lì senti gonfio come dopo una mangiata o una bevuta di pessimo vino. Una paura che non esplode nei manifesti per strada o sui quotidiani. Non ci sono invasioni o cieli coperti di aerei, è una guerra che ti senti dentro. Quasi come una fobia. Non sai se mostrare la paura o invece nasconderla. Non riesci a comprendere se stai esagerando o sottovalutando. Non ci sono sirene d'allarme, ma arrivano le informazioni più discordanti. Dicono che la guerra di camorra sia tra bande, che si ammazzano tra loro. Ma nessuno sa dove si trovano i confini tra ciò che è loro e ciò che non lo è. Le camionette dei carabinieri, i posti di blocco di polizia, gli elicotteri che iniziano a sorvolare a ogni ora, non rasserenano, sembrano quasi restringere il campo. Sottraggono spazio. Non rassicurano. Circoscrivono e rendono lo spazio mortale della lotta ancora più angusto. E ci si sente intrappolati, spalla a spalla, trovando insopportabile il calore dell'altro.

Attraversavo con la mia Vespa questa coltre di tensione. Ogni volta che andavo a Secondigliano durante il conflitto, venivo perquisito almeno una decina di volte al giorno. Se avessi avuto soltanto uno di quei coltellini svizzeri da campeggio me l'avrebbero fatto ingoiare. Mi fermavano i poliziotti, poi i carabinieri, a volte la Finanza, e poi le vedette dei Di Lauro, poi quelle degli Spagnoli. Tutti con la stessa spicciola autorità, gesti meccanici, parole identiche. Le forze dell'ordine prendevano i documenti e poi perquisivano, le sentinelle invece perquisivano e facevano più domande, intuivano un accento, radiografavano le menzogne. Le vedette durante i giorni di massimo conflitto perquisivano tutti. Gettavano gli occhi in ogni auto. Per catalogare i volti, comprendere se fossero armati. Vedevi avvicinarti prima dei motorini che ti sbirciavano anche l'anima, poi delle moto, e infine delle auto che ti seguivano.

Gli infermieri denunciarono che prima di entrare per andare a soccorrere qualcuno, chiunque, non soltanto feriti d'arma da fuoco, ma anche una vecchietta con una frattura al femore o un infartuato, dovevano scendere, farsi perquisire, far entrare nell'autoambulanza una sentinella che controllava se fosse davvero un trasporto sanitario o invece nascondeva armi, killer o persone da far fuggire. Nelle guerre di camorra la Croce Rossa non è riconosciuta, nessun clan ha firmato il trattato di Ginevra. Anche le macchine civetta dei carabinieri rischiano. Una volta una sventagliata di colpi venne scaricata addosso a un'auto con a bordo un gruppo di carabinieri in borghese scambiati per rivali, colpi che non produssero che ferite. Qualche giorno dopo si presenta in caserma un ragazzino con la sua valigetta di biancheria sapendo benissimo come ci si comporta durante un arresto. Confessa tutto e subito, forse perché la punizione che avrebbe avuto per aver sparato ai carabinieri sarebbe stata ben peggiore del carcere. O molto più probabilmente il clan, per non innescare particolari odi privati tra divise e camorristi, l'avrà incoraggiato a consegnarsi promettendogli il dovuto, e il pagamento delle spese di difesa. Il ragazzino entrato in caserma senza esitazione ha dichiarato: "Credevo fossero gli Spagnoli, e ho sparato".

Anche il 7 dicembre mi svegliò una telefonata in piena notte. Un amico fotografo mi avvertiva del blitz. Non di un blitz. Ma del blitz. Quello che politici locali e nazionali chiedevano come gesto di reazione alla faida.

H rione Terzo Mondo è circondato da mille uomini tra poliziotti e carabinieri. Un rione enorme, il cui soprannome rende chiara l'immagine della sua situazione, così come la scritta su un muro all'imbocco della sua strada principale: "Rione Terzo Mondo, non entrate". È una grossa operazione mediatica. Dopo questo blitz, Scampia, Miano, Piscinola, San Pietro a Paterno, Secondigliano, saranno territori invasi da giornalisti e presidi televisivi. La camorra torna a esistere dopo anni di silenzio. D'improvviso. Ma i calibri d'analisi sono vecchi, vecchissimi, non c'è stata alcuna attenzione costante. Come se si fosse ibernato un cervello vent'anni fa e scongelato ora. Come se ci si trovasse di fronte alla camorra di Raffaele Cutolo e alle logiche mafiose che portarono a far saltare le autostrade e uccidere i magistrati. Oggi tutto è mutato tranne gli occhi degli osservatori, esperti e meno esperti. Tra gli arrestati c'è anche Ciro Di Lauro, uno dei figli del boss. Il commercialista del clan, dice qualcuno. I carabinieri sfondano le porte, perquisiscono le persone, e puntano i fucili in faccia a ragazzini. L'unica scena che riesco a vedere è un carabiniere che urla a un ragazzino che gli punta contro un coltello:

"Butta a terra! Butta a terra! Subito! Subito! Buttalo a terra!"

Il ragazzino lascia cadere. Il carabiniere allontana il coltello con un calcio e questo rimbalzando contro un battiscopa fa rientrare la sua lama nel manico. È di plastica, un coltello delle tartarughe ninja. I militari intanto presidiano, fotografano, si muovono ovunque. Decine di fortini vengono abbattuti. Sventrati muri di cemento armato edificati nei sottoscala dei palazzi per creare depositi di droga, sfondati i cancelli che andavano a chiudere intere porzioni di strade per organizzare i magazzini di droga.

Centinaia di donne scendono per strada, bruciano cassonetti, lanciano oggetti contro le volanti. Stanno arrestando i loro figli, nipoti, vicini di casa. I loro datori di lavoro. Eppure non riuscivo a vedere su quei visi, in quelle parole di rabbia, in quelle cosce fasciate da tute così attillate che sembrano sul punto di esplodere, non riuscivo a vedere solo una solidarietà criminale. Il mercato della droga è fonte di sostentamento, un sostentamento minimo che per la parte maggiore della gente di Secondigliano non ha alcun valore d'arricchimento. Gli imprenditori dei clan sono gli unici ad averne un vantaggio esponenziale. Tutti quelli che lavorano nell'indotto di smercio, deposito, nascondiglio, presidio, non ricevono che stipendi ordinari a fronte di arresti, mesi e anni in carcere. Quei visi avevano maschere di rabbia. Una rabbia che sa di succo gastrico. Una rabbia che è sia difesa del proprio territorio, sia un'accusa contro chi quel luogo l'ha sempre considerato inesistente, perduto, da dimenticare.

Questo gigantesco dispiegamento di forze dell'ordine che arriva all'improvviso solo dopo decine di morti, solo dopo il corpo bruciato e torturato di una ragazza del quartiere, sembra una messa in scena. Le donne di qui sentono puzza di presa in giro. Gli arresti, le ruspe, sembrano qualcosa che non va a modificare lo stato di cose, ma solo un'operazione a favore di chi ora ha necessità di arrestare e buttare giù pareti. Come se d'improvviso qualcuno cambiasse le categorie d'interpretazione e dicesse che la loro vita è sbagliata. Lo sapevano benissimo che lì era tutto sbagliato, non dovevano arrivare elicotteri e blindati a ricordarlo, ma sino ad allora quell'errore era la loro forma prima di vita, la loro forza di sopravvivenza. In più nessuno, dopo quell'irruzione che la complicava e basta, avrebbe davvero cercato di cambiarla in meglio. E allora quelle donne volevano gelosamente custodire l'oblio di quell'isolamento, di quell'errore di vita e cacciare chi d'improvviso s'è accorto del buio.

I giornalisti erano appostati nelle loro macchine. Ma soltanto dopo aver lasciato fare e non aver intralciato gli stivali dei carabinieri iniziarono a riprendere il blitz. Alla fine dell'operazione ammanettarono cinquantatré persone, il più giovane era dell'85. Erano tutti cresciuti nella Napoli del Rinascimento, nel percorso nuovo che avrebbe dovuto mutare il destino degli individui. Mentre entrano nei cellulari della polizia, mentre vengono ammanettati dai carabinieri, tutti sanno cosa fare: chiamare questo o quell'avvocato, aspettare che il 28 del mese a casa arrivi lo stipendio del clan, i pacchi di pasta per mogli o madri. I più preoccupati sono gli uomini che hanno a casa figli adolescenti, non sanno il ruolo che gli verrà assegnato dopo il loro arresto. Ma su questo non possono mettere bocca.

Dopo il blitz la guerra non conosce sosta. Il 18 dicembre Pasquale Galasso, omonimo di uno dei boss più potenti degli anni '90, viene fatto fuori dietro al bancone di un bar. E poi Vincenzo Iorio ucciso il 20 dicembre in pizzeria. Il 24 ammazzano Giuseppe Pezzella, trentaquattro anni. Cerca di rifugiarsi in un bar, ma gli scaricano un caricatore contro. Per Natale la pausa. Le batterie di fuoco si fermano. Ci si riorganizza. Si cerca di dare regola e strategia al più sregolato dei conflitti. Il 27 dicembre Emanuele Leone viene ammazzato con un colpo alla testa. Aveva ventun'anni. Il 30 dicembre ammazzano gli Spagnoli: uccidono Antonio Scafuro, ventisei anni e colpiscono alla gamba suo figlio. Era parente del ca-pozona dei Di Lauro a Casavatore.

La cosa più complessa era comprendere. Comprendere come era stato possibile per i Di Lauro riuscire a condurre un conflitto da vincenti. Colpire e scomparire. Schermarsi tra le persone, sperdersi nei quartieri. Lotto T, le Vele, Parco Postale, le Case Celesti, le Case dei Puffi, il Terzo Mondo divengono come una sorta di giungla, una foresta pluviale di cemento armato dove confondersi, dove sparire più facilmente che altrove, dove è più facile risultare dei fantasmi. I Di Lauro avevano perso tutti i dirigenti e i capizona, ma erano riusciti a innescare una guerra spietata senza perdite gravissime. Era come se uno Stato avesse subito un golpe, e il Presidente destituito — per conservare il proprio potere e tutelare i propri interessi — avesse armato i ragazzini delle scuole e fatto divenire i postini, i funzionari, i capiufficio, le nuove leve militari. Concedendo loro di entrare nel nuovo centro del potere e non relegandoli più al rango di ingranaggi secondari.

Ugo De Lucia, fedelissimo dei Di Lauro accusato dalla DDA di Napoli di essere responsabile dell'omicidio di Gelso-mina Verde, viene intercettato, come riportato nell'ordinanza del dicembre 2004, da una cimice nascosta in auto:

"Io senza ordine non mi muovo, come sono fatto io!"

Il perfetto soldato mostra la totale obbedienza a Cosimo. Poi commenta l'episodio di un ferimento.

"Io l'ammazzavo, mica gli sparavo in una gamba se ero io gli spappolavo le membrane lo sai!… Appoggiamoci nel rione mio, è tranquillo possiamo lavorare là…"

Ugariello come lo chiamano nel suo quartiere, avrebbe ucciso, mai soltanto ferito.

"Adesso dico io, siamo solo noi, mettiamoci… tutti quanti in un posto… teniamoci nei dintorni cinque in una casa… cinque in un'altra… e cinque in un'altra e ci mandate a chiamare solo quando dobbiamo scendere per sfondargli il cervello!" ^

Organizzare gruppi di fuoco di cinque persone, farli rinta-nare in case sicure, uscire dai nascondigli solo per uccidere. Non fare altro. I gruppi di fuochi li chiamano paranze. Ma Petrone, il suo interlocutore, non è tranquillo:

"Sì, ma se un cornuto di questi va a finire che trova qualche paranza nascosta da qualche parte, ci vedono ci seguono ci schiattano il cervello… almeno un paio di morti facciamoli prima di morire, capito che dico io! Almeno fammeli eliminare quattro, cinque di loro!"

L'ideale per Petrone è ammazzare chi non sa di essere stato scoperto:

"La cosa più semplice è quando sono compagni, te li carichi in macchina e te li porti…"

Vincono perché sono più imprevedibili nel colpire, ma anche perché prevedono già il loro destino. Prima della fine devono, però, infliggere quante più perdite è possibile al nemico.

Una logica kamikaze senza esplosioni. L'unica che in una situazione di minoranza può far sperare in una vittoria. Prima di organizzarsi in paranze iniziano subito a colpire.

Il 2 gennaio 2005 ammazzano Crescenzo Marino, il padre dei McKay. La faccia appesa all'indietro in un'auto insolita per un uomo di settant'anni, una Smart. La più costosa della serie. Forse credeva fosse sufficiente per distrarre le vedette, sembra che un unico colpo l'abbia centrato nella fronte. Niente sangue se non un rivolo che gli attraversa il viso. Forse credeva che uscire di casa per un attimo, un frammento di minuti, non sarebbe stata cosa pericolosa. È però bastato. Lo stesso giorno gli Spagnoli fanno fuori Salvatore Barra in un bar a Casavatore. A Napoli quel giorno arriva il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a chiedere alla città di reagire, a lanciare parole di coraggio istituzionale, di vicinanza dello Stato. Avvengono tre agguati solo nelle ore del suo intervento.

Il 15 gennaio sparano in pieno viso a Carmela Attrice, madre dello scissionista Francesco Barone, "'o russo", indicato nelle indagini come uomo stretto dei McKay. Da tempo la donna non usciva di casa, così per eliminarla usano un ragazzino come esca. Citofona. La signora lo conosce, sa bene chi è, non pensa a nessun pericolo. Scende ancora in pigiama, apre il portone, e qualcuno le punta la canna della pistola in faccia e spara. Sangue e liquido cerebrale escono dalla sua testa come da un uovo rotto.

Quando arrivai sul luogo dell'agguato, alle Case Celesti, non avevano ancora messo il lenzuolo sul corpo. Le persone camminavano nel suo sangue, lasciando le orme ovunque. Deglutii forte, un modo per calmare lo stomaco. Carmela Attrice non era scappata. L'avevano avvertita, sapeva che suo figlio stava con gli Spagnoli, ma l'incertezza della guerra di camorra è questa. Nulla è definito e chiaro. Tutto diviene vero solo quando si compie. Non esiste nelle dinamiche del potere, del potere totale, qualcosa che vada oltre il concreto. E così fuggire, rimanere, scappare, denunciare, divengono scelte troppo sospese, incerte, ogni consiglio trova sempre un con-

trailo gemello, e solo qualche accadimento concreto può far prendere una decisione. Ma quando avviene, la decisione non si può che subirla.

Quando si muore per strada si finisce con un chiasso orrendo intorno. Non è vero che si muore da soli. Si finisce con facce che non si conoscono davanti al naso, persone che toccano gambe e braccia per capire se il corpo è già cadavere o vale la pena chiamare l'autoambulanza. Il viso dei feriti gravi, il volto delle persone che stanno per morire sembrano tutti accomunati dalla stessa paura. E dalla stessa vergogna. Sembra strano, ma un attimo prima di finire c'è come una specie di vergogna. Lo scuorno, dicono qui. Un po' come stare nudi tra la gente. La stessa sensazione avviene quando si è colpiti a morte per strada. Non mi sono mai abituato a vedere i morti ammazzati. Infermieri, poliziotti, tutti sono calmi, impassibili, fanno i loro gesti imparati a memoria chiunque abbiano avanti. "Abbiamo il callo sul cuore e il cuoio che fodera lo stomaco" mi ha detto un giovanissimo autista di auto mortuarie. Quando si arriva prima dell'autoambulanza è difficile staccare gli occhi dal ferito, anche se si vorrebbe non aver mai visto. Mai compreso che quello è il modo in cui si muore. La prima volta che ho visto un morto ammazzato avrò avuto tredici anni. Mi ricordo quella giornata benissimo. Mi svegliai con un imbarazzo tremendo poiché dal pigiama, indossato senza mutande, penzolava una chiara erezione non voluta. Quella classica della mattina, impossibile da dissimulare. Mi ricordo quest'episodio perché mentre stavo andando a scuola m'imbattei in un cadavere nella mia stessa situazione. Eravamo in cinque, con gli zainoni carichi di libri. Avevano crivellato una Alfetta e sulla strada per la scuola ce la trovammo davanti. I miei compagni si catapultarono curiosissimi a guardare. Si vedevano i piedi in aria su sediolino. H più temerario tra noi chiese a un carabiniere come mai dove si poggia la testa ci fossero i piedi. Il carabiniere non esitò a rispondere, come se non si fosse accorto di quanti anni aveva il suo interlocutore.

"I colpi di pioggia l'hanno fatto capotare…"

Ero ragazzino, ma sapevo che colpi di pioggia significava colpi di mitra. Quel camorrista ne aveva presi talmente tanti che il corpo si era capovolto. Testa in giù e piedi all'aria. Poi i carabinieri aprirono lo sportello, il cadavere cadde a terra come un ghiacciolo squagliato. Noi guardavamo indisturbati, senza che nessuno ci dicesse che non era spettacolo per bambini. Senza nessuna mano morale che ci venisse a coprire gli occhi. Il morto aveva un'erezione. Dal jeans attillato si vedeva chiaramente. E la cosa mi sconvolse. Fissai la scena per moltissimo tempo. Per giorni pensai a come potesse essere accaduto. A cosa stesse pensando, cosa stesse facendo prima di morire. Riempii i miei pomeriggi cercando di ipotizzare cosa avesse in mente prima di crepare; fui tormentato sino a quando ebbi il coraggio di chiedere spiegazione e mi fu detto che l'erezione era una reazione comune nei cadaveri dei morti ammazzati. Quella mattina Linda, una ragazzina del nostro gruppo, appena vide il cadavere scivolare dalla portiera dell'auto, iniziò a piangere e si tirò dietro altri due ragazzi. Un pianto strozzato. Un giovane in borghese prese per i capelli il cadavere, gli sputò in faccia. E rivolgendosi a noi disse:

"No, e che piangete a fare? Questo era una chiavica, non è successo niente, va tutto bene. Non è successo niente. Non piangete…"

Da allora, alle scene della polizia scientifica con i guanti che cammina con passo felpato, attenta a non spostare polvere e bossoli, non sono mai più riuscito a crederci. Quando arrivo vicino ai corpi prima delle autoambulanze e fisso gli ultimi momenti di vita di chi si sta accorgendo di morire, mi viene sempre in mente il finale di Cuore di tenebra, quando una donna chiede a Marlowe, ormai tornato in patria, dell'uomo che ha amato, chiede cos'ha detto Kurtz prima di morire. E Marlowe mente. Risponde che ha chiesto di lei, mentre in realtà non ha pronunciato nessuna parola dolce e nessun pensiero prezioso. Kurtz ha detto solo: "L'orrore". Si pensa che l'ultima parola pronunciata da un moribondo sia il suo pensiero ultimo, il più importante, quello fondamentale. Che si muoia pronunciando ciò per cui è valso la pena vivere. Non è così. Quando uno muore non viene fuori nulla, se non la paura. Tutti o quasi tutti ripetono la stessa frase, banale, semplice, immediata: "Non voglio morire". Facce che si sono sempre sovrapposte a quella di Kurtz, visi che esprimono lo strazio, lo schifo e il rifiuto di finire in modo orrendo, nel peggiore dei mondi possibili. Nell'orrore.

Dopo aver visto decine di morti ammazzati, imbrattati del loro sangue che si mescola allo sporco, esalanti odori nauseabondi, guardati con curiosità o indifferenza professionale, scansati come rifiuti pericolosi o commentati da urla convulse, ne ho ricavato una sola certezza, un pensiero tanto elementare che rasenta l'idiozia: la morte fa schifo.

A Secondigliano i ragazzi, i ragazzini, i bambini hanno perfettamente idea di come si muore e di come è meglio morire. Stavo per andarmene dal luogo dell'agguato a Carmela Attrice quando sentii parlare un ragazzino con un suo compagno. I toni erano serissimi:

"Io voglio morire come la signora. In testa, pam pam… e finisce tutto."

"Ma in faccia, l'hanno colpita in faccia, in faccia è peggio!"

"No, non è peggio, è un attimo comunque. Avanti o dietro, sempre testa è!"

Mi intrufolai nei discorsi cercando di dire la mia e facendo domande. E così chiesi ai ragazzini:

"Meglio essere colpito al petto, no? Un colpo al cuore ed è finita…"

Ma il ragazzino conosceva molto meglio di me le dinamiche del dolore e iniziò a raccontare nel dettaglio i dolori della botta, ossia il colpo d'arma da fuoco, con una professionalità da esperto.

"No, al petto fa male, malissimo e muori dopo dieci minuti. Si devono riempire i polmoni di sangue e poi la botta è come uno spillo di fuoco che entra e te lo girano dentro. Fa male pure sulle braccia e le gambe. Ma lì è come un morso fortissimo di un serpente. Un morso che non lascia mai la carne. Invece la testa è meglio, così non ti pisci sotto, non ti esce la merda per fuori. Non sparpetei per mezz'ora a terra…"

Aveva visto. E ben più di un corpo. Essere colpiti alla testa evita di tremare dalla paura, pisciarsi sotto e far uscire la puzza, la puzza delle interiora dai buchi nella pancia. Continuai a fargli domande sui dettagli della morte, sugli agguati. Tutte le domande possibili tranne l'unica che avrei dovuto fare, ossia chiedergli perché a quattordici anni pensava a come morire. Ma questo pensiero non mi sfiorò neanche per un momento. Il ragazzino si presentò col soprannome. Gli veniva dai Pokemon, i cartoni animati giapponesi. Il ragazzino era biondo e chiatto, quanto bastava per ribattezzarlo Pika-chu. Mi indicò due tizi, tra la folla che si era creata intorno al corpo della donna uccisa, si erano messi a guardare il cadavere. Pikachu abbassò la voce:

"Ecco quelli, li vedi, sono quelli che hanno ammazzato Pupetta…"

Carmela Attrice era chiamata Pupetta. Cercai di fissare in volto i ragazzi che Pikachu mi aveva indicato. Avevano un'aria emozionata, palpitante, spostavano teste e spalle per meglio vedere i poliziotti che coprivano il corpo. Avevano ucciso la donna a viso scoperto, poi si erano seduti nelle vicinanze, sotto la statua di Padre Pio e appena un po' di folla si era raccolta intorno al cadavere erano andati a vedere. Qualche giorno dopo li beccarono. Un gruppo nutrito per un agguato a una donna inoffensiva, uccisa in pantofole e pigiama. Un gruppo al battesimo del fuoco, l'indotto dello spaccio al dettaglio che si muta in braccio armato. Il più giovane aveva sedici anni, il più vecchio ventotto. Il presunto assassino ventidue. Quando li arrestarono, uno di loro vedendo i flash e le telecamere iniziò a ridere e a fare l'occhiolino ai giornalisti. Arrestarono anche la presunta esca, il sedicenne che aveva citofonato per far scendere la donna. Sedici anni, gli stessi della figlia di Carmela Attrice, che quando sente i colpi si affaccia al balcone e inizia a piangere perché ha capito subito. Anche secondo le indagini gli esecutori erano tornati sul luogo del delitto. Troppa curiosità. Come partecipare al proprio film. Prima nel ruolo dell'attore e poi in quello dello spettatore, ma all'interno della stessa pellicola. Dev'essere vero che chi spara non riesce ad avere preciso ricordo del gesto che compie perché quei ragazzi sono tornati curiosissimi a vedere cos'avevano combinato e che faccia aveva la loro vittima. Chiesi a Pikachu se quei tìzi erano una paranza dei Di Lauro, o almeno ne volevano costituire una. Il ragazzino iniziò a ridere:

"Ma quale paranza… vorrebbero essere 'na paranza… ma sono piscitielli di cannuccia, io l'ho vista una paranza…"

Non sapevo se Pikachu mi stesse raccontando balle o semplicemente avesse assemblato cose che sentiva in giro per Scampia, ma la sua narrazione era precisa. Un ragazzino pignolo nei suoi racconti, puntuale al punto da rendere irreale ogni dubbio. Era contento di vedere il mio viso stupito mentre raccontava. Pikachu mi raccontò che aveva un cane chiamato Careca, come l'attaccante brasiliano del Napoli campione d'Italia. Questo cane usciva spesso sul pianerottolo di casa. Un giorno sentendo qualcuno dietro la porta della casa di fronte, solitamente vuota, iniziò a grattarla con le unghie delle zampe. Dopo pochi secondi una raffica di mitra sputata da dietro la porta lo prese in pieno. Pikachu mi raccontava la cosa riproducendomi tutti i rumori:

"Tratratra… Careca morì subito subito… e la porta pam… si aprì… di botto."

Pikachu si mise per terra vicino a un muretto, seduto sul sedere con i piedi poggiati al muro e le braccia che mimavano il calcio di un mitra in mano. Mi fece vedere come era posizionata la sentinella che gli aveva ammazzato il cane. Sentinella sempre dietro la porta. Seduta, con dietro la schiena un cuscino e le piante dei piedi poggiate ai lati della porta. Una posizione scomoda per evitare che venga il sonno e soprattutto perché sparare dal basso verso l'alto avrebbe eliminato con certezza chiunque si fosse parato dinanzi alla porta, senza colpire la sentinella. Pikachu mi raccontò che quando avevano ucciso il cane, per scusarsi diedero dei soldi alla famiglia, e poi lo invitarono a entrare in casa. Nella casa dove un'intera paranza era nascosta. Ricordava tutto, le stanze vuote, solo con dei letti, un tavolo e la televisione.

