi, non allontanarsi per poter continuare a vedere e denunciare, e capire dove e come le ricchezze delle imprese si accumulano e come si innescano le mattanze e gli arresti, le faide e i silenzi. Tenendo sulla punta della lingua lo strumento, l'unico possibile per tentare di mutare il suo tempo: la parola. E questa parola, incapace al silenzio, fu la sua condanna a morte. I suoi killer non scelsero una data a caso. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo del 1994. Mattina prestissimo. Don Peppino non si era ancora vestito con gli abiti talari. Stava nella sala riunioni della chiesa, vicino allo studio. Non era immediatamente riconoscibile.

"Chi è don Peppino?"

"Sono io…"

L'ultima risposta. Cinque colpi che rimbombarono nelle navate, due pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, i colpi l'avevano morso da vicino. Un'ogiva del proiettile gli era rimasta addosso, tra il giubbotto e il maglione. Una pallottola gli aveva falciato il mazzo di chiavi agganciato ai pantaloni. Don Peppino si stava preparando per celebrare la prima messa. Aveva trentasei anni.

Uno dei primi che accorse in chiesa e trovò il suo corpo ancora per terra fu Renato Natale, sindaco comunista di Casal di Principe. Era stato eletto da appena quattro mesi. Non fu un caso, quel corpo lo vollero far cadere anche sulla sua breve, brevissima gestione politica. Natale era stato il primo sindaco di Casal di Principe che aveva posto come priorità assoluta la lotta ai clan. Aveva per protesta anche abbandonato il consiglio comunale perché secondo lui si era ridotto a luogo di ratifica di decisioni prese altrove. Un giorno a Casale i carabinieri avevano fatto irruzione nella casa di un assessore, Gaetano Corvino, dove erano riuniti tutti i massimi dirigenti del clan dei Casalesi. Una riunione fatta mentre l'assessore era in municipio per una seduta della giunta comunale. Da un lato gli affari del paese, dall'altra gli affari attraverso il paese. Fare affari è l'unico motivo che ti fa alzare dal letto la mattina, ti tira per il pigiama e ti mette in piedi.

Ho sempre guardato Renato Natale da lontano, come si fa con quelle persone che diventano, senza volerlo, dei simboli di una qualche idea di impegno, resistenza, coraggio. Simboli quasi metafisici, irreali, archetipici. Con un imbarazzo da adolescente, ho sempre osservato il suo adoperarsi nel creare ambulatori per gli immigrati, denunciare negli anni bui delle faide, il potere delle famiglie della camorra casalese e i loro affari di cemento e monnezza. L'avevano avvicinato, minacciato di morte, gli avevano detto che se non avesse smesso la sua scelta si sarebbe ritorta contro i suoi familiari, ma lui continuava a denunciare, con ogni mezzo, persino attacchinando in giro per il paese manifesti che rivelavano cosa i clan stavano decidendo e imponendo. Più agiva con costanza e coraggio, più aumentava la sua protezione metafisica. Bisognerebbe conoscere la storia politica di queste terre per capire che peso specifico hanno i termini impegno e volontà.

Da quando è stata promulgata la legge che scioglie i comuni per infiltrazione mafiosa, sedici sono le amministrazioni comunali sciolte per camorra in provincia di Caserta. Cinque di esse sono state commissariate due volte. Carinola, Casal di Principe, Casapesenna, Castelvolturno, Cesa, Frignano, Grazzanise, Lusciano, Mondragone, Pignataro Maggiore, Recale, San Cipriano, Santa Maria la Fossa, Teverola, Villa di Briano, San Tammaro. I sindaci che si oppongono ai clan in questi paesi, quando riescono a farsi eleggere battendo voto di scambio e strategie economiche che trasversalmente avvinghiano ogni schieramento politico, si trovano a dover fare i conti con i limiti degli amministratori locali, pochi spiccioli e marginalità assoluta. Devono iniziare ad abbattere, smontando mattone per mattone. Con budget da paese devono fronteggiare multinazionali, con caserme di provincia arginare enormi batterie di fuoco. Come nel 1988 quando Antonio Cangiano, assessore di Casapesenna, si oppose alla penetrazione del clan in alcuni appalti. Lo minacciarono, lo pedinarono, gli spararono alla schiena, in piazza, davanti a tutti. Lui non aveva fatto camminare il clan dei Ca-salesi, i Casalesi non avrebbero più fatto camminare lui. Costrinsero Cangiano alla sedia a rotelle. I presunti responsabili dell'agguato sono stati assolti nel 2006.

Casal di Principe non è un paese della Sicilia aggredito dalla mafia, dove opporsi all'imprenditoria criminale è cosa dura ma al fianco della propria azione ci sono cortei di telecamere, giornalisti affermati e in via d'affermazione, e stuoli di dirigenti antimafia nazionali che in qualche modo riescono ad amplificare il proprio impegno. Qui tutto ciò che fai rimane nel perimetro degli spazi ristretti, nella condivisione dei pochi. È proprio in questa solitudine credo, che si foggia quello che potrebbe chiamarsi coraggio, una sorta di panoplia a cui non pensi, te la porti addosso senza rendertene conto. Vai avanti, fai quello che devi fare, il resto non vale nulla. Perché la minaccia non è sempre una pallottola tra gli occhi, o i quintali di merda di bufala che ti scaricano fuori alla porta di casa.

lì sfogliano lentamente. Una foglia al giorno, fin quando ti trovi nudo e solo a credere che stai combattendo con qualcosa che non esiste, che è un delirio del tuo cervello. Inizi a credere alle calunnie che ti indicano come un insoddisfatto che se la prende con chi è riuscito e per frustrazione li chiama camorristi. Giocano con te come con lo shangai. Tolgono tutte le bacchette di legno senza mai farti muovere, così alla fine rimani da solo e la solitudine ti trascina per i capelli. È uno stato d'animo che qui non ti puoi permettere. È un rischio, abbassi la guardia, non riesci più a comprendere i meccanismi, i simboli, le scelte. Rischi di non accorgerti più di niente. E allora devi dare fondo a tutte le tue risorse. Devi trovare qualcosa che carburi lo stomaco dell'anima per andare avanti. Cristo, Buddha, l'impegno civile, la morale, il marxismo, l'orgoglio, l'anarchismo, la lotta al crimine, la pulizia, la rabbia costante e perenne, il meridionalismo. Qualcosa. Non un gancio a cui appendersi. Piuttosto una radice sotto terra, inattaccabile. Nell'inutile battaglia in cui sei certo di ricoprire il ruolo di sconfitto, c'è qualcosa che devi preservare e sapere. Devi essere certo che si rafforzerà grazie allo spreco del tuo impegno che ha il sapore della follia e dell'ossessione. Quella radice a fittone che si incunea nel terreno ho imparato a riconoscerla negli sguardi di chi ha deciso di fissare in volto certi poteri.

I sospetti sull'omicidio di don Peppino caddero subito sul gruppo di Giuseppe Quadrano, un affiliato che si era posto al fianco dei nemici di Sandokan. C'erano anche due testimoni: un fotografo che si trovava lì per fare gli auguri a don Peppino e il sagrestano della chiesa di San Nicola. Appena iniziò a circolare la notizia che la polizia aveva orientato i suoi sospetti su Quadrano, il boss Nunzio De Falco detto "'o lupo", che stava a Granada in Andalusia, dote nella spartizione territoriale dei poteri tra Casalesi, telefonò alla Questura di Caserta per chiedere un incontro con dei poliziotti e chiarire le questioni che riguardavano un affiliato al suo gruppo. Due funzionari della Questura di Caserta lo andarono a incontrare nel suo territorio. All'aeroporto la moglie del boss andò a prendere i due e si inoltrò con la macchina nelle bellissime campagne andaluse. Nunzio De Falco li aspettava, non nella sua villa a Santa Fé, ma in un ristorante dove con grande probabilità la maggior parte dei clienti erano figuranti pronti a intervenire in caso i poliziotti avessero commesso qualche imprudenza. Il boss subito chiarì che li aveva chiamati per fornire la sua versione sull'episodio, una sorta di interpretazione di un fatto storico e non una delazione o una denuncia. Una premessa chiara e necessaria per non infangare il nome e l'autorevolezza della famiglia. Non poteva mettersi a collaborare con la polizia. Il boss dichiarò senza perifrasi che a uccidere don Peppino Diana erano stati gli Schiavone, la famiglia rivale. Avevano ucciso il prete per far cadere sui De Falco la responsabilità dell'omicidio. "'O lupo" sostenne che non avrebbe mai potuto dare ordine d'uccidere don Peppino Diana, visto che suo fratello Mario gli era molto legato. Don Diana era infatti riuscito a non farlo diventare un dirigente del clan, a tenere con lui un dialogo capace di sottrarlo dal Sistema camorra. Era uno dei risultati più forti di don Peppino, ma il boss De Falco lo usò come suo alibi. A dare manforte alle tesi di De Falco intervennero altri due affiliati al clan: Mario Santoro e Francesco Piacenti. Anche Giuseppe Quadrano era in Spagna. Prima andò ospite nella villa di De Falco, poi si stabilì in un paese vicino a Valencia. Voleva mettere su un gruppo, aveva tentato di fare affari con dei carichi di droga che avrebbero dovuto fungere da acceleratore economico per edificare l'ennesimo clan im-prenditorial-criminale italiano nel sud della Spagna. Ma non ci riuscì. In fondo Quadrano era sempre stato un comprimario. Si consegnò alla polizia spagnola dichiarandosi disponibile a collaborare con la giustizia. Smentì la versione che Nunzio De Falco aveva raccontato ai poliziotti. Quadrano inserì l'omicidio all'interno della faida che stava avvenendo tra il suo gruppo e gli Schiavone. Quadrano era capozona di Ca-rinaro e i Casalesi di Sandokan gli avevano fatto fuori in poco tempo quattro affiliati, due zii e il marito della sorella. Quadrano raccontò che aveva deciso assieme a Mario Santoro di ammazzare Aldo Schiavone, un cugino di Sandokan, per vendicare l'affronto. Prima dell'operazione chiamarono De Falco in Spagna, nessuna operazione militare può essere compiuta senza il consenso di dirigenti, ma il boss da Grana-da bloccò rutto poiché Schiavone, dopo la morte del cugino, avrebbe ordinato il massacro di tutti i parenti di De Falco rimasti ancora in Campania. Il boss segnalò che avrebbe inviato Francesco Piacenti come messaggero e organizzatore di un suo ordine. Piacenti si fece Granada-Casal di Principe a bordo della sua Mercedes, la macchina negli anni '80 e '90 simbolo di questo territorio. D giornalista Enzo Biagi rimase sconvolto alla fine degli anni '90 quando ebbe per un suo articolo i dati di vendita delle Mercedes in Italia. Casal di Principe risultava tra le prime posizioni in Europa di vetture acquistate. Ma notò anche un altro primato: l'area urbana col più alto tasso di omicidi d'Europa era proprio Casal di Principe. Una relazione quella tra Mercedes e morti ammazzati che potrebbe rimanere una costante d'osservazione per i territori di camorra. Piacenti — secondo la prima rivelazione di Quadrano — comunicò che bisognava uccidere don Giuseppe Diana. Nessuno sapeva il motivo della decisione ma tutti erano sicuri che "il Lupo sapeva quello che stava facendo". Piacenti dichiarò — secondo il pentito — che avrebbe lui stesso commesso l'omicidio, a patto che con lui fosse andato anche Santoro o qualcun altro del clan. Mario Santoro invece titubava, chiamò De Falco dicendo che era contrario all'omicidio, ma alla fine accettò. Per non perdere il ruolo di mediatore nel narcotraffico con la Spagna che gli aveva concesso "'o lupo", non poteva sottrarsi a un ordine così importante. Ma l'omicidio di un prete, e per di più senza un motivo chiaro, non riusciva a essere accettato come un compito analogo ad altri. Nel Sistema camorra l'omicidio risulta necessario, è come un versamento in banca, come l'acquisto di una concessionaria, come interrompere un'amicizia. Non è un gesto che si differenzia dal proprio quotidiano: è parte dell'alba e del tramonto di ogni famiglia, di ogni boss, di ogni affiliato. Ma uccidere un prete, esterno alle dinamiche di potere, faceva galleggiare la coscienza. Secondo la dichiarazione di Quadrano, Francesco Piacenti si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi e quindi non poteva partecipare all'agguato. Mario Santoro invece accettò, ma con la compagnia di Giuseppe Della Medaglia, affiliato al clan Ranucci di Sant'Antimo, e già compagno di altre operazioni. Secondo il pentito si organizzarono per il giorno dopo, alle sei del mattino. Ma la notte fu tormentosa per l'intero commando. Non prendevano sonno, litigavano con le mogli, si agitavano. Faceva paura più quel prete che le bocche di fuoco dei clan rivali.

