Silver strinse forte i braccioli del sedile del secondo pilota con un misto di paura e di eccitazione. Le mani inferiori si piegarono sul bordo anteriore del sedile, cercando una presa. La decelerazione e la forza di gravità la sballottavano paurosamente. Con una mano, controllò la chiusura delle cinghie che la tenevano ferma, mentre la navetta cambiava assetto, mettendosi a naso in giù, e allora videro il terreno sotto di loro. Aspri rilievi montuosi di colore rossastro e inaccessibili spuntoni rocciosi scivolavano via sempre più in fretta a mano a mano che scendevano più in basso.
Ti occupava il sedile del pilota accanto al suo e con le mani e i piedi apportava di continuo infinitesimali correzioni, mentre i suoi occhi guizzavano dai quadranti degli strumenti all’orizzonte reale, con una concentrazione totale. Silver cominciò a capire perché Leo, nonostante avesse espresso una profonda ansia per il rischio di perdere Ti nella missione a terra, non lo aveva sostituito con Zara o con uno degli altri piloti dei rimorchiatori. Anche senza tenere conto del fatto che bisognava azionare dei pedali, atterrare su di un pianeta era decisamente una cosa del tutto diversa dallo sfrecciare in caduta libera, soprattutto con un veicolo che aveva quasi le dimensioni di un modulo dell’Habitat.
— Ecco il lago asciutto — disse Ti indicando con il mento, ma senza distogliere gli occhi dal proprio lavoro, — dritto sull’orizzonte.
— Sarà… molto più duro che atterrare sulla pista di attracco? — chiese Silver preoccupata.
— Nessun problema — sorrise Ti. — Anzi, è più facile. È una grossa pozza… ed è in ogni caso uno dei nostri campi di atterraggio alternativi in casi di emergenza. Basta solo evitare i burroni sul lato nord, e siamo a posto.
— Oh — disse Silver rincuorata, — non sapevo che tu fossi già atterrato qui.
— Be’, io no — mormorò Ti, — dal momento che fino ad ora non ho mai avuto un’emergenza. — Con espressione concentrata, strinse le mani sui controlli e Silver decise che forse non era quello il momento di distrarlo con la conversazione.
Si girò a guardare dietro lo schienale, per vedere come andavano le cose con il dottor Minchenko, che occupava il posto del meccanico di bordo. Il medico le rivolse un sorriso sardonico, che sembrava voler ridicolizzare la sua ansia, ma lei notò che anch’egli controllava le cinghie del sedile.
Stavano quasi per schiantarsi sul terreno. Silver era dispiaciuta che non avessero aspettato la notte per compiere quell’atterraggio; almeno così non avrebbe visto la morte in faccia. Naturalmente, poteva chiudere gli occhi. E così fece, infatti, ma li riaprì quasi subito: perché perdersi l’ultima esperienza della vita? Peccato che Leo non si fosse mai fatto avanti con lei… certo anche lui soffriva per l’accumulo della tensione. Più veloce, più veloce…
La navetta sobbalzò violentemente, rimbalzò… poi ecco uno schianto improvviso e, vibrando paurosamente, passò ruggendo sulla superficie piatta e screpolata. Peccato che lei non si fosse mai fatta avanti con Leo. Ovviamente, si poteva morire aspettando che gli altri facessero le cose che sarebbero toccate a te. Le cinghie le entrarono nella carne quando la decelerazione la risucchiò in avanti e le tremende vibrazioni la costrinsero a battere i denti.
— Non proprio liscio come su una pista di atterraggio — gridò Ti con un ghigno, lanciandole infine un’occhiata rassicurante. — Ma per essere un lavoro della Compagnia, va bene…
D’accordo, visto che nessun altro stava balbettando per il terrore, allora voleva dire che forse questo era il modo giusto di atterrare. Rallentarono fino a fermarsi nel bel mezzo del nulla. Catene montuose dai picchi aguzzi color carminio cingevano un orizzonte vuoto. Cadde il silenzio.
— Bene — disse Ti, — eccoci qui. — Sganciò le cinghie con uno schiocco e si rivolse al dottor Minchenko che stava faticosamente cercando di alzarsi dal sedile. — E adesso che facciamo? Dov’è lei?
— Se vuole essere tanto gentile da fornirci una visuale dell’esterno… — disse il dottore.
Sul monitor passò e ripassò più volte, lentamente, una veduta dell’orizzonte, mentre i minuti scivolavano via ticchettando nella mente di Silver. La gravità, si accorse, non era tremenda come l’aveva descritta Claire. Assomigliava molto al periodo passato in accelerazione durante il viaggio verso il corridoio, solo che non si sentivano vibrazioni, o come sulla Stazione di Trasferimento, solo più forte. Forse sarebbe stato meglio se la forma del sedile si fosse adattata a quella del suo corpo.
— E se il Controllo del Traffico di Rodeo ci ha visti atterrare? — chiese. — E se la GalacTech arriva qui per prima?
— Sarebbe più spaventoso pensare che il Controllo Traffico possa averci mancati — rispose Ti. — In quanto al fatto su chi sarà il primo ad arrivare… be’, dottor Minchenko?
— Mmm — mormorò cupamente. Poi il suo viso si illuminò, si sporse in avanti per fermare l’immagine sullo schermo e indicò una piccola macchia confusa sullo schermo, distante forse una quindicina di chilometri.
— Turbini di sabbia? — azzardò Ti nel chiaro tentativo di non farsi troppe illusioni.
La macchia confusa si fece distinta. — Fuoristrada — disse il dottor Minchenko con un sorriso soddisfatto. — Oh, brava ragazza.
La macchia si trasformò in un ribollente vortice di polvere arancione sollevata da un fuoristrada lanciato a tutta velocità. Cinque minuti più tardi, il veicolo si fermò accanto al portello anteriore della navetta. La figura sotto la bolla della cabina indugiò per sistemarsi un respiratore, poi la bolla si sollevò e il pilota scese lungo la rampa laterale.