Parlava veloce Pikachu, gesticolando forte e disegnandomi posizioni, movimenti dei membri della paranza. Nervosi, tesi, e con un personaggio che aveva "gli ananassi" al collo. Gli ananassi sono le bombe a mano che gli uomini delle paranze portano addosso. Pikachu raccontò che c'era un cesto vicino a una finestra, pieno di ananassi. I clan camorristici hanno sempre avuto una particolare predilezione per le bombe a mano. Ovunque gli arsenali dei clan erano colmi di bombe a mano e anticarro, tutte provenienti dall'est Europa. Pikachu raccontava che nella stanza passavano ore a giocare alla playstation e lui aveva sfidato e battuto tutti i membri della paranza. Vìnceva sempre e gli promettevano che "un giorno di questi mi portavano con loro a sparare veramente".

Una delle leggende del quartiere, una di quelle a cui crescono ancora i capelli, racconta infatti che Ugo De Lucia giocava ossessivamente a Winning Eleven, il videogioco del calcio più celebre della playstation. In quattro giorni avrebbe commesso — secondo le accuse — non solo tre omicidi, ma anche terminato un campionato di calcio al videogame.

Ciò che racconta il pentito Pietro Esposito detto "Kojak" invece non sembra essere una leggenda. Era entrato in una casa dove Ugo De Lucia stava disteso sul letto davanti alla televisione commentando le notizie:

"Abbiamo fatto altri due pezzi! E quegli altri hanno fatto un pezzo nel Terzo Mondo."

La televisione era il modo migliore per tenere il passo in tempo reale con la guerra senza dover fare telefonate compromettenti. Da questo punto di vista l'attenzione mediatica che la guerra aveva attirato su Scampia era un vantaggio strategico militare. Ciò che però mi aveva colpito di più era il termine "pezzo". Pezzo era il nuovo modo per definire un omicidio. Anche Pikachu quando parlava dei morti della guerra di Secondigliano parlava dei pezzi fatti dai Di Lauro e dei pezzi fatti dagli scissionisti. "Fare un pezzo": un'espressione mutuata dal lavoro a cottimo, l'uccisione di un uomo equiparata alla fabbricazione di una cosa, non importa quale. Un pezzo.

Io e Pikachu iniziammo a passeggiare e mi raccontò dei ragazzini del clan, la vera forza dei EH Lauro. Gli chiesi dove si riunivano e lui si propose di accompagnarmi, lo conoscevano tutti e voleva dimostrarmelo. C'era una pizzeria dove la sera si incontravano. Prima di andarci passammo a prendere un amico di Pikachu, uno di quelli che facevano da tempo parte del Sistema. Pikachu lo adorava, lo descriveva come una sorta di boss, era un riferimento tra i ragazzini di Sistema perché aveva avuto il compito di rifocillare i latitanti e, a suo dire, fare la spesa direttamente alla famiglia Di Lauro. Si chiamava Tonino Kit Kat, perché divorava quintali di snack. Kit Kat si atteggiava a piccolo boss, ma io mi mostravo scettico. Gli facevo domande a cui si scocciava di rispondere, e così alzò il maglione. Aveva tutto il torace pieno di lividi sferici. Al centro delle circonferenze viola apparivano grumi gialli e verdastri di capillari sfasciati.

"Ma che hai fatto?"

"Il giubbetto…"

"Giubbetto?"

"Sì, il giubbetto antiproiettili…"

"E mica il giubbetto fa questi lividi?"

"Ma le melanzane sono le botte che ho preso…"

I lividi, le melanzane, erano il frutto dei colpi di pistola che il giubbotto fermava un centimetro prima di arrivare a entrare nella carne. Per addestrare a non avere paura delle armi facevano indossare il giubbotto ai ragazzini e poi gli sparavano addosso. Un giubbotto da solo non bastava a spingere un individuo a non fuggire dinanzi a un'arma. Un giubbotto non è il vaccino alla paura. L'unico modo per anestetizzare ogni timore

era mostrare come le armi potevano essere neutralizzate. Mi raccontavano che li portavano in campagna, appena fuori Secondigliano. Gli facevano indossare i giubbotti antiproiettile sotto le magliette, e poi uno per volta gli scaricavano contro mezzo caricatore di pistola. "Quando arriva la botta cadi per terra e non respiri più, apri la bocca e tiri il fiato, ma non entra niente. Non ce la fai proprio. Sono come cazzotti in petto, ti sembra di schiattare… ma poi ti rialzi, è questo l'importante. Dopo la botta, ti rialzi." Kit Kat era stato addestrato insieme ad altri a prendere i colpi, un addestramento a morire, anzi a quasi morire.

Li arruolano appena diventano capaci di essere fedeli al clan. Hanno dai dodici ai diciassette anni, molti sono figli o fratelli di affiliati, molti altri invece provengono da famiglie di precari. Sono il nuovo esercito dei clan della camorra napoletana. Vengono dal centro storico, dal quartiere Sanità, da Forcella, da Secondigliano, dal rione San Gaetano, dai Quartieri Spagnoli, dal Pallonetto, vengono reclutati attraverso affiliazioni strutturate in diversi clan. Per numero sono un vero e proprio esercito. I vantaggi per i clan sono molteplici, un ragazzino prende meno della metà dello stipendio di un affiliato adulto di basso rango, raramente deve mantenere i genitori, non ha le incombenze di una famiglia, non ha orari, non ha necessità di un salario puntuale e soprattutto è disposto a essere perennemente per strada. Le mansioni sono diverse e di diversa responsabilità. Si inizia con lo spaccio di droga leggera, hashish soprattutto. Quasi sempre i ragazzini si posizionano nelle strade più affollate, col tempo iniziano a spacciare pasticche e ricevono quasi sempre in dotazione un motorino. Infine la cocaina, che portano direttamente nelle università, fuori dai locali, dinanzi agli alberghi, alle stazioni della metropolitana. I gruppi di baby-spacciatori sono fondamentali nell'economia flessibile dello spaccio perché danno meno nell'occhio, vendono droga tra un tiro di pallone e una corsa in motorino e spesso vanno direttamente al domicilio del cliente. Il clan in molti casi non costringe i ragazzini a lavorare di mattina, continuano infatti a frequentare la scuola dell'obbligo, anche perché se decidessero di evaderla sarebbero più facilmente rintracciabili. Spesso i ragazzini affiliati dopo i primi mesi di lavoro vanno in giro armati, un modo per difendersi e farsi valere, una promozione sul campo che promette la possibilità di scalare i vertici del clan; pistole automatiche e semiautomatiche che imparano a usare nelle discariche di spazzatura della provincia o nelle caverne della Napoli sotterranea.

Quando diventano affidabili e ricevono la totale fiducia di un capozona, allora possono rivestire un ruolo che va ben oltre quello di pusher, diventano "pali". Controllano in una strada della città, a loro affidata, che i camion che accedono per scaricare merce a supermarket, negozi o salumerie, siano quelli che il clan impone oppure, in caso contrario, segnalano quando il distributore di un negozio non è quello "prescelto". Anche nella copertura dei cantieri è fondamentale la presenza dei "pali". Le ditte appaltataci spesso subappaltano a imprese edili dei gruppi camorristici, ma a volte il lavoro è assegnato a ditte "non consigliate". I clan per scoprire se i cantieri subappaltano i lavori a ditte "esterne" hanno bisogno di un monitoraggio continuo e insospettabile. Il lavoro è affidato ai ragazzini che osservano, controllano, portano voce al capozona e da questi prendono ordini su come agire in caso il cantiere abbia "sgarrato". Questi ragazzini affiliati hanno comportamenti e responsabilità da camorristi maturi. Iniziano la carriera molto presto, bruciano le tappe e la loro scalata ai posti di potere all'interno della camorra sta radicalmente modificando la struttura genetica dei clan. Capizona bambini, boss giovanissimi divengono interlocutori imprevedibili e spietati che seguono nuove logiche, impedendo a forze dell'ordine e Antimafia di comprenderne le dinamiche. Sono volti tutti nuovi e sconosciuti. Con la ristrutturazione del clan voluta da Cosimo, interi comparti dello spaccio vengono gestiti da quindicenni e sedicenni che danno ordini a quarantenni e cinquantenni, senza sentire neanche per un attimo soggezione o inadeguatezza. Un ragazzo, Antonio Galeota Lanza viene intercettato dalle cimici dei carabinieri in auto con lo stereo alto, mentre racconta come si vive facendo il pusher.

"… Ogni domenica sera faccio ottocento o novecento euro, anche se quello del pusher è un mestiere che ti porta ad avere a che fare con crack, cocaina e cinquecento anni di carcere…"

Sempre più spesso tutto ciò che i ragazzini del Sistema vogliono cercano di ottenerlo con il "ferro", così come chiamano la pistola, e il desiderio di un cellulare o di uno stereo, di un'auto o di un motorino, facilmente si tramuta in un assassinio. Nella Napoli dei bambini-soldato non è raro sentire vicino alla cassa dei negozi, nelle botteghe o nei supermarket affermazioni del tipo: "Appartengo al Sistema di Secondi-gliano" oppure "Appartengo al Sistema dei Quartieri". Parole magiche attraverso cui i ragazzini prendono ciò che vogliono e dinanzi alle quali nessun commerciante chiederà mai di pagare il dovuto.

A Secondigliano questa nuova struttura di ragazzi era stata militarizzata. Li avevano convertiti in soldati. Pikachu e Kit Kat mi portarono da Nello, un pizzaiolo della zona che aveva l'incarico di dare da mangiare ai ragazzini del Sistema, quando finivano il loro turno. Entrò un gruppo appena misi piede nella pizzeria. Erano goffi, goffissimi, gonfi sotto i maglioni per i giubbotti antiproiettile. Lasciarono i motorini sui marciapiedi e poi entrarono senza salutare nessuno. Somigliavano nei movimenti e con i petti imbottiti a giocatori di football americano. Facce da ragazzini, qualcuno aveva anche la prima barba sulle guance, andavano dai tredici ai sedici anni. Pikachu e Kit Kat mi fecero sedere tra loro, a nessuno la cosa sembrò dispiacere. Mangiavano e soprattutto bevevano. Acqua, Coca Cola, Fanta. Una sete incredibile. Anche con la pizza volevano dissetarsi, si fecero portare una bottiglia d'olio, aggiunsero olio e ancora olio su ogni pizza perché sostenevano che erano troppo asciutte. Tutto nella loro bocca era stato seccato, dalla saliva alle parole. Mi accorsi subito che venivano dalle nottate di guardia e avevano preso pasticche. Gli davano le pasticche di MDMA. Per non farli addormentare, per evitare che si fermino a mangiare due volte al giorno. Del resto la MDMA venne brevettata dai laboratori Merck in Germania per essere somministrata ai soldati in trincea nella Prima guerra, quei soldati tedeschi che venivano chiamati Men-schenmaterial, materiale umano che così superava fame, gelo, e terrore. Poi fu usata anche dagli americani per operazioni di spionaggio. Ora anche questi piccoli soldati avevano avuto il loro quantitativo di coraggio artificiale e resistenza artefatta. Mangiavano succhiando gli spicchi di pizza che tagliavano. Dal tavolo proveniva un rumore simile a quello dei vecchi che succhiano il brodo dal cucchiaio. I ragazzi ripresero la parola, continuarono a ordinare bottiglie d'acqua. E lì feci un gesto che avrebbe potuto essere punito con violenza, ma sentivo che potevo farlo, sentivo che davanti avevo dei ragazzini. Imbottiti di lastre di piombo, ma pur sempre ragazzini. Misi un registratore in tavola e mi rivolsi ad alta voce a tutti, cercando di incrociare gli occhi di ognuno:

"Forza, parlate qua dentro, dite quello che volete…"

A nessuno parve strano il mio gesto, a nessuno venne in mente di stare davanti a uno sbirro o un giornalista. Qualcuno iniziò a urlacchiare qualche insulto al registratore, poi un ragazzino spinto da qualche mia domanda mi raccontò la sua carriera. E pareva non vedesse l'ora di farlo.

"Prima lavoravo in un bar, prendevo duecento euro al mese; con le mance arrivavo a duecentocinquanta e non mi piaceva come lavoro. Io volevo lavorare nell'officina con mio fratello, ma non mi hanno preso. Nel Sistema prendo trecento euro a settimana, ma se vendo bene prendo anche una percentuale su ogni mattone (il lingotto di hashish) e posso arrivare a trecentocinquanta-quattrocento euro. Mi devo fare il mazzo, ma alla fine qualcosa in più me la danno sempre."

Dopo una mitragliata di rutti che due ragazzetti vollero registrare, il ragazzino che veniva chiamato Satore, un nome a metà tra Sasà e Totore, continuò:

"Prima stavo sempre in mezzo alla strada, mi scocciava il fatto di non avere il motorino e me la dovevo fare a piedi o con gli autobus. Mi piace come lavoro, tutti mi rispettano e poi posso fare quello che voglio. Mo però mi hanno dato il ferro e devo sempre stare qua. Terzo Mondo, Case dei Puffi. Sempre chiuso qua dentro, avanti e indietro. E non mi piace." Satore mi sorrise e poi urlò ridendo nel registratore: "Fatemi uscire da qua!… Diteglielo al masto!" Li avevano armati, gli avevano dato il ferro, la pistola, e un territorio limitatissimo in cui lavorare. Kit Kat poi continuò a parlare nel registratore poggiando le labbra ai fori del microfono, registrando anche il suo fiato.

"Io voglio aprirmi una ditta per ristrutturare le case oppure un magazzino o un negozio, il Sistema mi deve dare i soldi per aprire, poi al resto ci penso io, pure a chi sposarmi. Mi devo sposare non una di qua, ma una modella, nera o tedesca." Pikachu cacciò un mazzo di carte dalla tasca, quattro di loro cominciarono a giocare. Gli altri si alzarono stiracchiandosi, ma nessuno si tolse il giubbotto. Continuai a chiedere a Pikachu delle paranze, ma stava iniziando a essere infastidito dalla mia insistenza. Mi disse che c'era stato qualche giorno prima a casa di una paranza e che avevano smantellato tutto, era rimasto solo un lettore Mp3 che ascoltavano quando andavano a fare i pezzi. L'Mp3 che ascoltavano gli uomini della paranza mentre andavano ad ammazzare, la raccolta di file musicali, penzolava al collo di Pikachu. Con una scusa gli chiesi di prestarmelo qualche giorno. Lui fece una risata come per dirmi che non si offendeva se l'avevo preso per uno così stupido, per un idiota, che presta le cose. Così glielo comprai, cacciai cinquanta euro e ottenni il lettore. Ficcai subito le cuffie nelle orecchie, volevo capire qual era il sottofondo musicale della mattanza. Mi aspettavo musica rap, rock pesante, heavy metal, invece era un continuo susseguirsi di brani neomelodici e di musica pop. In America si spara gonfiandosi col rap, i killer di Secondigliano andavano a uccidere ascoltando canzoni d'amore.

Pikachu iniziò a smazzare le carte chiedendomi se volevo partecipare, ma a carte sono sempre stato incapace. Così mi alzai dal tavolo. I camerieri della pizzeria avevano la stessa età dei ragazzi di Sistema e li guardavano ammirati, senza neanche avere il coraggio di servirli. Ci pensava direttamente il proprietario. Qui lavorare come garzone, cameriere, o in un cantiere è come un'ignominia. Oltre ai soliti eterni motivi: lavoro nero, ferie e malattie non pagate, dieci ore di media al giorno, non hai speranza di poter migliorare la tua condizione. Il Sistema concede almeno l'illusione che l'impegno sia riconosciuto, che ci sia la possibilità di fare carriera. Un affiliato non verrà mai visto come un garzone, le ragazzine non penseranno mai di essere corteggiate da un fallito. Questi ragazzini imbottiti, queste ridicole vedette simili a marionette da football americano, non avevano in mente di diventare Al Capone, ma Flavio Briatore, non un pistolero, ma un uomo d'affari accompagnato da modelle: volevano diventare imprenditori di successo.

Il 19 gennaio viene ammazzato il quarantacinquenne Pasquale Paladini. Otto colpi. Al petto e alla testa. Dopo poche ore sparano nelle gambe ad Antonio Auletta di diciannove anni. Ma il 21 gennaio sembra esserci una svolta. La voce inizia subito a correre, senza avere bisogno di agenzie di stampa. Cosimo Di Lauro è stato arrestato. Il reggente della cosca, il leader della mattanza, secondo le accuse della Procura Antimafia di Napoli, il comandante del clan secondo i pentiti. Cosimo si nascondeva in un buco di quaranta metri quadri, dormendo su un letto quasi sfondato. L'erede di un sodalizio criminale capace di fatturare solo con il narcotraffico cinquecentomila euro al giorno, e che poteva disporre di una villa da cinque milioni di euro nel cuore di uno dei quartieri più miseri d'Italia, era costretto a rintanarsi in un buco fetente e microscopico non lontano dalla sua presunta reggia.

Una villa spuntata dal nulla in via Cupa dell'Arco, vicino alla casa di famiglia dei Di Lauro. Un'elegante masseria del Settecento, ristrutturata come una villa pompeiana. Impluvium, colonne, stucchi e gessi, controsoffittature e scalinate. Una villa di cui nessuno sospettava l'esistenza. Nessuno conosceva i proprietari formali, i carabinieri stavano indagando ma nel quartiere nessuno aveva dubbi. Era per Cosimo. I carabinieri scoprirono la villa per caso, superando le spesse mura di cinta, trovarono dentro alcuni operai che appena videro le divise scapparono. La guerra non aveva permesso che la villa fosse ultimata, che fosse riempita di mobili e quadri, che divenisse la reggia del reggente, il cuore d'oro del corpo marcescente dell'edilizia di Secondigliano.

Quando Cosimo sente il calpestio degli anfibi dei carabinieri che lo stanno per arrestare, quando sente rumoreggiare i fucili, non tenta di scappare, non si arma nemmeno. Si mette davanti allo specchio. Bagna il pettine, tira indietro i capelli dalla fronte e poi li lega in un codino all'altezza della nuca, lasciando la zazzera riccia cascare sul collo. Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero. Cosimo Di Lauro si abbiglia da pagliaccio del crimine, da guerriero della notte, scende per le scale impettito. È claudicante, qualche anno prima è caduto rovinosamente dalla moto e la gamba zoppa è la dote avuta da quell'incidente. Ma quando scende dalle scale ha pensato anche a questo. Poggiandosi sugli avambracci dei carabinieri che lo scortano riesce a non mostrare il suo handicap, a camminare con passo normale. I nuovi sovrani militari dei sodalizi criminali napoletani non si presentano come guappi di quartiere, non hanno gli occhi sgranati e folli di Cutolo, non pensano di doversi atteggiare come Luciano Liggio o come caricature di Lucky Luciano e Al Capone. Matrix, The Croio, Pulp Fiction riescono con maggiore capacità e velocità a far capire cosa vogliono e chi sono. Sono modelli che tutti conoscono e che non abbisognano di eccessive mediazioni. Lo spettacolo è superiore al codice sibillino deH'ammiccamento o alla circoscritta mitologia del crimine da quartiere malfamato. Cosimo fissa le telecamere e gli obiettivi dei fotografi, abbassa il mento, sporge la fronte. Non si è fatto trovare come Brusca con un jeans liso e una camicia sporca di salsa, non è impaurito come Rima portato di corsa sopra un elicottero, né sorpreso con il volto pieno di sonno come capitò a Misso, boss della Sanità. È un uomo formato nella società dello spettacolo e sa di andare in scena. Si presenta come un guerriero che si è imbattuto nella sua prima sosta. Sembra che stia pagando per il troppo coraggio, l'eccessivo zelo nella guerra che ha condotto. Questo racconta il suo volto. Non sembra che sia tratto in arresto, ma che muti semplicemente il luogo del suo comando. Innescando la guerra sapeva di andare incontro all'arresto. Ma non aveva scelta. O guerra o morte. E l'arresto vuole rappresentarlo come la dimostrazione della sua vittoria, il simbolo del suo coraggio capace di sprezzare ogni sorta di tutela di sé, pur di salvare il sistema della famiglia.

La gente del quartiere al solo guardarlo si sente bruciare lo stomaco. Inizia la rivolta, rovesciano auto, riempiono bottiglie di benzina e le lanciano. La crisi isterica non serve a evitare l'arresto come potrebbe sembrare, ma a scongiurare vendette. Ad annullare ogni possibilità di sospetto. A segnalare a Cosimo che nessuno lo ha tradito. Che nessuno ha spifferato, che il geroglifico della sua latitanza non è stato decifrato grazie ai suoi vicini di casa. È un enorme rito quasi di scusa, una metafisica cappella di espiazione che le persone del quartiere vogliono costruire con le volanti dei carabinieri bruciate, i cassonetti posti a barricate, il fumo nero dei copertoni. Se Cosimo sospetta, non avranno neanche il tempo di fare le valigie, la mannaia militare si abbatterà su di loro come l'ennesima spietata condanna.

Pochi giorni dopo l'arresto del rampollo del clan, il volto arrogante che fissa le telecamere campeggia sugli screen saver dei telefonini di decine di ragazzini e ragazzine delle scuole di Torre Annunziata, Quarto, Marano. Gesti di mera provocazione, di banale balordaggine adolescenziale. Certo. Ma Cosimo sapeva. Così bisogna agire per essere riconosciuti come capi, per raggiungere il cuore degli individui. Bisogna saper usare anche lo schermo, l'inchiostro dei giornali, bisogna sapere annodare il proprio codino. Cosimo rappresenta chiaramente il nuovo imprenditore di Sistema. L'immagine della nuova borghesia svincolata da ogni freno, mossa dall'assoluta volontà di dominare ogni territorio del mercato, di mettere le mani su tutto. Non rinunciare a nulla. Fare una scelta non significa limitare il proprio campo d'azione, privarsi di ogni altra possibilità. Non per chi considera la vita come uno spazio dove poter conquistare tutto al rischio di perdere ogni cosa. Significa mettere in conto di essere arrestati, di finir male, di morire. Ma non significa rinunciare. Volere tutto e subito, e averlo quanto prima. È questa la forza e l'attrattiva che Cosimo Di Lauro impersona.

Tutti, anche i più premurosi verso la propria incolumità, finiscono nella gabbia della pensione, tutti prima o poi si scoprono cornuti, tutti finiscono con una badante polacca. Perché crepare di depressione cercando un lavoro che fa boccheggiare, perché finire in un part-time a rispondere al telefono? Diventare imprenditore. Ma vero. Capace di commerciare con tutto e di fare affari anche col nulla. Ernst Jùnger direbbe che la grandezza è esposta alla tempesta. Lo stesso ripeterebbero i boss, gli imprenditori di camorra. Essere il centro di ogni azione, il centro del potere. Usare tutto come mezzo e se stessi come fine. Chi dice che è amorale, che non può esserci vita senza etica, che l'economia possiede dei limiti e delle regole da seguire, è soltanto colui che non è riuscito a comandare, che è stato sconfitto dal mercato. L'etica è il limite del perdente, la protezione dello sconfitto, la giustificazione morale per coloro che non sono riusciti a giocarsi tutto e vincere ogni cosa. La legge ha i suoi codici stabiliti, ma non la giustizia che è altro. La giustizia è un principio astratto che coinvolge tutti, passabile a seconda di come lo si interpreta di assolvere o condannare ogni essere umano: colpevoli i ministri, colpevoli i papi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e i reazionari. Colpevoli tutti di aver tradito, ucciso, sbagliato. Colpevoli d'essere invecchiati e morti. Colpevoli di essere stati superati e sconfitti. Colpevoli tutti dinanzi al tribunale universale della morale storica e assolti da quello della necessità. Giustizia e ingiustizia hanno un significato solo se considerate nel concreto. Di vittoria o sconfitta, di atto fatto o subito. Se qualcuno ti offende, se ti tratta male, sta commettendo un'ingiustizia, se invece ti riserva un trattamento di favore ti fa giustizia. Osservando i poteri del clan bisogna fermarsi a questi calibri. A queste maglie di giudizio. Bastano. Devono bastare. È questa l'unica forma reale di valutazione della giustizia. Il resto è solo religione e confessionale. L'imperativo economico è foggiato da questa logica. Non sono gli affari che i camorristi inseguono, sono gli affari che inseguono i camorristi. La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo. Le regole dettate, le regole imposte, sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente. H resto vale zero. Il resto non esiste. Poter decidere della vita e della morte di tutti, poter promuovere un prodotto, monopolizzare una fetta di mercato, investire in settori d'avanguardia, è un potere che si paga con il carcere o con la vita. Avere potere per dieci anni, per un anno, per un'ora. Non importa la durata: vivere, comandare per davvero, questo conta. Vincere nell'arena del mercato e arrivare a fissare il sole con gli occhi come faceva in carcere Raffaele Giuliano, boss di Forcella, sfidandolo, mostrando che il suo sguardo non si accecava neanche dinanzi alla luce prima. Raffaele Giuliano che aveva avuto la spietata volontà di cospargere di peperoncino la lama di un coltello prima di accoltellare un parente di un suo nemico, così da fargli sentire bruciori lancinanti mentre la lama entrava nella carne, centimetro per centimetro. In carcere veniva temuto non per questa sua acribia sanguinaria, ma per la sfida dello sguardo capace di mantenersi alto anche fissando il sole. Avere la coscienza di essere dei business man destinati alla fine — morte o ergastolo — ma con volontà spietata dominare economie potenti e illimitate. Il boss viene ammazzato o arrestato, ma il sistema economico che ha generato rimane: non smettendo di mutare, trasformarsi, migliorare e innescare profitto. Questa coscienza da samurai liberisti, i quali sanno che il potere, quello assoluto, per averlo si paga, la trovai sintetizzata in una lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile, una lettera che consegnò a un prete e che fu letta durante un convegno. La ricordo ancora. A memoria:

Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato.