Della Medaglia non si presentò all'appuntamento, ma riuscì nella notte a contattare un'altra persona da mandare, Vincenzo Verde. Gli altri componenti del gruppo non furono particolarmente felici della scelta, Verde aveva spesso crisi epilettiche. Rischiava, dopo aver sparato, di sciogliersi a terra in convulsioni, crisi, lingua tagliata dai denti e bava alla bocca. Avevano tentato così di coinvolgere al suo posto Nicola Gaglione, ma lui aveva categoricamente rifiutato. Santoro iniziò ad avere crisi di labirintite. Non riusciva a tenere a mente nessun percorso, così Quadrano mandò suo fratello Armando ad accompagnare Santoro. Un'operazione semplice, un auto davanti alla chiesa che aspetta e i killer che tornano a passo lento dopo aver fatto il servizio. Come una preghiera a prima mattina. Dopo l'esecuzione il gruppo di fuoco non ebbe fretta di fuggire. Quadrano fu invitato la sera stessa ad andare in Spagna, ma rifiutò. Si sentiva tutelato dal fatto che l'assassinio di don Peppino era un'azione del tutto slegata dalla prassi militare sino ad allora seguita. E come non era noto a loro il motivo di quell'uccisione non sarebbe stata nota neanche ai carabinieri. Appena però le indagini di polizia iniziarono a orientarsi in ogni direzione, Quadrano si trasferì in Spagna. Lui stesso dichiarò che Francesco Piacenti gli aveva rivelato che Nunzio De Falco, Sebastiano Caterino e Mario Santoro dovevano farlo fuori, forse perché nutrivano il sospetto che volesse pentirsi ma il giorno dell'agguato lo videro in macchina assieme al figlio piccolo e lo risparmiarono.

A Casal di Principe, Sandokan sentiva sempre più spesso il suo nome associato aU'eliminazione del sacerdote. Così fece sapere ai familiari di don Peppino che se i suoi uomini avessero messo le mani su Quadrano prima della polizia, l'avrebbero tagliato in tre pezzi e gettato sul sagrato della chiesa. Più che una vendetta era un chiaro messaggio di non responsabilità nell'agguato a don Diana. Poco dopo, per reagire alle dichiarazioni di estraneità di Francesco Schiavone, in Spagna avvenne un incontro tra gli uomini del clan De Falco, in cui Giuseppe Quadrano propose di ammazzare un parente di Schiavone, tagliarlo a pezzi e lasciarlo in un sacco fuori alla chiesa di don Peppino. Un modo per far cadere la responsabilità su Sandokan. Entrambe le fazioni, pur non conoscendo l'una le intenzioni dell'altra, erano giunte alla medesima soluzione. Tagliare cadaveri e spargerne i pezzi è il miglior modo per rendere indelebile un messaggio. Mentre i suoi assassini parlavano di tagliare la carne per suggellare una posizione, pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l'unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando.

Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel 2001 condannò con sentenza di primo grado all'ergastolo Vincenzo Verde, Francesco Piacenti, Giuseppe Della Medaglia. Giuseppe Quadrano aveva iniziato da tempo un'opera finalizzata a screditare la figura di don Peppino. Durante gli interrogatori almanaccava su una serie di moventi dell'omicidio volti a strozzare l'impegno di don Peppino dentro un cappio di interpretazioni criminali. Raccontò che Nunzio De Falco aveva dato a don Diana delle armi, poi girate senza autorizzazione a Walter Schiavone: e per questo grave sgarro era stato punito. Inoltre si raccontò di un delitto passionale, cioè che l'avevano ammazzato perché aveva insidiato la cugina di un boss. Come per interrompere ogni tipo di riflessione su una donna è sufficiente definirla "mignotta", così accusare un prete di essere mignottaro è il modo più veloce per chiudere un giudizio. Alla fine uscì fuori la storia che don Peppi-no era stato ucciso per non aver fatto il suo dovere di prete, per non aver voluto celebrare in chiesa i funerali di un parente di Quadrano. Moventi inverosimili, risibili, finalizzati al tentativo di evitare di fare di don Peppino un martire, a non voler far diffondere i suoi scritti, a non considerarlo una vittima di camorra ma un soldato dei clan. Chi non conosce le dinamiche di potere della camorra spesso crede che uccidere un innocente sia un gesto di terribile ingenuità da parte dei clan perché legittima e amplifica il suo esempio, le sue parole. Come una conferma alle sue verità. Errore. Non è mai così. Appena muori in terra di camorra, vieni avvolto da molteplici sospetti, e l'innocenza è un'ipotesi lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. La teoria del diritto moderno nella terra dei clan è capovolta.

L'attenzione è talmente poca che basta un sospetto, e le agenzie di stampa non battono la notizia della morte di un innocente. E poi, se non ci sono più morti nessuno tornerà sul caso. E così distruggere l'immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale per alleggerire le pressioni sui clan, l'assillo di un interesse nazionale che avrebbe gravato troppo.

Un quotidiano locale fece da cassa di risonanza alla campagna di screditamento di don Peppino. Con titoli così carichi di grassetto che le lettere ti rimanevano stampate sui polpastrelli quando sfogliavi il giornale: "Don Diana era un camorrista" e pochi giorni dopo: "Don Diana a letto con due donne". Il messaggio era chiaro: nessuno può schierarsi contro la camorra. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata che rotola nello stesso lerciume.

A difenderne la memoria c'erano gli amici di sempre, i familiari e le persone che lo seguivano, come il giornalista Raffaele Sardo che ha custodito la sua memoria in articoli e libri, e la giornalista Rosaria Capacchione che ha monitorato le strategie dei clan, le furbizie dei pentiti, il loro potere complicato e bestiale.

La sentenza di secondo grado del 2003 mise in discussione alcuni passaggi della prima versione di Giuseppe Quadrano scagionando Vincenzo Verde e Giuseppe Della Medaglia. Quadrano aveva confessato verità parziali pianificando — fin dal primo momento — la strategia di non dichiarare la propria responsabilità. Ma il killer è stato lui, riconosciuto da alcuni testimoni e confermato dalle perizie balistiche. Giuseppe Quadrano è il killer di don Peppino Diana. La sentenza di secondo grado prosciolse Vecde e Della Medaglia. Il commando era composto da Quadrano e Santoro, che aveva funzioni da autista. Francesco Piacenti aveva fornito diverse informazioni su don Diana ed era il supervisore direttamente mandato dalla Spagna da De Falco per dirigere l'operazione. L'ergastolo a Piacenti e Santoro fu confermato anche dal secondo grado d'appello. Quadrano aveva persino registrato delle telefonate con diversi affiliati, dove più volte ripeteva che non c'entrava con l'omicidio. Registrazioni che poi consegnò alla polizia. Quadrano capiva che l'ordine di morte era stato deciso da De Falco, e non voleva essere scoperto come mero braccio armato dell'operazione. Molto probabilmente tutti i personaggi coinvolti nella prima versione di Quadrano se l'erano fatta sotto e non avevano voluto partecipare in nessun modo all'agguato. A volte mitra e pistole non sono sufficienti per affrontare un viso disarmato e parole chiare.

Nunzio De Falco fu arrestato ad Albacete mentre viaggiava sull'intercity Valencia-Madrid. Aveva messo su un potente cartello criminale assieme a uomini della 'ndrangheta e alcuni sbandati di Cosa Nostra. Tentò anche — secondo le indagini della polizia spagnola — di dare una struttura da gruppo criminale ai gitani presenti nel sud della Spagna. Aveva costruito un impero. Villaggi turistici, case da gioco, negozi, alberghi. La Costa del Sol aveva conosciuto un salto di qualità nelle infrastrutture turistiche da quando clan Casalesi e napoletani avevano deciso di farne una perla del turismo di massa.

De Falco venne condannato nel gennaio 2003 all'ergastolo come mandante dell'omicidio di don Peppino Diana. Mentre la sentenza veniva letta in tribunale mi venne da ridere. Una risata che riuscii a contenere lasciando gonfiare le guance. Non potevo resistere all'assurdità che in quell'aula si materializzava. Nunzio De Falco era difeso dall'avvocato Gaetano Pecorella, che era allo stesso tempo presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e difensore di uno dei massimi boss del cartello camorristico casalese. Ridevo perché i clan erano così forti da aver persino ribaltato gli assiomi della natura e delle fiabe. Un lupo si faceva difendere da una pecorella. Ma il mio, forse, fu un delirio di stanchezza e un crollo di nervi.

Nunzio De Falco ha il suo soprannome stampato in faccia. Ha davvero la faccia del lupo. La foto segnaletica è riempita verticalmente dal viso lungo coperto da una barba rada e ispida come un tappeto d'aghi, e orecchie a punta. Capelli crespi, pelle scura e bocca triangolare. Sembra proprio uno di quei licantropi da iconografia horror. Eppure un giornale locale, lo stesso che aveva millantato i rapporti tra don Peppino e il clan, dedicò prime pagine alla sua qualità di amatore, ardentemente desiderato da donne e ragazze. Il titolo in prima pagina del 17 gennaio 2005 era eloquente: "Nunzio De Falco re degli sciupafemmine".

Casal di Principe (Ce)

Non sono belli ma piacciono perché sono boss; è così. Se si dovesse fare una classifica tra i boss playboy della provincia a detenere il primato sono due pluripregiudicati di Casal di Principe non certamente belli come poteva esserlo quello che invece è sempre stato il più affascinante di tutti cioè don Antonio Bardellino. Si tratta di Francesco Piacenti alias Nasone e Nunzio De Falco alias 'o Lupo. Secondo quello che si racconta ha avuto 5 mogli e il secondo 7. Naturalmente ci riferiamo non a rapporti matrimoniali veri e propri ma anche a rapporti duraturi da cui hanno avuto figli. Nunzio De Falco infatti, sembra che avrebbe oltre dodici figli avuti da diverse donne. Ma particolare interessante è un altro quello che le donne in questione non sono tutte italiane. Una spagnola un'altra inglese un'altra è portoghese. Ogni luogo dove si rifugiavano anche in periodo di latitanza mettevano su famiglia. Come marinai? Quasi […] Non a caso nei loro processi sono state chieste le testimonianze anche di alcune loro donne tutte belle e molto eleganti. È spesso anche il gentil sesso la causa dei tramonti dei tanti boss. Spesso sono state loro che indirettamente anche loro hanno condotto alla cattura dei boss più pericolosi. Gli investigatori pedinandole hanno permesso la cattura di boss del calibro di Francesco Schiavone Cicciariello […] Insomma le donne croce e delizia anche di boss.

La morte di don Peppino fu il prezzo pagato alla pace tra i clan. Anche la sentenza fa riferimento a questa ipotesi. Tra i due gruppi in lotta si doveva trovare un accordo, e questo forse è stato siglato sulla carne di don Peppino. Come un capro espiatorio sacrificato. Eliminarlo significava risolvere un problema per tutte le famiglie e al contempo distogliere l'attenzione delle indagini dai loro affari.

Avevo sentito parlare di un amico di gioventù di don Peppino, Cipriano, che aveva scritto un'arringa da leggere al funerale, un'invettiva ispirata a un discorso di don Peppino, ma non aveva avuto neanche la forza di muoversi quella mattina. Era andato via dal paese molti anni prima, viveva nei dintorni di Roma, aveva deciso di non mettere più piede in Campania. Mi avevano detto che il dolore per la morte di don Peppino l'aveva cucito a letto per mesi. Quando chiedevo di lui a una sua zia, lei rispondeva sistematicamente e con lo stesso tono funereo: "S'è chiuso. Ormai Cipriano s'è chiuso!".

Ogni tanto qualcuno si chiude. Da queste parti poi non è raro sentirsi dire una cosa del genere. Ogni volta che ascolto quest'espressione mi viene in mente Giustino Fortunato, che nei primi anni del '900 — per conoscere la situazione dei paesi della dorsale dell'Appennino meridionale — aveva camminato a piedi per mesi, raggiungendoli tutti, soggiornando nelle case dei braccianti, ascoltando le testimonianze dei contadini più rabbiosi, imparando che voce e che odore avesse la questione meridionale. Quando poi era diventato senatore, gli capitava di tornare in questi paesi e chiedeva delle persone che aveva incontrato anni prima, quelle più combattive che avrebbe voluto coinvolgere nei suoi progetti politici di riforma. Spesso però i parenti gli rispondevano: "Quello s'è chiuso!". Chiudersi, diventare silenzioso, quasi muto, una volontà di scappare dentro di sé e smettere di sapere, di capire, di fare. Smettere di resistere, una scelta di eremitaggio presa un momento prima di sciogliersi nei compromessi dell'esistente. Anche Cipriano s'era chiuso. Mi raccontavano in paese che aveva iniziato a chiudersi da quando una volta si era presentato a un colloquio di lavoro, per essere assunto come responsabile delle risorse umane in un'azienda di spedizioni di Frosinone. Leggendo il suo curriculum ad alta voce, l'esaminatore si fermò sul paese di residenza.

"Ah sì, ho capito da dove viene! È il paese di quel boss famoso… Sandokan, no?"

"No, è il paese di Peppino Diana!"

"Chi?"