Il dottor Minchenko si sistemò la maschera sul viso con un gesto deciso e, seguito da Ti, si precipitò giù dai gradini della navetta per aiutare una fragile donna dai capelli grigi che stava armeggiando con un vasto assortimento di pacchetti. Fu ben felice di affidare tutto quanto agli uomini che le erano venuti incontro, tranne una spessa scatola nera vagamente a forma di cucchiaio che continuò a stringersi al petto nello stesso modo in cui Claire stringeva a sé Andy, pensò Silver. Il dottor Minchenko guidò ansiosamente la sua signora su per gli scalini (le ginocchia della donna si muovevano con rigidità), verso il portello del traghetto e dentro il velivolo, dove poterono finalmente togliersi le maschere e parlare.
— Stai bene, Warren? — chiese la signora Minchenko.
— Perfettamente — le assicurò lui.
— Non ho potuto portarmi quasi niente… non sapevo neppure cosa scegliere.
— Allora pensa a quanto risparmiamo di tasse di imbarco.
Silver era affascinata dal modo in cui la gravità modellava il vestito di Madame Minchenko. Era un tessuto scuro e caldo, trattenuto in vita da una cintura d’argento, che scendeva in morbide pieghe fino alle caviglie coperte dagli stivali. La gonna ondeggiò al passo della signora Minchenko, rispecchiando l’agitazione della donna.
— È pura follia. Siamo troppo vecchi per fare i profughi. Ho dovuto abbandonare il mio clavicembalo!
Il dottor Minchenko le batté una mano sulla spalla. — In caduta libera non avrebbe funzionato comunque. — Poi la voce gli si spezzò rivelando una grande tensione. — Ma stanno cercando di uccidere i miei quad, Ivy!
— Sì, sì, capisco… — Madame Minchenko rivolse un sorriso assente e teso a Silver che stava ascoltando appesa a una cinghia. — Tu devi essere Silver.
— Sì, Madame Minchenko — rispose Silver senza fiato, con il suo tono più educato. Quella donna era in assoluto il terricolo più vecchio che Silver avesse mai visto, esclusi naturalmente il dottor Minchenko e il dottor Cay.
— Adesso dobbiamo andare a prendere Tony — disse il dottore. — Torneremo il più velocemente possibile. Silver ti aiuterà, è molto brava. Difendete a tutti i costi la nave!
I due uomini uscirono in fretta e, dopo pochi istanti, il fuoristrada sfrecciava attraverso lo spoglio paesaggio.
Silver e Madame Minchenko rimasero a guardarsi.
— Bene — disse la signora Minchenko.
— Mi spiace che abbia dovuto lasciare tutte le sue cose — disse Silver in tono imbarazzato.
— Be’, non posso dire che mi dispiaccia andarmene da qui. — E lo sguardo che lanciò al pianeta chiarì ancor di più le sue parole.
Si spostarono nel compartimento di pilotaggio e si sedettero; il monitor continuava a scrutare l’orizzonte uniforme. La signora Minchenko stringeva ancora in grembo la valigia nera a forma di cucchiaio. Silver cercò di immaginarsi cosa si provasse ad essere sposati con qualcuno per un periodo che era il doppio della sua vita. Madame Minchenko era stata giovane? Certo il dottor Minchenko era sempre stato vecchio.
— Come mai ha sposato il dottor Minchenko? — chiese Silver.
— A volte me lo domando anch’io — mormorò amaramente la signora, quasi tra sé.
— Era infermiera o tecnico di laboratorio?
La donna sollevò lo sguardo con un piccolo sorriso. — No, cara, non sono mai stata una biogenetista, grazie a Dio. — La sua mano accarezzò la valigia nera. — Sono una musicista. Più o meno.
Silver moriva di curiosità. — Sintovideo? Programmatrice? Abbiamo avuto dei sintovideo nella nostra biblioteca, nella biblioteca della Compagnia, cioè.
L’angolo della bocca della signora Minchenko si sollevò in un mezzo sorriso. — Non c’è nulla di sintetico in quello che faccio. Sono un’esecutrice storica abilitata. Mantengo vivi i vecchi talenti… pensa che io sia una specie di museo vivente, che ha bisogno solo di una spolverata… c’è solo qualche ragnatela che pende dal mio gomito… — Aprì la valigia perché Silver potesse guardarci dentro. Legno rosso brunito, una superficie lucida e liscia, che catturava le luci colorate del compartimento e le rifletteva. Madame Minchenko sollevò lo strumento appoggiandolo sotto la guancia. — È un violino.
— Ho visto delle fotografie — disse Silver. — È autentico?
Madame Minchenko sorrise e fece scorrere l’archetto sulle corde in una rapida successione di note. La musica sembrò volteggiare nell’aria… come i bimbi quad nella palestra: questa fu l’unica similitudine alla quale Silver riuscì a pensare. Il suono era stupefacente.
— Dove si attaccano quei fili superiori? Agli altoparlanti? — si informò Silver, sollevandosi sulle mani inferiori e torcendo il collo.
— Non ci sono altoparlanti. Tutto il suono viene dal legno.
— Ma ha invaso l’intero scompartimento.
Il sorriso della signora Minchenko divenne quasi feroce. — Questo strumento può riempire un’intera sala da concerto.
— Lei… fa concerti?
— Una volta, quando ero molto giovane… circa la tua età… frequentavo una scuola dove si insegnava quest’arte. Era l’unica scuola di musica sul mio pianeta. Era una colonia, capisci, e non si dedicava molto tempo alle arti. Si svolse un concorso, il vincitore sarebbe partito per la Terra dove si sarebbe assicurato una carriera come interprete per registrazioni. E così in effetti fece. Ma la compagnia di registrazione che aveva bandito il concorso era interessata solo al migliore. Io arrivai seconda. C’è posto per così poche persone… — la sua voce si tramutò in un sospiro. — A me non rimase che un buon risultato personale che non interessava a nessuno. Tranne quando a qualcuno capitava di inserire un disco per sentire non solo il migliore del nostro mondo, ma il migliore di tutta la Galassia. Per fortuna, proprio in quel periodo incontrai Warren, che al tempo stesso era tutto il mio pubblico e il mio unico mecenate. E probabilmente fu una fortuna che io non cercassi di far carriera, perché ci spostavamo tanto spesso in quei giorni… infatti lui stava terminando gli studi e aveva iniziato a lavorare per la GalacTech. Ho impartito qualche lezione, di tanto in tanto, a degli antiquari interessati… — Piegò la testa in direzione di Silver. — E vi hanno parlato anche di musica, in mezzo a tutte le cose che vi hanno insegnato là su quel satellite?