Questo è il nuovo tempo scandito dagli imprenditori criminali. Questa è la nuova potenza dell'economia. Dominarla, a costo d'ogni cosa. Il potere prima d'ogni cosa. La vittoria economica più preziosa della vita. Della vita di chiunque e persino della propria.

I ragazzini di Sistema avevano iniziato a chiamarli persino "morti parlanti". In un'intercettazione telefonica presente nel decreto di fermo emesso dalla Procura Antimafia nel febbraio 2006, un ragazzo spiega al telefono chi sono i capizona di Se-condigliano:

"Sono guagliuncelli, morti parlanti, morti viventi, morti che si muovono… Bello e buono prendono e ti uccidono, ma tanto la vita è già persa…"

Capi ragazzini, kamikaze dei clan che non vanno a morire per nessuna religione, ma per danaro e potere, a ogni costo, come unico modo di vivere che valga la pena.

La notte del 21 gennaio, la stessa notte dell'arresto di Cosimo Di Lauro, venne ritrovato il corpo di Giulio Ruggiero. Trovarono un'auto bruciata, un corpo al posto di guida. Un corpo decollato. La testa era sui sedili posteriori. Gliel'aveva-no tagliata. Non con il colpo di netto dell'accetta, ma col flex: la sega circolare dentellata usata dai fabbri per limare le saldature. Lo strumento peggiore in assoluto, ma proprio per questo il più plateale. Prima tagliare la carne e poi scheggiare l'osso del collo. Dovevano aver fatto il servizio proprio lì, visto che per terra c'erano d'intorno scaglie di carne come se fosse trippa. Le indagini non erano neanche state avviate che in zona tutti sembravano essere sicuri che fosse un messaggio. Un simbolo. Cosimo Di Lauro non poteva essere stato arrestato senza una soffiata. Quel corpo mozzato era nell'immaginario di tutti il traditore. Solo chi si è venduto un capo può essere dilaniato in quel modo. La sentenza è decretata prima che le indagini abbiano inizio. Poco importa se dica il vero o rincorra una suggestione. Quella macchina e quella testa abbandonate in via Hugo Pratt le fissai senza scendere dalla Vespa. Mi arrivavano ai timpani i dettagli di come avevano bruciato il corpo e la testa mozzata, di come avevano riempito la bocca di benzina, messo uno stoppino tra i denti cosicché dopo avergli dato fuoco avevano aspettato che l'intera faccia esplodesse. Accesi la Vespa e me ne andai.

Il 24 gennaio 2005 quando sono arrivato era a terra sulle mattonelle, morto. Un nugolo di carabinieri camminava nervoso dinanzi al negozio dove era avvenuto l'agguato. L'ennesimo. "Ormai un morto al giorno è la cantilena di Napoli" dice un ragazzo nervosissimo che passa di là. Si ferma, si scappella dinanzi al morto che non vede, e va via. Quando i killer sono entrati nel negozio stringevano già i calci delle pistole. Era chiaro che non volevano rapinare ma uccidere, punire. Attilio ha tentato di nascondersi dietro al bancone. Sapeva che non serviva a nulla, ma magari ha sperato segnalasse che era disarmato che non c'entrava nulla, che non aveva fatto niente. Aveva capito forse che quei due erano soldati della camorra, della guerra voluta dai Di Lauro. Gli hanno sparato, hanno scaricato i loro caricatori e dopo il "servizio" sono usciti, qualcuno dice con calma, come se avessero acquistato un telefonino, non massacrato un individuo. Attilio Romano è lì. Sangue ovunque. Sembra quasi che l'anima gli sia scolata via da quei fori di proiettile che lo hanno marchiato in tutto il corpo. Quando vedi tanto sangue per terra inizi a tastarti, controlli che non sia ferito tu, che in quel sangue non ci sia anche il tuo, inizi a entrare in un'ansia psicotica, cerchi di assicurarti che non ci siano ferite sul tuo corpo, che per caso, senza che te ne sia accorto, ti sei ferito. E comunque non credi che in un uomo solo possa esserci tanto sangue, sei certo che in te ce n'è sicuramente molto meno. Quando ti accerti che quel sangue non l'hai perso tu, non basta: ti senti svuotato anche se l'emorragia non è tua. Tu stesso diventi emorragia, senti le gambe che ti mancano, la lingua impastata, senti le mani sciolte in quel lago denso, vorresti che qualcuno ti guardasse l'interno degli occhi per controllare il livello di anemia. Vorresti fermare un infermiere e chiedere una trasfusione, vorresti avere lo stomaco meno chiuso e mangiare una bistecca, se riesci a non vomitare. Devi chiudere gli occhi, ma non respirare. L'odore di sangue rappreso che ormai ha impregnato anche l'intonaco della stanza sa di ferro rugginoso. Devi uscire, andare fuori, andare all'aria prima che gettino la segatura sul sangue perché l'impasto genera un odore terribile che fa crollare ogni resistenza al vomito.

Non capivo davvero perché avevo ancora una volta scelto di andare sul posto dell'agguato. Di una cosa ero certo: non è importante mappare ciò che è finito, ricostruire il dramma terribile che è accaduto. È inutile osservare i cerchi di gesso intorno ai rimasugli dei bossoli che quasi sembrano un gioco infantile di biglie. Bisogna invece riuscire a capire se qualcosa è rimasto. Questo forse vado a rintracciare. Cerco di capire cosa galleggia ancora d'umano; se c'è un sentiero, un cunicolo scavato dal verme dell'esistenza che possa sbucare in una soluzione, in una risposta che dia il senso reale di ciò che sta accadendo.

Il corpo di Attilio è ancora per terra quando arrivano i familiari. Due donne, forse la madre e la moglie, non so. Nel percorso si stringono, camminano avvinghiate, spalla incollata all'altra spalla, ormai sono le uniche a sperare che non sia come hanno già capito e sanno benissimo. Ma sono allacciate, si sostengono l'una con l'altra, un attimo prima di trovarsi dinanzi alla tragedia. È in quegli attimi, nei passi delle mogli e delle madri verso l'incontro con il corpo crivellato, che si intuisce un'irrazionale, folle, balorda fiducia nel desiderio umano. Sperano, sperano, sperano e sperano ancora che ci sia stato un errore, una bugia nel passaparola, un fraintendimento del maresciallo dei carabinieri che annunciava l'agguato e l'assassinio. Come se ostinarsi maggiormente nel credere qualcosa possa davvero mutare il corso degli eventi. In quel momento la pressione arteriosa della speranza raggiunge una massima assoluta senza minima alcuna. Ma non c'è nulla da fare. Le urla, i pianti mostrano la forza di gravità del reale. Attilio è lì per terra. Lavorava in un negozio di telefonia e poi per arrotondare in un cali center. Lui e sua moglie Natalia non avevano ancora un bambino. Non c'era ancora il tempo, non c'era forse la possibilità economica di mantenerlo e magari aspettavano la possibilità di farlo crescere altrove. Le giornate si consumavano in ore di lavoro e quando c'è stata la possibilità e qualche risparmio, Attilio ha creduto buona cosa poter diventare azionista di quel negozio dove ha trovato la morte. L'altro socio però ha una lontana parentela con Pariante, il boss di Bacoli, un colonnello di Di Lauro, uno di quelli che gli si sono messi contro. Attilio non sa o quantomeno sottovaluta, si fida del suo socio, gli basta sapere che è una persona che vive del suo mestiere, faticando molto, troppo. Insomma in questi luoghi non si decide della propria sorte, il lavoro sembra essere un privilegio, qualcosa che una volta raggiunto, si tiene stretto, quasi come una fortuna che ti è capitata, un destino benevolo che ha voluto centrarti, anche se questo lavoro ti porta fuori casa per tredici ore al giorno, ti lascia mezza domenica libera e mille euro al mese che a stento ti bastano per pagare un mutuo. Comunque sia arrivato il lavoro, bisogna ringraziare e non fare troppe domande a sé e al destino.

Ma qualcuno fa cadere il sospetto. E allora il corpo di Atti lio Romano rischia di venire sommato a quello dei soldati di camorra ammazzati in questi mesi. I corpi sono gli stessi, le ragioni della morte sono però diverse anche se si cade sullo stesso fronte di guerra. Sono i clan che decidono chi sei, quale parte occupi nel risiko del conflitto. Le parti sono determinate indipendentemente dalle volontà. Quando gli eserciti scendono per strada non è possibile tracciare una dinamica esterna alla loro strategia, il senso lo concedono loro, i motivi, le cause. In quell'istante, quel negozio dove Attilio lavorava era espressione di un'economia legata al gruppo degli Spagnoli e quell'economia andava sconfitta.

Natalia, Nata come la chiamava Attilio, è una ragazza stordita dalla tragedia. Si era sposata appena quattro mesi prima, ma non viene consolata, al funerale non c'è Presidente della Repubblica, ministro, sindaco che le tiene la mano. Meglio così forse, si risparmia la messa in scena istituzionale. Ma ciò che aleggia sulla morte di Attilio è un'ingiusta diffidenza. E la diffidenza è l'assenso silenzioso che viene concesso all'ordine della camorra. L'ennesimo consenso all'agire dei clan. Ma i colleghi del cali center di Attila, come lo chiamavano per la sua violenta voglia di vivere, organizzano fiaccolate e si ostinano a camminare anche se sul percorso della manifestazione avvengono ancora agguati, il sangue ancora traccia la strada. Procedono, accendono luci, fanno capire, tolgono ogni onta, cassano ogni sospetto. Attila è morto sul lavoro e con la camorra non aveva rapporto alcuno.

In realtà dopo ogni agguato il sospetto grava su tutti. Troppo perfetta è la macchina dei clan. Non c'è errore. C'è punizione. E così è al clan che viene data fiducia, non ai familiari che non capiscono, non ai colleghi di lavoro che lo conoscono, non alla biografia di un individuo. In questa guerra le persone vengono stritolate senza colpa alcuna, vengono rubricate negli effetti collaterali o nei probabili colpevoli.

Un ragazzo, Dario Scherillo, ventisei anni, ucciso il 26 dicembre 2004, mentre camminava in motocicletta viene colpito in faccia, al petto, lasciato morire a terra nel suo sangue che ha il tempo di impregnare completamente la camicia. Un ragazzo innocente. Gli è bastato essere di Casavatore, un paese martoriato da questo conflitto. Per lui ancora silenzio, incomprensione. Nessuna epigrafe, né targa, né ricordo. "Quando si è uccisi dalla camorra, non si sa mai" mi dice un vecchio che si fa il segno della croce nei pressi del luogo dove Dario è caduto. Il sangue a terra è di un rosso vivo. Non tutto il sangue ha lo stesso colore. Quello di Dario è porpora, sembra ancora scorrere. I mucchi di segatura stentano ad assorbirlo. Un'auto dopo un po', approfittando dello spazio vuoto, parcheggia sulla macchia di sangue. E tutto finisce. Tutto si copre. È stato ammazzato per dare un messaggio al paese, un messaggio di carne chiuso in una busta di sangue. Come in Bosnia, come in Algeria, come in Somalia, come in qualsiasi confusa guerra interna, quando è difficile capire a che parte appartieni, basta uccidere il tuo vicino, il cane, l'amico, o un tuo familiare. Una voce di parentela, una somiglianza è condizione sufficiente per diventare bersaglio. Basta che passi per una strada per ricevere subito un'identità di piombo. L'importante è concentrare il più possibile dolore, tragedia e terrore. Con l'unico obiettivo di mostrare la forza assoluta, il dominio incontrastato, l'impossibilità di opporsi al potere vero, reale, imperante. Sino ad abituarsi a pensare come coloro che potrebbero risentirsi di un gesto o di una parola. Stare attenti, guardinghi, silenziosi, per salvarsi la vita, per non toccare il filo ad alta tensione della vendetta. Mentre mi allontanavo, mentre portavano via Attilio Romano, iniziai a capire. A capire perché non c'è momento in cui mia madre non mi guardi con preoccupazione, non comprendendo perché non me ne vado, perché non fuggo via, perché continuo a vivere in questi luoghi d'inferno. Cercavo di ricordare da quando sono nato quanti sono i caduti, gli ammazzati, i colpiti.

Non bisognerebbe contare i morti per comprendere le economie della camorra, anzi sono l'elemento meno indicativo del potere reale, ma sono la traccia più visibile e quella che riesce d'immediato a far ragionare con lo stomaco. Inizio la conta: nel 1979 cento morti, nel 1980 centoquaranta, nel 1981 centodieci, nel 1982 duecentosessantaquattro, nel 1983 duecentoquattro, nel 1984 centocinquantacinque, nel 1986 centosette, nel 1987 centoventisette, nel 1988 centosessantotto, nel 1989 duecentoventotto, nel 1990 duecentoventidue, nel 1991 duecentoventitré, nel 1992 centosessanta, nel 1993 centoventi, nel 1994 centoquindici, nel 1995 centoquarantotto, nel 1996 cento-quarantasette, nel 1997 centotrenta, nel 1998 centotrentadue, nel 1999 novantuno, nel 2000 centodiciotto, nel 2001 ottanta, nel 2002 sessantatré, nel 2003 ottantatré, nel 2004 centoquaran-tadue, nel 2005 novanta.

Tremilaseicento morti da quando sono nato. La camorra ha ucciso più della mafia siciliana, più della 'ndrangheta, più della mafia russa, più delle famiglie albanesi, più della somma dei morti fatti dall'ETA in Spagna e dell'iRA in Irlanda, più delle Brigate Rosse, dei NAR e più di tutte le stragi di Stato avvenute in Italia. La camorra ha ucciso più di tutti. Mi viene in mente un'immagine. Quella della cartina del mondo che spesso compare sui giornali. Campeggia sempre in qualche numero di "Le Monde Diplomatique", quella mappa che indica con un bagliore di fiamma tutti i luoghi della terra dove c'è un conflitto. Kurdistan, Sudan, Kosovo, Timor Est. Viene di gettare l'occhio sull'Italia del sud. Di sommare i cumuli di carne che si accatastano in ogni guerra che riguardi la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, i Sacristi in Puglia o i Basilischi in Lucania. Ma non c'è traccia di lampo, non v'è disegnato alcun fuocherello. Qui è il cuore d'Europa. Qui si foggia la parte maggiore dell'economia della nazione. Quali ne siano le strategie d'estrazione, poco importa. Necessario è che la carne da macello rimanga impantanata nelle periferie, schiattata nei grovigli di cemento e monnezza, nelle fabbriche in nero e nei magazzini di coca. E che nessuno ne faccia cenno, che tutto sembri una guerra di bande, una guerra tra straccioni. E allora comprendi anche il ghigno dei tuoi amici che sono emigrati, che tornano da Milano o da Padova e non sanno tu chi sia diventato. TI squadrano dall'alluce alla fronte per cercare di soppesare il tuo peso specifico e intuire se sei un chiachiello o uno bbuono. Un fallito o un camorrista. E dinanzi alla biforcazione delle strade sai quale stai già percorrendo e non vedi nulla di buono al termine del percorso.

Tornai a casa, ma non riuscii a stare fermo. Scesi e iniziai a correre, forte, sempre più forte, le ginocchia si torcevano, i talloni tamburellavano i glutei, le braccia sembravano snodate e si agitavano come quelle di un burattino. Correre, correre, correre ancora. Il cuore pompava, in bocca la saliva annegava la lingua e sommergeva i denti. Sentivo il sangue che gonfiava la carotide, tracimava nel petto, non avevo più fiato, dal naso presi tutta l'aria possibile che subito rigettai come un toro. Ripresi a correre, sentendo le mani gelide, il viso bollente, chiudendo gli occhi. Sentivo che tutto quel sangue visto a terra, perso come rubinetto aperto sino a spanare la manopola, l'avevo ripreso, lo risentivo nel corpo.

Arrivai finalmente al mare. Saltai sugli scogli, il buio era impastato di foschia, non si vedevano neanche i fari delle navi che incrociano nel golfo. Il mare si increspava, alcune onde iniziarono ad alzarsi, sembravano non voler toccare la fanghiglia della battigia ma non tornavano neanche nel gorgo lontano dell'alto mare. Rimangono immobili nell'andirivieni dell'acqua, resistono ostinate in un'impossibile fissità aggrappandosi alla loro cresta di schiuma. Ferme, non sapendo più dove il mare è ancora mare.

Dopo qualche settimana iniziarono ad arrivare giornalisti. Da ogni luogo, d'improvviso la camorra era tornata a esistere nella regione dove si credeva esistessero ormai solo bande e scippatori. Secondigliano divenne in poche ore il centro dell'attenzione. Inviati speciali, fotoreporter delle più importanti agenzie, persino un presidio perenne della BBC, qualche ragazzino si fa fotografare accanto a un cameraman che tiene in spalla una telecamera con ben in evidenza il logo della CNN. "Gli stessi che stanno da Saddam" ridacchiano a Scampia. Ripresi da quelle telecamere si sentono trasportati nel baricentro del mondo. Un'attenzione che sembra per la prima volta concedere a quei luoghi un'esistenza reale. La mattanza di Secondigliano raccoglie un'attenzione che mancava dalle dinamiche di camorra da vent'anni. A nord di Napoli la guerra ammazza in breve tempo, rispetta i criteri giornalistici di cronaca, in poco più di un mese accumula decine e decine di vittime. Sembra fatta apposta per dare il suo morto a ogni inviato. Il successo a tutti. Stagiste vennero inviate a frotte a farsi le ossa. Microfoni spuntarono ovunque a fare interviste a spacciatori, a riprendere il tetro profilo spigoloso delle Vele. Qualcuna riesce persino a intervistare presunti pusher, inquadrandoli di spalle. Quasi tutti invece danno qualche spicciolo agli eroinomani che biascicano la loro storia. Due ragazze, due giornaliste si fecero fotografare dal loro operatore davanti a una carcassa di auto bruciata non ancora rimossa. La loro prima guerra minore da croniste ha il suo souvenir. Un giornalista francese mi telefonò chiedendomi se doveva portare il giubbotto antiproiettile visto che voleva andare a fotografare la villa di Cosimo Di Lauro. Le troupe giravano in auto, fotografavano, riprendevano, come esploratori in una foresta dove tutto ormai si stava mutando in scenografia. Qualche altro giornalista si muoveva con la scorta. Il peggior modo per raccontare Secondigliano era farsi scortare dalla polizia. Scampia non è un luogo inaccessibile, la forza di questa piazza del narcotraffico è proprio l'accessibilità totale e garantita a chiunque. I giornalisti che vanno con la scorta non possono che raccogliere con lo sguardo ciò che trovano in qualsiasi notizia battuta dalle agenzie stampa. Come stare davanti al loro pc redazionale, con la differenza di essere in movimento.

Oltre cento giornalisti in poco meno di due settimane. D'improvviso la piazza della droga d'Europa inizia a esistere. Gli stessi poliziotti si trovano assediati da richieste, tutti vogliono partecipare a operazioni, vedere almeno uno spacciatore arrestato, una casa perquisita. Tutti vogliono ficcare nei quindici minuti di servizio qualche immagine di manette e qualche mitra sequestrato. Molti ufficiali cominciano a liquidare i vari reporter e neogiornalisti d'inchiesta facendogli fotografare poliziotti in borghese che si fingono pusher. Un modo per dargli quello che vogliono senza perdere troppo tempo. Il peggio possibile nel minor tempo possibile. Il peggio del peggio, l'orrore dell'orrore, trasmettere la tragedia, il sangue, le budella, i colpi di mitra, i crani sfondati, le carni bruciate. Il peggio che raccontano è solo lo scarto del peggio. A Secondigliano molti cronisti credono di trovare il ghetto d'Europa, la miseria assoluta. Se riuscissero a non scappare, si accorgerebbero di avere dinanzi i pilastri dell'economia, la miniera nascosta, la tenebra da dove trova energia il cuore pulsante del mercato.

Ricevevo dai giornalisti televisivi le proposte più incredibili. Alcuni mi chiesero di mettermi sull'orecchio una microtelecamera e girare per le strade "che conoscevo io", seguendo persone "che sapevo io". Sognavano di far derivare da Scampia una puntata di un reality dove poter riprendere un omicidio e lo spaccio di droga. Uno sceneggiatore mi diede un dattiloscritto che raccontava una storia di sangue e morte, dove il diavolo del Secolo Nuovo veniva concepito nel rione Terzo Mondo. Per un mese mangiai gratis tutte le sere, venivo invitato dalle troupe televisive per sottopormi a assurde iniziative, per cercare di ricevere informazioni. A Secondigliano e Scampia durante il periodo della faida si creò un vero e proprio indotto di accompagnatori, spiegatori ufficiali, confidenti, guide indiane nella riserva di camorra. Moltissimi ragazzi avevano una tecnica. Gironzolavano vicino alle postazioni dei giornalisti, fingendo di star spacciando o fingendo di essere dei pali, appena qualcuno trovava il coraggio di avvicinarli subito si dichiaravano disponibili a raccontare, spiegare, farsi riprendere. Subito dichiaravano le tariffe. Cinquanta euro per la testimonianza, cento euro per un giro attraverso le piazze di spaccio, duecento per entrare nella casa di qualche spacciatore che abitava alle Vele.

Per comprendere il ciclo dell'oro non si può solo fissare la pepita e la miniera. Si doveva partire da Secondigliano e poi seguire la traccia degli imperi dei clan. Le guerre di camorra mettono i paesi dominati dalle famiglie sulla cartina geografica, l'entroterra campano, le terre dell'osso, territori che qualcuno chiama il Far West d'Italia, che una violenta leggenda vuole più ricchi di mitra che di forchette. Ma al di là della violenza che nasce in fasi particolari, qui si foggia una ricchezza esponenziale di cui queste terre non vedono che bagliori lontani. Ma nulla di questo venne raccontato, le tv, gli inviati, i loro lavori, tutto venne riempito dall'estetica della suburra napoletana.

H 29 gennaio viene ammazzato Vincenzo De Gennaro. Il 31 gennaio uccidono Vittorio Bevilacqua in una salumeria. Il 1° febbraio Giovanni Orabona, Giuseppe Pizzone e Antonio Patrizio vengono massacrati. Li ammazzano con uno stratagemma antiquato ma sempre efficace, i killer fingono di essere poliziotti. Giovanni Orabona era il ventitreenne attaccante del Real Casavatore. Stavano camminando quando un'auto li fermò. Aveva una sirena sul tetto. Scesero due uomini con i tesserini della polizia. I ragazzi non tentarono di fuggire né di fare resistenza. Sapevano come dovevano comportarsi, si lasciarono ammanettare e caricare in auto. L'auto poi d'improvviso si fermò e li fece scendere. I tre forse non capirono subito, ma quando videro le pistole tutto fu chiaro. Era un'imboscata. Non erano poliziotti, ma gli Spagnoli. Il gruppo ribelle. Due, inginocchiati e sparati alla testa, furono finiti subito, il terzo, dalle tracce ritrovate sul luogo, aveva tentato di scappare, con le mani legate dietro la schiena e la testa come unico perno d'equilibrio. Cadde. Si rialzò. Ricadde. Lo raggiunsero, gli puntarono un'automatica in bocca. Il cadavere aveva i denti rotti, il ragazzo aveva tentato di mordere la canna della pistola, per istinto, come per spezzarla.

Il 27 febbraio da Barcellona arrivò la notizia dell'arresto di Raffaele Amato. Stava giocando in un casinò al black jack, cercava di alleggerirsi di liquidi. I Di Lauro erano riusciti a colpire solo suo cugino Rosario bruciandogli la casa. Amato, secondo le accuse della magistratura napoletana, era il capo carismatico degli Spagnoli. Era cresciuto proprio in via Cupa dell'Arco, la strada di Paolo Di Lauro e della sua famiglia. Amato era diventato un dirigente di spessore da quando mediava sui traffici di droga e gestiva le puntate d'investimento. Secondo le accuse dei pentiti e le indagini dell'Antimafia, godeva di un credito illimitato presso i trafficanti internazionali, e riusciva a importare quintali di cocaina. Prima che i poliziotti in passamontagna lo sbattessero con la faccia per terra, Raffaele Amato aveva già avuto una battuta d'arresto: quando venne arrestato in un hotel a Casandrino insieme a un altro luogotenente del gruppo e a un grosso trafficante albanese, che si faceva aiutare negli affari da un interprete d'eccellenza, il nipote di un ministro di Tirana.