Cipriano si era alzato dalla sedia e se n'era andato. Per vivere aveva preso in gestione un'edicola a Roma. Ero riuscito a sapere l'indirizzo da sua madre, l'avevo incontrata per caso, mi ero trovato dietro di lei in fila al supermercato. Doveva averlo avvertito del mio arrivo perché Cipriano non rispondeva al citofono. Sapeva forse di cosa gli volevo parlare. Ma avevo aspettato sotto casa sua per ore, ero pronto a dormire sul suo pianerottolo. Si decise a scendere. A stento mi salutò. Entrammo in un piccolo parco vicino a casa sua. Mi fece prendere posto su una panchina, aprì un quaderno a righe, uno di quelli delle elementari con le righe striminzite e su quelle pagine, scritte a mano, c'era l'arringa. Chissà se tra quei fogli c'era anche la grafia di don Peppino. Non osai chiederlo. Un discorso che avrebbero voluto firmare insieme.

Ma poi erano arrivati i killer, la morte, le calunnie, la solitudine abissale. Iniziò a leggere con un tono da frate eretico, con dei gesti da dolciniano in giro per le strade ad annunciare l'Apocalisse:

Non permettiamo uomini che le nostre terre diventino luoghi di camorra, diventino un'unica grande Gomorra da distruggere! Non permettiamo uomini di camorra, e non bestie, uomini come tutti, che quello che altrove diventa lecito trovi qui la sua energia illecita, non permettiamo che altrove si edifichi ciò che qui viene distrutto. Create il deserto attorno alle vostre ville, non frapponete tra ciò che siete e ciò che volete solo la vostra assoluta volontà. Ricordate. Allora il SIGNORE fece piovere dal cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco; egli distrusse quelle città, tutta la pianura, tutti gli abitanti delle città e quanto cresceva sul suolo. Ma la moglie di Lot si volse a guardare indietro e diventò una statua di sale. (Genesi 19,12–29). Dobbiamo rischiare di divenire di sale, dobbiamo girarci a guardare cosa sta accadendo, cosa si accanisce su Gomorra, la distruzione totale dove la vita è sommata o sottratta alle vostre operazioni economiche. Non vedete che questa terra è Gomorra, non lo vedete? Ricordate. Quando vedranno che tutto il suo suolo sarà zolfo, sale, arsura e non vi sarà più sementa, né prodotto, né erba di sorta che vi cresca, come dopo la rovina di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Se-boim che il SIGNORE distrusse nella sua ira e nel suo furore, (Deuteronomio 29,22). Si muore per un sì e per un no, si dà la vita per un ordine e una scelta di qualcuno, fate decenni di carcere per raggiungere un potere di morte, guadagnate montagne di danaro che investirete in case che non abiterete, in banche dove non entrerete mai, in ristoranti che non gestirete, in aziende che non dirigerete, comandate un potere di morte cercando di dominare una vita che consumate nascosti sotto terra, circondati da guardaspalle. Uccidete e venite uccisi in una partita di scacchi il cui re non siete voi ma coloro che da voi prendono ricchezza facendovi mangiare l'uno con l'altro fin quando nessuno potrà fare scacco e ci sarà una solo pedina sulla scacchiera. E non sarete voi. Quello che divorate qui lo sputate altrove, lontano, facendo come le uccelle che vomitano il cibo nella bocca dei loro pulcini. Ma non sono pulcini quelli che imbeccate ma avvoltoi e voi non siete uccelle ma bufali pronti a distruggersi in un luogo dove sangue e potere sono i termini della vittoria. È giunto il tempo che smettiamo di essere una Gomorra…

Cipriano smise di leggere. Sembrava che in mente avesse immaginato tutte le facce a cui avrebbe voluto sbattere sul grugno quelle parole. Respirava con un affanno strozzato, da asmatico. Chiuse il quaderno e se ne andò senza salutarmi.


Hollywood

A Casal di Principe, a don Peppino Diana hanno dedicato un "Centro di pronta e temporanea accoglienza per minori in affido". Un centro organizzato in una villa sequestrata a un affiliato al clan dei Casalesi, Egidio Coppola. Una villa fastosa, da cui è stato possibile ricavare moltissime stanze. L'Agenzia per l'innovazione, lo sviluppo e la sicurezza sul territorio, la AGRORINASCE che riunisce i comuni di Casapesenna, Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa e Villa Literno è riuscita a trasformare alcuni beni dei camorristi in strutture utili alla gente del paese. Le ville dei boss sequestrate, sino a quando non verranno realmente riutilizzate, continueranno ad avere il marchio di chi le ha edificate e abitate. Anche se abbandonate conservano il simbolo del dominio. Attraversando l'agro aversano sembra di avere sotto gli occhi una sorta di catalogo di sintesi di tutti gli stili architettonici degli ultimi trent'anni. Le ville più imponenti dei costruttori e dei proprietari terrieri tracciano il modello per i villini degli impiegati e commercianti. Se le prime troneggiano su quattro colonnati dorici di cemento armato, le seconde ne avranno due e le colonne saranno alte la metà. Il gioco all'imitazione fa sì che il territorio si dissemini di agglomerati di ville che gareggiano in imponenza, complessità e inviolabilità in una ricerca di stranezze e singolarità, come per esempio farsi riprodurre le linee di un quadro di Mondrian sulla cancellata esterna.

Le ville dei camorristi sono le perle di cemento nascoste nelle strade dei paesi del casertano, protette da mura e telecamere. Sono decine e decine. Marmi e parquet, colonnati e scale, camini con le iniziali dei boss incise nel granito. Ma ce n'è una particolarmente celebre, la più fastosa di tutte o semplicemente quella che intorno a sé ha creato più leggende. Per tutti in paese è "Hollywood". Basta pronunciare il nome per capire. Hollywood è la villa di Walter Schiavone, fratello di Sandokan, per molti anni responsabile del ciclo del cemento per conto del clan. Intuire la causa del nome non è complesso. Facile immaginarsi gli spazi e il fasto. Ma non è questo il motivo reale. Con Hollywood la villa di Walter Schiavone c'entra davvero. Si racconta a Casal di Principe che il boss aveva chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella del gangster cubano di Miami, Tony Montana, in Scarface. Il film l'aveva visto e rivisto. L'aveva colpito sin nel profondo, al punto tale da identificarsi nel personaggio interpretato da Al Pacino. E effettivamente il suo volto scavato poteva sovrapporsi, con qualche fantasia, al viso dell'attore. Tutto ha il tono di leggenda. Al suo architetto, raccontano in paese, il boss consegnò direttamente il VHS del film. Il progetto doveva essere quello del film Scarface e nient'altro. Questa mi pareva una di quelle storie che addobbano l'ascesa al potere di ogni boss, un'aura che si impasta di leggenda, di veri e propri miti metropolitani. Ogni volta che qualcuno nominava Hollywood c'era sempre qualcun altro che da ragazzino era riuscito a vedere i lavori di costruzione, tutti in fila sulle biciclette a contemplare la villa di Tony Montana che lentamente spuntava in mezzo alle strade, direttamente da uno schermo. Una cosa rara del resto, perché a Casale i cantieri delle ville vengono tirati su soltanto dopo aver alzato alte mura. Alla storia di Hollywood non ci ho mai creduto. Vista da fuori la villa di Schiavone è un bunker, circondata da spesse mura sormontate da cancellate minacciose. Ogni accesso è protetto da cancelli blindati. Non si intuisce cosa ci sia al di là delle mura, ma pensi a qualcosa di prezioso, vista l'armatura della difesa.

Esiste un unico cenno esterno, un messaggio silenzioso, ed è proprio celebrato all'entrata principale. Ai lati della cancellata, che sembrerebbe d'una masseria di campagna, ci sono due colonnine doriche sormontate da un timpano. Non c'entrano nulla con la disciplinata sobrietà delle casette d'intorno, con le mura spesse, con il cancellacelo rosso. In realtà è il marchio di famiglia: il timpano neopagano, come messaggio destinato a chi già conosceva la villa. Solo vederla mi avrebbe dato certezza che quella costruzione di cui si favoleggiava da anni esisteva veramente. Avevo pensato di entrarci decine di volte per fissare Hollywood con i miei occhi. Pareva impossibile. Anche dopo il sequestro era presidiata dai pali del clan. Una mattina, prima che fosse decisa la destinazione d'uso, mi feci coraggio e riuscii a entrare. Passai da un accesso secondario, al riparo da sguardi indiscreti che avrebbero potuto innervosirsi per l'intrusione. La villa appariva imponente, luminosa, la facciata incuteva la stessa soggezione che si prova dinanzi a un monumento. Le colonne sorreggevano due piani con timpani di diversa grandezza organizzati in struttura verticale decrescente, con al centro un semicerchio mozzato. L'entrata era un delirio architettonico, due enormi scalinate si arrampicavano come due ali di marmo al primo piano che si affacciava a balconata sul salone sottostante. L'atrio era identico a quello di Tony Montana. C'era anche il ballatoio con un'entrata centrale allo studio, lo stesso dove si conclude tra piogge di proiettili Scarface. La villa è un tripudio di colonne doriche intonacate di rosa all'interno e di verde acquamarina all'esterno. I lati dell'edificio sono formati da doppi colonnati attraversati da preziose rifiniture in ferro battuto. L'intera proprietà è tremilaquattrocento metri quadri con una costruzione di ottocentocinquanta metri quadri disposta su tre livelli, il valore dell'immobile alla fine degli anni '90 era di circa cinque miliardi di lire, ora la stessa costruzione avrebbe un valore commerciale di quattro milioni di euro. Al primo piano vi sono stanze enormi, in ognuna c'è, inutilmente, almeno un bagno. Alcuni lussuosi ed enormi, altri invece piccoli e raccolti. C'è la stanza dei figli, con ancora i poster di cantanti e calciatori attaccati alle pareti, un quadretto annerito con due piccoli angioletti, forse messo alla testa del letto. Il ritaglio di un giornale: "L'Albanova affila le armi". L'Albanova era la squadra di Casal di Principe e San Cipriano d'Aversa, sciolta dall'Antimafia nel 1997, costruita con i soldi del clan, una squadra-giocattolo per i boss. Quei ritagli bruciacchiati attaccati all'intonaco marcio era ciò che rimaneva del figlio di Walter, morto in un incidente stradale ancora adolescente. Dal balcone si aveva la vista del giardino antistante, disseminato di palme, c'era anche un laghetto artificiale con un ponticello in legno che conduceva su un piccolo isolotto di piante e alberi contenuto da un muro a secco. In questa zona della casa, quando ancora la famiglia Schiavone ci abitava, scorazzavano i cani, i molossi, ennesime tracce della messa in scena del potere. Alle spalle della villa si stendeva un prato con una piscina elegante disegnata come un'ellisse sghemba, per permettere alle palme di fare ombra durante le giornate estive. Questa parte della villa era copiata dal bagno di Venere, vera perla del Giardino Inglese della Reggia di Caserta. La statua della dea si adagiava sul pelo dell'acqua con la stessa grazia di quella vanvitelHana. La villa è stata abbandonata dopo l'arresto del boss, avvenuto nel 1996 proprio in queste stanze. Walter non ha fatto come il fratello Sandokan che — latitante — si era fatto costruire sotto la sua enorme villa al centro di Casal di Principe un rifugio profondo e principesco. Sandokan, da latitante, si rifugiava in un fortino senza porte e finestre, con cunicoli e grotte naturali in grado di fornire vie di fuga di emergenza, ma anche un appartamento di cento metri quadri perfettamente organizzato.

Un appartamento surreale, illuminato da luci al neon e pavimenti di maiolica bianca. Il bunker era munito di videocitofono, aveva due accessi, impossibili da identificare dall'esterno. Praticamente quando si arrivava non si trovavano porte, poiché in realtà queste si aprivano solo lasciando scorrere pareti di cemento armato su binari. Quando c'era pericolo di perquisizioni il boss, dalla sala da pranzo, attraverso una botola nascosta raggiungeva una serie di cunicoli, ben undici, collegati tra loro, che sottoterra costituivano una specie di "ridotta", l'ultimo rifugio, dove Sandokan aveva fatto sistemare delle tende da campo. Un bunker nel bunker. Per beccarlo, nel 1998 la DIA aveva fatto appostamenti per un anno e sette mesi, arrivando a sfondare il muro con una sega elettrica per accedere al nascondiglio. Solo dopo, quando Francesco Schiavone si era arreso, è stato possibile individuare l'accesso principale nel deposito di una villa in via Salerno, tra cassette di plastica vuote e attrezzi da giardinaggio. Nel bunker non mancava nulla. C'erano due frigoriferi che contenevano generi alimentari sufficienti a sfamare almeno sei persone per una dozzina di giorni. Un'intera parete era occupata da un sofisticato impianto stereo, con videoregistratori e proiettori. La Scientifica della Questura di Napoli aveva impiegato dieci ore per controllare gli impianti di allarme e i sistemi di chiusura dei due accessi. Nel bagno non mancava la vasca con idromassaggio. Tutto sottoterra, vivendo come in una tana, tra botole e cunicoli.