— Abbiamo imparato delle canzoni, da piccoli — fu la timida risposta di Silver. — E poi avevamo i flautini, ma non sono durati molto.
— Flautini?
— Piccoli oggetti di plastica in cui si soffiava. Quelli erano veri. Una delle nostre madri del nido ce li ha portati quando io avevo, oh… otto anni. Ma poi spuntavano un po’ dappertutto e la gente ha cominciato a lamentarsi del fatto che… suonavano. Così ha dovuto portarli via.
— Capisco. Warren non mi ha mai parlato dei flautini. — La signora Minchenko inarcò le sopracciglia. — Che… genere di canzoni?
— Oh… — Silver prese fiato e cantò: — Rag V. Biv, Rag V. Biv, questo è il nome del quad che lo spettro dei colori vi insegnerà: Rosso arancio giallo, verde blu, indaco e violetto, chi li scorderà… — si interruppe arrossendo: la sua voce sembrava così tremula e debole a confronto di quell’incredibile violino.
— Capisco — disse Madame Minchenko con voce stranamente soffocata, ma i suoi occhi brillavano, per cui Silver pensò che non si fosse offesa. — Oh, Warren — sospirò la signora, — di quante cose dovrai rispondere.
— Posso…? — cominciò Silver, ma poi si fermò. Di certo non le avrebbe permesso di toccare quel meraviglioso pezzo di antiquariato. E se si fosse dimenticata di tenerlo fermo per un solo istante o se a causa della gravità le fosse sfuggito dalle mani?
— Provarlo? — La signora Minchenko completò il suo desiderio. — Perché no? Sembra che dovremo trascorrere insieme parecchio tempo.
— Ho paura…
— Sciocchezze. Oh, certo una volta lo proteggevo da tutto: non l’ho suonato per anni, lasciandolo in una teca a temperatura controllata… come se fosse morto. Ma ultimamente ho cominciato a chiedermi a che scopo lo conservassi. Ecco, vieni. Piega la testa, così; abbassala, così. — La signora Minchenko sistemò le dita di Silver sul manico del violino. — Che belle dita lunghe hai, cara. E… quante. Chissà…
— Cosa? — chiese Silver quando la donna si interruppe.
— Eh? Oh, niente. Per un attimo ho visto nella mia mente un quad in assenza di peso con una chitarra a dodici corde. Se tu non fossi schiacciata nel sedile come ora, potresti sollevare quella mano inferiore…
Si trattò forse di un gioco di luce… la luce del sole di Rodeo a occidente, che calava dietro l’orizzonte frastagliato, trapassando con i suoi raggi rossastri i finestrini della cabina… ma gli occhi di Madame Minchenko sembravano lucidi. — Adesso arcua le dita, così.
Fuoco.
Il primo problema era stato quello di trovare nell’Habitat abbastanza residui di titanio puro da aggiungere alla massa del riflettore di vortice rotto: questo per compensare le perdite inevitabili che si sarebbero verificate durante il processo di rifabbricazione. Un margine del quaranta per cento in più rispetto alla massa iniziale era quello di cui Leo aveva bisogno per sentirsi tranquillo.
Avrebbero dovuto esserci dei serbatoi di titanio per l’immagazzinamento di liquidi particolarmente corrosivi… anche uno solo, un serbatoio da cento litri sarebbe bastato… o delle condutture, delle valvole, qualsiasi cosa. Durante le prime disperate ore di rastrellamento, Leo era arrivato alla convinzione che il suo piano sarebbe fallito ancor prima di cominciare. Poi, fra tutti i luoghi possibili, lo trovò in Alimentazione: un intero refrigeratore pieno di contenitori di titanio che pesavano almeno mezzo chilo l’uno. Gli svariati prodotti che in essi erano contenuti vennero affrettatamente riposti in ogni genere di recipiente che Leo e i suoi quad riuscirono a trovare. — La pulizia — gridò Leo in tono di rimprovero alla sbalordita ragazza che ora dirigeva il reparto, — viene lasciata come esercizio per gli studenti.
Il secondo problema consisteva nel trovare un posto in cui lavorare. Pramod aveva indicato uno dei moduli abbandonati, un cilindro del diametro di circa quattro metri. Ci vollero altre quattro ore di lavoro per aprire dei buchi laterali che potessero servire come ingressi, e inoltre per riempire una delle estremità con tutti gli scarti di materiali conduttori che riuscirono a trovare. La massa venne poi ricoperta utilizzando il rivestimento dei moduli abbandonati, quindi spianata, lisciata e levigata il più possibile, nel tentativo di darle la forma di una scodella leggermente concava con un arco accuratamente calcolato che copriva il diametro del modulo.
Adesso la massa di titanio era sospesa al centro del modulo. I pezzi del riflettore di vortice e i contenitori di cibo appiattiti vennero legati tutti insieme con una spoletta di cavo di titanio che un quad molto brillante aveva scovato nel Magazzino. Il denso metallo grigio splendeva alla luce dei fari delle tute, riflettendo una lama di luce solare che filtrava da una delle aperture che avevano praticato.
Per l’ultima volta, Leo fece vagare lo sguardo nella stanza. Ognuno dei quattro quad in tuta, disposti intorno alla massa di titanio, imbracciava un’unità laser assicurata alle pareti. Gli strumenti di misurazione di Leo erano sospesi in aria accanto a lui, assicurati con un guinzaglio alla cintura e a portata di mano delle sue dita guantate. Era il momento. Leo azionò un controllo del casco e la visiera si oscurò.