Il 5 febbraio è il turno di Angelo Romano. Il 3 marzo Davide Chiarolanza viene ammazzato a Melito. Aveva riconosciuto i killer, forse gli avevano dato persino appuntamento. È stato finito mentre tentava di scappare verso la sua macchina. Ma non è la magistratura, né la polizia e i carabinieri che riescono a bloccare la faida. Le forze dell'ordine tamponano, sottraggono braccia, ma non sembrano riuscire a fermare l'emorragia militare. Mentre la stampa insegue la cronaca nera inciampando su interpretazioni e valutazioni, un quotidiano partenopeo riesce a raggiungere la notizia di un patto tra gli Spagnoli e i Di Lauro, un patto di pace momentanea, siglato con la mediazione del clan Licciardi. Un patto voluto dagli altri clan secondiglianesi e forse anche dagli altri cartelli camorristici, i quali temevano che il silenzio decennale sul loro potere potesse essere interrotto dal conflitto. Bisognava nuovamente permettere allo spazio legale di ignorare i territori di accumulazione criminale. Il patto non è stato trascritto da qualche carismatico boss in una notte in cella. Non è stato diffuso di nascosto, ma pubblicato su un giornale, un quotidiano. In edicola, il 27 giugno 2005 è stato possibile leggerlo, comprenderlo, capirlo. Ecco i punti d'accordo pubblicati:

1) Gli scissionisti hanno preteso la restituzione degli alloggi sgomberati tra novembre e gennaio a Scampia e Secondi-gliano. Circa ottocento persone costrette dal gruppo di fuoco di Di Lauro a lasciare le case.

2) Il monopolio dei Di Lauro sul mercato della droga è spezzato. Non si torna indietro. Il territorio dovrà essere diviso in maniera equa. La provincia agli scissionisti, Napoli ai Di Lauro.

3) Gli scissionisti potranno servirsi dei propri canali per l'importazione della droga senza più ricorrere obbligatoriamente alla mediazione dei Di Lauro.

4) Le vendette private sono separate dagli affari ossia gli affari sono più importanti delle questioni personali. Se tra anni si verificherà una vendetta legata alla faida questa non farà riaccendere le ostilità ma rimarrà sul piano privato.

Il boss dei boss secondiglianesi dev'essere tornato. L'hanno segnalato ovunque, dalla Puglia al Canada. Per beccarlo, da mesi si muovono i servizi segreti. Lascia tracce, Paolo Di Lauro, minuscole, invisibili, come il suo potere prima della faida. Pare si sia fatto operare in una clinica marsigliese, la stessa che avrebbe ospitato il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. È tornato per siglare la pace o per limitare i danni. È qui, ormai si sente la sua presenza, l'aria è cambiata. H boss scomparso da dieci anni, colui che in una telefonata di un affiliato "doveva tornare, anche a costo di rischiare il carcere". Il boss fantasma, dal viso sconosciuto persino agli affiliati: "11 prego fammelo vedere, solo per un attimo, solo uno, lo guardo e poi me ne vado" aveva chiesto un affiliato al boss Maurizio Prestieri.

Paolo Di Lauro lo beccano in via Canonico Stornaiuolo, il 16 settembre 2005. Nascosto nella modesta casa di Fortunata Liguori, la donna di un affiliato di basso rango. Una casa anonima come quella in cui trascorreva la latitanza suo figlio Cosimo. Nella foresta di cemento è più facile mimetizzarsi, in case qualsiasi si vive senza facce e senza rumore. Un'assenza più totale quella urbana, più anonima del nascondersi in una botola o in un doppio fondo. Paolo Di Lauro era stato vicino all'arresto il giorno del suo compleanno. La sfida massima era tornare a casa a mangiare con la famiglia, mentre la polizia di mezza Europa lo inseguivano. Ma qualcuno lo avvertì in tempo. Quando i carabinieri entrarono nella villa di famiglia trovarono la tavola apparecchiata con il suo posto vuoto. Questa volta però i reparti speciali dei carabinieri, i ROS, vanno a colpo sicuro. Quando entrano in casa, i carabinieri sono agitatis-simi. Sono le quattro del mattino dopo un'intera notte di osservazione. Il boss però non reagisce, anzi li calma.

"Entrate… io sono calmo… non ci sono problemi."

Venti volanti scortano l'auto in cui viene fatto salire, più quattro lepri, le motociclette che anticipano il percorso, controllando che tutto sia tranquillo. Il corteo fugge, il boss è sul blindato. I percorsi per trasportarlo in caserma potevano essere tre. Attraversare via Capodimonte per poi sfrecciare lungo via Pessina e piazza Dante, oppure bloccare ogni accesso al corso Secondigliano e imboccare la tangenziale per dirigersi al Vomero. Nel caso di massimo pericolo avevano previsto di far atterrare un elicottero e trasportarlo per aria. Le lepri segnalano che lungo il percorso c'è un'auto sospetta. Tutti si aspettano un agguato. Ma è un falso allarme. Trasportano il boss alla caserma dei carabinieri in via Pastrengo, nel cuore di Napoli. L'elicottero si abbassa e la polvere e il terriccio dell'aiuola al centro della piazza iniziano ad agitarsi in un mulinello a mezz'aria pieno di buste di plastica, fazzo-lettini di carta, fogli di giornale. Un mulinello di spazzatura.

Non c'è alcun pericolo. Ma bisogna strillare l'arresto, mostrare che si è riusciti a prendere l'imprendibile, ad arrestare il boss. Quando arriva il carosello di blindati e volanti, e i carabinieri vedono che i giornalisti sono già presenti all'entrata della caserma, si siedono sulla portiera dell'auto a cavalcioni. Finestrini come sellini, impugnano vistosamente la pistola, hanno sul viso il passamontagna e indossano la pettorina dei carabinieri. Dopo l'arresto di Giovanni Brusca non c'è carabiniere e poliziotto che non voglia farsi riprendere in quella posizione. Lo sfogo per le nottate d'appostamenti, la soddisfazione per la preda catturata, la furbizia da ufficio stampa per occupare le prime pagine con certezza. Quando Paolo Di Lauro esce dalla caserma, non ha la spavalderia di suo figlio Cosimo, si piega in due, faccia per terra, lascia solo la pelata nuda a telecamere e fotografi. È forse soltanto un modo per tutelarsi. Farsi fotografare da centinaia di obiettivi da ogni angolatura, farsi riprendere da decine di telecamere avrebbe mostrato il suo volto a tutt'Italia, facendo magari denunciare a ignari vicini di casa di averlo visto, di essergli stati vicino. Meglio non agevolare le indagini, meglio non disvelare i propri percorsi clandestini. Ma qualcuno legge la sua testa bassa come semplice fastidio per flash e telecamere, il fastidio di essere ridotto a bestia da mostra.

Dopo alcuni giorni Paolo Di Lauro venne portato in tribunale, nell'aula 215. Presi posto tra il pubblico di parenti. L'unica parola che il boss pronunciò fu "presente". Tutto il resto lo articolò senza voce. Gesti, occhiolini, ammiccamenti, sorrisi, divengono la sintassi muta attraverso cui comunica dalla sua gabbia. Saluta, risponde, rassicura. Alle mie spalle prese posto un omone brizzolato. Paolo Di Lauro sembrava fissarmi, in realtà aveva intravisto l'uomo dietro me. Si guardarono per qualche secondo, poi il boss gli fece l'occhiolino.

Sembrava che dopo aver saputo la notizia dell'arresto molti fossero venuti a salutare il boss che per anni, a causa della latitanza, non avevano potuto incontrare. Paolo Di Lauro era in jeans e polo scura. Ai piedi le Paciotti, le scarpe che indossano tutti i dirigenti dei clan da queste parti. I secondini gli liberarono i polsi togliendogli i ceppi, le manette. Per lui un'unica gabbia. In aula entra tutto il gotha dei clan del nord di Napoli: Raffaele Abbinante, Enrico D'Avanzo, Giuseppe Cri-scuoio, Arcangelo Valentino, Maria Prestieri, Maurizio Pre-stieri, Salvatore Britti e Vincenzo Di Lauro. Uomini ed ex uomini del boss, ora divisi in due gabbie: fedeli e Spagnoli. Il più elegante è Prestieri, giacca blu e camicia oxford azzurra. E lui il primo che dal gabbione si avvicina al vetro di protezione che lo separa dal boss. Si salutano. Arriva anche Enrico D'Avanzo, riescono persino a bisbigliare qualcosa tra le fessure del vetro antiproiettile. Molti dirigenti non lo vedevano da anni. Suo figlio Vincenzo non lo incontra più da quando nel 2002 divenne latitante, rifugiandosi a Chivasso in Piemonte dove fu arrestato nel 2004.

Non staccai lo sguardo dal boss. Ogni gesto, ogni smorfia mi sembrava sufficiente per riempire intere pagine di interpretazioni, per fondare nuovi codici della grammatica dei gesti. Col figlio però avvenne un dialogo silenzioso strano. Vincenzo indicò con l'indice l'anulare della sua mano sinistra come per chiedere al padre: "La fede?". Il boss si passò le mani ai lati della testa, poi mimò un volante come se stesse guidando. Non riuscivo a decifrare bene i gesti. L'interpretazione che i giornali ne diedero fu che Vincenzo aveva chiesto al padre come mai fosse senza la fede e il padre gli avesse fatto capire che i carabinieri gli avevano tolto tutto l'oro. Dopo i gesti, gli ammiccamenti, i labiali veloci, gli occhiolini e le mani attaccate sul vetro blindato, Paolo Di Lauro si bloccò in un sorriso guardando il figlio. Si diedero un bacio attraverso il vetro. L'avvocato del boss al termine dell'udienza chiese di poter permettere un abbraccio tra i due. Venne concesso. Sette poliziotti lo presidiarono:

"Sei pallido" disse Vincenzo e il padre gli rispose fissandolo negli occhi: "Da molti anni questa faccia non vede il sole".

I latitanti arrivano spesso allo stremo delle forze prima di essere catturati. La fuga continua mostra l'impossibilità di godere della propria ricchezza e questo rende i boss ancora più in simbiosi con il proprio stato maggiore, che diviene l'unica vera misura del loro successo economico e sociale. I sistemi di protezione, la morbosa e ossessiva necessità di pianificare ogni passo, la parte maggiore del tempo rinchiusi in una stanza a moderare e coordinare gli affari e le imprese fanno vivere i boss in latitanza come ergastolani del proprio business. Una signora nell'aula del tribunale mi raccontò un episodio della latitanza di Di Lauro. D'aspetto poteva sembrare una professoressa, aveva una tintura più gialla che bionda, con evidente ricrescita alla scriminatura. Quando iniziò a parlare aveva una voce rauca e pesante. Raccontava di quando Paolo Di Lauro ancora girava per Secondigliano costretto a muoversi con strategie meticolose. Sembrava quasi fosse dispiaciuta per le privazioni del boss. Mi confidava che Di Lauro aveva cinque auto dello stesso colore, modello e targa. Le faceva partire tutte e cinque quando doveva spostarsi, ma ovviamente sedeva solo in una. Tutte e cinque avevano la scorta e nessuno dei suoi uomini sapeva con certezza se nell'auto ci fosse lui o meno. La macchina usciva dalla villa e loro si accodavano dietro per scortarla. Un modo sicuro per evitare tradimenti: fosse anche quello più immediato di segnalare che il boss si stava muovendo. La signora lo raccontava con un tono di profonda commiserazione per la sofferenza e la solitudine di un uomo sempre costretto a pensare di essere ammazzato. Dopo le tarantelle di gesti e abbracci, dopo i saluti e gli ammiccamenti dei personaggi appartenenti al potere più feroce di Napoli, il vetro blindato che separava il boss dagli altri era pieno di tracce di tutt'altro tipo: manate, strisce di grasso, ombre di labbra.

Dopo meno di ventiquattr'ore dall'arresto del boss, venne trovato alla rotonda di Arzano un ragazzo polacco che tremava come una foglia mentre cercava con difficoltà di buttare nella spazzatura un enorme fagotto. Il polacco era imbrattato di sangue e la paura rendeva difficile ogni suo gesto. Il fagotto era un corpo. Un corpo martoriato, torturato, sfigurato in modo talmente atroce che sembrava impossibile si potesse conciare così un corpo. Una mina fatta inghiottire a qualcuno e poi esplosa nello stomaco avrebbe fatto meno scempio. Il corpo era di Edoardo La Monica, ma non si distinguevano più i lineamenti. La faccia aveva soltanto le labbra, il resto era tutto sfondato. Il corpo pieno zeppo di buchi era ovunque incrostato di sangue. L'avevano legato e poi con una mazza chiodata seviziato lentamente, per ore. Ógni botta sul corpo era un foro, botte che non rompevano solo le ossa ma foravano la carne, chiodi che entravano e uscivano. Gli avevano tagliato le orecchie, mozzato la lingua, spaccato i polsi, cavato gli occhi con un cacciavite, da vivo, da sveglio, da cosciente. E poi per ucciderlo gli avevano sfondato la faccia con un martello e con un coltello inciso una croce sulle labbra. Il corpo doveva finire nella spazzatura per farlo ritrovare marcio, tra la monnezza in una discarica. Il messaggio scritto sulla carne viene da tutti decifrato con chiarezza, anche se non vi sono altre prove che quella tortura. Tagliate le orecchie con cui hai sentito dove il boss era nascosto, spezzati i polsi con cui hai mosso le mani per ricevere i soldi, cavati gli occhi con cui hai visto, tagliata la lingua con la quale hai parlato. La faccia sfondata che hai perso dinanzi al Sistema facendo quello che hai fatto. Sigillate le labbra con la croce: chiuse per sempre dalla fede che hai tradito. Edoardo La Monica era incensurato. Un cognome pesantissimo il suo, quello di una delle famiglie che avevano reso Secondigliano terra di camorra e miniera d'affari. La famiglia dove Paolo Di Lauro aveva mosso i primi passi. La morte di Edoardo La Monica somiglia a quella di Giulio Ruggiero. Entrambi dilaniati, torturati con meticolosità a poche ore dagli arresti dei boss. Scarnificati, pestati, squartati, scuoiati. Da anni non si vedevano più omicidi con così tanta diligente e sanguinaria volontà simbolica: con la fine del potere di Cutolo e del suo killer Pasquale Barra detto "'o rumale" famoso per aver ucciso in carcere Francis Turatello, e avergli azzannato il cuore dopo averglielo strappato dal petto con le mani. Queste ritualità si erano estinte, ma la faida di Secondigliano le aveva riesumate rendendo ogni gesto, ogni centimetro di carne, ogni parola uno strumento di comunicazione di guerra.

In conferenza stampa gli ufficiali dei ROS dichiararono che l'arresto era avvenuto individuando la vivandiera che acquistava il pesce preferito da Di Lauro, la pezzogna. Il racconto sembrava sin troppo adatto a sgretolare l'immagine di un boss potentissimo, capace di muovere centinaia di sentinelle ma che infine si era fatto beccare per un peccato di gola. Neanche per un attimo a Secondigliano sembrò credibile la traccia dell'inseguimento della pezzogna. Molti indicavano piuttosto il SISDE come unico responsabile dell'arresto. Il SISDE era intervenuto, lo confermavano anche le forze dell'ordine, ma della sua presenza a Secondigliano era difficile, difficilissimo intuirne la presenza. La traccia di qualcosa che si avvicinasse molto all'ipotesi che seguivano molti cronisti, ossia che il SISDE avesse messo a stipendio diverse persone della zona in cambio di informazioni o di non-interferenza, l'avevo trovata in alcuni spezzoni di chiacchiere da bar. Uomini che prendendo il caffè o cappuccino con cornetto, pronunciavano frasi tipo:

"Visto che tu prendi i soldi da James Bond…" !

Mi capitò due volte, in quei giorni, di sentir nominare in modo furtivo o allusivo 007, un fatto troppo piccolo e risibile per trarne qualsiasi cosa, al tempo stesso troppo anomalo per passare inosservato.

La strategia dei servizi segreti nell'arresto di Di Lauro potrebbe essere stata quella di individuare i responsabili tecnici delle vedette, assoldarli così da poter far dislocare tutti i pali e le sentinelle in altre zone impedendo di dare allarme e far fuggire il boss. La famiglia di Edoardo La Monica smentisce ogni suo possibile coinvolgimento, affermando che il ragazzo non aveva mai fatto parte del Sistema, che aveva paura dei clan e dei loro affari. Forse ha pagato al posto di qualcun altro della sua famiglia, ma la chirurgica tortura sembra essere stata commissionata per venire ricevuta e non spedita attraverso il suo corpo a qualcun altro.

Un giorno vidi un gruppetto di persone non lontano da dove era stato ritrovato il corpo di Edoardo La Monica. Un ragazzo cominciò a indicare il proprio anulare e poi toccandosi la testa muoveva le labbra, senza emettere suono. Mi venne in mente subito, come un cerino acceso davanti alle palpebre, il gesto di Vincenzo Di Lauro nell'aula di tribunale, quel gesto strano, insolito, quel chieder come prima cosa, dopo anni che non vedeva il padre, dell'anello. L'anello, in napoletano "aniello". Un messaggio per indicare Aniello e l'anulare come fede. Quindi la fedeltà tradita, come se stesse segnalando il ceppo familiare del tradimento. Da dove era arrivata la responsabilità dell'arresto. Chi aveva parlato.

Aniello La Monica era il patriarca della famiglia, per anni nel quartiere hanno chiamato i La Monica gli "anielli" come i Gionta di Torre Annunziata venivano chiamati i "valentini" dal boss Valentino Gionta. Aniello La Monica, secondo le dichiarazioni del pentito Ruocco e di Luigi Giuliano, era stato fatto fuori proprio dal suo figlioccio Paolo Di Lauro. Certo è che gli uomini dei La Monica sono tutti nelle file dei Di Lauro. Ma questa atroce morte potrebbe essere la punizione per la vendetta di quella morte di vent'anni prima, una vendetta servita fredda, gelida, con una delazione più violenta di una raffica di colpi. Una memoria lunga, lunghissima. Una memoria che sembra condivisa dai clan che a Secondigliano si sono succeduti ai vertici del potere e dal quartiere stesso su cui regnano. Ma che resta fondata su voci, ipotesi e sospetti capaci forse di produrre effetti come un arresto clamoroso o un corpo martoriato, però mai depositarsi in verità. Una verità che dev'essere sempre ostinatamente interpretata, come un geroglifico che, ti insegnano, è meglio non decifrare.

Secondigliano era tornata a vivere nei suoi meccanismi economici di sempre. Gli Spagnoli e i Di Lauro avevano tutti i dirigenti in galera. Nuovi capizona stavano emergendo, nuovi dirigenti ragazzini iniziavano a muovere i primi passi nelle sfere del comando. La parola faida nel corso dei mesi è scomparsa e si è iniziato a definirla "Vietnam".

"Quello., ha fatto il Vietnam… quindi mo deve stare tranquillo."

"Dopo il Vietnam qua tutti hanno paura…"

"Il Vietnam è finito o no?"

Sono frammenti di frasi pronunciate ai cellulari dalle nuove leve del clan. Telefonate intercettate dai carabinieri per giungere all'arresto di Salvatore Di Lauro l'8 febbraio 2006, il diciottenne figlio del boss che aveva iniziato a coordinare un piccolo esercito di ragazzini per lo spaccio. Gli Spagnoli hanno perso la battaglia, ma pare abbiano raggiunto il loro obiettivo di rendersi autonomi, con un cartello proprio ed egemone comandato da giovanissimi. I carabinieri hanno intercettato un SMS che una ragazzina ha mandato a un capo-piazza giovanissimo arrestato durante il periodo della faida e tornato a spacciare appena uscito di galera: "Auguri per il lavoro e il ritorno nel rione, mi emoziona la tua vittoria, congratulazioni!".

La vittoria era quella militare, le congratulazioni per averla combattuta dalla parte giusta. I Di Lauro sono in galera, ma hanno salvato pelle e business, almeno quello familiare.

La situazione si calmò d'improvviso dopo le trattative tra i clan e dopo gli arresti. Giravo per una Secondigliano sfiancata, calpestata da troppe persone, fotografata, ripresa, abusata. Affaticata da tutto. Riuscivo a fermarmi davanti ai murales di Felice Pignataro, davanti ai volti del sole, ai teschi ibridati coi pagliacci. Murales che regalavano al cemento armato un marchio di leggera e inaspettata bellezza. D'improvviso esplosero in cielo dei fuochi d'artificio, e i rumori ossessivi dei tric-trac non terminavano mai. Le troupe giornalistiche che stavano smantellando le loro postazioni dopo l'arresto del boss, si catapultarono a vedere cosa fosse. L'ultimo servizio prezioso, due intere palazzine erano in festa. Accesero i microfoni, i fari illuminavano le facce, telefonarono ai capiservizio per annunciare un servizio sui festeggiamenti degli Spagnoli per l'arresto di Paolo Di Lauro. Mi avvicinai per chiedere cosa fosse, un ragazzo mi rispose contento per la mia domanda: "È per Peppino, è uscito dal coma". Peppino stava andando a lavorare un anno prima quando la sua Ape, il treruote che lo portava al mercato, aveva iniziato a sbandare e si era capovolta. Le strade napoletane sono idrosolubili, dopo due ore di pioggia il basalto inizia a galleggiare e il catrame si scioglie come fosse impastato con la salsedine. L'Ape si era ribaltata e Peppino aveva avuto un gravissimo trauma cranico. Per recuperarlo dalla scarpata dove era finita l'Ape avevano usato un trattore fatto venire dalla campagna. Dopo un anno di coma si era svegliato e dopo qualche mese l'ospedale gli aveva dato il permesso di tornare a casa. Il quartiere festeggiava il suo ritorno. Appena sceso dall'auto, mentre ancora lo sistemavano in carrozzella avevano fatto partire i primi fuochi d'artificio. I bambini si facevano fare le fotografie mentre gli accarezzavano la testa completamente rasata. La madre di Peppino lo proteggeva da carezze e baci troppo violenti per le sue forze stremate. Gli inviati che erano sul posto ritelefonarono alle redazioni, bloccarono tutto, la serenata calibro 38 che volevano riprendere era svanita in una festa per un ragazzino uscito dal coma. Tornarono indietro per andare agli alberghi, io proseguii. Mi infilai a casa di Peppino, come un felice imboscato a una festa troppo allegra per mancare. Per tutta la notte brindai alla salute di Peppino con tutte le persone del palazzo. Sparsi sui gradini delle scale, tra pianerottoli e porte aperte senza comprendere di chi fossero le case aperte e piene d'ogni cosa sui tavoli. Completamente zuppo di vino mi misi a fare la staffetta con la Vespa tra un bar ancora aperto e casa di Peppino rifornendo tutti di bottiglie di rosso e Coca Cola. Quella notte Secondigliano era silenziosa e stremata. Senza giornalisti ed elicotteri. Senza vedette e pali. Un silenzio che faceva venire voglia di dormire, come di pomeriggio sulla sabbia con le braccia intrecciate sotto la nuca non pensando più a niente.


Donne

Avevo addosso come l'odore di qualcosa di indefinibile. Come la puzza che impregna il cappotto quando si entra in friggitoria e poi uscendo lentamente si attenua, mischiandosi ai veleni dei tubi di scappamento. Puoi farti decine di docce, mettere la carne a mollo in vasca per ore con i sali e i balsami più odorosi: non te la togli più di dosso. E non perché è entrata nella carne come il sudore degli stupratori, ma l'odore che ti senti addosso comprendi che l'avevi già dentro; come sprigionato da una ghiandola che non era mai stata stimolata, una ghiandola sopita che d'improvviso si mette a secernere, attivata ancor prima che dalla paura da una sensazione di verità. Come se esistesse nel corpo qualcosa in grado di segnalarti quando stai fissando il vero. Con tutti i sensi. Senza mediazioni. Una verità non raccontata, riportata, fotografata, ma è lì che ti si dà. Capire come funzionano le cose, come va il percorso del presente. Non c'è pensiero che possa attestare verità a ciò che hai visto. Dopo aver fissato una guerra di camorra nelle pupille, le immagini troppo numerose gonfiano la memoria, e non ti vengono in mente singolarmente ma tutte insieme, sovrapponendosi e confondendosi. Non puoi fare affidamento sugli occhi. Non ci sono rovine di palazzi, dopo una guerra di camorra, e la segatura secca presto il sangue. Come se fossi stato soltanto tu a vedere o subire, come se qualcuno fosse pronto a indicarti col dito e dire "non è vero".

L'aberrazione di una guerra di clan, capitali che si fronteggiano, investimenti che si scannano, ipotesi finanziarie che si divorano, trova sempre una motivazione consolatrice, un senso che possa sospingere altrove il pericolo, capace di far sentire lontano, lontanissimo un conflitto che sta invece avvenendo nell'androne di casa. Puoi collocare tutto in un casellario di senso che lentamente ti costruisci, ma gli odori, quelli non possono essere irreggimentati, ci sono. Lì. Come traccia estrema e unica di un patrimonio d'esperienza disperso. Nel naso mi erano rimasti odori; non solo l'odore di segatura e sangue, né i dopobarba dei ragazzini soldati messi su guance senza peli, ma soprattutto i sapori dei profumi femminili. Mi rimaneva sotto le narici l'odore pesante dei deodoranti, delle lacche, dei profumi dolci.