Walter invece non si nascondeva sotto terra. Quando era latitante arrivava in paese per le riunioni più importanti. Tornava a casa alla luce del sole, con il suo corteo di guardaspalle certo della inaccessibilità della villa. La polizia lo arrestò quasi per caso. Stavano facendo i soliti controlli. Otto, dieci, dodici volte al giorno poliziotti e carabinieri solitamente vanno a casa delle famiglie dei latitanti, controllano, visitano, perquisiscono, ma soprattutto cercano di sfiancare i nervi e rendere sempre meno solidale la famiglia alla scelta di latitanza del proprio congiunto. La signora Schiavone riceveva i poliziotti sempre con gentilezza e spavalderia. Sempre serena nell'offrire tè e biscotti sistematicamente rifiutati. Un pomeriggio però la moglie di Walter era tesa già al citofono, dalla lentezza con cui aveva aperto il cancello i poliziotti avevano intuito subito che quella giornata aveva qualcosa di anomalo. Mentre giravano per la villa, la signora Schiavone li seguiva attaccata ai talloni e non gli parlava dal basso della scalinata lasciando rimbombare le parole per tutta la villa, come solitamente accadeva. Trovarono camicie maschili appena stirate raccolte in pila sul letto, di misura troppo grande per essere indossate dal figlio. Walter era lì. Era tornato a casa. I poliziotti capirono e iniziarono a disperdersi nelle stanze della villa per cercarlo. Lo beccarono mentre tentava di scavalcare il muro. Lo stesso che aveva fatto costruire per rendere impenetrabile la sua villa gli impedì di scappare con agilità. Acciuffato come un ladruncolo che sgambetta cercando appigli su una parete liscia. La villa venne subito sequestrata, ma per circa sei anni nessuno ne ha mai realmente preso possesso. Walter ordinò di sottrarre tutto il possibile. Se non poteva più essere a sua disposizione non doveva più esistere. O sua o di nessuno. Fece scardinare le porte, staccare gli infissi, togliere il parquet, divellere i marmi dalle scale, smantellare i preziosi camini, togliere persino le ceramiche dai bagni, estirpare i passamani in legno massello, i lampadari, la cucina, portare via i mobili ottocenteschi, le vetrine, i quadri. Diede ordine di disseminare la casa di copertoni e gli fece dare fuoco così da rovinare le pareti, gli intonaci, compromettere le colonne. Anche in questo caso però sembra aver lasciato un messaggio. L'unica cosa inalterata, lasciata intatta, è la vasca costruita al secondo piano, il vero vezzo del boss. Una vasca principesca costruita nel salone al secondo piano. Adagiata su tre gradoni con un volto di leone dorato da cui ruggiva l'acqua. Una vasca posizionata dietro una finestra con arco a botte che dava direttamente sul panorama del giardino della villa. Una traccia della sua potenza di costruttore e di camorrista, come un pittore che ha cancellato il suo dipinto, risparmiando però la sua firma sulla tela. Passeggiando lentamente per Hollywood, quelle che credevo fossero voci di esagerata leggenda mi paiono invece corrispondere al vero. I capitelli dorici, l'imponenza delle strutture dell'edificio, il doppio timpano, la vasca in camera, e soprattutto le scalinate all'entrata, sono i calchi della villa di Scarface.

Mi aggiravo per quelle stanze annerite, mi sentivo il petto gonfio come se gli organi interni fossero diventati un unico, grande cuore. Lo sentivo battere in ogni parte e sempre più forte. La saliva mi si era prosciugata a forza di fare lunghi respiri per calmare l'ansia. Se qualche palo del clan che ancora presidiava la villa mi avesse sorpreso mi avrebbe riempito di mazzate e avrei potuto anche strillare come un maiale sgozzato; nessuno avrebbe sentito. Ma evidentemente nessuno mi vide entrare o forse nessuno presidiava più la villa. Mi cresceva dentro una rabbia pulsante, mi passavano alla mente come un unico blob di visioni smontate le immagini degli amici emigrati, quelli arruolati nei clan e quelli nell'esercito, i pomeriggi pigri in queste terre di deserto, l'assenza di ogni cosa tranne gli affari, i politici spugnati dalla corruzione e gli imperi che si edificavano nel nord dell'Italia e in mezz'Europa lasciando qui soltanto monnezza e diossina. E mi venne voglia di prendermela con qualcuno. Dovevo sfogarmi. Non ho resistito. Sono salito con i piedi sul bordo della vasca e ho iniziato a pisciarci dentro. Un gesto idiota, ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio. Quella villa sembrava la conferma di un luogo comune, la realizzazione concreta di una diceria. Avevo la sensazione ridicola che da una stanza stesse per uscire Tony Montana, e accogliendomi con gesticolante, impettita arroganza stesse per dirmi: "Tutto quello che ho al mondo sono le mie palle e la mia parola. Non le infrango per nessuno, capito?". Chissà se Walter avrà anche sognato e immaginato di morire come Montana, cascando dall'alto nel suo salone d'entrata crivellato dai proiettili piuttosto che finire i suoi giorni in cella consumato dal morbo di Basedow che gli stava corrodendo gli occhi e facendo esplodere la pressione sanguigna.

Non è il cinema a scrutare il mondo criminale per raccoglierne i comportamenti più interessanti. Accade esattamente il contrario. Le nuove generazioni di boss non hanno un percorso squisitamente criminale, non trascorrono le giornate per strada avendo come riferimento il guappo di zona, non hanno il coltello in tasca, né sfregi sul volto. Guardano la tv, studiano, frequentano le università, si laureano, vanno all'estero e soprattutto sono impegnati nello studio dei meccanismi d'investimento. Il caso del film JZ Padrino è eloquente. Nessuno all'interno delle organizzazioni criminali, siciliane come campane, aveva mai usato il termine padrino, frutto invece di una traduzione poco filologica del termine inglese godfather. Il termine usato per indicare un capofamiglia o un affiliato è sempre stato compare. Dopo il film però le famiglie mafiose d'origine italiana negli Stati Uniti iniziarono a usare la parola padrino, sostituendo quella ormai poco alla moda di compare e compariello. Molti giovani italoamericani legati alle organizzazioni mafiose imitarono gli occhiali scuri, i gessati, le parole ieratiche. Lo stesso boss John Gotti si volle trasformare in una versione in carne e ossa di don Vito Corleone. Anche Luciano Liggio, boss di Cosa Nostra, si faceva fotografare sporgendo la mascella come il capofamiglia de II Padrino.

Mario Puzo non si era ispirato a un boss siciliano, ma alla storia e all'aspetto di un boss della Pignasecca, il mercato del centro storico di Napoli, Alfonso Tieri che prese posto — dopo la morte di Charles Gambino — al vertice delle famiglie mafiose italiane egemoni negli Stati Uniti. Antonio Spavone "'o ma-lommo", il boss napoletano legato a Tieri, aveva dichiarato in un'intervista a un giornale americano che "se i siciliani aveva-vo insegnato a stare zitti e muti, i napoletani avevano fatto capire al mondo come ci si comporta quando si comanda. Fare capire con un gesto che comandare è meglio che fottere". La maggior parte degli archetipi criminali, l'acme del carisma mafioso proveniva da una manciata di chilometri in Campania. Anche Al Capone era campano d'origine. La sua famiglia proveniva da Castellammare di Stabia. Fu il primo boss a misurarsi col cinema. Il suo soprannome, Scarface, lo sfregiato, dovuto a una cicatrice sulla guancia, poi ripreso nel 1983 da

Brian De Palma per il film sul boss cubano, era già stato il titolo di un film di Howard Hawks nel 1932. Al Capone si faceva vedere sul set, arrivava con la sua scorta ogni volta che c'era qualche scena d'azione e qualche esterna a cui poteva assistere. Il boss voleva controllare che Tony Camonte, il personaggio di Scarface a lui ispirato, non venisse banalizzato. E voleva somigliare il più possibile a Tony Camonte, certo che dopo l'uscita del film, sarebbe diventato lui l'emblema di Capone, e non più Capone il suo modello.

Il cinema è un modello da cui decrittare modi d'espressione. A Napoli, Cosimo Di Lauro è esemplare. Guardando la sua tenuta, a tutti doveva venire in mente The Crow di Brandon Lee. I camorristi debbono formarsi un'immagine criminale che spesso non hanno, e che trovano nel cinema. Articolando la propria figura su una maschera hollywoodiana riconoscibile, percorrono una sorta di scorciatoia per farsi riconoscere come personaggi da temere. L'ispirazione cinematografica arriva a condizionare anche le scelte tecniche come l'impugnatura della pistola e il modo di sparare. Una volta un veterano della Scientifica di Napoli mi raccontò come i killer di camorra imitassero quelli dei film:

Ormai dopo Tarantino questi hanno smesso di saper sparare come Cristo comanda! Non sparano più con la canna dritta. La tengono sempre sbilenca, messa di piatto. Sparano con la pistola storta, come nei film, e questa abitudine crea disastri. Sparano al basso ventre, all'inguine, alle gambe, feriscono gravemente senza uccidere. Così sono sempre costretti a finire la vittima sparando alla nuca. Un lago di sangue gratuito, una barbarie del tutto superflua ai fini dell'esecuzione.

Le guardaspalle delle donne boss sono vestite come Urna Thurman in Kill Bill: caschetto biondo e tute giallo fosforescente. Una donna dei Quartieri Spagnoli, Vincenza Di Domenico, per un breve periodo collaboratrice di giustizia, aveva un soprannome eloquente, Nikita, come l'eroina killer del film di Lue Besson. Il cinema, soprattutto quello americano, non è visto come il territorio lontano dove l'aberrazione accade, non come il luogo dove l'impossibile si realizza, ma anzi come la vicinanza più prossima.

Me ne uscii dalla villa piano, liberando i piedi dal ginepraio di rovi ed erbaccia che si era impadronito del Giardino Inglese tanto voluto dal boss. Lasciai il cancello aperto. Soltanto qualche anno prima avvicinarsi a questo luogo avrebbe significato essere identificato da decine di sentinelle. Invece ero uscito, camminando con le mani in tasca e la testa appesa al mento, come quando si esce dal cinema ancora frastornati da quel che

Siè ViStO.

A Napoli non è complicato comprendere quanto il film II camorrista di Giuseppe Tornatore sia in assoluto il film che più di ogni altro ha marchiato l'immaginario. Basta ascoltare le battute delle persone, sempre le stesse da anni.

"Dicitancello 'o professore che nun l'aggio tradito."

"Io so bene chi è lui, ma so pure chi sono io!"

"'O Malacarne è nu guappo 'e cartone!"

"Chi ti manda?"

"Mi manda chi a vita va po' ddà e va po' pure llevà!"

La musica del film è diventata una sorta di colonna sonora della camorra, fischiettata quando passa un capozona, o spesso solo per far inquietare qualche negoziante. Ma il film è arrivato persino nelle discoteche dove si ballano ben tre versioni mixate delle più celebri frasi del boss Raffaele Cuto-lo, pronunciate nel film da Ben Gazzarra.

In maniera mnemonica ripetevano mimando tra loro i dialoghi de II camorrista anche due ragazzini di Casal di Principe, Giuseppe M. e Romeo P. Facevano vere e proprie scenette tratte dal film:

"Quanto pesa un picciotto? Quanto una piuma al vento." Non avevano ancora la patente quando iniziarono a assediare le comitive di coetanei di Casale e San Cipriano d'Aver-sa. Non ce l'avevano perché nessuno dei due aveva diciotto anni. Erano due bulli. Spacconi, buffoni, mangiavano lasciando come mancia il doppio del conto. Camicia aperta sul petto con pochi peli, una camminata declamata ad alta voce, come se ogni passo dovesse essere rivendicato. Mento alto, un'ostentazione di sicurezza e potere, reali solo nella mente dei due. Giravano sempre in coppia. Giuseppe faceva il boss, sempre un passo avanti rispetto al compare. Romeo faceva il suo guardiaspalle, la parte del braccio destro, l'uomo fedele. Spesso Giuseppe lo chiamava Donnie, come Donnie Brasco. Anche se era un poliziotto infiltrato, il fatto che diventi un mafioso vero, nell'anima, lo salva, agli occhi degli ammiratori da questo peccato originale. Ad Aversa facevano tremare i neopatentati. Preferivano le coppiette, tamponavano l'auto con il motorino, e quando scendevano per raccogliere i dati per l'assicurazione, uno dei due si avvicinava alla ragazza, le sputava in faccia e aspettavano che il fidanzato reagisse per poterlo pestare a sangue. I due sfidavano però anche gli adulti, anche quelli che contavano davvero. Andavano nelle loro zone d'influenza e facevano ciò che volevano. Provenivano da Casal di Principe e nell'immaginario questo bastava. Volevano far capire che erano davvero persone temibili e da rispettare, chiunque si avvicinava loro doveva fissare i propri piedi e non trovare neanche il coraggio di guardarli in faccia. Un giorno però alzarono troppo il tiro della loro spacconeria. Scesero in strada con una mitraglietta, racimolata chissà in quale armeria dei clan, e si presentarono dinanzi a un gruppetto di ragazzi. Dovevano essersi addestrati bene perché spararono contro il gruppetto curandosi di non colpire nessuno, ma solo di far sentire il puzzo della polvere da sparo e il sibilare dei proiettili. Prima di sparare però uno dei due aveva recitato qualcosa. Nessuno aveva capito cosa blaterava, ma un testimone aveva detto che gli sembrava la Bibbia, e aveva ipotizzato che i ragazzini stessero preparandosi alla cresima. Ma smozzicando un po' di frasi era evidente che non era un brano da cresima. Era la Bibbia, in effetti, appresa non dal catechismo, ma da Quentin Tarantino. Era il brano pronunciato da Jules Winnfield in Pulp Fiction prima di ammazzare il ragazzotto che aveva fatto sparire la preziosissima valigetta di Marcellus Wallace:

Ezechiele 25,17. Il cammino dell'uomo timorato è minaccia to da ogni parte dall'iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti e la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e distruggere i miei fratelli e tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.