— Aprire il fuoco — ordinò nel comunicatore.
Quattro raggi laser fiammeggiarono contemporaneamente, riversandosi sulla massa. Per alcuni minuti sembrò che non accadesse nulla. Poi il metallo cominciò a cambiare colore, prima rosso scuro, poi più chiaro, giallo, bianco… e a quel punto uno degli ex-contenitori alimentari cominciò ad afflosciarsi, sciogliendosi nella massa. I quad continuarono a riversare energia.
La massa stava cominciando leggermente a fluttuare, così indicava uno degli strumenti di Leo, anche se l’effetto non era ancora visibile ad occhio nudo. — Unità quattro, aumentare del dieci per cento — ordinò Leo. Uno dei quad fece un rapido cenno di risposta con una mano inferiore e sfiorò un controllo. Il movimento cessò. Bene, il suo sistema di supporto funzionava. Leo aveva avuto orrende visioni di una massa di metallo fuso che si spostava verso una delle pareti laterali o, peggio ancora, andava ad urtare qualcuno; ma fortunatamente sembrava che i raggi destinati a fonderla riuscissero anche a controllarne i movimenti, almeno in assenza di spinte più forti.
Ora la fusione era visibile, il metallo si stava trasformando in una massa fluida bianca e ardente che galleggiava nel vuoto, cercando di assumere la forma di una sfera perfetta. Ragazzi, quella roba sarà purissima quando avremo finito, rifletté soddisfatto Leo.
Controllò gli strumenti. Ora si stavano avvicinando al momento critico in cui era necessario dare un giudizio: quando fermarsi? Dovevano riversare abbastanza energia per raggiungere una fusione uniforme, insomma, niente grumi nella salsa. Ma non dovevano neppure esagerare: anche se in quel momento non si vedeva, Leo sapeva che da quella bolla stava uscendo vapore di metallo, già prevista come perdita calcolata.
Ma soprattutto bisognava tener conto del passo successivo: ogni chilocaloria che veniva riversata dentro la massa di titanio, doveva anche venir estratta. A terra, la sagoma che stava cercando di ottenere sarebbe stata formata con uno stampo di rame, con litri e litri di acqua che avrebbero ridotto il calore al ritmo desiderato, in questo caso, rapidamente; raffreddamento a scroscio monocristallino, veniva chiamato. Be’, almeno lui aveva scoperto come ottenere lo scroscio…
— Cessare il fuoco — ordinò Leo.
Ed eccola là, sospesa in aria, la loro sfera di metallo fuso, bianco-azzurra per il calore che racchiudeva, perfetta. Leo controllò più volte che fosse perfettamente centrata e ordinò al laser numero due di emettere una scarica di mezzo secondo, non per fondere, ma per correggere la posizione.
— Va bene — disse nel comunicatore del casco. — Adesso ripuliamo questo modulo da tutto il superfluo e ricontrolliamo quello che deve restare qui. L’ultima cosa che vogliamo adesso è che qualcuno lasci cadere una chiave inglese nella pentola della zuppa, vero?
Senza troppe cerimonie, Leo e i quad spinsero l’equipaggiamento attraverso i fori che avevano aperto sul fianco del modulo. Due degli operatori laser lo seguirono, e gli altri due rimasero con Leo, che ricontrollò ancora la centratura e poi tutti e tre si legarono alle pareti.
Leo cambiò il canale del comunicatore. — Pronta, Zara? — chiese.
— Pronta, Leo — rispose il pilota dal suo rimorchiatore che in quel momento era agganciato alla poppa sventrata del modulo.
— Allora mi raccomando: con mano leggera e delicata. Ma con estrema decisione. Fingi che il tuo rimorchiatore sia un bisturi e che tu sia sul punto di operare uno dei tuoi amici.
— Bene, Leo. — C’era un’ombra nella sua voce e Leo pregò fervidamente tra sé: non cedere, ragazza.
— Vai, quando sei pronta.
— Accensione. Tenetevi stretti!
Da principio non vi fu alcun cambiamento percettibile, poi le cinghie di Leo si tesero. Era il modulo dell’Habitat che si muoveva, non la palla di metallo fuso, ricordò Leo a se stesso. Il nucleo di metallo non si era mosso, ed era invece la parete posteriore che si era spostata in avanti, quasi sul punto di avvolgerlo.
Funzionava, per Dio, funzionava! La bolla di metallo sfiorò la parete e si sparse nello stampo cavo.
— Aumentare l’accelerazione al primo grado — disse nel comunicatore. Il rimorchiatore aumentò la velocità, il cerchio di metallo fuso si allargò, e gli orli raggiunsero il diametro desiderato di tre metri, mentre l’incandescenza diminuiva, creando una lastra di titanio dello spessore voluto, pronto (dopo il raffreddamento) a venir modellata nella sua sottile forma finale.
— Continua così! Ci siamo.
Raffreddamento a scroscio? Be’, non esattamente. Leo era fastidiosamente conscio del fatto che probabilmente non sarebbero riusciti a ottenere un perfetto raffreddamento interno monocristallino. Ma gli bastava che non dovessero fonderlo di nuovo per ricominciare daccapo… era tutto quello che osava sperare. Avevano appena il tempo sufficiente per costruire uno di quegli affari, certamente non due. E quando sarebbe arrivata la temuta risposta da Rodeo? Molto presto, certamente.
Si chiese brevemente che cosa avrebbero fatto le nuove tecnologie di gravità artificiale di fronte a simili problemi di fabbricazione nello spazio. Rivoluzionario era certo un termine troppo blando. Peccato che non potessimo sfruttarle proprio ora, pensò. Ma se la stavano cavando benissimo, pensò, e sorrise al riparo del casco.
Puntò il termometro verso la parete posteriore: il pezzo stava raffreddandosi con la rapidità sperata. Ci sarebbero volute altre due ore di attesa prima che il calore fosse diminuito abbastanza per poter togliere il metallo dalla parete e maneggiarlo senza rischiare di deformarlo.