Le donne sono sempre presenti nelle dinamiche di potere dei clan. Non è casualità che la faida di Secondigliano ha visto eliminare due donne con ferocia riservata solitamente solo ai boss. Così come centinaia di donne erano scese in strada a impedire gli arresti di spacciatori e sentinelle, a incendiare cassonetti e strattonare per i gomiti i carabinieri. Le ragazzine le vedevo correre ogni volta che una telecamera spuntava per strada, si catapultavano davanti agli obiettivi, sorridevano, accennavano un motivetto, chiedevano di essere intervistate, gironzolavano intorno al cameraman per vedere quale logo ci fosse sulla telecamera, per capire quale televisione le stesse riprendendo. Non si sa mai. Qualcuno avrebbe potuto osservarle e chiamarle in qualche trasmissione. Le occasioni qui non capitano ma si strappano coi denti, si comprano, si cercano scavando. Le occasioni devono uscire per forza. E così anche con i ragazzi, nulla è lasciato alla casualità dell'incontro, al fato dell'innamoramento. Ogni conquista è una strategia. E le ragazze che non fanno strategie rischiano una leggerezza pericolosa e di trovarsi mani dappertutto e lingue così insistenti da trapanare i denti serrati. D jeans attillato, la maglietta aderente: tutto deve rendere la bellezza un'esca. La bellezza in certi luoghi sembra una trappola, anche se la più piacevole delle trappole. E così se cedi, se insegui il piacere di un momento, non sai a cosa vai incontro. La ragazza sarà tanto più brava se riuscirà a farsi corteggiare dal migliore e una volta caduto nella trappola, conservarlo, trattenerlo, sopportarlo, ingoiarlo a naso tappato. Ma tenerlo per sé. Tutto. Una volta passavo vicino a una scuola. Da una moto scese una ragazzina. Scese lentamente per dare il tempo a tutti di osservare bene la moto, il casco, i guanti da motociclista e i suoi stivali a punta che a stento riusciva a mettere per terra. Un bidello, uno di quelli eterni che tengono sotto gli occhi generazioni di ragazzini, le si avvicinò e disse: "France', ma già fai ammore? E poi con Angelo, ma tu lo sai che finisce a Poggioreale?".

"Fa ammore" non significa fare l'amore, ma fidanzarsi. Questo Angelo era da poco entrato nel Sistema e non sembrava ricoprire cariche poco importanti. Presto secondo il bidello sarebbe finito nel carcere di Poggioreale. Prima ancora che la ragazzina tentasse di difendere il suo ragazzo, aveva pronta una risposta. Una risposta di quelle che sembrano trovarsi in tasca: "E qual è il problema perché non mi dà lo stesso la mesata? Quello mi vuole bene veramente…".

La mesata. Questo il primo successo della ragazza. Qualora fosse finito in galera il suo ragazzo, avrebbe conquistato un salario. La mesata è il salario mensile che i clan danno alle famiglie degli affiliati. Fidanzandosi, la mesata viene girata alla fidanzata anche se conviene, per essere certi della reversibilità, essere incinta. Non necessariamente sposata, basta un bambino, anche solo nella pancia. Se sei soltanto fidanzata rischi che si presenti al clan qualche altra ragazza, magari sino ad allora tenuta nascosta, ragazze che non sanno l'una dell'altra. In questo caso o è il responsabile di zona del clan che decide se dividere la mesata tra due donne, cosa rischiosa perché genera molta tensione tra famiglie, o si fa decidere all'affiliato a quale ragazza darla. Si decide nella maggior parte delle volte di non dare la mesata a nessuna delle due, girandola direttamente alla famiglia del carcerato e risolvendo così di netto il problema. Matrimonio o puerperio, sono gli elementi che garantiscono con certezza gli stipendi. I soldi vengono portati quasi sempre a mano, evitando così di lasciare troppe tracce sui conti correnti. Vengono portati dai "sottomarini". H sottomarino è la persona che viene incaricata di distribuire le mensilità. Li chiamano così perché strisciano sul fondo delle strade. Non si fanno mai vedere, non devono essere facilmente rintracciabili perché possono essere ricattati, messi sotto pressione, rapinati. Emergono dalla strada d'improvviso, arrivando alle stesse case seguendo percorsi sempre diversi. Il sottomarino cura gli stipendi dei livelli più bassi del clan. I dirigenti invece chiedono la somma di cui hanno bisogno di volta in volta e trattano direttamente con i cassieri. I sottomarini non sono parte del Sistema, non vengono affiliati; potrebbero, gestendo i salari, sfruttare questo ruolo fondamentale e aspirare a crescere nel clan. Sono quasi sempre pensionati, ragionieri di negozio, vecchi contabili di bottega, che lavorando per i clan incassano un altro stipendio arrotondando la pensione e soprattutto riuscendo a uscire di casa senza marcire davanti alla televisione. Bussano il 28 di ogni mese, poggiano le loro buste di plastica sui tavoli e poi dall'interno della giacca, da una tasca gonfissima, cacciano una busta di carta con sopra scritto il cognome dell'affiliato morto o in galera e la danno alla moglie, o se non c'è al figlio più grande. Quasi sempre assieme alla mesata portano anche un po' di spesa. Prosciutto, frutta, pasta, uova, un po' di pane. Salgono le scale strusciando le buste vicino alle pareti. Quello struscio continuo, i piedi pesanti, quello è il campanello del sottomarino. Sono sempre carichi come asini, comprano la spesa nelle stesse salumerie e dai medesimi fruttivendoli, fanno un unico carico che poi portano a tutte le famiglie. Si comprende quante mogli di carcerati o vedove di camorristi vivono in una strada da come il sottomarino è carico.

Don Ciro è stato l'unico sottomarino che sono riuscito a conoscere. È del centro storico, ha curato gli stipendi di clan ormai allo sbando ma che lentamente, in questa nuova fase fertile, stanno cercando di riorganizzarsi e non soltanto di sopravvivere. I clan dei Quartieri Spagnoli e per alcuni anni anche quelli di Forcella. Ora lavorava saltuariamente per il clan del quartiere Sanità. Don Ciro era talmente capace di trovare nel dedalo dei vicoli napoletani case, bassi, seminterrati, palazzi senza numero civico, case ricavate negli angoli dei pianerottoli, che a volte i postini, che si perdevano continuamente, gli affidavano la posta da portare ai suoi clienti. Don Ciro aveva le scarpe sfondate, nel senso che l'alluce gli faceva un bozzo, come un bubbone, in punta e le suole erano consumate sul tallone. Quelle scarpe erano davvero l'emblema del sottomarino e simboli autentici dei chilometri macinati a piedi per vicoli e salite, di percorsi resi più lunghi nelle strade del corpo di Napoli, assaliti dalla paranoia di inseguimento o rapine. Don Ciro indossava pantaloni maltrattati, sembravano puliti ma non stirati. Non aveva più moglie e la sua nuova compagna moldava era troppo giovane per occuparsi davvero di lui. Pauroso sin nel midollo, guardava sempre per terra anche quando mi parlava, aveva i baffi gialli, laccati dalla nicotina così come l'indice e il medio della mano destra. I sottomarini danno la mesata anche agli uomini delle donne finite dentro. È umiliante per loro ricevere la mesata della moglie carcerata, così in genere i sottomarini per evitare finti rimproveri, urla sui pianerottoli, plateali cacciate di casa fatte però senza dimenticare mai di prendere prima la busta coi soldi, per evitare tutto questo, vanno in casa delle madri delle affiliate, e recapitano a loro il mensile da girare alla famiglia della detenuta. I sottomarini ascoltano ogni tipo di lamentela dalle mogli degli affiliati. Lamentele sull'aumento delle bollette, del fitto, sui figli che si fanno bocciare o che vogliono andare all'università. Ascoltano ogni richiesta, ogni inciucio sulle mogli degli altri affiliati che hanno più soldi perché i mariti più furbi sono riusciti a crescere di grado all'interno dei clan. Mentre parlano, il sottomarino ripete continuamente "lo so, lo so, lo so". Come per far sfogare meglio le signore, a fine discorso pronuncia soltanto due tipi di risposte: "Non dipende da me" oppure "Io porto solo i soldi: chi decide non sono io". Le mogli sanno bene che i sottomarini non decidono nulla, ma sperano che riempiendoli di lamentele prima o poi qualcosa dalla bocca del sottomarino uscirà dinanzi a qualche capozona, e forse si decideranno ad aumentare i salari e a concedere maggiori favori. Don Ciro era talmente abituato a dire "lo so lo so", che ogni qual volta

si parlava con lui, su qualsiasi argomento lui cantilenava "lo so, lo so, lo so". Aveva portato le mesate a centinaia di donne di camorra, avrebbe potuto tracciare memorie precise di generazioni di donne, di mogli e fidanzate e anche di uomini soli. Storiografie dei commenti critici a boss e politici, ma don Ciro era un sottomarino silenzioso e malinconico che davvero aveva fatto della sua testa un corpo vuoto dove rimbombava, senza lasciar traccia, ogni parola ascoltata. Mentre gli parlavo mi aveva trascinato dal centro alla periferia di Napoli, poi mi salutò e prese un bus che l'avrebbe fatto tornare al punto da dove eravamo partiti. Era tutto parte della strategia di depistaggio per evitare che intuissi, anche soltanto lontanamente, dove abitasse.

Per molte donne sposare un camorrista spesso è come ricevere un prestito, come un capitale conquistato. Se destino e capacità lo permetteranno quel capitale frutterà, e le donne diventeranno imprenditrici, dirigenti, generalesse di un potere illimitato. Può andare male e rimarranno solo ore in sala d'attesa nelle carceri e preghiere umilianti per andare a fare la colf in concorrenza con le slave, per poter pagare gli avvocati e dare da mangiare ai figli, se il clan va in rovina e non riesce più a dare la mesata. Le donne di camorra attraverso il loro corpo concedono fondamento ad alleanze, il loro volto e il loro comportamento raccolgono e dimostrano il potere della famiglia, in pubblico si riconoscono i loro veli neri ai funerali, le urla durante gli arresti, i baci lanciati oltre le sbarre durante le udienze ai processi.

L'immagine delle donne di camorra sembra comporsi divisioni scontate, donne capaci di fare da eco solo al dolore e alle volontà dei maschi: fratelli, mariti, figli. Non è così. La trasformazione del mondo camorristico negli ultimi anni ha portato anche a una metamorfosi del ruolo femminile che da identità materna, da assistente di sventura è divenuta vera e propria figura manageriale, impegnata quasi esclusivamente nell'attività imprenditoriale e finanziaria, delegando ad altri le imprese militari e i traffici illegali.

Una figura storica di dirigente camorrista è sicuramente Anna Mazza, vedova del padrino di Afragola, una delle prime donne in Italia a essere condannata per reati d'associazione mafiosa, come capo di un sodalizio criminale e imprenditoriale tra i più potenti. Anna Mazza sfruttò inizialmente l'aura del marito Gennaro Moccia, ucciso negli anni '70. La "vedova nera della camorra", come venne ribattezzata, fu la vera mente del clan Moccia per oltre vent'anni, capace di ramificare ovunque il suo potere al punto tale che inviata negli anni '90 in soggiorno obbligato vicino Treviso riuscì — secondo diverse indagini — a prendere contatti con la mafia del Brenta, cercando di rinsaldare la sua rete di potere persino in totale isolamento. Fu accusata subito dopo la morte del marito di aver armato la mano del figlio non ancora tredicenne per uccidere il mandante dell'omicidio del padre. Ma per insufficienza di prove da quest'accusa è stata assolta. La Mazza aveva una gestione verticistica, imprenditoriale e fortemente ostile a impennate militari, capace di condizionare ogni ambito del territorio da lei egemonizzato, come dimostra lo scioglimento nel 1999, per infiltrazioni camorristiche, del comune di Afragola. I politici la seguivano, cercavano il suo appoggio. Anna Mazza era una pioniera. Prima di lei c'era stata solo Pupetta Maresca, la bella killer vendicatrice che divenne celebre in tutt'Italia a metà anni '50, quando incinta di sei mesi decise di vendicare la morte del marito Pa-scalone 'e Nola.

Anna Mazza non fu soltanto vendicatrice. Comprese che sarebbe stato più semplice sfruttare il ritardo culturale dei boss camorristi godendo di una sorta di impunità che veniva riservata alle donne. Un ritardo culturale che la rendeva immune da agguati, invidie, e conflitti. Negli anni '80 e '90 riuscì a dirigere la famiglia con spiccata propensione al miglioramento delle proprie imprese, alla volontà di trovare vantaggio attraverso una certosina scalata nell'ambito edilizio. H clan Moccia divenne tra i più importanti nella gestione degli appalti edili, nel controllo delle cave e nella mediazione dell'acquisto di terreni edificabili. Tutto il napoletano che si dipana da Frattamaggiore, Crispano, Sant'Antimo e poi Frat-taminore, Caivano, è dominato da capizona legati ai Moccia. Negli anni '90 divennero uno dei pilastri della Nuova Famiglia, il vasto cartello di clan che si oppose alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e che fu capace come giro d'affari e potere politico di superare i cartelli di Cosa Nostra. Con il tracollo dei partiti che avevano ricevuto vantaggio dall'alleanza con le imprese dei clan, i boss della Nuova Famiglia si ritrovarono a essere gli unici arrestati e condannati all'ergastolo. Non volevano pagare al posto dei politici che avevano aiutato e sostenuto. Non volevano essere considerati il cancro di un sistema che invece avevano tenuto in piedi essendone parte viva e produttiva, anche se criminale. Decisero di pentirsi. Negli anni '90 Pasquale Galasso, boss di Poggio-marino, fu il primo personaggio di altissimo calibro imprenditoriale e militare che iniziò a collaborare con la giustizia. Nomi, logiche, capitali, una scelta di pentimento totale, che fu ripagata dallo Stato con la tutela dei beni della sua famiglia, e in parte anche i suoi. Galasso svelò tutto ciò che sapeva. Furono i Moccia la famiglia della grande confederazione che prese su di sé l'incarico di farlo tacere per sempre. Le parole di Galasso avrebbero potuto distruggere il clan della vedova in una manciata di ore e in pochi giri di rivelazioni. Tentarono di corrompere la sua scorta per farlo avvelenare, progettarono di eliminarlo a colpi di bazooka. Ma dopo i falliti tentativi militari organizzati dai maschi di casa per eliminarlo, intervenne Anna Mazza che intuì esser giunto il momento di una nuova strategia. Proporre la dissociazione. Fece trasmigrare il concetto dal terrorismo alla camorra. I militanti delle organizzazioni armate si dissociavano senza pentirsi, senza svelare nomi e accusare mandanti ed esecutori. Dissociarsi era una presa di distanza ideologica, una decisione della coscienza, un tentativo di delegittimare una pratica politica il cui solo rifiuto morale, ufficializzato, bastava a procurare sconti di pena. Per la vedova Mazza sarebbe stato davvero il trucco migliore per eliminare ogni pericolo di pentimento, e al contempo far credere che i clan fossero esterni allo Stato. Allontanarsi ideologicamente dalla camorra, usufruendo dei vantaggi, gli sconti di pena, i miglioramenti delle condizioni carcerarie, ma senza svelare meccanismi, nomi, conti correnti, alleanze. Quella che per alcuni osservatori poteva essere considerata un'ideologia, quella camorrista appunto, per i clan non era altro che l'agire economico e militare di un gruppo in affari. I clan si stavano trasformando: la retorica criminale cessava, la mania cutoliana dell'ideologizzazione dell'agire camorrista era esaurita. La dissociazione poteva essere la soluzione al letale potere dei pentiti, che seppur gonfio di contraddizioni è il vero fulcro dell'attacco al potere della camorra. E la vedova comprese l'alto potenziale di questo trucco. I figli scrissero a un prete facendo mostra di volersi redimere, una macchina piena di armi avrebbe dovuto esser lasciata ad Acerra davanti a una chiesa come simbolo di "dissociazione" del clan, come TIRA fa con gli inglesi. Deposizione delle armi. Ma la camorra non è un'organizzazione indipendentista, un nucleo armato, e le sue armi non sono il suo reale potere. Quella macchina non fu mai fatta trovare e la strategia della dissociazione nata dalla testa di una donna boss, lentamente perse fascino, non venne ascoltata dal parlamento e dalla magistratura, ma neanche più sostenuta dai clan. I pentiti divennero sempre di più e con verità sempre meno utili, e le grandi rivelazioni di Galasso sconfessarono gli apparati militari dei clan, lasciandone però praticamente intatti i piani imprenditoriali e politici. Anna Mazza continuò la sua costruzione di una sorta di matriarcato della camorra. Le donne come vero centro del potere e gli uomini braccia armate, mediatori, dirigenti soltanto dopo le decisioni delle donne. Decisioni importanti, economiche e militari, spettavano alla vedova nera.

Le donne del clan garantivano maggiore capacità imprenditoriale, minore ossessione riguardo l'ostentazione del potere e minore volontà di conflitto. Donne le dirigenti, donne le loro guardaspalle, donne le imprenditrici del clan. Una sua "dama di compagnia", Immacolata Capone, nel corso degli anni fece fortuna all'interno del clan. Immacolata fu la madrina di Teresa, la figlia della vedova. Non aveva un aspetto da matrona con capelli fonati e guance piene come Anna Mazza, Immacolata era minuta, un caschetto biondo sempre ordinato, un'eleganza sobria. Non aveva nessun tratto dell'ombrosa camorrista. E piuttosto che alla ricerca di uomini che le conferissero maggiore autorevolezza, erano gli uomini che si legavano a lei per avere protezione. Sposò Giorgio Sa-lierno, camorrista implicato nei tentativi di ostacolare il pentito Galasso, e poi si legò a un uomo del clan Puca di Sant'Antimo, una famiglia dal passato potente vicina a Cuto-lo, un clan reso celebre dal fratello del compagno di Immacolata, Antonio Puca. Nella sua tasca fu trovata un'agendina con il nome di Enzo Tortora, il presentatore televisivo accusato ingiustamente di essere un camorrista. Quando Immacolata raggiunse la maturità economica e dirigenziale, il clan era in crisi. Carcere e pentiti avevano messo a repentaglio il certosino lavoro di donna Anna. Ma Immacolata puntò tutto sul cemento, gestiva anche una fabbrica di laterizi al centro di Afragola. L'imprenditrice aveva fatto di tutto per legarsi al potere del clan dei Casalesi, che più di ogni altro gestisce sul piano nazionale e internazionale gli affari nel campo dell'edilizia e delle costruzioni. Secondo le indagini della DDA di Napoli, Immacolata Capone fu l'imprenditrice capace di riportare le ditte dei Moccia a conquistare nuovamente la leadership nel campo dell'edilizia. A sua disposizione vi era la ditta MOTRER, una delle imprese più importanti nel campo del movimento terra del mezzogiorno italiano. Aveva messo su un impeccabile meccanismo — secondo le indagini — con il consenso di un politico locale. Il politico concedeva gli appalti, l'imprenditore li vinceva e donna Immacolata li prendeva in subappalto. Credo di averla vista soltanto una volta. Proprio ad Afragola mentre stava entrando in un supermarket. Le sue guardaspalle erano due ragazze. La scortavano seguendola con una Smart, la piccola auto biposto che ogni donna di camorra possiede. Dallo spessore delle porte però quella Smart sembrava blindata. Nell'immaginario le guardie del corpo donna possono apparire come quelle cul-turiste dove ogni muscolo gonfiato le rende maschili. Cosce a grappoli, pettorali che hanno ingollato i seni, bicipiti ipertrofici, collo a tronco. Le guardaspalle che mi trovai davanti invece non avevano niente della virago. Una bassina con sedere grosso e molle e una tintura nera eccessiva, l'altra magra, esile, spigolosa. Mi colpì l'abbigliamento curatissimo, entrambe avevano qualcosa che ricordava i colori della Smart, giallo fluorescente. Una aveva una maglietta dello stesso colore dell'auto, mentre la donna al volante aveva la montatura degli occhiali da sole gialla. Un giallo che non poteva essere stato scelto per caso, né tantomeno indossato per una coincidenza. Era uno dei tocchi di professionalità. La stessa tonalità di giallo della tuta da motociclista che Urna Thurman indossa in Kill Bill di Quentin Tarantino, un film dove per la prima volta donne sono protagoniste criminali di prim'ordine. Quel giallo della tuta che Urna Thurman indossa anche nel manifesto del film, con la spada da samurai sguainata, e che ti rimane negli occhi e forse anche sulle papille gustative. Un giallo così falso da diventare simbolo. L'impresa vincente deve dare un'immagine vincente. Nulla viene lasciato al caso, neanche il colore dell'auto e la divisa delle guardie del corpo. La Capone aveva dato l'esempio dal momento che moltissime donne inserite a diverso titolo e livello nei clan pretendono la scorta femminile, e ne curano l'armonia di stile e immagine.

Qualcosa però non stava andando per il verso giusto. Forse aveva invaso territori non suoi, forse conservava segreti ricattatori: Immacolata Capone venne uccisa nel marzo 2004 a Sant'Antimo, il paese del suo compagno. Era senza scorta. Non credeva forse di correre un pericolo. L'esecuzione avvenne al centro del paese, i killer si mossero a piedi. Immacolata Capone appena intuì di essere seguita iniziò a scappare, la gente intorno credeva fosse stata scippata e stesse inseguendo i ladri, ma la borsa l'aveva a tracolla. Correva tenendosi la borsa stretta al petto in un istinto che non permette di lasciare, di far cascare per terra ciò che rende più complicata la corsa per salvarsi la vita. Immacolata entrò in una polleria, ma non fece in tempo a rifugiarsi dietro al bancone. La raggiunsero e posarono la canna della pistola dietro la nuca. Due colpi secchi: il ritardo culturale, che evitava di toccare le donne, di cui aveva goduto Anna Mazza, venne così colmato. Il cranio sfondato dai proiettili e la faccia riversa nel sangue denso mostrarono il nuovo corso della politica militare dei clan. Nessuna differenza tra uomo e donna. Nessun presunto codice d'onore. Ma il matriarcato dei Moccia ha agito lentamente mantenendosi sempre pronto ai grandi affari, controllando un territorio con investimenti oculati e mediazioni finanziare di prim'ordine, egemonizzando l'acquisto di terreni, evitando faide e alleanze che avrebbero potuto ingerire nelle imprese di famiglia.

Ora su un territorio egemonizzato dalle loro ditte, si erge il più grande complesso Ikea d'Italia e il più esteso cantiere dell'alta velocità del mezzogiorno italiano partirà proprio da questa zona. Per l'ennesima volta, nell'ottobre 2005, il comune di Afragola è stato sciolto per infiltrazione camorristica. Le accuse sono pesanti, oltre duecentocinquanta assunzioni di persone, legate da stretti vincoli di parentela al clan Moccia, sono state chieste da un gruppo di consiglieri comunali di Afragola al presidente di una struttura commerciale.

Nella decisione di sciogliere il consiglio hanno pesato anche alcune concessioni edilizie date in violazione delle norme. Ci sono megastrutture sui terreni di proprietà dei boss e si parla anche dell'ospedale che dovrebbe essere costruito su terreni acquistati dal clan Moccia, proprio in concomitanza con i dibattiti in consiglio comunale. Terreni acquistati a prezzo basso, bassissimo e dopo esser divenuti suoli su cui edificare l'ospedale, venduti ovviamente a costi astronomici. Un guadagno del 600 per cento sul prezzo iniziale. Un guadagno che solo le donne dei Moccia potevano ottenere.

Donne in trincea per difendere i beni e le proprietà del clan, come fece Anna Vollaro, nipote del boss del clan di Portici, Luigi Vollaro. Aveva ventinove anni quando i poliziotti si presentarono per sequestrare l'ennesimo locale della famiglia, una pizzeria. Prese una tanica di benzina, se la versò addosso e con un accendino si diede fuoco. Per evitare che qualcuno tentasse di spegnere le fiamme iniziò a correre all'impazzata. Finì per sbattere contro il muro e l'intonaco si annerì come quando una presa della corrente va in cortocircuito. La Vollaro si fece ardere viva per protestare contro il sequestro di un bene acquistato con capitali illeciti che lei considerava soltanto il risultato di un percorso imprenditoriale normale, naturale.