Giuseppe e Romeo la ripetevano come nel film, e poi sparavano. Giuseppe aveva un padre camorrista, prima pentito, poi nuovamente rientrato nell'organizzazione di Quadrano-De Falco sconfitta dagli Schiavone. Un perdente quindi. Ma aveva pensato che recitando la parte giusta, il film della sua vita forse poteva cambiare. I due conoscevano a memoria le battute, le parti salienti di ogni film criminale. La maggior parte delle volte picchiavano per uno sguardo. Nelleterre di camorra lo sguardo è parte di territorio, è come un'invasione nelle proprie stanze, come sfondare la porta di casa di qualcuno ed entrare con violenza. Uno sguardo è persino qualcosa in più di un insulto. Attardarsi a fissare il viso di qualcuno è già in qualche modo un'aperta sfida:

"Ehi, ce l'hai con me? No, dico, ce l'hai con me?"

E dopo il famoso monologo di Taxi Driver partivano gli schiaffi e i pugni sullo sterno, quelli che rimbombano nella cassa toracica e si sentono anche a parecchia distanza.

I boss Casalesi presero seriamente in considerazione il problema di questi due ragazzini. Risse, alterchi, minacce, non erano facilmente tollerati: troppe madri nervose, troppe denunce. Così li fanno "avvertire" da qualche capozona che gli fa una sorta di richiamo all'ordine. Li raggiunge al bar e dice che stanno facendo perdere la pazienza ai capi. Ma Giuseppe e Romeo continuano il loro film immaginario, picchiano chi vogliono, pisciano nei serbatoi delle moto dei ragazzi del paese. Una seconda volta li "mandano a chiamare". I boss vogliono parlare direttamente con loro, il clan non può sopportare più questi atteggiamenti in paese, la tolleranza paternalistica, solita in questi territori, si muta in dovere di punizione, e così un "mazziatone" devono averlo, una violenta sculacciata pubblica per farli rigare dritto. Loro snobbano l'invito, continuano a stare al bar stravaccati, attaccati ai videopoker, i pomeriggi incollati davanti alla televisione a vedere i dvd dei loro film, ore passate a imparare a memoria frasi e posture, modi di dire e scarpe da indossare. I due credono di potere tener testa a chiunque. Anche a chi conta. Anzi sentono che proprio tenendo testa a chi conta davvero potranno divenire realmente temuti. Senza porsi limite alcuno, come Tony e Manny in Scarface. Non mediano con nessuno, continuano le loro scorribande, le loro intimidazioni, lentamente sembrano diventare i viceré del casertano. I due ragazzini non avevano scelto di entrare nel clan. Non ci tentavano neanche. Era un percorso troppo lento e disciplinato, una gavetta silenziosa che non volevano fare. Da anni poi i Casalesi inserivano quelli che valevano veramente nei settori economici dell'organizzazione, e non certo nella struttura militare. Giuseppe e Romeo erano in completa antitesi con la figura del nuovo soldato di camorra. Si sentivano capaci di cavalcare l'onda della peggior fama dei loro paesi. Non erano affiliati, ma volevano godere dei privilegi dei camorristi. Pretendevano che i bar li servissero gratuitamente, la benzina per i loro motorini era un dazio dovuto, le loro madri dovevano avere la spesa pagata, e quando qualcuno osava ribellarsi arrivavano subito sfasciando vetri, tirando schiaffi a fruttivendoli e commesse. Nella primavera del 2004 così alcuni emissari del clan gli danno appuntamento alla periferia di Castelvolturno, zona Parco Mare. Un territorio di sabbia, mare e spazzatura, tutto mischiato. Forse una proposta allettante, qualche affare o addirittura la partecipazione a un agguato. Il primo vero agguato della loro vita. Se non erano riusciti a coinvolgerli con le cattive, i boss tentarono di incontrarli con qualche buona proposta. Me li immaginavo sui motorini tirati al massimo, ripassarsi i passaggi salienti dei film, i momenti in cui quelli che contano devono piegarsi all'ostinazione dei nuovi eroi. Come i giovani spartani andavano in guerra con in mente le gesta di Achille ed Ettore, in queste terre si va ad ammazzare e farsi ammazzare con in mente Scarface, Quei bravi ragazzi, Donnie Brusco, Il Padrino. Ogni volta che mi capita di passare per Parco Mare, immagino la scena che hanno raccontato i giornali, che hanno ricostruito i poliziotti. Giuseppe e Romeo arrivarono con i motorini, molto in anticipo rispetto all'orario stabilito. Infuocati dall'ansia. Erano lì ad attendere l'auto. Scese un gruppo di persone. I due ragazzini gli andarono incontro per salutarli, ma immediatamente, bloccarono Romeo e iniziarono a pestare Giuseppe. Poi poggiando la canna di un'automatica al petto, fecero fuoco. Sono certo che Romeo avrà visto dinanzi a sé la scena di Quei bravi ragazzi quando Tommy De Vito viene invitato a sedere nella dirigenza di Cosa Nostra in America, e invece di accoglierlo in una sala con tutti i boss lo portano in una stanza vuota e gli sparano alla testa. Non è vero che il cinema è menzogna, non è vero che non si può vivere come nei film e non è vero che ti accorgi mettendo la testa fuori dallo schermo che le cose sono diverse. C'è un momento solo che è diverso, il momento in cui Al Pacino si alzerà dalla fontana in cui i colpi di mitra hanno fatto cascare la sua controfigura, e si asciugherà il viso pulendosi dal colore del sangue, Joe Pesci si laverà i capelli e farà cessare la finta emorragia. Ma questo non ti interessa saperlo, e quindi non lo comprendi. Quando Romeo vide Giuseppe per terra, sono sicuro di una certezza che non potrà mai avere alcun tipò di conferma, che comprese l'esatta differenza tra cinema e realtà, tra costruzione scenografica e il puzzo dell'aria, tra la propria vita e una sceneggiatura. Venne il suo turno. Gli spararono alla gola e lo finirono con un colpo alla testa. Sommando la loro età raggiungevano a stento trent'anni. Il clan dei Casalesi così aveva risolto quest'escrescenza microcriminale alimentata dal cinema. Non chiamarono neanche anonimamente la polizia o un'ambulanza. Lasciarono che le mani dei cadaveri dei ragazzini fossero beccate dai gabbiani e le labbra e i nasi mangiucchiati dai randagi che circolavano sulle spiagge di spazzatura. Ma questo i film non lo raccontano, si fermano un attimo prima.

Non c'è una reale differenza tra gli spettatori dei film in terra di camorra e qualsiasi altro spettatore. Ovunque i riferimenti cinematografici sono seguiti come mitologie d'imitazione. Se altrove ti può piacere Scarface e puoi sentirti come lui in cuor tuo, qui puoi essere Scarface, però ti tocca esserlo fino in fondo.

Ma le terre di camorra sono prolifiche anche di appassionati d'arte e letteratura. Sandokan aveva nella villa bunker un'enorme libreria con decine di testi incentrati su due esclusivi argomenti, la storia del Regno delle due Sicilie e Napoleone Bonaparte. Schiavone era attratto dal valore dello stato borbonico dove millanta avi tra i funzionari in Terra di Lavoro, affascinato dal genio di Bonaparte capace di conquistare mezza Europa, partendo da un misero grado militare quasi come lui stesso, generalissimo di un clan tra i più potenti d'Europa in cui era entrato come gregario. Sandokan, con un passato di studente in medicina, prediligeva trascorrere il tempo di latitanza dipingendo icone religiose e ritratti di Bonaparte e Mussolini. Ci sono in vendita ancora oggi, in botteghe insospettabili di Caserta, rarissimi volti santi ritratti da Schiavone, dove al posto del volto del Cristo, Sandokan ha messo il suo. Schiavone era un frequentatore della letteratura epica. Omero, il ciclo di Re Artù, Walter Scott le sue letture preferite. Proprio l'amore per Scott l'ha spinto a battezzare uno dei suoi numerosi figli con il nome altisonante e fiero di Ivanhoe.

Ma i nomi dei discendenti divengono sempre traccia della passione dei padri. Giuseppe Misso, boss napoletano del clan del quartiere della Sanità, ha tre nipoti: Ben Hur, Gesù ed Emiliano Zapata. Misso, che durante i processi ha assunto sempre atteggiamenti da leader politico, da pensatore conservatore e ribelle ha recentemente scritto un romanzo, I leoni di marmo. Centinaia e centinaia di copie vendute a Napoli in pochissime settimane, il racconto in un libro dalla sintassi smozzicata ma dallo stile rabbioso, della Napoli degli anni '80 e '90 dove il boss si è formato e dove emerge la sua figura, descritta come quella di un solitario combattente contro la camorra del racket e della droga a favore di un non ben identificato codice cavalleresco della rapina e del furto. Durante i vari arresti nella sua lunghissima carriera criminale, Misso è sempre stato trovato in compagnia dei libri di Julius Evola ed Ezra Pound.

Augusto La Torre, boss di Mondragone, è studioso di psicologia e vorace lettore di Cari Gustav Jung e conoscitore dell'opera di Sigmund Freud. Dando un'occhiata ai titoli che il boss ha chiesto di ricevere in carcere emergono lunghe bibliografie di studiosi di psicoanalisi, mentre sempre più nel suo eloquio durante i processi citazioni di Lacan si intrecciano a riflessioni sulla scuola della Gestalt. Una conoscenza che il boss ha utilizzato durante il suo percorso di potere, come una inaspettata arma manageriale e militare.

Anche un fedelissimo di Paolo Di Lauro è tra i camorristi amanti di arte e cultura: Tommaso Prestieri è il produttore della maggior parte dei cantanti neomelodici, nonché un raffinato conoscitore d'arte contemporanea. Ma i boss collezionisti sono molti. Pasquale Galasso aveva nella sua villa un museo privato di circa trecento pezzi d'antiquariato, il cui gioiello era il trono di Francesco I di Borbone, mentre Luigi Vollaro, detto "'o califfo", possedeva una tela del suo prediletto Botticelli.

La polizia arrestò Prestieri, sfruttando il suo amore per la musica. Venne infatti beccato al Teatro Bellini a Napoli mentre assisteva, da latitante, a un concerto. Prestieri, dopo una condanna ha dichiarato: "Sono libero nell'arte, non ho necessità di essere scarcerato". Un equilibrio fatto di quadri e canzoni che concede un'impossibile serenità a un boss in disgrazia come lui, che ha perso sul campo ben due fratelli ammazzati a sangue freddo.

Aberdeen, Mondragone

Il boss psicanalista Augusto La Torre era stato tra i prediletti di Antonio Bardellino: aveva da ragazzo preso il posto del padre divenendo il leader assoluto del clan dei "Chiuovi", come li chiamavano a Mondragone. Un clan egemone nell'alto casertano, nel basso Lazio e lungo tutta la costa domi-zia. Si erano schierati con i nemici di Sandokan Schiavone, ma poi col tempo il clan aveva dimostrato abilità imprenditoriale e capacità di gestione del territorio, unici elementi che possono far mutare i rapporti di conflittualità tra famiglie di camorra. La capacità di fare affari riawicinò i La Torre ai Ca-salesi che gli diedero possibilità di agire in relazione con loro, ma anche in autonomia. Augusto non era un nome a caso. Ai primogeniti della famiglia, La Torre usava dare i nomi degli imperatori romani. Avevano invertito l'ordine storico, la storia romana vedeva avvicendarsi prima Augusto e successivamente Tiberio, invece il padre di Augusto La Torre portava il nome di Tiberio.