— Va bene, Bobbi, lascio il comando a te e Zara — disse Leo. — Procede bene. Quando la temperatura scenderà attorno ai cinquecento gradi, riportatelo indietro. Saremo pronti per il raffreddamento finale e la seconda fase della sagomatura.
Con cautela, cercando di non causare eccessive vibrazioni alle pareti, Leo slacciò le cinghie e si diresse verso l’uscita. Da lontano si godeva una bellissima vista della supernave, ora carica per oltre metà, e di Rodeo sullo sfondo. Era meglio andare, adesso, prima che la distanza superasse quella che i suoi retrorazzi erano in grado di coprire.
Attivò i razzi e si allontanò rapidamente dal fianco dell’unità rappresentata dal modulo e dal rimorchiatore che continuavano ad accelerare dolcemente. Procedeva a rilento, con l’aspetto di un relitto ubriaco e assemblato a casaccio, ma al suo interno ardeva una grande speranza.
Leo si diresse verso l’Habitat e la Fase Due del suo progetto-riparazione-astronave-mentre-si-aspetta.
Era giunta l’ora del tramonto sull’arida distesa del lago prosciugato. Silver fissò con ansia il monitor che continuava a scandagliare l’orizzonte, illuminandosi e oscurandosi ogni volta che raggiungeva e poi superava la palla infuocata del sole.
— Ci vorrà almeno un’altra ora prima che siano di ritorno — le fece notare la signora Minchenko che l’aveva osservata, — e questo nel migliore dei casi.
— Non sto cercando loro — rispose Silver.
— Uhm. — Madame Minchenko tambureggiò sulla consolle con le dita segnate dall’età, sganciò il sedile e lo inclinò all’indietro, fissando pensosa il soffitto della cabina. — No, immagino di no. Eppure, se il controllo del traffico della GalacTech vi ha visti atterrare e ha mandato fuori un elijet, a quest’ora avrebbero già dovuto essere qui. Forse, dopo tutto, non si sono accorti del vostro atterraggio.
— Forse invece sono solo disorganizzati — suggerì Silver, — e saranno qui da un momento all’altro.
La signora Minchenko sospirò. — Fin troppo probabile — si voltò a guardare Silver, stringendo le labbra. — E in quel caso, che cosa dovresti fare?
— Sono armata. — Silver sfiorò la saldatrice laser, posata in modo invitante sulla consolle davanti al sedile del pilota nel quale era sdraiata. — Ma preferirei non dover sparare a qualcun altro. Se posso farne a meno.
— Qualcun altro? — C’era un tono di maggior rispetto nella voce della signora Minchenko.
Sparare alla gente era un’attività così stupida, perché tutti dovevano farsi impressionare in quel modo? si chiese irritata. Come se avesse fatto qualcosa di veramente importante, come scoprire una cura per l’annerimento del fusto. Strinse le labbra.
E poi le riapri, sporgendosi in avanti a fissare il monitor. — Oh, oh! Arriva un veicolo terrestre.
— Non sono sicuramente i nostri ragazzi — disse Madame Minchenko con un certo disagio — Che sia andato male qualcosa?
— Non è il suo fuoristrada. — Silver armeggiò con la messa a fuoco. La luce obliqua del sole filtrava attraverso la polvere trasformandola in una cortina di fumo rosso ardente. — Credo… è un veicolo della Sicurezza della GalacTech.
— Oh, cielo. — La signora Minchenko si raddrizzò. — E adesso cosa facciamo?
— Non apriremo i portelli, in nessun caso, qualunque cosa succeda.
Dopo qualche minuto il veicolo si fermò a una cinquantina di metri dalla navetta. Un antenna si innalzò dal tetto e tremolò. Silver accese la radio… che fastidio non avere il pieno uso delle mani inferiori… e richiese al computer la lista dei canali di comunicazione. La navetta sembrava avere accesso ad un numero incredibile di canali. La frequenza audio della Sicurezza era 9999. Silver si sintonizzò.
— … per Dio! Ehi, voi là dentro… rispondete!
— Sì, che cosa volete? — chiese Silver.
Ci fu una pausa piena di scoppiettii. — Perché non rispondevate?
— Non sapevo che la chiamata fosse rivolta a me — rispose con molta logica.
— Già, be’… quella navetta mercantile è proprietà della GalacTech.
— E anch’io. Allora?
— Eh?… Senta, signora, qui è il sergente Fors della Sicurezza della GalacTech. Dovete sbarcare e consegnarci la navetta.
Una voce in sottofondo, non proprio soffocata, si informò: — Ehi, Bern… pensi che avremo il dieci per cento per il recupero di proprietà rubate su questa navetta?
— Continua a sognare — borbottò un’altra voce. — Nessuno ci darà mai un quarto di milione.
La signora Minchenko alzò una mano e si sporse in avanti per intervenire con voce tremula: — Giovanotto, sono Ivy Minchenko. Mio marito, il dottor Minchenko, ha requisito questo velivolo per rispondere a un’emergenza medica. Non solo è suo pieno diritto, ma è anche suo dovere legale, e il regolamento della GalacTech le impone di aiutarlo, non di ostacolarlo.
Un grugnito sconcertato salutò quelle parole. — Io devo riportare indietro questa navetta, questi sono i miei ordini. Nessuno mi ha detto niente di un’emergenza medica.
— Be’, glielo sto dicendo io!
Di nuovo la voce sullo sfondo: — … sono solo due donne! Avanti!
Il sergente: — Volete aprire il portello?
Silver non rispose. La signora Minchenko sollevò un sopracciglio in una muta domanda, ma Silver scosse il capo. Madame Minchenko sospirò e annuì.
Il sergente ripeté la sua richiesta, con tono sempre più alterato, trattenendosi a stento dall’imprecare. Dopo qualche minuto, smise.