Si crede che nella prassi criminale il vettore militare porti, una volta raggiunto il successo, al ruolo di imprenditore. Non è così, o almeno non sempre. Ne è un esempio la faida di Quindici, un paese in provincia di Avellino, che subisce da anni la presenza asfissiante e perenne dei clan Cava e Graziano. Le due famiglie sono da sempre in guerra, le donne costituiscono il vero fulcro economico. Il terremoto dell'80 distrugge la Valle di Lauro, la pioggia di miliardi di lire per la ricostruzione dà origine a una borghesia imprenditrice camorrista, ma a Quindici accade qualcosa di più e di diverso di quanto avviene in tutte le altre zone della Campania: non solo uno scontro tra fazioni, ma una faida familiare che nel corso degli anni fa registrare una quarantina di agguati feroci che seminano lutti tra i due nuclei contendenti. Si innesca una carica di odio insanabile che contagia come un morbo dell'anima tutti i rappresentanti delle due famiglie per diverse generazioni. Il paese assiste impotente all'arena in cui si scannano e massacrano le due fazioni. I Cava negli anni '70 rappresentano una costola dei Graziano. Lo scontro nasce quando piovono a Quindici, negli anni '80, cento miliardi di lire per la ricostruzione post-terremoto, una somma che innesca il conflitto per disaccordi circa le quote di appalti e tangenti da spartire. I capitali che arrivano faranno costruire a entrambe le famiglie, attraverso la gestione delle donne dei due clan, piccoli imperi edili. Un giorno mentre il sindaco del paese, fatto eleggere dai Graziano, è nel suo ufficio, un commando dei Cava bussa alla sua porta. Non spararono subito, e questo diede il tempo al sindaco di aprire la finestra, uscire dal suo ufficio, arrampicarsi sul tetto del municipio e scappare sui tetti delle case, sfuggendo all'agguato. Il clan Graziano ha avuto tra le sue fila cinque sindaci, di cui due morti assassinati e tre rimossi, dal Presidente della Repubblica, per rapporti con la camorra. Ci fu un momento in cui però le cose sembrarono poter mutare. Una giovane farmacista, Olga Santaniello, venne eletta sindaco. Solo una donna tenace poteva rispondere al potere delle donne dei Cava e dei Graziano. Tentò in tutti i modi di sciacquare il lereiume del potere dei clan, ma non ce la fece. Una gravissima alluvione il 5 maggio del 1998 investì tutto il Vallo di Lauro, le case si spugnarono d'acqua e fango, le terre divennero stagni melmosi e le vie dei canali inagibili. Olga Santaniello morì annegata. Quel fango che la soffocò divenne doppiamente prolifico per i clan. L'alluvione portò altri danari, e con i nuovi capitali aumentò il potere delle due famiglie. Ci fu l'elezione di Antonio Siniscalchi, riconfermato quattro anni dopo in maniera plebiscitaria. Dopo la prima vittoria elettorale di Siniscalchi, dalla sede dei seggi si snodò un corteo a piedi, al quale parteciparono sindaco, consiglieri e i loro più aperti sostenitori. Il corteo raggiunse la frazione Brosagro sfilando davanti all'abitazione di Arturo Graziano, detto "guaglione", ma non era a lui che i saluti erano rivolti. Erano destinati soprattutto alle donne dei Graziano che, in fila sul balcone in ordine di età, ricevevano gli omaggi del nuovo sindaco dopo che la morte aveva definitivamente eliminato Olga Santaniel-lo. Successivamente Antonio Siniscalchi venne arrestato in un blitz della DDA di Napoli nel giugno del 2002. Secondo le accuse della Procura Antimafia di Napoli, con i primi fondi della ricostruzione aveva dato in appalto i lavori per rifare il viale e la recinzione della villa bunker dei Graziano.

Le ville sparse a Quindici, i nascondigli segreti, le strade asfaltate e la pubblica illuminazione erano opera del comune che con i soldi pubblici aiutava i Graziano e li rendeva immuni da attentati e agguati. Gli esponenti delle due famiglie vivevano barricati dietro cancelli invalicabili e sorvegliati ventiquattro ore su ventiquattro da telecamere a circuito chiuso.

Il boss Biagio Cava venne arrestato all'aeroporto di Nizza mentre stava imbarcandosi per New York. Una volta in carcere tutto il potere andò nelle mani della figlia, della moglie, delle donne del clan. Solo le donne si fecero vedere in paese, non erano soltanto le amministratrici occulte, le menti, ma divennero anche il simbolo ufficiale delle famiglie, le facce e gli occhi del potere. Per strada quando si incontravano le famiglie rivali si scambiavano occhiate feroci, sguardi alti, che si appiccicano sugli zigomi in un gioco assurdo che vede perdenti gli occhi che si abbassano. La tensione in paese era altissima quando le donne dei Cava compresero che era giunto il tempo di imbracciare le armi. Da imprenditrici dovevano divenire killer. Si addestrarono negli androni di casa, musica alta per coprire i rumori delle pistole scaricate contro i sacchi di nocciole provenienti dai loro latifondi. Mentre si svolgevano le elezioni comunali del 2002 iniziarono a girare armate per il paese nella loro Audi 80. Erano Maria Scibelli, Michelina Cava e le ragazzine Clarissa e Felicetta Cava di sedici e diciannove anni. In via Cassese l'auto delle donne dei Cava incrociò l'auto delle Graziano, c'erano Stefania e Chiara Graziano di venti e ventuno anni. Dall'auto delle Cava iniziarono a sparare ma le donne dei Graziano, come se si aspettassero l'agguato, inchiodarono la loro macchina e riuscirono a sterzare. Accelerarono, fecero inversione, scapparono. I colpi avevano rotto finestrini e bucato lamiere, ma non colpito la carne. Le due ragazze tornarono in villa gridando. Decisero di scendere a vendicare l'affronto direttamente la madre delle due ragazze, Anna Scibelli e il boss Luigi Salvatore Graziano, il settantenne patriarca della famiglia. Partirono tutti sulla sua Alfa, dietro di loro un'auto blindata con quattro persone armate di mitra e fucili. Intercettaronono l'Audi delle Cava e la tamponarono ripetutamente. L'auto di appoggio bloccava ogni via d'uscita laterale, poi sorpassò l'auto inseguita e le si inchiodò davanti ostruendo ogni altra via di fuga. Le donne dei Cava dopo il primo scontro a fuoco andato a vuoto, temendo di essere fermate dai carabinieri, si erano liberate delle armi. Così trovandosi dinanzi l'auto sterzarono e aprirono gli sportelli e si catapultarono fuori cercando di scappare a piedi. I Graziano scesero dalle auto e iniziarono a sparare contro le donne. Una pioggia di piombo investì gambe, teste, spalle, seni, guance, occhi. Caddero tutte a terra in pochi secondi, sparpagliando le scarpe e rimanendo con i piedi all'aria. Pare che i Graziano infierissero sui corpi, ma non si accorsero che una era ancora viva. Felicetta Cava infatti si salvò. Nella borsa di una delle Cava trovarono una boccetta di acido, forse oltre a sparare avrebbero voluto persino sfregiare le nemiche gettando acido sul viso.

Le donne sono maggiormente capaci di affrontare il crimine come se fosse soltanto lo spazio di un momento, il giudizio di qualcuno, uno scalino toccato e subito superato. Questo le donne dei clan lo mostrano con maggiore evidenza. Si sentono offese, vilipese quando vengono definite camorriste, criminali. Come se criminale fosse solo un giudizio su un operato, non un gesto oggettivo, un comportamento. Ma solo un'accusa. Sino a oggi del resto, a differenza degli uomini, nessuna donna, boss di camorra, si è pentita. Mai.

Ferocemente a difesa dei beni della famiglia, si è sempre adoperata Erminia Giuliano, detta Celeste per il colore dei suoi occhi, la bella e appariscente sorella di Carmine e Luigi, i boss di Forcella, che — secondo le indagini — è il riferimento assoluto nel clan circa la gestione dei beni immobili e dei capitali investiti nel settore commerciale. Celeste ha l'immagine della napoletana classica, della guappa del centro storico, i capelli tinti biondo platino, gli occhi chiari gelidi sempre affogati in tuorli di ombretto nero. Lei gestiva gli indotti economici e legali del clan. Nel 2004 furono confiscati ai Giuliano i beni nati dall'attività imprenditoriale, ventotto milioni di euro, il vero polmone economico del clan. Avevano un insieme di catene di negozi, a Napoli e provincia, e un'azienda

titolare di un marchio divenuto notissimo, attraverso l'abilità d'impresa e la protezione militare ed economica del clan.

Un marchio che ha una rete in franchising composta da cinquantasei punti vendita in Italia e a Tokyo, Bucarest, Lisbona e Tunisi.

Il clan Giuliano, egemone negli anni '80 e '90, nasce nel ventre molle di Napoli, a Forcella, il quartiere che attira su di sé ogni mitologia da casba, ogni leggenda di ombelico marcio del centro storico. I Giuliano sembrano un clan giunto al capolinea, lentamente emerso dalla miseria, dal contrabbando alle puttane, dalla gestione dell'estorsione porta a porta ai rapimenti. Una dinastia enorme basata su cugini, nipoti, zii, parenti. L'acme del potere lo raggiunsero alla fine degli anni '80 e ora sono portatori di una sorta di carisma che non può scomparire. Ancora oggi chi vuol comandare nel centro storico deve vedersela con i Giuliano. Un clan con il fiato sul collo della miseria e del terrore di ritornare miserabili. Una delle affermazioni di Luigi Giuliano, il re di Forcella, che più mostrava il suo disgusto per la miseria l'aveva raccolta il cronista Enzo Perez: "Io non sono d'accordo con Tommasi-no, a me il presepe mi piace, sono i pastori che mi fanno schifo!".

Il volto del potere assoluto del sistema camorristico assume sempre più i tratti femminili, ma anche gli esseri stritolati, schiacciati dai cingolati del potere sono donne. Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi una spugna d'acqua gelata lungo la schiena. Sono stato al funerale di Annalisa Durante. Sono arrivato presto nei pressi della chiesa di Forcella. I fiori non erano ancora giunti, manifesti affissi ovunque, messaggi di cordoglio, lacrime, strazianti ricordi delle compagne di classe. Annalisa è stata uccisa. La serata calda, forse la prima serata realmente calda di questa stagione terribilmente piovosa, Annalisa aveva deciso di trascorrerla giù al palazzo d'una amica. Indossava un vestitino bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate sembrano nascere apposta per incontrare ragazzi, e quattordici anni per una ragazza di Forcella è l'età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato da traghettare sino al matrimonio. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a quattordici anni sembrano già donne vissute. I volti sono abbondantemente dipinti, i seni sono mutati in turgidissimi meloncini dai push-up, portano stivali appuntiti con tacchi che mettono a repentaglio l'incolumità delle caviglie. Devono essere equilibriste provette per reggere il vertiginoso camminare sul basalto, pietra lavica che riveste le strade di Napoli, da sempre nemica d'ogni scarpa fernminile. Annalisa era bella. Parecchio bella. Con l'amica e una cugina stava ascoltando musica, tutte e tre lanciavano sguardi ai ragazzetti che passavano sui motorini, impennando, sgommando, impegnandosi in gincane rischiosissime tra auto e persone. È un gioco al corteggiamento. Atavico, sempre identico. La musica preferita dalle ragazze di Forcella è quella dei neomelodici, cantanti popolari di un circuito che vende moltissimo nei quartieri popolari napoletani, ma anche palermitani e baresi. Gigi D'Alessio è il mito assoluto. Colui che ce l'ha fatta a uscire dal microcircuito imponendosi in tutt'Italia, gli altri, centinaia di altri, sono rimasti invece piccoli idoli di quartiere, divisi per zona, per palazzo, per vicolo. Ognuno ha il suo cantante. D'improvviso però, mentre lo stereo spedisce in aria un acuto gracchiante del neomelodico, due motorini, tirati al massimo, rincorrono qualcuno. Questo scappa, divora la strada con i piedi. Annalisa, sua cugina e l'amica non capiscono, pensano che stanno scherzando, forse si sfidano. Poi gli spari. Le pallottole rimbalzano ovunque. Annalisa è a terra, due pallottole l'hanno raggiunta. Tutti fuggono, le prime teste iniziano ad affacciarsi ai balconi sempre aperti per auscultare i vicoli. Le urla, l'ambulanza, la corsa in ospedale, l'intero quartiere riempie le strade di curiosità e ansia.

Salvatore Giuliano è un nome importante. Chiamarsi così sembra già essere una condizione sufficiente per comandare. Ma qui a Forcella non è il ricordo del bandito siciliano a conferire autorità a questo ragazzo. È soltanto il suo cognome. Giuliano. La situazione è stata peggiorata dalla scelta di parlare fatta da Lovigino Giuliano. Si è pentito, ha tradito il suo clan per evitare l'ergastolo. Ma come spesso accade nelle dittature, anche se il capo viene tolto di mezzo, nessun altro se non un suo uomo può prenderne il posto. I Giuliano quindi, anche se con il marchio dell'infamia, continuavano a essere gli unici in grado di mantenere rapporti con i grandi corrieri del narcotraffico e imporre la legge della protezione. Col tempo però Forcella si stanca. Non vuole più essere dominata da una famiglia di infami, non vuole più arresti e polizia. Chi vuole prendere il loro posto deve fare fuori l'erede, deve imporsi ufficialmente come sovrano e scacciare la radice dei Giuliano, il nuovo erede: ovvero Salvatore Giuliano, il nipote di Lovigino. Quella sera era il giorno stabilito per ufficializzare l'egemonia, per far fuori il rampollo che stava alzando la testa e mostrare a Forcella l'inizio di un nuovo dominio. Lo aspettano, lo individuano. Salvatore cammina tranquillo, si accorge all'improvviso di essere nel mirino. Scappa, i killer lo inseguono, corre, vuole gettarsi in qualche vicolo. Iniziano gli spari. Giuliano con molta probabilità passa davanti alle tre ragazze, approfitta di loro come scudo e nel trambusto estrae la pistola, inizia a sparare. Qualche secondo e poi fugge via, i killer non riescono a beccarlo. Quattro sono le gambe che corrono all'interno del portone per cercare rifugio. Le ragazze si girano, manca Annalisa. Escono. È a terra, sangue ovunque, un proiettile le ha aperto la testa.

In chiesa riesco ad avvicinarmi ai piedi dell'altare. Lì c'è la bara di Annalisa. Ai quattro lati ci sono vigili in alta uniforme, l'omaggio della regione Campania alla famiglia della ragazzina. La bara è colma di fiori bianchi. Un cellulare, il suo cellulare viene poggiato vicino la base del feretro. Il padre di Annalisa si lamenta. Si agita, balbetta qualcosa, saltella, muove i pugni nelle tasche. Mi si avvicina, ma non è a me che si rivolge, dice: "E adesso? E adesso?". Appena il padre scoppia a piangere tutte le donne della famiglia iniziano a urlare, a battersi, a dondolarsi con strilli acutissimi, appena il capofamiglia smette di piangere, tutte le donne riprendono il silenzio. Dietro scorgo le panche con le ragazzine, amiche, cugine, semplici vicine di Annalisa. Imitano le loro madri, nei gesti, nello scuotere la testa, nelle cantilene che ripetono: "Non esiste! Non è possibile!". Si sentono investite di un ruolo importante: confortare. Eppure trapela da loro orgoglio. Un funerale per una vittima di camorra è per loro un'iniziazione, al pari del menarca o del primo rapporto sessuale. Come le loro madri, con questo evento prendono parte attiva alla vita del quartiere. Hanno le telecamere rivolte verso di loro, i fotografi, tutti sembrano esistere per loro. Molte di queste ragazzine si sposeranno tra non molto con camorristi, di alto o di infimo grado. Spacciatori o imprenditori. Killer o commercialisti. Molte di loro avranno figli ammazzati e faranno la fila al carcere di Poggioreale per portare notizie e soldi ai mariti in galera. Ora però sono soltanto bambine in nero, senza dimenticare i pantaloni a vita bassa e i perizoma. È un funerale, ma sono vestite in modo accurato. Perfetto. Piangono un'amica, sapendo che questa morte le renderà donne. E, nonostante il dolore, non ne vedevano l'ora. Penso al ritorno eterno delle leggi di questa terra. Penso che i Giuliano hanno raggiunto il massimo potere quando Annalisa non era ancora nata e sua madre era una ragazzina che frequentava ragazzine, che poi sono divenute mogli dei Giuliano e dei loro affiliati, hanno da adulte ascoltato la musica di D'Alessio, hanno osannato Maradona che con i Giuliano ha sempre condiviso cocaina e festini, memorabile la foto di Diego Armando Maradona nella vasca a forma di conchiglia di Lovi-gino. Vent'anni dopo, Annalisa muore mentre stavano rincorrendo e sparando a un Giuliano, mentre un Giuliano rispondeva al fuoco usandola come scudo, o forse semplicemente passandole accanto. Un percorso storico identico, eternamente uguale. Imperituro, tragico, perenne.

La chiesa ormai è stracolma. La polizia e i carabinieri però continuano a essere nervosi. Non capisco. Si agitano, perdono la pazienza per un nonnulla, camminano nervosi. Capisco dopo qualche passo. Mi allontano dalla chiesa e vedo che un'auto dei carabinieri divide la folla di persone accorse al funerale da un gruppo di individui tirati a lustro, su moto lussuose, in macchine decappottabili, su scooter potenti. Sono i membri del clan Giuliano, gli ultimi fedelissimi di Salvatore. I carabinieri temono che possano esserci insulti tra questi camorristi e la folla, e che possa generarsi un putiferio. Per fortuna non accade nulla, ma la loro presenza è profondamente simbolica. Attestano che nessuno può dominare nel centro storico di Napoli senza il loro volere, o quantomeno senza la loro mediazione. Mostrano a tutti che loro ci sono e sono ancora i capi, nonostante tutto.

La bara bianca esce dalla chiesa, una folla preme per toccarla, molti svengono, le urla belluine iniziano a incrinare i timpani. Quando il feretro passa sotto la casa di Annalisa, la madre che non ce l'ha fatta ad assistere alla funzione in chiesa tenta di gettarsi dal balcone. Urla, si dimena, il volto è gonfio e rosso. Un gruppo di donne la trattiene. La solita scena tragica avviene. Sia ben chiaro, il pianto rituale, le scenate di dolore non sono menzogne e finzioni. Tutt'altro. Mostrano però la condanna culturale in cui vivono tutt'ora gran parte delle donne napoletane, costrette ancora ad appellarsi a forti comportamenti simbolici per attestare il loro dolore e renderlo riconoscibile all'intera comunità. Benché tremendamente vero, questo frenetico dolore apparentemente mantiene le caratteristiche di una sceneggiata.

I giornalisti si avvicinano appena. Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino sono terrorizzati, temono che il quartiere possa rivoltarsi contro di loro. Non accade, la gente di Forcella ha imparato a trarre vantaggio dalla politica e non si vuole inimicare nessuno. Qualcuno applaude alle forze dell'ordine. Qualche giornalista si eccita per questo gesto. Carabinieri osannati nel quartiere della camorra. Che ingenuità. Quell'applauso è stata una provocazione. Meglio i carabinieri che i Giuliano. Ecco cosa hanno voluto dire. Alcune telecamere tentano di raccogliere testimonianze, si avvicinano a una vecchietta dall'aspetto fragile. Arraffa subito il microfono e urla: "Per colpa di quelli… mio figlio si farà cinquant'an-ni anni di carcere! Assassini!". L'odio contro i pentiti è celebrato. La folla preme, la tensione è altissima. Pensare che una ragazzina è morta perché aveva deciso di ascoltare musica assieme alle amiche, sotto un portone in una serata di primavera, fa girare le viscere. Ho la nausea. Devo restare calmo. Devo capire, se possibile. Annalisa è nata e vissuta in questo mondo. Le sue amiche le raccontavano delle fughe in moto con i ragazzi del clan, lei stessa si sarebbe forse innamorata di un bel ragazzetto ricco, capace di far carriera nel Sistema o forse di un bravo guaglione che si spaccava la schiena tutto il giorno per quattro soldi. Il suo destino sarebbe stato quello di lavorare in una fabbrica in nero, di borse, dieci ore al giorno per cinquecento euro al mese. Annalisa era impressionata dal marchio sulla pelle che hanno le operaie che lavorano il cuoio, nel suo diario era scritto: "le ragazze che lavorano con le borse hanno sempre le mani nere, stanno per tutto il giorno chiuse in fabbrica. C'è anche mia sorella Manu ma almeno a lei il datore di lavoro non la costringe a lavorare anche quando non si sente bene". Annalisa è divenuta simbolo tragico perché la tragedia si è compiuta nel suo aspetto più terribile e consustanziale: l'assassinio. Qui però non esiste attimo in cui il mestiere di vivere non appaia una condanna all'ergastolo, una pena da scontare attraverso un'esistenza brada, identica, veloce, feroce. Annalisa è colpevole d'essere nata a Napoli. Nulla di più, nulla di meno. Mentre il corpo di Annalisa nella bara bianca viene portato via a spalla, la compagna di banco lascia trillare il suo cellulare. Squilla sul feretro: è il nuovo requiem. Un trillo continuo, poi musicale, accenna una melodia dolce. Nessuno risponde.


Seconda parte

Kalashnikov

Ci avevo passato le dita sopra. Avevo anche chiuso gli occhi. Facevo scivolare il polpastrello dell'indice sull'intera superficie. Dall'alto in basso. Poi quando passavo sul buco, mezza unghia si arenava. Lo facevo su tutte le vetrine. A volte nei fori entrava l'intero polpastrello, a volte mezzo. Poi aumentai la velocità, percorrevo la superficie liscia in modo disordinato come se il mio dito fosse una sorta di verme impazzito che entrava e usciva dai buchi, superava gli avvallamenti, scorazzando sul vetro. Sin quando il polpastrello mi si tagliò di netto. Continuai a strisciarlo lungo la vetrina lasciando un alone acquoso rosso porpora. Aprii gli occhi. Un dolore sottile, immediato. Il buco si era riempito di sangue. Smisi di fare l'idiota e iniziai a succhiare la ferita.

I fori dei kalashnikov sono perfetti. Si stampano violenti sui vetri blindati, scavano, intaccano, sembrano dei tarli che mordicchiano e poi lasciano la galleria. I colpi di mitra visti da lontano danno un'impressione strana, come decine di bollicine formatesi nel cuore del vetro, tra le diverse patine blindate. Quasi nessun commerciante dopo una sventagliata di kalashnikov sostituisce le vetrine. Qualcuno spreme dentro i fori la pasta di silicone, qualcun altro li copre con nastri adesivi neri, la maggior parte lascia tutto così com'è. Una vetrina blindata di un negozio può costare anche cinquemila euro, meglio tenersi quindi queste decorazioni violente. E poi in fondo, magari divengono anche attrattiva per gli acquirenti che si fermano con curiosità, chiedendosi che cosa è successo, intrattenendosi con il proprietario dell'esercizio, insomma magari comprano anche qualcosa in più del dovuto. Piuttosto che sostituire i vetri blindati si aspetta magari che li facciano implodere con la prossima raffica. A quel punto l'assicurazione paga, perché se si arriva la mattina presto e si fanno scomparire i vestiti, la raffica di mitra viene rubricata come rapina.

Sparare sulle vetrine non è sempre un gesto di intimidazione, un messaggio da veicolare con le pallottole, quanto piuttosto una necessità militare. Quando arrivano nuove partite di kalashnikov bisogna testarli. Vedere se funzionano, notare se la canna è ben messa, prenderci confidenza, verificare che i caricatori non si inceppino. Potrebbero provare i mitra in campagna, sui vetri di vecchie auto blindate, comprare lastre da sfasciare in tranquillità. Non lo fanno. Sparano invece sulle vetrine, sulle porte blindate, sulle saracinesche, un modo per ricordare che non c'è cosa che non possa esser loro e che tutto, in fondo, è una concessione momentanea, una delega di un'economia che solo loro gestiscono. Una concessione, null'altro che una concessione che in ogni momento potrebbe esser revocata. E poi c'è anche un vantaggio indiretto poiché in zona le vetrerie che hanno i migliori prezzi sui vetri blindati sono tutte legate ai clan, quindi più vetrine rovinate, più danaro per le vetrerie.

La notte precedente erano arrivati una trentina di kalashnikov dall'est. Dalla Macedonia. Skopje-Gricignano d'Aversa, un viaggio veloce, tranquillo che aveva riempito i garage della camorra di mitra e fucili a pompa. La camorra, appena cadde la cortina socialista, incontrò i dirigenti dei partiti comunisti in disfacimento. Al tavolo della trattativa si sedettero rappresentando l'Occidente potente, capace e silenzioso. Sapendo della loro crisi, i clan acquistarono informalmente dagli stati dell'est — Romania, Polonia, ex Jugoslavia — interi depositi di armi, pagando per anni gli stipendi ai custodi, ai piantoni, agli ufficiali addetti alla conservazione delle risorse militari. Insomma, una parte della difesa di quei paesi divenne mantenuta dai clan. H miglior modo, in fondo, per nascondere le armi, è tenerle nelle caserme. Così negli anni, nonostante gli avvicendamenti delle dirigenze, le faide interne e le crisi, i boss hanno avuto come riferimento non il mercato nero delle armi, ma i depositi degli eserciti dell'est a loro completa disposizione. I mitra quella volta li avevano stipati in camion militari che ostentavano sui fianchi il simbolo della NATO. Tir rubati dai garage americani, e che grazie a quella scritta potevano girare tranquillamente per mezza Italia. A Gricignano d'Aversa, la base NATO è un piccolo colosso inaccessibile, come una colonna di cemento armato piazzata in mezzo a una pianura. Una struttura costruita dai Coppola, come tutto del resto da queste parti. Non si vedono quasi mai gli americani. I controlli sono rari. I camion della NATO hanno massima libertà e così quando le armi sono giunte in paese, gli autisti si sono pure fermati in piazza, hanno fatto colazione, hanno inzuppato il cornetto nel cappuccino mentre chiedevano in giro per il bar di poter contattare "un paio di neri per scaricare roba, velocemente". E il termine "velocemente" tutti sanno cosa significa. Le casse di armi sono solo un po' più pesanti delle casse di pomodori, i ragazzi africani che vogliono fare dello straordinario dopo aver lavorato nelle campagne prendono due euro a cassa, il quadruplo di una cassetta di pomodori o mele.