Neirimmaginario delle famiglie di queste terre la villa di Scipione l'Africano costruita nei pressi del Lago Patria, le battaglie capuane di Annibale, la forza inattaccabile dei Sanniti, i primi guerriglieri europei che colpivano le legioni Tornane e fuggivano sulle montagne, sono presenti come storie di paese, racconti di un passato anteriore di cui però tutti si sentono parte. Al delirio storico dei clan si contrapponeva l'immaginario diffuso che riconosceva in Mondragone la capitale della mozzarella. Mio padre mi mandava a fare scorpacciate di mozzarelle mondragonesi, ma quale territorio aveva il primato della mozzarella più buona era impossibile stabilirlo. I sapori erano troppo diversi, quello dolciastro e leggero della mozzarella di Battipaglia, quello salato e corposo della mozzarella aversana e poi quello puro della mozzarella di Mondragone. Una prova però della bontà della mozzarella i mastri caseari mondragonesi ce l'avevano. La mozzarella per essere buona deve lasciare in bocca un retrogusto, quello che i contadini chiamano "'o ciato 'e bbufala" ossia il fiato di bufala. Se dopo aver buttato giù il boccone non rimane in bocca quel sapore di bufala, allora la mozzarella non è buona. Quando andavo a Mondragone mi piaceva passeggiare sul pontile. Avanti e indietro, prima che venisse abbattuto era una delle mie mete preferite d'estate. Una lingua di cemento armato costruita sul mare per far attraccare le barche. Una struttura inutile e mai utilizzata.

Mondragone divenne d'improvviso una meta per tutti i ragazzi del casertano e dell'agro pontino che volevano emigrare in Inghilterra. Emigrare come occasione di vita, andare finalmente via, ma non come cameriere, sguattero in un McDonald's, o barista pagato con pinte di birra scura. Si andava a Mondragone per cercare di avere contatti con le persone giuste, per avere fitti agevolati, la possibilità di essere ricevuti con garbo e interesse dai proprietari dei locali. A Mondragone si potevano incontrare le persone adatte per farti assumere in un'assicurazione, in un ufficio immobiliare e se proprio si presentavano braccianti disperati, disoccupati cronici, i contatti giusti li avrebbero fatti assumere con contratti decenti e lavoro dignitoso. Mondragone era la porta per la Gran Bretagna. D'improvviso dalla fine degli anni '90 avere un amico a Mondragone significava poter essere valutato per quanto valevi, senza necessità di presentazione o di raccomandazione. Cosa rara, rarissima, impossibile in Italia e ancor più al sud. Per essere considerato e vagliato solo per ciò che sei, da queste parti hai bisogno sempre di qualcuno che ti protegga e che la sua protezione possa, se non favorirti, farti almeno prendere in considerazione. Presentarti senza protettore è come andare senza braccia e senza gambe. Insomma hai qualcosa in meno. A Mondragone invece prendevano i curricula e vedevano a chi inviarli in Inghilterra. Valeva in qualche modo il talento e ancor più come avevi deciso d'esprimerlo. Ma solo a Londra o Aberdeen, non in Campania, non nella provincia della provincia d'Europa.

Una volta Matteo, un mio amico, aveva deciso di provarci: andare via una volta per tutte. Aveva messo dei soldi da parte, una laurea con lode era riuscito a raggiungerla e si era stancato di lavorare tra stage e cantieri per sopravvivere. Aveva avuto il nome di un ragazzo di Mondragone che l'avrebbe fatto partire per l'Inghilterra e una volta lì, avrebbe avuto modo di presentarsi a diversi colloqui di lavoro. Lo accompagnai. Aspettammo ore fuori a un lido dove questo contatto ci aveva dato appuntamento. Era estate. Le spiagge di Mondragone sono assalite dai villeggianti di tutta la Campania, quelli che non possono permettersi la costiera amalfitana, quelli che non possono affittarsi una casa al mare per l'estate e allora pendolano, avanti e indietro, tra l'entroterra e la costa. Sino a metà degli anni '80 si vendeva la mozzarella in astucci di legno colmi di latte di bufala bollente. I bagnanti la mangiavano con le mani lasciando sbrodolare il latte e i ragazzetti prima di dare il morso alla pasta bianca davano una leccata alla mano, insaporita dalla salsedine. Poi nessuno più ha continuato a vendere mozzarelle e sono arrivati i taralli e le fette di cocco. Quel giorno il nostro contatto ritardò due ore. Quando finalmente ci raggiunse si presentò abbronzato e coperto solo da uno striminzito costume, ci spiegò che aveva fatto colazione con ritardo, quindi si era bagnato con ritardo e si era asciugato con ritardo. Questa fu la sua scusa, colpa del sole insomma. Il nostro contatto ci portò in un'agenzia turistica. Tutto qui. Credevamo d'essere ricevuti da chissà quale mediatore, invece bisognava soltanto essere presentati a un'agenzia neanche particolarmente elegante. Non una di quelle con centinaia di dépliant, ma un bugigattolo qualsiasi. Si poteva però accedere ai suoi servizi se presentati da un contatto mondragonese. Se entrava una persona qualsiasi avrebbe svolto le normali pratiche di qualsiasi agenzia turistica. Una ragazza giovanissima chiese a Matteo il curriculum e ci segnalò il primo volo disponibile. Aberdeen era la città dove lo avrebbero spedito. Gli diedero un foglietto con l'elenco di una serie di aziende a cui avrebbe potuto rivolgersi per un colloquio di lavoro. Anzi l'agenzia stessa, in cambio di pochi spiccioli, prenotò appuntamenti con le segreterie degli addetti alla selezione del personale. Mai agenzia interinale era stata così efficiente. Ci imbarcammo per la Scozia due giorni dopo, un viaggio veloce ed economico per chi proveniva da Mondragone.

Ad Abeerden c'era aria di casa. Eppure non esisteva nulla di più lontano da Mondragone che questa città scozzese. Il terzo centro urbano della Scozia, una città scura, grigiastra anche se non pioveva spesso come a Londra. Prima dell'arrivo dei clan italiani la città non sapeva valorizzare le risorse di tempo libero e turismo e tutto ciò che riguardava ristoranti, alberghi e vita sociale era organizzato al triste modo inglese. Abitudini identiche, locali gonfi di persone intorno ai banconi un solo giorno a settimana. È stato — secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli — Antonio La Torre, fratello del boss Augusto, ad attivare in Scozia una serie di attività commerciali in grado, in una manciata di anni, di imporsi come fiore all'occhiello dell'imprenditoria scozzese. La gran parte delle attività in Inghilterra del clan La Torre sono perfettamente lecite, acquisto e gestione di beni immobiliari e di esercizi commerciali, commercio di prodotti alimentari con l'Italia. Un giro d'affari enorme difficile da rendere in cifre. Matteo ad Aberdeen cercava tutto quello che non gli era stato riconosciuto in Italia, camminavamo per le strade con soddisfazione, come se per la prima volta nella nostra vita l'essere campani fosse condizione sufficiente a procurarci un'area di affermazione. Al 27 e al 29 di Union Terrace, mi trovai dinanzi a un ristorante del clan, il Pavarotti's, intestato proprio ad Antonio La Torre e segnalato anche dalle guide turistiche on line della città scozzese. Per Aberdeen era il salotto elegante, il ritrovo chic, il posto dove poter cenare nel migliore dei modi e il luogo idoneo per parlare di affari importanti. Le aziende del clan sono state pubblicizzate anche a Parigi come massima espressione del made in Italy presso la fiera gastronomica della capitale francese Italissima. Antonio La Torre vi ha infatti presentato le sue attività di ristorazione ed esposto il proprio marchio. Un successo che fa di La Torre uno dei primi imprenditori scozzesi in Europa. La Torre è stato proprietario anche del Sorrento Italy Restaurant in Bridge Street. Questo stesso ristorante ha d'improvviso chiuso, riaprendo con un'altra proprietà con il nome di Sopranos. Come la popolarissima serie televisiva americana incentrata su una famiglia di mafiosi italoamericani.

La stampa inglese aveva infatti da poco iniziato a occuparsi dei boss mondragonesi leader imprenditoriali in Scozia. "The Times" aveva pubblicato un articolo sulla storia del "don" di Mondragone, "The Guardian" invece aveva titolato: "The Aberdeen Job", facendo riferimento a un film statunitense, The Italian Job, a sua volta remake dell'omonima pellicola del 1969 che in Italia uscì col titolo Colpo all'italiana. Articoli in cui si parlava dei business criminali fatti ad Aberdeen dai boss provenienti da "mozzarella country". Inchieste che davano notizie su Antonio La Torre, sulla moglie scozzese Gillian Fraser, i tre figli e l'attività di imprenditore nel ramo della ristorazione e dell'import-export di prodotti alimentari italiani in tutta la Scozia. Così i proprietari del ristorante in Bridge Street invece di ripiegarsi sul marchio infamante dell'appellativo mafioso di "don", avevano dato al ristorante il nome di Sopranos. Ogni immaginario collettivo dev'essere sfruttato. Se i giornali inglesi più letti avevano definito mafiosi i proprietari del ristorante in Bridge Street, questa definizione doveva essere utilizzata per un lancio d'attività, una grande operazione di marketing. La curiosità non doveva più essere fatta tacere, ma poteva venir sfruttata a proprio vantaggio.

Antonio La Torre è stato arrestato ad Aberdeen nel marzo 2005, su di lui pendeva un mandato d'arresto italiano per associazione a delinquere di stampo camorristico ed estorsione. Per anni aveva evitato sia l'arresto che l'estradizione, facendosi scudo della sua cittadinanza scozzese e del mancato riconoscimento da parte delle autorità britanniche dei reati associativi che gli sono contestati. La Scozia non voleva perdere uno dei suoi imprenditori più brillanti.

Nel 2002 il Tribunale di Napoli emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di trenta persone legate al clan La Torre. Dall'ordinanza emergeva che il consorzio criminale guadagnava ingenti somme di danaro attraverso le estorsioni, il controllo delle attività economiche e degli appalti nella sua zona di competenza, per poi reinvestire all'estero, in particolare in Gran Bretagna, dove si era creata una vera e propria colonia del clan. Una colonia che non aveva invaso, non aveva portato concorrenza al ribasso nella manodopera, ma aveva immesso linfa economica, rivitalizzando il comparto turistico, attivando un'attività di importazione ed esportazione prima sconosciuta alla città e dando nuovo vigore al settore immobiliare.

Ma la potenza internazionale partita da Mondragone era personificata anche da Rockefeller. Lo chiamano così in paese per l'evidente talento negli affari e per la mole di liquidità che possiede. Rockefeller è Raffaele Barbato, sessantadue anni, nato a Mondragone. E suo vero nome forse l'ha dimenticato persino lui. Moglie olandese, fino alla fine degli anni '80 gestiva affari in Olanda dove possedeva due casinò frequentati da clienti di calibro internazionale, dal fratello di Bob Cellino, fondatore delle case da gioco di Las Vegas, a importanti mafiosi slavi con basi a Miami. I suoi soci erano un tal Liborio, siciliano con entrature in Cosa Nostra, e un altro, Emi, olandese poi trasferitosi in Spagna dove ha aperto hotel, residence e discoteche. Ed è stato Rockefeller una delle menti — secondo le dichiarazioni dei pentiti Mario Sperlongaro, Stefano Piccirillo e Girolamo Rozzera — che progettò assieme ad Augusto La Torre di andare a Caracas per cercare di incontrare gruppi di narcotrafficanti venezuelani che vendevano coca a un prezzo concorrenziale rispetto ai colombiani, fornitori dei napoletani e Casalesi. Molto probabilmente sulla questione droga Augusto era riuscito ad avere un'autonomia, raramente concessa dai Casalesi. Sempre Rockefeller aveva trovato un posto dove far dormire e stare comodo Augusto durante la sua latitanza in Olanda. Lo aveva sistemato al circolo di tiro a volo. Così seppur lontano dalle campagne mondragonesi il boss poteva sparare ai piattelli volanti per tenersi in esercizio. Rockefeller aveva una rete di relazioni enorme, era uno dei business man più noti non solo in Europa, ma anche negli USA per il suo essere gestore di case da gioco che l'aveva messo in contatto con mafiosi italoamericani che sempre di più guardavano all'Europa come mercato per investire, scacciati com'erano lentamente e progressivamente dai clan albanesi sempre più egemoni a New York, e sempre più alleati alle famiglie camorriste campane. Persone capaci di trafficare droga e di investire il loro danaro in ristoranti e alberghi, attraverso la porta aperta dei mondragonesi. Rockefeller è il titolare del lido Adamo ed Eva, ribattezzato La Playa, un bel villaggio turistico sulla costa mondragonese dove — secondo le accuse della magistratura — molti affiliati amavano trascorrere la latitanza. Più comodo è il rifugio, meno sopraggiungeranno le tentazioni di pentimento per sottrarsi alla continua fuga. E con i pentiti, i La Torre erano stati feroci. Francesco Tiberio, il cugino di Augusto, aveva telefonato a Domenico Pensa che aveva testimoniato contro il clan Stolder e chiaramente l'aveva invitato ad andare via dal paese.

"Ho saputo dagli Stolder che tu hai collaborato contro di loro e di conseguenza visto che noi in paese non vogliamo collaboratori di giustizia, te ne devi andare da Mondragone altrimenti qualcuno verrà e ti taglierà la testa."

Il cugino di Augusto aveva talento nel terrorizzare telefonicamente chi osava collaborare, lasciare trapelare notizie. Con un altro, Vittorio Di Telia fu esplicito, lo invitò a comprarsi l'abito da morto.

"Comprati le camicie nere che devi parlare, neh cornuto, io ti devo ammazzare."