Trascorsi altri cinque minuti, le porte del veicolo si aprirono verso l’alto e tre uomini muniti di respiratori, scesero, avanzarono di qualche passo e si fermarono a fissare i portelli della navetta che si trovavano in alto sopra di loro. Ritornarono al veicolo, salirono… il veicolo compì un’inversione. Se ne stavano andando? Silver se l’augurò contro ogni speranza. No, il veicolo avanzò, venendo a fermarsi sotto il portello anteriore della navetta. Due degli uomini frugarono nella parte posteriore, cercando degli attrezzi, e poi salirono sul tetto della macchina.
— Hanno degli arnesi da taglio — disse allarmata Silver. — Vogliono provare ad entrare tagliando la lamiera.
Una serie di colpi risuonò sulla navetta.
Con un cenno del capo, Madame Minchenko indicò la saldatrice laser. — È arrivato il momento di usarla? — chiese impaurita.
Silver scosse la testa con aria infelice. — No, non un’altra volta. Ma non posso neppure lasciare che danneggino la nave… deve poter volare nello spazio, altrimenti non potremo tornare a casa.
Aveva osservato Ti… trasse un profondo respiro e afferrò i comandi del velivolo. I pedali erano difficili da manovrare, doveva farne a meno. Motore di destra, acceso; motore di sinistra, acceso… un sommesso ronzio scosse la nave. I freni… là, certo. Tirò dolcemente la leva in posizione di rilascio. Non accadde nulla.
Poi la navetta balzò in avanti. Spaventata per quel movimento brusco, Silver tirò di nuovo indietro la leva e la nave si fermò sobbalzando. Scrutò ansiosamente la veduta esterna trasmessa dal monitor. Dove…?
La superficie portante di sinistra della navetta era passata sopra il tetto del veicolo mancandolo di appena mezzo metro. Con un brivido, Silver capì che prima di muoversi avrebbe dovuto controllare l’altezza. Avrebbe potuto scardinare l’ala, con conseguenze che non voleva neppure immaginare.
Le guardie della Sicurezza non si vedevano da nessuna parte… no, eccole là sparpagliate sul lago in secca. Una di esse si alzò da terra, ritornando verso il veicolo. E adesso? Se fosse rimasta ferma, o anche se si fosse spostata più in là, per poi fermarsi, ci avrebbero riprovato. Non sarebbero stati necessari molti tentativi prima che si facessero furbi e sparassero alle ruote della navetta o cercassero di immobilizzarla in qualche altro modo. Una situazione di stallo molto precaria.
Silver si succhiò il labbro inferiore. Poi, sporgendosi in avanti in un sedile che non era certo stato progettato per i quad, mollò i freni a metà e aumentò i giri del motore di sinistra. La navetta scivolò di qualche metro in avanti, sbandando vistosamente. Il monitor mostrò dietro di loro l’immagine del veicolo per metà oscurato da una nuvola di polvere arancione sollevata dagli scarichi, tremolante per il calore emesso dai motori.
Tirò i freni al massimo e ancora una volta aumentò i giri del motore di sinistra. Il ronzio divenne un gemito… Silver non osava tramutarlo nell’urlante frastuono prodotto da Ti durante l’atterraggio, perché in quel caso, chissà cosa sarebbe potuto succedere.
Il rivestimento di plastica del veicolo si incrinò e cominciò a piegarsi. Se Leo aveva avuto ragione nel descrivere l’idrocarburo usato per rifornire i veicoli di terra, tra pochi secondi avrebbe dovuto ottenere…
Una palla di fuoco giallo avvolse il veicolo, brillando per un attimo con un’intensità maggiore del sole al tramonto. Volarono pezzi in ogni direzione, arcuandosi e rimbalzando in modo spettacolare nel campo gravitazionale. Uno sguardo al monitor rivelò a Silver che gli uomini stavano fuggendo nella direzione opposta.
Diminuì il numero di giri nel motore di sinistra, allentò i freni e lasciò che la navetta rullasse in avanti sul fango rappreso e duro. Per fortuna, il vecchio lago prosciugato era una distesa abbastanza uniforme, così non ebbe bisogno di preoccuparsi di sottigliezze di guida come le sterzate improvvise.
Uno degli uomini della Sicurezza le inseguì per un minuto o due, agitando le braccia, ma presto rimase distanziato. Silver lasciò che la navetta rullasse per un paio di chilometri, poi frenò di nuovo e spense i motori.
— Bene — disse con un sospiro, — e con questo ci siamo liberati di loro.
— Non c’è dubbio — rispose Madame Minchenko debolmente, regolando l’ingrandimento sul monitor per dare un’ultima occhiata alle loro spalle. Una colonna di fumo nero ed un alone arancione che andava smorzandosi nelle prime ombre del crepuscolo, indicava il luogo in cui si erano fermati in precedenza.
— Spero che almeno i respiratori fossero pieni — aggiunse Silver.
— Oh, santo cielo — esclamò la signora Minchenko. — Forse dovremmo tornare indietro e… fare qualcosa. Ma certo avranno il buon senso di restare accanto alla macchina in attesa di soccorsi, senza andarsene in giro per il deserto. I video per le operazioni di salvataggio della Compagnia lo raccomandano sempre. «Restate con il vostro veicolo e attendete le squadre di Ricerca e Salvataggio».
— Non dovrebbero essere loro la Ricerca e Salvataggio? — Silver studiò le minuscole immagini sullo schermo. — Non resta molto del veicolo, ma sembra che tutti e tre intendano restare lì. Be’… — scosse il capo. — Tornare indietro a prenderli è troppo pericoloso. Quando il dottore e Ti torneranno con Tony, forse le guardie della Sicurezza potranno prendere il suo fuoristrada e tornarsene con quello. Se nel frattempo non arriva nessuno.
— Oh! — convenne la signora Minchenko, — è vero. Buona idea. Mi sento più sollevata. — Scrutò intenta il monitor. — Poveri ragazzi!
Ghiaccio.