Una volta lessi su una rivista della NATO — dedicata ai familiari dei militari all'estero — un articoletto rivolto a chi doveva venire a Gricignano d'Aversa. Tradussi il brano e me lo scrissi su un'agenda, per ricordarlo. Diceva: "Per capire dove state andando ad abitare, dovete immaginarvi i film di Sergio Leone. È come il Far West, c'è chi comanda, ci sono sparatorie, regole non scritte e inattaccabili. Ma non preoccupatevi, verso i cittadini e i militari americani ci sarà il massimo rispetto e la massima ospitalità. In ogni caso uscite solo se necessario dal comprensorio militare". Mi aiutò quell'articolista yankee a capire meglio il posto dove vivevo.

Quella mattina trovai Mariano al bar in preda a una strana euforia. Stava dinanzi al bancone eccitatissimo. Si caricava di Martini a prima mattina.

"Cos'hai?"

Glielo chiedevano tutti. Persino il barista si rifiutò di riempirgli il quarto bicchiere. Ma lui non rispondeva, come se gli altri potessero benissimo capirlo da soli.

"Io lo voglio andare a conoscere, mi hanno detto che è ancora vivo. Ma è vero?"

"Cosa è vero?"

"Ma come ha fatto? Io mi prendo le ferie e lo vado a conoscere…"

"Ma chi? Cosa?"

"Ti rendi conto, è leggero, preciso, poi spari venti, trenta colpi, e non sono passati neanche cinque minuti… è un'invenzione geniale!" Era in estasi. Il barista lo guardò come chi guarda un ragazzino che ha penetrato per la prima volta una donna, e porta sul volto un'espressione inconfondibile, la medesima di Adamo. Poi capì da cosa proveniva l'euforia. Mariano aveva provato per la prima volta un kalashnikov ed era rimasto così favorevolmente impressionato dall'aggeggio che voleva incontrare il suo inventore Michail Kalashnikov. Non aveva mai sparato a nessuno, nel clan era entrato per seguire la distribuzione di alcune marche di caffè in diversi bar del territorio. Giovanissimo, laureato in Economia e Commercio, aveva responsabilità di decine di milioni di euro poiché erano decine i bar e le aziende di caffè che volevano entrare nella rete commerciale del clan. Il capozona però non voleva che i suoi uomini, laureati o no, soldati o dirigenti commerciali, non fossero capaci di sparare e così gli aveva dato il mitra in mano. Di notte Mariano aveva scaricato un po' di pallottole su diverse vetrine, scegliendo i bar a caso. Non era un avvertimento, ma insomma anche se lui non sapeva il reale motivo per cui sparava su quelle vetrine, i proprietari sicuramente un motivo valido l'avrebbero trovato. Una causa per sentirsi in errore c'è sempre. Mariano chiamava il mitra con tono truce e professionale: AK-47. Il nome ufficiale della mitragliatrice più celebre al mondo. Un nome piuttosto semplice, dove AK sta per "avtomat kalashnikova", ovvero "l'automatica di Kalashnikov", e dove 47 si riferisce all'anno della sua selezione come arma per l'esercito sovietico. Le armi spesso hanno nomi cifrati, lettere e numeri che dovrebbero celare la loro potenza letale, simboli di spietatezza. In realtà sono banali nomi dati da qualche sottufficiale incaricato di rubricare in deposito nuove armi come nuovi bulloni. I kalashnikov sono leggeri e facili da usare, richiedono una manutenzione semplice. La loro forza consiste nel munizionamento intermedio: né troppo piccolo come quello delle rivoltelle, per evitare di perdere la potenza di fuoco, né troppo grande per evitare il rinculo e la scarsa maneggevolezza e precisione dell'arma. La manutenzione e il montaggio sono tanto semplici che i ragazzi dell'ex Unione Sovietica lo imparavano sui banchi di scuola, alla presenza di un responsabile militare, in un tempo medio di due minuti.

L'ultima volta che avevo sentito dei colpi di mitra era stato qualche anno prima. Vicino all'università di Santa Maria Capua Vetere, non ricordo bene, era un quadrivio però, ne sono certo. Quattro macchine bloccarono l'auto di Sebastiano Caterino, un camorrista da sempre vicino ad Antonio Bardellino il capo dei capi della camorra casertana negli anni '80 e '90, e lo massacrarono con un'orchestra di kalashnikov. Quando Bardellino scomparve e la dirigenza cambiò, Caterino riuscì a scappare, a sottrarsi alla mattanza. Per tredici anni non era uscito di casa, aveva vissuto nascosto, metteva il naso fuori di notte, camuffandosi, uscendo dal portone della sua masseria in auto blindate, trascorrendo la vita fuori dal suo paese. Pensava di aver trovato una nuova autorevolezza dopo tanti anni di silenzio. Credeva che il clan rivale, ormai dimentico del passato, non avrebbe attaccato un vecchio leader come lui. E così si era messo a tirar su un nuovo clan a Santa Maria Capua Vetere, la vecchia città romana era diventata il suo feudo. Il maresciallo di San Cipriano d'Aversa, il paese di Caterino, quando è arrivato sul luogo dell'agguato, ha avuto un'unica frase: "L'hanno fatto male proprio!". Qui infatti il trattamento che ti riservano è valutato in base ai colpi che ricevi. Se ti ammazzano con delicatezza, un colpo alla testa o alla pancia, viene letta come un'operazione necessaria, chirurgica, senza rancore. Ficcare oltre duecento colpi nell'auto e oltre quaranta nel corpo è invece un modo assoluto di cancellarti dal fegato della terra. La camorra ha una memoria lunghissima e capace di pazienza infinita. Tredici anni, centocinquantasei mesi, quattro kalashnikov, duecento colpi, una pallottola per ogni mese d'attesa. Le armi in certi territori hanno anche la traccia della memoria, conservano in loro stesse con livore, una condanna che poi sputano al momento giusto.

Quella mattina passavo le dita sulle decorazioni da mitragliatrice con lo zaino indosso. Stavo per partire, dovevo andare da mio cugino a Milano. È strano come con chiunque parli, qualunque sia l'argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti: " È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch'io". Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone. Quando mi si chiede di dove sono, non rispondo mai. Vorrei rispondere del sud, ma mi pare troppo retorico. Quando poi me lo si chiede su un treno, mi fisso i piedi e fingo di non aver sentito, poiché mi viene in mente Conversazione in Sicilia di Vittorini, e rischio, se solo apro bocca, di cantilenare la voce di Silvestro Ferrato. E non è il caso. I tempi mutano, le voci sono le stesse. In viaggio però mi capitò di incontrare una signora grassona ficcata in malo modo nel sediolino dell'Eurostar. Era salita a Bologna con una voglia incredibile di parlare per ingolfare anche il tempo, oltre che il suo corpo. Insisteva per sapere da dove venivo, cosa facevo, dove andavo. Avevo voglia di rispondere mostrandole la ferita al polpastrello, e basta. Ma lasciai perdere. Risposi: "Sono di Napoli". Una città che lascia parlare talmente tanto, che basta pronunciarne il nome per emanciparsi da ogni tipo di risposta. Un luogo dove il male diviene tutto il male, e il bene tutto il bene. Mi addormentai.

La mattina dopo, prestissimo Mariano mi chiamò ansioso. Servivano un po' di contabili e organizzatori per un'operazione molto delicata che alcuni imprenditori delle nostre zone stavano facendo a Roma. Giovanni Paolo II stava male, forse era persino morto, ma ancora non avevano ufficializzato la notizia. Mariano mi chiese di accompagnarlo. Scesi alla prima fermata possibile e tornai indietro. Negozi, alberghi, ristoranti, supermercati, avevano bisogno in pochissimi giorni di enormi e straordinari rifornimenti di ogni tipo di prodotto. C'era da guadagnare un mare di danaro, milioni di persone in brevissimo tempo si sarebbero riversati nella capitale, vivendo per strada, trascorrendo ore lungo i marciapiedi, dovendo bere, mangiare, in una parola comprare. Si potevano triplicare i prezzi, vendere a ogni ora, anche di notte, spremere profitto da ogni minuto. Mariano fu chiamato in causa, mi propose di fargli compagnia e per questa gentilezza mi avrebbe passato un po' di soldi. Nulla è gratuito. A Mariano era stato promesso un mese di ferie così da poter realizzare il sogno di andare in Russia a incontrare Michail Kalashnikov; aveva avuto persino garanzie da un uomo delle famiglie russe che aveva giurato di conoscerlo. Mariano avrebbe potuto così incontrarlo, fissarlo negli occhi, toccare le mani che avevano inventato il potente mitra.

Il giorno del funerale del papa, Roma era un carnaio. Impossibile riconoscere i volti delle strade, i percorsi dei marciapiedi. Un'unica pelle di carne aveva rivestito il catrame, le entrate dei palazzi, le finestre, una colata che si incanalava in ogni possibilità di spazio. Una colata che sembrava aumentare il proprio volume, sino a far esplodere i canali in cui confluiva. Ovunque essere umani. Ovunque. Un cane terrorizzato si era nascosto tremante sotto un autobus, aveva visto ogni suo spazio vitale violato da piedi e gambe. Io e Mariano ci fermammo su un gradino di un palazzo. L'unico a riparo da un gruppo che aveva deciso come voto di cantare per sei ore di seguito una canzoncina ispirata a san Francesco. Ci sedemmo a mangiare un panino. Ero esausto. Mariano invece non si stancava mai, ogni energia gli veniva pagata e questo lo faceva sentire perennemente carico.

D'improvviso mi sentii chiamare. Avevo capito ancor prima di voltarmi di chi si trattava. Era mio padre. Da due anni non ci vedevamo, avevamo vissuto nella stessa città senza mai incontrarci. Incredibile trovarsi nel labirinto di carne romano. Mio padre era imbarazzatissimo. Non sapeva come salutarmi e forse neanche se poteva farlo come avrebbe voluto. Ma era euforico come in quelle gite dove sai che in poche ore ti capiteranno cose belle, le stesse che non potranno ripetersi per i successivi tre mesi almeno, e quindi vuoi berle tutte, sentirle sino in fondo, velocemente però, per paura di perdere le altre felicità nel poco tempo che ti rimane. Aveva approfittato del fatto che una compagnia rumena aveva abbassato i costi dei voli verso l'Italia, a causa della morte del papa, e così aveva pagato il biglietto a tutta la famiglia della sua compagna. Tutte le donne del gruppo avevano un velo sui capelli e un rosario arrotolato intorno al polso. Impossibile capire in quale strada ci trovavamo, ricordo solo un enorme lenzuolo che campeggiava tra due palazzi. "Undicesimo comandamento: Non spingere e non sarai spinto." Scritto in dodici lingue. Erano contenti i nuovi parenti di mio padre. Contentissimi di partecipare a un evento così importante come la morte del papa. Tutti sognavano sanatorie per gli immigrati. Soffrire per lo stesso motivo, partecipare a una manifestazione così immensa e universale era per questi rumeni il miglior modo di prendere cittadinanza sentimentale e oggettiva con l'Italia, prima ancora di quella legale. Mio padre adorava Giovanni Paolo II, il fascino di quell'uomo che faceva baciare a tutti la sua mano lo esaltava. Come era riuscito senza palesi ricatti e chiare strategie a raggiungere quel potere immenso d'ascolto, lo intrigava. Tutti i potenti si inginocchiavano dinanzi a lui. Per mio padre questo bastava per ammirare un uomo. Lo vidi inginocchiarsi assieme alla madre della sua compagna per recitare un rosario improvvisato per strada. Dal mucchio di parenti rumeni, vidi spuntare un bambino. Capii subito che era il figlio di mio padre e di Micaela. Sapevo che era nato in Italia per poter avere la cittadinanza, ma che per esigenze della madre aveva sempre vissuto in Romania. Cercava di tenersi ancorato alla gonna della mamma. Non l'avevo mai visto, ma conoscevo il suo nome. Stefano Nicolae. Stefano come il padre di mio padre, Nicolae come il padre di Micaela. Mio padre lo chiamava Stefano, sua madre e i suoi zii rumeni Meo. In breve sarebbe stato chiamato Nico, ma mio padre non aveva ancora avuto il tempo d'essere sconfitto. Ovviamente il primo dono che aveva ricevuto dal padre appena sceso dalla scaletta dell'aereo, era un pallone. Mio padre vedeva per la seconda volta il figlioletto ma lo trattava come se fosse sempre stato dinanzi ai suoi occhi. Lo prese in braccio e mi si avvicinò.

"Nico adesso viene a vivere qui. In questa terra. Nella terra del padre."

Non so perché ma il bambino si intristì nell'espressione, lasciò cadere il pallone per terra, riuscii a fermarlo con un piede prima che si perdesse irrimediabilmente tra la folla.

Mi venne d'improvviso in mente l'odore mischiato di salsedine e polvere, di cemento e spazzatura. Un odore umido. Mi ricordai di quando avevo dodici anni sulla spiaggia di Pi-netamare. Mio padre venne nella mia stanza, mi ero appena svegliato. Forse di domenica: "Ti rendi conto che tuo cugino già sa sparare, e tu? Sei meno di lui?".

Mi portò al Villaggio Coppola, sul litorale domizio. La spiaggia era una miniera abbandonata di utensili divorati dalla salsedine e avvolti in croste di calce. Sarei stato a scavare per giorni interi, trovando cazzuole, guanti, scarponi sfondati, zappe spaccate, picconi sbeccati ma non venivo portato lì per giocare nella spazzatura. Mio padre passeggiava cercando i bersagli, quelli che preferiva erano le bottiglie. Quelle Peroni, le predilette. Mise le bottiglie sul tetto di una 127 bruciata, ce n'erano molti di scheletri d'auto. Le spiagge di Pinetamare erano usate anche per raccogliere tutte le macchine bruciate usate per rapine o agguati. La Beretta 92 Fs di mio padre me la ricordo ancora. Era tutta graffiata, sembrava brizzolata, una vecchia signora pistola. Tutti la conoscono come M9 non so perché. La sento sempre citare con questo nome: "Ti metto un M9 tra gli occhi, devo cacciare 1' M9? Cavolo, mi devo prendere un M9". Mio padre mi mise in mano la Beretta. La sentii pesantissima. Il calcio della pistola è ruvido, sembra di carta vetrata, ti si appiccica nel palmo e quando ti sfili la pistola di mano sembra quasi che ti graffi con i suoi microdenti. Mio padre mi indicava come togliere la sicura, armare la pistola, stendere il braccio, chiudere l'occhio destro se il bersaglio era a sinistra e puntare.

"Robbe', il braccio morbido ma tosto. Insomma tranquillo, ma non flaccido… usa le due mani."

Prima di tirare il grilletto con tutta la forza dei due indici che si spingevano a vicenda, chiudevo gli occhi, alzavo le spalle come se volessi tapparmi le orecchie con le scapole. Il rumore degli spari ancora oggi mi dà un fastidio terribile. Devo avere qualche problema ai timpani. Resto stordito per mezz'ora dopo uno sparo.

A Pinetamare i Coppola, famiglia di imprenditori molto potenti, costruì il più grande agglomerato urbano abusivo d'Occidente. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento, il Villaggio Coppola, appunto. Non fu chiesta autorizzazione, non serviva, in questi territori le gare d'appalto e i permessi sono modi per aumentare vertiginosamente i costi di produzione poiché bisogna oliare troppi passaggi burocratici. Così i Coppola sono andati direttamente con le betonerie. Quintali di cemento armato hanno preso il posto di una delle pinete marittime più belle del Mediterraneo. Furono edificati palazzi dai cui citofoni si sentiva il mare.

Quando centrai finalmente il primo bersaglio della mia vita provai una sensazione mista di orgoglio e senso di colpa.

Ero stato capace di sparare, finalmente ero capace. Nessuno poteva più farmi del male. Ma ormai avevo imparato a usare un arnese orrendo. Uno di quelli che una volta che lo sai usare non puoi più smettere di usarlo. Come imparare ad andare in bicicletta. La bottiglia non era esplosa completamente. Anzi era persino rimasta in piedi. Sventrata a metà. La metà destra. Mio padre si allontanò verso la macchina. Rimasi lì con la pistola, ma è strano non mi sentii solo, nonostante fossi circondato da spettri di spazzatura e metallo. Tesi il braccio verso il mare e tirai altri due colpi nell'acqua. Non li vidi schizzare, né forse raggiunsero l'acqua. Ma colpire il mare mi sembrava una cosa coraggiosa. Mio padre arrivò con un pallone di cuoio, con sopra l'effigie di Maradona. Il premio per la mira. Poi si avvicinò come sempre alla mia faccia. Sentivo il suo alito di caffè. Era soddisfatto, ora quantomeno suo figlio non era da meno del figlio di suo fratello. Facemmo la solita cantilena, il suo catechismo:

"Robbe', cos'è un uomo senza laurea e con la pistola?"

"Uno stronzo con la pistola."

"Bravo. Cos'è un uomo con la laurea senza pistola?"

"Uno stronzo con la laurea…"

"Bravo. Cos'è uomo con la laurea e con la pistola?"

"Un uomo, papà!"

"Bravo, Robertino!"

Nico camminava ancora incerto. Mio padre gli parlava a raffica. Non capiva il piccolo. Per la prima volta sentiva parlare in italiano, anche se la mamma era stata abbastanza furba da farlo nascere qui.

"Ti somiglia, Roberto?"

Lo guardai a fondo. E fui felice, per lui. Non mi somigliava per nulla.

"Per fortuna non mi somiglia!"

Mio padre mi guardò con la solita delusa espressione, come dire che ormai neanche scherzando mi avrebbe sentito dire ciò che avrebbe voluto ascoltare. Avevo sempre l'impressione che mio padre fosse in guerra con qualcuno. Come se dovesse svolgere una battaglia con alleanze, precauzioni, macchinoni. Andare in un albergo due stelle per mio padre era come perdere prestigio verso qualcuno. Come se dovesse rendere conto a un'entità che l'avrebbe punito con violenza se non avesse vissuto nella ricchezza e con un atteggiamento autoritario e buffonesco.

"Il migliore, Robbe', non deve avere bisogno di nessuno, deve sapere certo, ma deve anche fare paura. Se non fai paura a nessuno, se nessuno guardandoti non si mette soggezione, allora in fondo non sei riuscito a essere veramente capace."

Quando andavamo a mangiare fuori, nei ristoranti si sentiva infastidito dal fatto che spesso i camerieri servivano, anche se entravano un'ora dopo di noi, alcuni personaggi della zona. I boss si sedevano e dopo pochi minuti ricevevano tutto il pranzo. Mio padre li salutava. Ma tra i denti strideva la voglia di avere il loro medesimo rispetto. Rispetto che consisteva nel generare eguale invidia di potenza, eguale timore, medesima ricchezza.

"Li vedi quelli. Sono loro che comandano veramente. Sono loro che decidono tutto! C'è chi comanda le parole e chi comanda le cose. Tu devi capire chi comanda le cose, e fingere di credere a chi comanda le parole. Ma devi sempre sapere la verità in corpo a te. Comanda veramente solo chi comanda le cose." I comandanti delle cose, come li chiamava mio padre erano seduti al tavolo. Avevano deciso della sorte di queste terre da sempre. Mangiavano assieme, sorridevano. Negli anni poi si sono scannati tra loro, lasciando scie di migliaia di morti, come ideogrammi dei loro investimenti finanziari. I boss sapevano come rimediare allo sgarbo d'essere serviti per primi. Offrivano il pranzo a tutti i presenti nel locale. Ma solo dopo essersene andati, temendo di ricevere ringraziamenti e piaggerie. Tutti ebbero il pranzo pagato, tranne due persone. Il professore lannotto e sua moglie. Non li avevano salutati, e loro non avevano osato offrirgli il pranzo. Ma gli avevano fatto dono, attraverso un cameriere, di una bottiglia di limoncello. Un camorrista sa che deve curarsi anche dei nemici leali poiché sono sempre più preziosi di quelli nascosti. Quando dovevo ricevere un esempio negativo mio padre mi additava il professor Iannotto. Erano stati a scuola insieme. Iannotto viveva in fitto, cacciato dal suo partito, senza figli, sempre incavolato e mal vestito. Insegnava al biennio di un liceo, lo ricordo sempre a litigare con i genitori che gli chiedevano a quale suo amico mandare i figli a ripetizione privata per farli promuovere. Mio padre lo considerava un uomo condannato. Un morto che camminava.

"È come chi decide di fare il filosofo e chi il medico, secondo te chi dei due decide della vita di una persona?"

"Il medico!"

"Bravo. Il medico. Perché puoi decidere della vita delle persone. Decidere. Salvarli o non salvarli. È così che si fa il bene, solo quando puoi fare il male. Se invece sei un fallito, un buffone, uno che non fa nulla. Allora puoi fare solo il bene, ma quello è volontariato, uno scarto di bene. Il bene vero è quando scegli di farlo perché puoi fare il male."

Non rispondevo. Non riuscivo mai a capire cose volesse realmente dimostrarmi. E in fondo non riesco nemmeno ora a capirlo. Sarà anche per questo che mi sono laureato in filosofia, per non decidere al posto di nessuno. Mio padre aveva fatto servizio nelle ambulanze, come giovane medico, negli anni '80. Quattrocento morti l'anno. In zone dove si ammazzavano anche cinque persone al giorno. Arrivava con l'autoambulanza, quando però il ferito era per terra e la polizia non ancora arrivata non si poteva caricarlo. Perché se la voce si spargeva, i killer tornavano indietro, inseguivano l'autoambulanza, la bloccavano, entravano nel veicolo e finivano di portare a termine il lavoro. Era capitato decine di volte, e sia i medici che gli infermieri sapevano di dover star fermi dinanzi a un ferito e attendere che i killer tornassero per finire l'operazione. Una volta mio padre però arrivò a Giugliano, un paesone tra il napoletano e il casertano, feudo dei Mallardo. Il ragazzo aveva diciotto anni, o forse meno. Gli avevano sparato al torace, ma una costola aveva deviato il colpo. L'autoambulanza arrivò subito. Era in zona. Il ragazzo rantolava, urlava, perdeva sangue. Mio padre lo caricò. Gli infermieri erano terrorizzati. Tentarono di dissuaderlo, era evidente che i killer avevano sparato senza mirare e erano stati messi in fuga da qualche pattuglia, ma sicuramente sarebbero ritornati. Gli infermieri provarono a rassicurare mio padre: "Aspettiamo. Vengono, finiscono il servizio e ce lo portiamo".

Mio padre non ce la faceva. Insomma, anche la morte ha i suoi tempi. E diciotto anni non gli sembrava il tempo per morire, neanche per un soldato di camorra. Lo caricò, lo portò all'ospedale e fu salvato. La notte, andarono a casa sua i killer che non avevano centrato il bersaglio come si doveva. A casa di mio padre. Io non c'ero, abitavo con mia madre. Ma mi fu raccontata talmente tante volte questa storia, troncata sempre nel medesimo punto, che io la ricordo come se a casa ci fossi stato anche io e avessi assistito a tutto. Mio padre, credo, fu picchiato a sangue, per almeno due mesi non si fece vedere in giro. Per i successivi quattro non riuscì a guardare in faccia nessuno. Scegliere di salvare chi deve morire significa voler condividerne la sorte, perché qui con la volontà non si muta nulla. Non è una decisione che riesce a portarti via da un problema, non è una presa di coscienza, un pensiero, una scelta, che davvero riescono a darti la sensazione di star agendo nel migliore dei modi. Qualunque sia la cosa da fare, sarà quella sbagliata per qualche motivo. Questa è la vera solitudine.

Il piccolo Nico era tornato a ridere. Micaela ha più o meno la stessa mia età. Anche a lei, quando confessava di andare in Italia, di andarsene via, avranno fatto gli auguri senza chiederle nulla, senza sapere se andava a far la puttana, la sposa, la colf, o l'impiegata. Non sapendo altro che andava via. Condizione sufficiente di fortuna. Nico però ovviamente non pensava a nulla. Serrava la bocca all'ennesimo frullato che la madre gli dava per ingozzarlo. Mio padre per farlo mangiare gli pose il pallone vicino ai piedi, Meo lo calciò con tutta la forza. La palla rimbalzò su ginocchia, tibie, punte di scarpe, di decine di persone. Mio padre iniziò a rincorrerla. Sapendo che Nico lo guardava, finse goffamente di dribblare una suora, ma la palla gli scappò nuovamente dai piedi. Il piccolo rideva, le centinaia di caviglie che vedeva distendersi dinanzi agli occhi lo facevano sentire in una foresta di gambe e sandali. Gli piaceva vedere il padre, nostro padre, affaticare la sua pancia per prendere quel pallone. Cercai di alzare la mano per salutarlo, ormai un muro di carne l'aveva bloccato. Sarebbe rimasto ingorgato per una buona mezz'ora. Inutile aspettare. Era davvero tardi. La sagoma non si intuiva neanche più, ormai era stata inghiottita sin nello stomaco della folla.