Prima che arrivassero i pentiti nel clan, nessuno poteva immaginare il perimetro illimitato d'affari dei mondragone-si. Tra gli amici di Rockefeller c'era anche un tale Raffaele Acconcia, mondragonese di nascita e pure lui trapiantato in Olanda, titolare di una catena di ristoranti, che secondo il pentito Stefano Piccirillo sarebbe un importante narcotrafficante di caratura internazionale. Proprio in Olanda continua a nascondersi, forse in qualche banca, la cassa del clan La Torre, milioni di euro fatturati attraverso mediazioni e commerci che gli inquirenti non hanno mai trovato. In paese è divenuta una sorta di simbolo di ricchezza assoluta questa presunta cassaforte della banca olandese, che ha sostituito tutti i riferimenti della ricchezza internazionale. Non si dice più "m'hai preso per la Banca d'Italia" ma "mi hai preso per la Banca d'Olanda".

JQ clan La Torre con appoggi in Sudamerica e basi in Olanda aveva in mente di dominare un traffico di coca sulla piazza romana. Roma, per tutte le famiglie imprenditorial-camor-ristiche casertane, è il riferimento primo per il narcotraffico e per gli investimenti in beni immobili. Roma diviene un'estensione della provincia casertana. I La Torre potevano contare su rotte d'approvvigionamento che avevano la loro base sulla costa domizia. Le ville sulla costa erano fondamentali per il traffico prima di contrabbando di sigarette, poi di tutto quanto fosse merce. Da quelle parti c'era la villa di Nino Manfredi. Andarono da lui esponenti del clan a chiedergli di vendere la villa. Manfredi cercò in tutti i modi di opporsi, ma la sua casa si trovava in un punto strategico per far attraccare i motoscafi, e le pressioni del clan aumentavano. Non gli chiesero più di vendere, ma gli imposero di cedere a un prezzo stabilito da loro. Manfredi si rivolse persino a un boss di Cosa Nostra, divulgando la notizia, nel gennaio 1994, al Grl, ma i mon-dragonesi erano potenti e nessun siciliano tentò di mediare con loro. Soltanto esponendosi in tv e attirando l'attenzione dei media nazionali, l'attore riuscì a mostrare la pressione cui era stato sottoposto a causa degli interessi strategici della camorra.

Il traffico di droga si accodava a tutti gli altri canali di commercio. Enzo Boccolato, un cugino dei La Torre proprietario di un ristorante in Germania, aveva deciso di investire nell'export di abbigliamento. Assieme ad Antonio La Torre e un imprenditore libanese acquistavano vestiti in Puglia — essendo la produzione tessile campana già monopolizzata dai clan di Secondigliano — e li rivendevano in Venezuela tramite un mediatore, tal Alfredo, segnalato nelle indagini come uno dei più importanti trafficanti di diamanti in Germania. Grazie ai clan camorristici campani i diamanti divennero in poco tempo, per la loro alta variabilità di prezzo e al contempo per il valore nominale che perennemente mantengono, il bene preferito per il riciclaggio del danaro sporco. Enzo Boccolato era conosciuto negli aeroporti in Venezuela e a Francoforte, aveva appoggi tra gli operatori del controllo merci, che con grande probabilità non curavano soltanto l'invio e l'arrivo di vestiti, ma si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina. Può sembrare che i clan, una volta completata l'accumulazione di grandi capitali, interrompano la propria attività criminale, disfacendo in qualche modo il proprio codice genetico, riconvertendolo sul piano legale. Proprio come la famiglia Kennedy in America che nel periodo del proibizionismo aveva guadagnato capitali enormi con la vendita degli alcolici e aveva poi interrotto ogni rapporto col crimine. Ma in realtà la forza dell'imprenditoria criminale italiana sta proprio nel continuare ad avere il doppio binario, non rinunciare mai all'estrazione criminale. Ad Abeerden chiamano questo sistema "scratch". Come i rapper, come i dj, che bloccano con le dita il normale girare del disco sul piatto, allo stesso modo gli imprenditori di camorra bloccano per un attimo l'andatura del disco del mercato legale. Lo bloccano, scratchano, per poi farlo ripartire più velocemente di prima.

Nelle diverse inchieste della Procura Antimafia di Napoli sui La Torre emergeva che quando il percorso legale subiva una crisi, si innescava subito il binario criminale. Se mancava liquidità, si facevano stampare monete false, se erano necessari capitali in breve tempo, si truffava vendendo titoli di Stato fasulli. La concorrenza veniva annichilita dalle estorsioni, la merce importata esentasse. Scratchare sul disco dell'economia legale permette che i clienti possano avere uno standard di prezzi costante e non schizofrenico, che i crediti bancari siano sempre soddisfatti, che il danaro continui a circolare e i prodotti a essere consumati. Scratchare assottiglia il diaframma che spunta tra la legge e l'imperativo economico, tra ciò che la norma vieta e ciò che il guadagno impone.

Gli affari dei La Torre all'estero rendevano indispensabile la partecipazione a vari livelli nella struttura del clan di esponenti inglesi che arrivavano addirittura al grado di affiliati. Uno di questi è Brandon Queen, detenuto in Inghilterra, che riceve puntualmente la sua mesata, tredicesima compresa, da Mondragone. Nell'ordinanza di custodia cautelare del giugno 2002, si legge anche che "Brandon Queen è sistematicamente inserito nel libro paga del clan per espresso volere di Augusto La Torre". Agli affiliati è normalmente garantita, oltre alla protezione fisica, la retribuzione, l'assistenza legale e la copertura dell'organizzazione in caso di necessità. Tuttavia, per ricevere queste assicurazioni direttamente dal boss, Queen doveva ricoprire un ruolo vitale nella macchina d'affari del clan, risultando in assoluto il primo camorrista di nazionalità inglese della storia criminale italiana e britannica.

Erano molti anni che sentivo parlare di Brandon Queen. Mai visto, neanche in foto. Una volta giunto ad Aberdeen non potevo non chiedere di Brandon, dell'uomo fidato di Augusto La Torre, del camorrista scozzese, dell'uomo che senza trovarsi in difficoltà alcuna e conoscendo bene soltanto la sintassi dell'azienda e la grammatica del potere, aveva sciolto residui legami con gli antichissimi clan delle Highlands per entrare in quello di Mondragone. Intorno ai locali dei La Torre c'erano sempre gruppetti di ragazzi del luogo; non erano criminalotti impigriti, ammutinati davanti alle pinte di birra in attesa di qualche scazzottata o scippo. Erano ragazzoni svegli, inseriti a diverso livello nell'attività delle imprese legali. Trasporti, pubblicità, marketing. Chiedendo di Brandon non ricevevo sguardi ostili o risposte vaghe, come se avessi chiesto di un affiliato in un paese del napoletano. Brandon Queen pareva lo conoscessero da sempre, o molto probabilmente era soltanto divenuto una sorta di mito di cui tutte le lingue parlano. Queen era l'uomo che c'era riuscito. Non soltanto un dipendente come loro di ristoranti, ditte, negozi, agenzie immobiliari, un impiegato con stipendio sicuro. Brandon Queen era qualcosa di più, aveva realizzato il sogno di molti ragazzi scozzesi; non semplicemente prendere parte agli indotti legali, ma divenire parti del Sistema, parti operative del clan. Divenire camorristi a tutti gli effetti, nonostante lo svantaggio d'essere nati in Scozia e quindi credere che l'economia abbia un'unica strada, quella banale, di tutti, quella che tratta di regole e sconfitte, di mera concorrenza e di prezzi. Mi impressionava che nel mio inglese ingrassato di pronuncia italiana loro vedessero non l'emigrante, non la deformazione smilza di Jake La Motta, non il conterraneo di invasori criminali venuti a tirare danaro dalla loro terra, ma la traccia di una grammatica che conosce il potere assoluto dell'economia, quello in grado di decidere d'ogni cosa e su ogni cosa, capace di non darsi limiti a costo anche dell'ergastolo e della morte. Sembrava impossibile, eppure mentre parlavano mostravano di conoscere benissimo Mondragone, Secondigliano, Marano, Casal di Principe, territori che gli erano stati raccontati come un'epica di un paese lontano da tutti i boss imprenditori transitati per quelle zone e per i ristoranti dove lavoravano.

Nascere in terra di camorra per quei miei coetanei scozzesi significava avere un vantaggio, portare su di sé un marchio impresso a fuoco che ti orientava a considerare l'esistenza un'arena dove l'imprenditoria, le armi, e persino la propria vita sono solo e esclusivamente un mezzo per raggiungere danaro e potere: ciò per cui vale la pena di esistere e respirare, ciò che permette di vivere al centro del proprio tempo, senza dover badare ad altro. Brandon Queen c'era riuscito anche non nascendo in Italia, anche non avendo mai visto la Campania, anche senza percorrere chilometri in auto costeggiando cantieri, discariche e masserie di bufale. Era riuscito a divenire un uomo di potere vero, un camorrista.

Eppure questa grande organizzazione commerciale e finanziaria internazionale non aveva concesso flessibilità al clan nel controllo del territorio primo. A Mondragone, Augusto La Torre aveva gestito il potere con grande severità. Per far diventare il cartello così potente era stato spietato. Le armi, a centinaia, se le faceva arrivare dalla Svizzera. Politicamente aveva alternato diverse fasi, grande presenza nella gestione degli appalti poi soltanto alleanze, contatti sporadici, lasciando che si affermassero i suoi affari e che fosse quindi la politica ad accodarsi alle sue imprese. Mondragone fu il primo comune italiano a essere sciolto per infiltrazione camorristica negli anni '90. Nel corso degli anni, politica e clan non si sono mai realmente slegate. Un latitante napoletano aveva trovato ospitalità nel 2005 a casa di un candidato presente nella lista civica del sindaco uscente. Nel consiglio comunale per lungo tempo è stata presente, nel gruppo di maggioranza, la figlia un vigile urbano accusato di riscuotere tangenti per conto dei La Torre.

Augusto era stato severo anche con i politici. Gli oppositori al business della famiglia dovevano in ogni caso avere tutti punizioni esemplari e spietate. La modalità per l'eliminazione fisica dei nemici di La Torre era sempre la stessa, al punto tale che nel gergo criminale il metodo militare di Augusto si definisce ormai "alla mondragonese". La tecnica consiste nell'occultare nei pozzi delle campagne i corpi macellati da decine e decine di colpi e successivamente poi lanciare una bomba a mano; in tal modo il corpo viene dilaniato e la terra rovina sui resti che si impantanano nell'acqua. Così Augusto La Torre aveva fatto con Antonio Nugnes, vicesindaco democristiano scomparso nel nulla nel 1990. Nugnes rappresentava un ostacolo alla volontà del clan di gestire direttamente gli appalti pubblici comunali e di intervenire in tutte le vicende politiche e amministrative. Non voleva alleati, Augusto La Torre, voleva essere lui stesso in prima persona a gestire tutti gli affari possibili. Era una fase in cui le scelte militari non venivano particolarmente ponderate. Prima si sparava e poi si ragionava. Augusto era giovanissimo quando divenne il boss di Mondra-gone. L'obiettivo di La Torre era quello di diventare azionista di una clinica privata in via di costruzione: l'Incal-dana di cui Nugnes possedeva un nutrito pacchetto azionario. Una delle cliniche più prestigiose tra il Lazio e la Campania, a un passo da Roma, che avrebbe attirato un bel po' di imprenditori del basso Lazio, risolvendo il problema della mancanza di strutture ospedaliere efficienti sul litorale domizio e nell'agro pontino. Augusto aveva imposto un nome al consiglio d'amministrazione della clinica, il nome di un suo delfino anch'esso imprenditore del clan, arricchitosi con la gestione di una discarica. Augusto voleva che fosse lui a rappresentare la famiglia. Nugnes si oppose, aveva compreso che la strategia dei La Torre non sarebbe stata soltanto quella di mettere un piede in un grosso affare, ma qualcosa di più. La Torre così mandò un suo emissario dal vicesindaco cercando di ammorbidirlo, per convincerlo ad accettare le sue condizioni di gestione economica degli affari. Per un politico democristiano non era cosa scandalosa entrare in contatto con un boss, trattare con il suo potere imprenditoriale e militare. I clan erano la prima forza economica del territorio, rifiutare un rapporto con loro sarebbe stato come se un vicesindaco torinese avesse rifiutato un incontro con l'amministratore delegato della FIAT. Augusto La Torre non aveva in mente di acquistare alcune quote della clinica a un prezzo vantaggioso, come avrebbe fatto un boss diplomatico, le quote della clinica le voleva gratuitamente. In cambio avrebbe garantito che tutte le sue imprese vincitrici degli appalti di servizio, pulizie, mense, trasporti, guardiane-rie, avrebbero lavorato con professionalità e con un prezzo d'appalto molto vantaggioso. Assicurava che persino le sue bufale avrebbero fatto il latte più buono se quella clinica fosse divenuta la sua. Nugnes fu prelevato dalla sua azienda agricola con la scusa di un incontro con il boss e fu portato in una masseria di Falciano del Massico. Ad attendere Nugnes — secondo le dichiarazioni del boss — c'era oltre lo stesso Augusto, Jimmy ossia Girolamo Rozzera, e Massimo Gitto, Angelo Gagliardi, Giuseppe Valente, Mario Sperlongano e Francesco La Torre. Tutti ad attendere che l'agguato fosse compiuto. Il vicesindaco, appena sceso dall'auto, andò incontro al boss. Mentre Augusto allargava le braccia per salutarlo, biascicò una frase a Jimmy, come il boss ha confessato ai magistrati:

"Vieni, è arrivato zio Antonio."