Dalla cabina di controllo sigillata da cui si dominava il vano di carico merci dell’Habitat, Leo osservò quattro quad in tuta pressurizzata che spostavano dall’esterno il riflettore di vortice intatto preso dalla barra Necklin del D-620. Il riflettore era un oggetto ingombrante da maneggiare, in pratica un enorme imbuto di titanio, largo tre metri e spesso un centimetro ai bordi, curvato con precisione matematica e dello spessore di due centimetri nella depressione centrale. Una curva deliziosa, ma assolutamente insolita, un fatto questo di cui gli schemi di fabbricazione di Leo dovevano per forza tener conto.
Il riflettore integro venne portato in posizione, al centro di un nido formato da un intreccio di serpentine refrigeranti. I quad uscirono, mentre dalla cabina di controllo Leo chiuse il portello stagno che comunicava con l’esterno e ricominciò a pompare aria nel vano di carico. Nella sua frenesia, Leo schizzò letteralmente fuori dalla cabina, con un sibilo d’aria che era tutto ciò che restava della differenza di pressione tra i due ambienti e fu costretto a lavorare di mascelle per stapparsi le orecchie.
Le uniche serpentine abbastanza grandi per servire allo scopo erano state trovate grazie ad una fortunata intuizione di Bobbi, ancora una volta in Alimentazione. La ragazza quad che dirigeva il dipartimento aveva emesso un gemito disperato quando aveva visto Leo e la sua squadra. Si erano impadroniti senza tante cerimonie del rivestimento interno del suo più grosso congelatore e l’avevano portato nel luogo in cui lavoravano, ovvero nel più grande modulo di attracco già installato come componente del D-620. Secondo la stima di Leo, mancavano meno di un quarto dei moduli al riassemblaggio finale dell’Habitat, nonostante avesse sottratto a quel lavoro una dozzina degli operai migliori per inserirli nell’altro progetto.
Dopo pochi minuti, altri tre quad si unirono a Leo nel compartimento merci e vennero attentamente controllati. Erano infagottati in magliette, pantaloncini supplementari e lunghe tute lasciate dai terrestri, con la parte inferiore di queste ultime avvolta strettamente intorno al secondo paio di braccia e fermata da cinghie elastiche. Erano riusciti a trovare un numero sufficiente di guanti. Leo aveva temuto che tutte quelle dita senza protezione avrebbero potuto ritrovarsi congelate. Nuvolette di vapore si formavano nell’aria gelida ad ogni respiro.
— Bene, Pramod, siamo pronti. Portate le manichette.
Pramod svolse parecchi metri di tubo e li consegnò ai quad in attesa: un altro quad procedette al controllo finale del collegamento con il rubinetto più vicino. Leo accese le serpentine e prese una manichetta.
— Bene, ragazzi, guardatemi: adesso vi insegno il trucco. Dovete versare l’acqua lentamente sulle superfici fredde, evitando di spruzzarla in aria, ma nel contempo dovete mantenere costante il getto, per evitare che si congelino le manichette. Se sentite che vi si intorpidiscono le dita, fate una pausa nella stanza qui vicino. Non voglio che qualcuno si faccia male.
Leo concentrò la sua attenzione sulla parte posteriore del riflettore di vortice, inserito tra le serpentine, ma senza toccarle. Il riflettore era rimasto per parecchie ore all’esterno e si era raffreddato al punto giusto. Schiacciò la valvola e lasciò scaturire uno spruzzo argenteo che rapidamente si propagò in tanti fiocchi ghiacciati sulla superficie dello specchio. Provò con alcune gocce sulle serpentine: si raffreddavano ancor più in fretta.
— Bene, proprio così. Cominciate a costruire lo stampo di ghiaccio intorno allo specchio. Fatelo con il maggior spessore possibile, senza sacche d’aria. E dopo non dimenticate di piazzare il tubicino per l’evacuazione dell’aria dalla camera di stampo.
— Quanto dev’essere spesso? — chiese Pramod, iniziando il lavoro con la sua pompa e guardando affascinato il ghiaccio che si formava.
— Almeno un metro. Come minimo, la massa del ghiaccio deve essere uguale alla massa del metallo. Dal momento che possiamo fare un unico tentativo, ci serve almeno il doppio della massa del metallo. Purtroppo non potremo recuperare quest’acqua. Voglio controllare di nuovo le nostre riserve, perché uno spessore di due metri sarebbe meglio, se possiamo privarci di quell’acqua.
— Come hai fatto a pensare a una cosa simile? — chiese Pramod in tono di reverente stupore.
Leo sbuffò, perché si rese conto che Pramod credeva che lui si fosse inventato tutte quelle soluzioni ingegneristiche sotto la pressione degli eventi. — Non le ho inventate io, ma le ho lette. È un vecchio metodo che si era soliti usare per controllare i progetti preliminari, prima che venisse perfezionata la teoria dei frattali e le simulazioni al computer raggiungessero gli attuali livelli.
— Oh! — Pramod sembrava piuttosto deluso.
Leo sorrise. — Se mai ti capiterà di dover scegliere tra l’ispirazione del momento e una nozione imparata, scegli la seconda: funziona sempre.
Spero. Leo indietreggiò osservando il lavoro dei suoi quad con aria critica. Pramod aveva due manichette, una per ogni paio di mani, e le alternava rapidamente, mentre uno spruzzo dopo l’altro cadeva sullo specchio e sulle serpentine cosicché la formazione del ghiaccio era già visibile. Fino a quel momento non aveva sprecato neppure una goccia. Leo trasse un lungo sospiro di sollievo: a quanto pareva, poteva in tutta tranquillità delegare quella parte del compito. Fece un cenno a Pramod e lasciò il compartimento per occuparsi di una parte del lavoro che invece non osava delegare a nessun altro.
Leo perse due volte la strada mentre cercava di arrivare al Magazzino Sostanze Tossiche… e pensare che era stato lui a disegnare lo schema di riconfigurazione dell’Habitat; non c’era quindi da stupirsi se incontrava tanti quad con l’espressione sbalordita e confusa. Tutti sembravano freneticamente occupati in qualche attività, in base al principio «mal comune, mezzo gaudio», e Leo ne era più che soddisfatto.