Mariano era riuscito a incontrare Michail Kalashnikov. Era stato un mese in giro per l'est Europa. Russia, Romania, Moldavia: una vacanza premio regalata dai clan. Lo rividi proprio in un bar a Casal di Principe. Lo stesso bar di sempre. Mariano aveva un grosso pacco di fotografie legate con l'elastico come fossero figurine Panini pronte allo scambio. Erano ritratti di Michail Kalashnikov autografati con dediche. Prima di ripartire, si era fatto stampare decine e decine di copie di una foto di Kalashnikov ritratto nella divisa di generale dell'Armata Rossa, con al petto una cascata di medaglie: l'ordine di Lenin, la medaglia d'onore della Grande guerra patriottica, la medaglia dell'Ordine della Stella Rossa, quella dell'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro. Mariano era riuscito a raggiungerlo grazie alle indicazioni di alcuni russi che facevano affari con i gruppi del casertano, e proprio da questi era stato presentato al generale.

Michail Timofeevic Kalashnikov viveva in un appartamento in fitto in un piccolo paese ai piedi degli Urali, Izhevsk-Ustinov, che sino al 1991 non era neanche registrato sulla carta geografica. Era uno dei numerosi territori tenuti segreti dall'URSS. Kalashnikov era la vera attrazione della città. Avevano fatto per lui un collegamento diretto con Mosca, ormai era divenuto una sorta di attrazione turistica per turisti d'elite. Un albergo vicino a casa sua, dove aveva dormito Mariano, faceva affari d'oro ospitando tutti gli ammiratori del generale che attendevano in città il suo ritorno da qualche tour in giro per la Russia, o semplicemente aspettavano di essere ricevuti. Mariano era entrato con la telecamera raccolta nel palmo della mano nella casa del generale Kalashnikov e di sua moglie. Il generale gliel'aveva consentito, chiedendogli solo di non rendere pubblico il filmato, e Mariano ovviamente aveva annuito sapendo soprattutto che colui che aveva mediato tra lui e Kalashnikov conosceva il suo indirizzo, il numero di telefono e la sua faccia. Mariano si presentò dal generale con un cubo di polistirolo chiuso da uno scotch pieno di facce di bufala stampate sopra. Era riuscito a conservare nel cofano della macchina questa scatolona con delle mozzarelle di bufala dell'agro aversano immerse nel latte.

Mariano mi mostrava il filmino della sua visita a casa Kalashnikov nel piccolo monitor che si apriva al lato della telecamera. Il video saltava, le immagini si agitavano, i volti ballavano, le zoomate deformavano occhi e oggetti, l'obiettivo sbatacchiava contro pollici e polsi. Pareva il video di una gita scolastica girato mentre si salta e corre. La casa di Kalashnikov somigliava alla dacia di Gennaro Marino Marino, o forse era semplicemente una classica dacia, ma l'unica che avessi mai visto era appunto quella del boss scissionista ad Arzano, e quindi mi pareva una costruzione gemella. La casa della famiglia Kalashnikov aveva le pareti tappezzate di riproduzioni di Vermeer, e i mobili erano stracolmi di gingilli in cristallo e legno. Il pavimento era completamente rivestito di tappeti. A un certo punto del filmato il generale mise la mano davanti all'obiettivo. Mariano mi raccontò che zompet-tando con la telecamera, e munito di una buona dose di maleducazione, era finito per entrare in una stanza che Kalashnikov non voleva in nessun modo fosse ripresa nel video. In uno stipo di metallo appeso alla parete, ben visibile oltre il vetro blindato, era conservato il primo modello di kalashnikov, il prototipo costruito dai disegni che — secondo la leggenda — il vecchio generale (allora sconosciuto sottufficiale) aveva tracciato su fogliacci di carta mentre era in ospedale, ferito da una pallottola e voglioso di creare un'arma che avrebbe reso invincibili i soldati infreddoliti e affamati dell'Armata Rossa. Il primo AK-47 della storia, tenuto nascosto come il primo cent guadagnato da zio Paperone, la famosa number otte sotto la teca blindata, la Numero Uno tenuta lontano in maniera ossessiva dalle grinfie dei Bassotti. Non aveva prezzo, quel modello. Per avere quella sorta di reliquia militare molti avrebbero davvero dato ogni cosa. Appena Kalashnikov morirà, finirà con l'essere battuta all'asta da Christie's, come le tele di Tiziano e i disegni di Michelangelo.

Mariano quel giorno stazionò rutta la mattinata a casa dei vecchi Kalashnikov. Il suo presentatore russo doveva essere davvero influente, se il generale gli diede tanta confidenza. La telecamera filmò mentre si sedevano a tavola e una vecchietta minuta apriva il polistirolo della scatola di mozzarella. Mangiarono con gusto. Vodka e mozzarella. Non volle perdere neanche questa scena, Mariano, e infatti piazzò la telecamera a capotavola riprendendo tutto. Voleva una prova certa del generale Kalashnikov che mangiava le mozzarelle del caseificio del boss per cui lavorava. L'obiettivo posato sulla tavola riprendeva in lontananza un mobiletto con le foto incorniciate di bambini. Anche se volevo che quel video terminasse il prima possibile avendo già un insopportabile mal di mare, non riuscii a trattenere la curiosità:

"Mariano, ma tutti quei figli e nipoti ha Kalashnikov?"

"Macché figli! Sono tutti figli di gente che gli manda le foto dei bambini che si chiamano come lui, gente magari che si è salvata grazie a un suo mitra o che semplicemente lo ammira…"

Come i chirurghi che ricevono le foto dei bambini che hanno salvato, guarito, operato e le incorniciano posandole sulle mensole dei loro studi a memento dei successi della loro professione, così il generale Kalashnikov aveva nel salotto di casa le foto dei bambini che portavano il nome della sua creatura. Del resto, un cronista italiano in Angola aveva intervistato un noto guerrigliero del Movimento di Liberazione che aveva dichiarato: "Ho chiamato mio figlio Kalsh perché è sinonimo di libertà".

Kalashnikov è un vecchio di ottantaquattro anni arzillo e ben conservato. Lo invitano ovunque, una sorta di icona mobile sostitutiva del fucile mitragliatore più celebre al mondo. Prima di andare in pensione come generale di corpo d'armata percepiva uno stipendio fisso di cinquecento rubli, all'epoca più o meno un mensile di cinquecento dollari. Se Kalashnikov avesse avuto la possibilità di brevettare il suo mitra in Occidente, ora sarebbe sicuramente tra i più ricchi al mondo. Si calcola — con cifre approssimate per difetto — che oltre centocinquanta milioni di mitra della famiglia del kalashnikov siano stati prodotti, tutti partendo dal progetto originario del generale. Sarebbe bastato che per ogni mitra avesse ricevuto un dollaro e ora galleggerebbe nel danaro. Ma questa tragica mancanza di soldi non lo turbava affatto, lui aveva generato la creatura, le aveva impresso il suo soffio, e questo sembrava essere condizione sufficiente di appagamento. O forse un profitto economico lo aveva, in realtà. Mariano mi aveva raccontato che gli ammiratori gli versavano danaro ogni tanto: omaggi di capitale, migliaia di dollari sul suo conto, doni preziosi dall'Africa, si parlava di una maschera tribale d'oro regalatagli da Mobutu e di un baldacchino d'avorio intarsiato inviatogli da Bokassa; dalla Cina invece si diceva gli fosse arrivato addirittura un treno, con tanto di locomotore e vagoni, donatogli da Deng Xiaoping che sapeva delle difficoltà del generale a salire su un aereo. Ma queste erano soltanto leggende, voci circolanti sui taccuini dei giornalisti che — non riuscendo a intervistare il generale, che senza presentazioni importanti non riceveva nessuno — intervistavano gli operai della fabbrica di armi di Izhevsk.

Michail Kalashnikov rispondeva automaticamente, sempre le stesse risposte qualunque fosse la domanda, servendosi di un inglese liscio, imparato da adulto, usato come un cacciavite per svitare un bullone. Mariano gli faceva domande inutili e generiche — un modo per abbassare il suo livello di ansia — sul mitra: "Non ho inventato quell'arma perché venisse venduta a scopo di lucro, ma solo ed esclusivamente per difendere la madre patria all'epoca in cui ne aveva bisogno. Se potessi tornare indietro rifarei le stesse cose e vivrei nello stesso modo. Ho lavorato tutta la vita e la mia vita è il mio lavoro". Una risposta che ripete a ogni domanda sul suo mitra.

Al mondo non esiste cosa, organica o disorganica, oggetto metallico, elemento chimico, che abbia fatto più morti del-l'AK-47. Il kalashnikov ha ucciso più della bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, più del virus dell'HIV, più della peste bubbonica, più della malaria, più di tutti gli attentati dei fondamentalisti islamici, più della somma dei morti di tutti i terremoti che hanno agitato la crosta terrestre. Un numero esponenziale di carne umana impossibile persino da immaginare. Solo un pubblicitario riuscì, a un convegno, a dare una descrizione convincente: consigliava che per immaginare i morti uccisi dal mitra si sarebbe dovuto riempire una bottiglia con lo zucchero, facendo cascare i granelli dal foro sulla punta del pacco. Ogni grano di zucchero è un morto ucciso dal kalashnikov.

L'AK-47 è un mitra che riesce a sparare nelle condizioni più disparate. Incapace di incepparsi, pronto a sparare anche sporco di terra, anche se zuppo d'acqua, comodo da impugnare, con un grilletto morbido che può essere premuto anche da un bambino. Fortuna, errore, imprecisione, tutti gli elementi che fanno salva la vita durante gli scontri sembrano eliminati dalla certezza dell'AK-47, uno strumento che ha impedito al fato di avere un ruolo. Facile da usare, facile da trasportare, spara con un'efficienza che permette di uccidere senza nessun tipo d'addestramento. "È capace di trasformare in combattente anche una scimmia" dichiarava Cabila, il temibile leader politico congolese. Nei conflitti degli ultimi trent'anni più di cinquanta paesi hanno usato il kalashnikov come fucile d'assalto dei loro eserciti. Stragi perpetrate col kalashnikov — accertate dall'oNU — sono avvenute in Algeria, Angola, Bosnia, Burundi, Cambogia, Cecenia, Colombia, Congo, Haiti, Kashmir, Mozambico, Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Uganda. Più di cinquanta eserciti regolari possiedono il kalashnikov, ed è impossibile fare una statistica dei gruppi irregolari, paramilitari, guerriglieri che lo utilizzano.

Sono morti sotto il fuoco del kalashnikov Sadat nel 1981, il generale Dalla Chiesa nel 1982, Ceausescu nel 1989. Nel palazzo della Moneda, Salvador Allende fu trovato con in corpo proiettili di kalashnikov. E queste morti eccellenti sono il vero ufficio stampa storico del mitra. L'AK-47 è persino finito nella bandiera del Mozambico e in centinaia di simboli di gruppi politici, da Al Fatah in Palestina all'MRTA in Perù. Quando compare in video, sulle montagne Osama Bin Laden lo usa come unico simbolo minaccioso. Ha accompagnato ogni ruolo: quello del liberatore, quello dell'oppressore, del guerrigliero dell'esercito regolare, del terrorista, del rapitore, della testa di cuoio che scorta i presidenti. Kalashnikov ha creato un'arma efficientissima capace di crescere negli anni, un'arma che ha avuto diciotto varianti e ventidue nuovi modelli foggiati a partire dal progetto iniziale. È il vero simbolo del liberismo. L'icona assoluta. Potrebbe divenirne l'emblema: non importa chi sei, non importa che pensi, non importa da dove provieni, non importa che religione hai, non importa contro chi e a favore di cosa, basta che quello che fai lo fai con il nostro prodotto. Con cinquanta milioni di dollari è possibile acquistare circa duecentomila mitra. Ossia, con cinquanta milioni di dollari è possibile creare un piccolo esercito. Tutto ciò che distrugge i vincoli politici e di mediazione, tutto ciò che permette un enorme consumo e un esponenziale potere diviene vincente sul mercato; e Michail Kalashnikov, con la sua invenzione, ha permesso a tutti i gruppi di potere e di micropotere di avere uno strumento militare. Nessuno, dopo l'invenzione del kalashnikov, può dire di essere stato sconfitto perché non poteva accedere alle armi. Ha svolto un'operazione d'eguaglianza: armi per tutti, massacri per ognuno. La battaglia non più territorio solo per eserciti. Su scala internazionale il kalashnikov ha fatto ciò che i clan secondiglianesi hanno fatto a livello locale, liberalizzando in maniera totale la cocaina e permettendo a chiunque di diventare narcotrafficante, consumatore, venditore al dettaglio, liberando il mercato dalla mera mediazione criminale e gerarchica. Allo stesso modo il kalashnikov ha permesso di far divenire soldati tutti, anche bambini e ragazzine smilze; e ha trasformato in generali di corpo d'armata persone che non riuscirebbero a guidare un gregge di dieci pecore. Comprare mitra, sparare, consumare persone e cose, e tornare a comprare. Il resto è solo dettaglio. Il viso di Kalashnikov è sereno in ogni foto. Con la fronte spigolosa slava e gli occhi da mongolo che invecchiando divengono sempre più feritoie sottili. Dorme il sonno dei giusti. Va a letto magari non felice ma sereno, le pantofole sotto il letto, in ordine; anche quando è serio ha le labbra tirate ad arco come il viso di Palla di Lardo in Full Metal Jacket. Sorridono le labbra, ma non il viso.

Quando guardo i ritratti di Michail Kalashnikov penso sempre ad Alfred Nobel, famoso per il premio omonimo, ma in realtà padre della dinamite. Le foto di Nobel negli anni successivi alla realizzazione della dinamite — dopo che comprese l'uso che avrebbero fatto della sua miscela di nitroglicerina e argilla — lo ritraggono devastato dall'ansia, con le dita che tormentano la barba. Sarà forse una mia suggestione, ma quando guardo le foto di Nobel, le sopracciglia tirate in alto e gli occhi persi, sembrano dire un'unica cosa: "Non volevo. Intendevo aprire le montagne, sbriciolare massi, creare gallerie. Non volevo tutto quello che è accaduto". Kalashnikov ha invece sempre un'aria serena, di vecchio pensionato russo, con tanti ricordi per la testa. Te lo immagini con l'alito di vodka a raccontarti di qualche amico con cui ha vissuto il tempo della guerra, o mentre a tavola ti bisbiglia che da giovane riusciva a resistere a letto ore senza fermarsi mai. Sempre nel gioco infantile delle suggestioni, la faccia di Michail Kalashnikov sembra dire "Va tutto bene, non sono problemi miei, ho solo inventato un mitra. Come lo usano gli altri non mi riguarda". Una responsabilità tracciata entro i confini della propria carne, circoscritta dal gesto. Quello che la propria mano ha fatto è quello che compete alla propria coscienza. È questo uno degli elementi che credo faccia diventare il vecchio generale l'icona involontaria dei clan dell'intero globo. Michail Kalashnikov non è un trafficante d'armi, non conta nulla nelle mediazioni d'acquisto dei mitra, non ha influenza politica, non possiede personalità carismatica ma porta con sé l'imperativo quotidiano dell'uomo al tempo del mercato: fa' quello che devi fare per vincere, il resto non ti riguarda.

Mariano aveva a tracolla uno zaino e indossava una felpa col cappuccio: tutto firmato Kalashnikov. Il generale aveva diversificato gli investimenti e stava facendo di se stesso un imprenditore di talento. Nessuno più di lui poteva godere di un nome arcinoto. Così un imprenditore tedesco aveva messo su un'azienda di vestiti griffati Kahlashnikov, e il generale aveva preso gusto a distribuire il suo cognome, investendo anche in una ditta di estintori. Mentre Mariano raccontava bloccò il filmato d'improvviso e si catapultò fuori dal bar. Aprì il cofano della sua auto e, cacciata una valigetta militare, la posò sul bancone del bar. Credevo fosse completamente impazzito nella sua mistica da mitra. Temevo avesse attraversato mezza Europa con un mitra nel portabagagli e che lo volesse sfoderare davanti a tutti. Invece da quella valigia militare uscì un piccolo kalashnikov di cristallo pieno di vodka. Era una bottiglia molto kitsch con un tappo in punta di canna. E nell'agro aversano tutti i bar che dovevano rifornirsi da Mariano, dopo il suo viaggio, avevano come proposta commerciale la vodka Kalashnikov. Già immaginavo la riproduzione di cristallo campeggiare alle spalle di tutti i baristi tra Teverola e Mondragone. Il filmino stava finendo, gli occhi — a forza di strizzarli per attenuare i gradi di miopia — mi facevano male. Ma l'ultima immagine era davvero imperdibile. Due vecchietti sull'uscio di casa che, le pantofole ai piedi, salutavano con la mano il giovane ospite con ancora in bocca l'ultimo pezzo di mozzarella. Intorno a me e Mariano intanto s'era accalcato un gruppo di ragazzini che guardava il reduce come un eletto, una sorta di eroe dell'incontro. Uno che aveva conosciuto Michail Kalashnikov. Mariano mi guardò con un'espressione di una complicità finta che non avevo mai avuto con lui. Tolse l'elastico alle fotografie e iniziò a scorrerle. Dopo averne sfogliate decine ne tirò fuori una: "Questa è per te. E non dire che non ti penso".

Sul ritratto del vecchio generale una scritta a pennarello nero: "To Roberto Saviano with Best Regards M. Kalashnikov".

Agli istituti di ricerca economica internazionali servono continuamente dati. Produrli come cibo quotidiano per i giornali, le riviste, i partiti politici. Il celebre indice "big Mac", per esempio, che valuta tanto più florido un paese quanto più il panino costa caro nei McDonald's. Per valutare lo stato dei diritti umani invece gli analisti osservano il prezzo a cui viene venduto il kalashnikov. Meno costoso è il mitra, più i diritti umani sono violati, lo Stato di diritto è in cancrena, l'ossatura degli equilibri sociali è marcia e in disfacimento.

Nell'ovest dell'Africa può arrivare a cinquanta dollari. Addirittura in Yemen è possibile rintracciare AK-47 usati di seconda e terza mano anche a sei dollari. Il dominio all'est dei clan, la zampata sui depositi di armi dei paesi socialisti in disfacimento hanno fatto dei clan casertani e napoletani i referenti migliori per i trafficanti di armi, assieme alle cosche calabresi con cui sono in perenne contatto.

La camorra — gestendo una grossa fetta del mercato internazionale di armi — determinerebbe i prezzi dei kalashnikov, divenendo indirettamente il giudice dello stato di salute dei diritti dell'uomo in Occidente. Come se drenasse il livello del diritto, lentamente, come la goccia che casca nel catetere. Mentre i gruppi criminali francesi e americani usavano l'M16 di Eugene Stoner, il fucile d'assalto dei marines grosso, ingombrante, pesante; un fucile che dev'essere oliato, pulito, se non vuoi che ti s'inceppi in mano, in Sicilia e in Campania, da Cinisi a Casal di Principe, i kalashnikov già negli anni '80 passavano di mano in mano. Nel 2003, dalle dichiarazioni di un pentito — Raffaele Spinello del clan Genovese, egemone ad Avellino e nell'avellinese — saltò fuori il rapporto tra i baschi dell'ETA e la camorra. Il clan Genovese è alleato ai Cava di Quindici e alle famiglie del casertano. Non è un clan di prim'ordine, eppure era in grado di fornire armi a uno dei principali gruppi armati europei che, nel corso di una trentennale lotta, aveva battuto strade molteplici per l'approvvigionamento di armi. Ma i clan campani risultavano interlocutori privilegiati. Due etarras, i militanti baschi José Miguel Arreta e Grada Morillo Torres trattarono — secondo indagini della Procura di Napoli del 2003 — per dieci giorni in una suite di un albergo di Milano. Prezzi, percorsi, scambi. Si misero d'accordo. L'ETÀ inviava cocaina attraverso i militanti dell'organizzazione per ricevere in cambio armi. L'ETÀ avrebbe costantemente abbassato il costo della coca che si procurava attraverso i contatti con i gruppi guerriglieri colombiani e si assumeva i costi e le responsabilità dell'arrivo della merce in Italia: tutto pur di mantenere rapporti con i cartelli campani, gli unici forse in grado di fornire interi arsenali. Ma I'ETA non voleva solo kalashnikov. Chiedeva armi pesanti, esplosivi potenti e soprattutto lanciamissili.

I rapporti tra camorra e guerriglieri sono sempre stati prolifici. Persino in Perù, da sempre patria d'elezione dei narcos napoletani. Nel 1994 il Tribunale di Napoli si è rivolto per rogatoria alle autorità peruviane per svolgere indagini dopo che una decina di italiani erano stati fatti fuori a Lima. Indagini indirizzate a svelare i rapporti che i clan napoletani avevano intrattenuto — attraverso i fratelli Rodriguez — con il MRTA. I guerriglieri dal fazzoletto rosso e bianco tirato a triangolo sul volto. Anche loro avevano trattato con i clan, persino loro. Coca in cambio di armi. Nel 2002 venne arrestato un avvocato, Francesco Magliulo, legato secondo le accuse al clan Mazzarella, la potente famiglia di San Giovanni a Teduccio con un pied-à-terre aiminale nella città di Napoli, al quartiere Santa Lucia e Forcella. Lo avevano seguito per oltre due anni, nei suoi affari tra Egitto, Grecia e Inghilterra. Una telefonata intercettata proveniva da Mogadiscio, dalla villa del generale Aidid, il signore della guerra somalo che — contrapponendosi alle bande di Ali Mahdi — aveva ridotto la Somalia a un corpo dilaniato e marcio da seppellire assieme ai rifiuti tossici di mezz'Europa. Le indagini sui rapporti tra il clan Mazzarella e la Somalia proseguirono in ogni direzione, e sicuramente l'elemento del traffico d'armi divenne una pista fondamentale. Anche i signori della guerra divengono signorine davanti alla necessità di approvvigionarsi di armi con i clan campani.

Nel marzo 2005 fu impressionante la potenza di fuoco ritrovata a Sant'Anastasia, paese alle falde del Vesuvio. Una scoperta avvenuta un po' per caso, un po' per indisciplina dei trafficanti che iniziarono a pestarsi per strada perché committenti e trasportatori non si erano accordati sui prezzi. Quando arrivarono i carabinieri smontarono i pannelli all'interno del furgoncino, fermo vicino alla scazzottata, trovando una delle più grandi santabarbare mobili che si siano mai viste. Mitragliatrici Uzi complete di quattro serbatoi, sette caricatori e centododici proiettili calibro 380, mitragliatori di origine russa e ceca capaci di sparare a raffica novecentocinquanta colpi al minuto. Seminuove, ben oliate, la matricola intatta, le mi-tragliette erano appena arrivate da Cracovia. Novecentocinquanta colpi al minuto era il potere di fuoco degli elicotteri americani in Vietnam. Armi che avrebbero sventrato divisioni di uomini e di cingolati, e non batterie di fuoco di famiglie camorriste del vesuviano. La potenza delle armi diviene così l'ennesima possibilità di raccogliere le leve del potere reale del Leviatano che impone l'autorità in nome della sua violenza potenziale. Nelle armerie vengono trovati bazooka, bombe a mano, mine anticarro, mitragliatori, ma risultano essere usati esclusivamente kalashnikov, mitra Uzi e pistole automatiche e semiautomatiche. Il resto fa parte della dotazione da utilizzare nella costruzione della propria potenza militare, da mostrare sul campo. Con queste potenzialità belliche, i clan non si contrappongono alla violenza legittima dello Stato, ma tendono a monopolizzare loro la violenza. In Campania non c'è alcuna ossessione alla tregua, come quella dei vecchi clan di Cosa Nostra. Le armi sono l'estensione diretta delle dinamiche di assestamento dei capitali e dei territori, il mischiarsi di gruppi di potere emergenti e di famiglie concorrenti. È come se possedessero in esclusiva il concetto di violenza, la carne della violenza, gli strumenti della violenza. La violenza diviene un loro territorio, esercitarla significa addestrarsi al loro potere, al potere del Sistema. I clan hanno persino creato nuove armi disegnate, progettate e realizzate direttamente dagli affiliati. A Sant'Antimo — a nord di Napoli — nel 2004 gli agenti di polizia trovarono nascosto in una buca scavata nel terreno e poi coperta da fasci di erbaccia un fucile strano, avvolto in un telo di cotone impregnato d'olio. Una sorta di micidiale fucile fai da te che sul mercato si trova a un prezzo di duecentocinquanta euro: nulla, paragonato a una semiautomatica che ha un prezzo medio di duemilacinquecento euro. H fucile dei clan è formato da un incastro di due tubi che possono viaggiare separati, una volta assemblati però divengono un micidiale fucile a canne mozze caricato a cartucce o a pallettoni. Progettato sul modello di un vecchio fucile giocattolo degli anni '80 che sparava palline da ping pong se si tirava violentemente il calcio e lasciava scattare una molla all'interno. Uno di quei fucili giocattolo come il "pimpamperi" che hanno addestrato migliaia di bambini italiani nelle guerre da salotto. Ma da lì, proprio da quei modelli giocattolo proviene quello che qui chiamano solo "'o tubo". E composto da due tubi, il primo di diametro più grande e lungo una quarantina di centimetri con una impugnatura.

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