Un messaggio chiaro e finale. Jimmy si avvicinò alle spalle di Nugnes e sparò due colpi che gli si conficcarono nella tempia, i colpi di grazia li sparò il boss stesso. Il corpo lo gettarono in un pozzo profondo quaranta metri in aperta campagna e lanciarono dentro due bombe a mano. Per anni di Antonio Nugnes non si seppe nulla. Arrivavano telefonate di persone che lo vedevano in mezz'Italia, era invece in un pozzo coperto da quintali di terra. Tredici anni dopo, Augusto e i suoi fedelissimi indicarono ai carabinieri dove poter trovare i resti del vicesindaco che aveva osato opporsi alla crescita dell'azienda dei La Torre. Quando i carabinieri iniziarono a raccogliere i resti, si accorsero che non c'erano quelli di un solo uomo. Quattro tibie, due crani, tre mani. Per più di dieci anni il corpo di Nugnes era stato al fianco di quello di Vincenzo Boccolato, un camorrista legato a Cutolo, che poi con la sconfitta si era avvicinato ai La Torre.

Boccolato era stato condannato a morte perché in una lettera inviata dal carcere a un suo amico aveva pesantemente offeso Augusto. Il boss l'aveva trovata per caso, mentre gironzolava per il soggiorno di un suo affiliato, scartabellando tra fogli e foglietti aveva riconosciuto il suo nome, e incuriosito si era messo a leggere la caterva di insulti e critiche che Boccolato gli dedicava. Già prima di concludere la lettera l'aveva condannato a morte. A ucciderlo mandò Angelo Gagliardi, un ex cutoliano come lui, uno di quelli sulla cui auto sarebbe salito senza sospettare nulla. Gli amici sono i migliori killer, quelli che più di rutti riescono a fare un lavoro pulito, senza rincorrere il proprio obiettivo mentre urla scappando. In silenzio, quando meno se l'aspetta, gli si punta la canna della pistola alla nuca e si fa fuoco. Il boss voleva che le esecuzioni avvenissero in un'intimità amicale. Augusto La Torre non sopportava che la sua persona fosse ridicolizzata, non voleva che qualcuno pronunciando il suo nome potesse associarci subito dopo una risata. Nessuno doveva osare.

Luigi Pellegrino, conosciuto da tutti come Gigiotto, era invece uno di quelli a cui piaceva spettegolare su tutto ciò che riguardava i potenti della sua città. Sono molti i ragazzi che in terra di camorra bisbigliano dei gusti sessuali dei boss, delle orge dei capizona, delle figlie zoccole degli imprenditori dei clan. Ma in genere i boss tollerano, hanno davvero altro a cui pensare e poi è inevitabile che sulla vita di chi comanda si inneschi una sorta di vero e proprio gossip. Gigiotto spettegolava sulla moglie del boss, raccontava in giro di averla vista incontrarsi con uno degli uomini più fidati di Augusto. L'aveva vista accompagnata agli incontri con il suo amante dall'autista stesso del boss. Il numero uno dei La Torre, che tutto gestiva e controllava, aveva la moglie che gli faceva le corna sotto il naso e non se ne accorgeva. Gigiotto raccontava i suoi pettegolezzi con varianti sempre più dettagliate e sempre diverse. Che fosse invenzione o meno, in paese la storiella della moglie del boss che se la intendeva col braccio destro di suo marito ormai la raccontavano tutti e tutti erano bene attenti a citarne la fonte: Gigiotto. Un giorno Gigiotto stava camminando per il centro di Mondragone quando sentì il rumore di una motocicletta avvicinarsi un po' troppo al marciapiede. Appena intuì la decelerazione del motore, iniziò a scappare. Dalla moto partirono dei colpi ma Gigiotto, zigzagando tra pali della luce e persone, riuscì a far scaricare l'intero caricatore al killer che stava ancorato dietro la schiena del motociclista. Il motociclista così dovette rincorrere a piedi Gigiotto che si era rifugiato in un bar tentando di nascondersi dietro al bancone. Tirò fuori la pistola e sparò alla testa davanti a decine di persone che un attimo dopo l'omicidio si dileguarono silenziose e veloci. Secondo le indagini, a volerlo eliminare fu il reggente del clan, Giuseppe Fragnoli, che senza neanche chiedere l'autorizzazione decise di togliere di mezzo la malalingua che tanto stava infangando l'immagine del boss.

Nella mente di Augusto, Mondragone, le sue campagne, la costa, il mare, dovevano essere soltanto un'officina d'impresa, un laboratorio a disposizione di lui e dei suoi imprenditori consorziati, un territorio da cui estrarre materia da frullare nel profitto delle sue aziende. Aveva imposto il divieto assoluto di spacciare droga a Mondragone e sulla costa domizia. L'ordine sommo che i boss casertani davano ai loro sottoposti e a chiunque. Il divieto nasceva da un motivo moralistico, quello di preservare i propri concittadini da eroina e cocaina, ma soprattutto per evitare che sul loro territorio la manovalanza del clan gestendo droga potesse arricchirsi in seno al potere e trovare linfa economica immediata, per contrapporsi ai leader della famiglia. La droga che il cartello mondragonese mediava dall'Olanda alle piazze laziali e romane era tassativamente vietata. I mondrago-nesi dovevano mettersi in macchina e arrivare sino a Roma per comprare fumo, coca ed eroina che giungeva nella capitale dai napoletani, dai Casalesi e dai mondragonesi stessi. Gatti che rincorrevano la propria coda attaccata a un sedere spostato lontano. Il clan creò un gruppo con tanto di rivendicazioni formali ai centralini della polizia, una sigla: il GAD, il gruppo antidroga. Se ti beccavano con uno spinello in bocca ti spaccavano il setto nasale, se qualche moglie scopriva una bustina di coca, bastava facesse arrivare voce a qualcuno del GAD che gli avrebbe fatto passare la voglia di tirare a suon di calci e pugni in faccia e vietando ai benzinai di fare benzina per arrivare a Roma.

Un ragazzo egiziano, Hassa Fakhry, pagò duramente il suo essere eroinomane. Era un guardiano di porci. Quelli neri casertani, una razza rara. Porci scurissimi, più delle bufale, bassi e pelosi, fisarmoniche di grasso da cui si ricavano salsicce magre, salami gustosi e braciole saporose. Un mestiere infame, quello del porcaio. Sempre a spalare sterco e poi a sgozzare a testa in giù porcelli e raccogliere il sangue nelle bacinelle. In Egitto faceva l'autista, ma proveniva da una famiglia di contadini e quindi sapeva come trattare gli animali. Ma non i porci. Era musulmano e i porci gli facevano doppiamente schifo. Meglio però badare ai maiali che dover spalare tutto il giorno la merda delle bufale, come fanno gli indiani. I maiali cacano la metà della metà e i porcili sono di quadratura infinitesimale rispetto alle stalle bovine. Tutti gli arabi lo sanno e per questo accettano di curare i porci, pur di non svenire dalla stanchezza lavorando con i bufali. Hassa iniziò a farsi di eroina, ogni volta andava in treno a Roma, prendeva le dosi e tornava al porcile. Divenendo un vero tossicomane, i soldi non gli bastavano mai e così il suo pu-sher gli consigliò di provare a spacciare a Mondragone, una città senza nessuna piazza di droga. Accettò e così aveva iniziato a vendere fuori al bar Domizia. Aveva trovato una clientela capace di farlo guadagnare in dieci ore di lavoro lo stipendio di sei mesi da porcaio. Bastò una telefonata del titolare del bar, fatta come si fa sempre da queste parti, per far cessare l'attività. Si chiama un amico, che chiama il cugino, che riferisce al suo compare che riporta la notizia a chi deve riferire. Un passaggio di cui si conoscono soltanto il punto iniziale e finale. Dopo pochi giorni gli uomini dei La Torre, autoproclamatisi GAD, andarono direttamente a casa sua. Per non farlo scappare tra porci e bufale, e costringerli quindi a inseguirlo nel fango e nella merda, citofonarono alla sua casupola fingendosi poliziotti. Lo caricarono in auto e iniziarono ad allontanarsi. Ma l'auto non prese la strada del commissariato. Appena Hassa Fakhry comprese che lo stavano per ammazzare ebbe una strana reazione allergica. Come se la paura avesse innescato uno shock anafilattico, il corpo iniziò a gonfiarsi; pareva che qualcuno gli stesse pompando violentemente aria. Lo stesso Augusto La Torre quando raccontò la cosa ai giudici era esterrefatto di quella metamorfosi: gli occhi dell'egiziano si fecero minuscoli come se il cranio li stesse risucchiando, i pori buttavano fuori un sudore denso, di miele, e dalla bocca gli usciva una bava di ricotta. Lo uccisero in otto. Ma a sparare furono soltanto sette. Un pentito, Mario Sperlongano, dichiarò: "Mi sembrava una cosa del tutto inutile e sciocca sparare a un corpo senza vita". Ma era sempre andata così, Augusto era come inebriato dal suo nome, dal simbolo del suo nome. Dietro di lui, dietro ogni sua azione dovevano stare tutti i suoi legionari, i legionari di camorra. Omicidi che potevano essere risolti con pochissimi esecutori, uno, al massimo due, venivano invece portati a termine da tutti i suoi fedelissimi. Spesso veniva chiesto a ogni presente di sparare almeno un colpo, anche se il corpo era già cadavere. Uno per tutti e tutti per uno. Per Augusto tutti i suoi uomini dovevano partecipare, anche quando era superfluo. La continua paura che qualcuno si potesse tirare indietro, lo portava ad agire sempre in gruppo. Poteva accadere che gli affari ad Amsterdam, Abeerden, Londra, Caracas potessero far andar fuori di testa qualche affiliato e convincerlo di potere far da sé. Qui la ferocia è il vero valore del commercio: rinunciare a essa significa perdere ogni cosa. Dopo averlo massacrato, il corpo di Hassa Fakhry fu trafitto per centinaia di volte da siringhe da insulina, le stesse usate dagli eroinomani. Un messaggio sulla pelle che tutti da Mon-dragone a Formia dovevano capire immediatamente. E il boss non guardava in faccia a nessuno. Quando un affiliato, Paolo Montano, detto Zumpariello, uno degli uomini più fidati delle sue batterie di fuoco, iniziò a drogarsi non riuscendo più a staccarsi dalla coca, lo fece convocare da un suo amico fidato a un incontro in una masseria. Giunti sul posto, Ernesto Cornacchia avrebbe dovuto scaricargli contro l'intero caricatore, ma non volle sparare per paura di colpire il boss che si trovava troppo vicino alla vittima. Vedendolo esitare Augusto estrasse la pistola e uccise Montano, i colpi però trapassarono di rimbalzo anche il fianco di Cornacchia, che preferì prendere una pallottola in corpo piuttosto che rischiare di ferire il boss. Anche Zumpariello fu gettato in un pozzo e fatto saltare, alla mondragonese. I legionari avrebbero fatto di tutto per Augusto: anche quando il boss si è pentito l'hanno seguito. Nel gennaio 2003 il boss, dopo l'arresto della moglie, decise di fare il grande passo e si pentì. Accusò se stesso e i suoi fedelissimi di una quarantina di omicidi, fece trovare nelle campagne mondragonesi i resti delle persone che aveva dilaniato nel fondo dei pozzi, denunciò se stesso per decine e decine di estorsioni. Una confessione tarata piuttosto sugli aspetti militari che su quelli economici. Dopo poco tempo i fedelissimi Mario Sperlongano, Giuseppe Valente, Girolamo Rozzera, Pietro Scuttini, Salvatore Orabona, Ernesto Cornacchia, Angelo Gagliardi lo seguirono. I boss, una volta finiti in carcere, hanno nel silenzio l'arma più sicura per conservare autorevolezza, continuare a possedere formalmente il potere anche se il regime di carcere duro li allontana dalla gestione diretta. Ma il caso di Augusto La Torre è particolare: parlando ed essendo seguito da tutti i suoi, non doveva temere con la sua defezione che qualcuno massacrasse la sua famiglia, né effettivamente la sua collaborazione con la giustizia sembra essere stata determinante per intaccare l'impero economico del cartello mondragonese. È stato fondamentale solo per comprendere le logiche delle mattanze e la storia del potere sulla costa casertana e laziale. Augusto La Torre ha parlato del passato, come molti boss di camorra. Senza pentiti la storia del potere non potrebbe essere scritta. La verità dei fatti, i dettagli, i meccanismi, senza pentiti si scoprono dieci, vent'anni dopo, un po' come se un uomo capisse solo dopo la morte come funzionavano i propri organi vitali.

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