Il Magazzino Sostanze Tossiche era un modulo freddissimo, collegato all’Habitat solo per mezzo di un triplo compartimento stagno d’acciaio, che era sempre chiuso. Leo entrò e incrociò uno dei quad della sua squadra di saldatura, attualmente assegnato alla riconfigurazione dell’Habitat.
— Come va, Agba? — gli chiese.
— Bene. — Agba sembrava stanco. Sul viso abbronzato spiccavano delle striature rossastre, segno evidente delle troppe ore passate dentro una tuta pressurizzata. — Quelle stupide ganasce congelate ci hanno davvero rallentato, ma siamo quasi arrivati alla fine. E il tuo lavoro come va?
— Finora bene. Sono entrato qui per preparare l’esplosivo: siamo già a buon punto. Ti ricordi dove diavolo, in tutto questo… — le pareti curve del modulo erano stipate di provviste, — … teniamo l’esplosivo semiliquido?
— Era là — rispose Agba con un cenno.
— Bene… — lo stomaco di Leo si contrasse di colpo. — Che cosa vuol dire, era? — Vuol dire solo che è stato spostato, cercò di rassicurarsi speranzoso.
— Be’, ne abbiamo usato parecchio per far saltare le ganasce ed aprirle.
— Farle saltare? Pensavo che aveste deciso di tagliarle.
— Lo abbiamo fatto, ma poi Tabbi ha trovato il modo di piazzare una piccola carica che le aprisse sulla linea di depressione. Nella metà dei casi erano riutilizzabili, e nell’altra metà non erano più rovinate di quanto lo sarebbero state se le avessimo tagliate. — Agba sembrava molto fiero di sé.
— Non lo avrete usato tutto per quello scopo?
— Be’, ne abbiamo versato un po’. All’esterno, naturalmente — aggiunse Agba, fraintendendo l’espressione inorridita comparsa sul volto di Leo. Gli tese un fiasco sigillato da mezzo litro perché Leo lo controllasse. — Questo è l’ultimo. Penso che basti per finire il lavoro.
— Grr! — Leo chiuse le dita attorno al fiasco e lo afferrò, stringendolo al petto come se fosse una bomba a mano sul punto di esplodere. — Mi serve! Devo prenderlo! — Me ne serve dieci volte tanto, urlò la sua mente.
— Oh — disse Agba — mi spiace. — Rivolse a Leo uno sguardo limpido e innocente. — Questo significa che dobbiamo tornare a tagliarle?
— Sì — rispose Leo con voce stridula. — Vai — aggiunse poi. Sì, prima che fosse lui a esplodere.
Con un sorriso incerto, Agba rientrò nel compartimento stagno e questo si richiuse, lasciando Leo solo e ansimante.
Pensa, uomo, pensa, si disse. Non farti prendere dal panico. C’era qualcosa, un fattore elusivo, un elemento in un angolo della sua mente che cercava di dirgli che questa non era la fine, ma in quel momento non riusciva a ricordare… Purtroppo una rapida revisione mentale del suoi calcoli, contando sulle dita (oh, essere un quad!), non fece altro che confermare i suoi timori.
La trasformazione mediante esplosione della lastra di titanio nella complessa forma del riflettore di vortice richiedeva, oltre ad un assortimento di morse, ghiere e anelli distanziatori, anche tre parti principali: lo stampo di ghiaccio, la lastra di metallo e l’esplosivo per unire i due elementi. Ma qual è la gamba più importante di un tripode? Quella che manca, naturalmente. E lui che aveva pensato che l’esplosivo semiliquido fosse la parte più semplice…
Sconsolato, Leo cominciò una perquisizione sistematica del modulo, controllando tutto quello che conteneva. Un fiasco extra di esplosivo doveva essere finito nel posto sbagliato, ma, ohimè, i quad erano fin troppo precisi nel tenere gli inventari. Ogni bidone conteneva solo quello che era indicato sull’etichetta, niente di più e niente di meno. Agba aveva persino aggiornato l’etichetta sul bidone: Contenuto: esplosivo semiliquido tipo B-2. Fiasco da mezzo litro. Quantità 0.
E fu in quel momento che Leo inciampò, letteralmente, in un bidone di benzina. No, almeno sei barili del maledetto carburante, che chissà come erano finiti là e adesso erano strettamente ancorati alle pareti. Dio solo sapeva dove fosse finito il resto delle cento tonnellate. Leo sperò che fossero all’inferno, dove almeno potevano essere di qualche utilità. Avrebbe volentieri barattato le cento tonnellate per quattro aspirine. Cento tonnellate di benzina, di cui…
Leo batté le palpebre e si lasciò sfuggire un grido di esultanza.
Di cui, un litro o poco più, mischiato con tetranitrometano, avrebbe prodotto un esplosivo anche più potente.
Certo avrebbe dovuto controllare sui testi, per essere sicuro, e in ogni caso avrebbe dovuto cercare le giuste proporzioni… ma era certo di ricordare giusto. Nozioni e ispirazione, quella era la miglior combinazione in assoluto. Il tetranitrometano era usato come soluzione di emergenza per produrre ossigeno in parecchi sistemi dell’Habitat e sui rimorchiatori. Produceva più anidride per centimetro cubo dell’ossigeno liquido, senza i problemi di immagazzinaggio dovuti a pressione e temperatura, in una versione molto più sofisticata delle vecchie candele al tetranitrometano che, quando bruciavano, emettevano ossigeno. Ora… oh, Dio… sempre che il TNM non fosse stato usato tutto da qualcuno, per… per gonfiare palloncini per bambini o qualche altra maledetta cosa… in effetti avevano perso aria durante la riconfigurazione dell’Habitat.
Si trattenne per il tempo necessario a rimettere il fiasco nel contenitore e scrivere sui barili a grosse lettere rosse: QUESTA BENZINA È DI LEO GRAF. SE QUALCUN ALTRO LA TOCCA, SI RITROVERÀ CON TUTTE LE BRACCIA SPEZZATE. Uscì a spron battuto dal Magazzino Sostanze Tossiche, diretto al più vicino terminale collegato alla biblioteca.