A Monaco, nel cuore della notte, in una delle cabine transfert a indirizzo generale, Louis Wu balzò nella realtà.
Il suo codino, lungo trenta centimetri, era bianco e lucente come neve artificiale. La pelle e il cranio raso erano giallo-cromo e le iridi degli occhi d’oro; sul mantello blu reale era applicato un dragone dorato stereoscopico. Sfoggiava un largo sorriso che rivelava una fila di denti perfettamente allineati, splendenti come perle. Sorrideva facendo cenni di saluto, ma il sorriso già svaniva in un attimo e il suo volto cadente assomigliava a una maschera di gomma che si sta sciogliendo. Louis Wu dimostrò tutta la sua età.
Osservò la folla di Monaco che gli scorreva vicino: le persone apparivano improvvisamente nelle cabine, provenienti da luoghi sconosciuti; la gente gli camminava attorno, ora che i marciapiedi mobili erano stati bloccati per la notte. Gli orologi suonarono le undici. Louis Wu raddrizzò le spalle e uscì.
A Greenwich, dove il party in suo onore era ancora in pieno svolgimento, era già la mattina dopo il suo compleanno. Qui a Monaco si era in anticipo di un’ora. Louis trovò una Bierstube, pagò da bere a tutti incoraggiando i canti in tedesco e in lingua universale. Partì per Budapest prima di mezzanotte.
Si erano accorti che aveva disertato il party? Probabilmente immaginavano che una donna fosse uscita con lui, e che sarebbe stato di ritorno entro un paio di ore. Invece Louis Wu se n’era andato solo, balzando oltre la linea di mezzanotte, rapidamente incalzato dal nuovo giorno. Ad un uomo che compie duecento anni non sono sufficienti ventiquattr’ore.
A Budapest trovò vino e danze atletiche. La gente del luogo lo tollerava come turista pieno di quattrini, e i turisti lo credevano un ricco del posto. Ballò, bevve e ripartì prima di mezzanotte.
Al Cairo fece una passeggiata.
Camminò per i marciapiedi mobili vivacemente illuminati, sommando il suo passo alla loro velocità di dieci miglia orarie. Gli venne in mente che ogni città del mondo era dotata di marciapiedi mobili e che tutti si muovevano a dieci miglia all’ora.
Era un pensiero intollerabile. Non nuovo, ma veramente intollerabile. Louis Wu rilevò l’assoluta somiglianza tra il Cairo, Monaco e Greenwich… e San Francisco e Topeka e Londra e Amsterdam. I negozi, lungo i marciapiedi mobili, smerciavano tutti i medesimi prodotti. I cittadini che quella sera gli passavano accanto erano identici uno all’altro e tutti vestiti allo stesso modo. Non si differenziavano gli americani dai tedeschi o dagli egiziani: erano una sola massa di gente piatta e uniforme.
Questo in tre secoli e mezzo erano riuscite a fare le cabine transfert alle infinite varietà della Terra. Coprivano tutto il mondo con una rete di viaggi istantanei. La differenza tra Mosca e Sydney consisteva in un attimo di tempo e in una moneta da dieci stelle. Era inevitabile che le città si mescolassero, sino a trasformare i nomi dei luoghi in nient’altro che reliquie del passato.
San Francisco e San Diego erano le estremità nord e sud di un’unica città che si espandeva lungo la costa. Ma quanti sapevano qual era il capo e quale la coda? Maledettamente pochi, in quei giorni.
Pensieri neri per un uomo che compie duecento anni.
Tuttavia l’uniformità delle città era autentica. Louis era stato testimone di questo processo. Tutte le irrazionalità di luogo e di tempo e di costume si fondevano in un’unica razionale megalopoli, estesa quanto il mondo, come una pasta grigia e opaca. Chi parlava ancora il tedesco, il francese, lo spagnolo? Tutti si servivano della lingua universale. La moda del trucco del corpo era cambiata di colpo, in tutto il mondo, in un’unica ondata mostruosa. Era tempo per un altro ritiro? Nell’ignoto, in una navicella monoposto, col colore vero della pelle, degli occhi, dei capelli e la barba lasciata crescere incolta sul viso…
— Balle — si disse Louis, — sono appena reduce da un ritiro. — Venti anni fa.
Si stava avvicinando la mezzanotte. Louis trovò una cabina transfert, inserì la carta di credito nella scanalatura e compose la cifra per Teheran.
Emerse in una stanza piena di sole: — Che diavolo? — si chiese sbattendo le palpebre. La cabina trasfert doveva avere sballato. Non avrebbe dovuto esserci il sole a Teheran. Louis Wu si girò per ricomporre il numero, e rimase allibito.
Si trovava in una camera d’albergo assolutamente anonima: l’ambiente era tanto banale da suscitare una sensazione di disgusto.
Di fronte a lui, al centro della stanza, c’era qualcosa che non aveva nulla di umano né di umanoide. La cosa stava ritta su tre gambe e osservava Louis Wu da due direzioni, per mezzo di due teste piatte poste su colli esili e flessibili. Quasi tutta la pelle che ricopriva il suo incredibile corpo era chiara e morbida come quella di un guanto; ma dai due colli una scura criniera, folta e ruvida, scendeva lungo la spina dorsale fino a coprire la complessa attaccatura dell’anca con la gamba posteriore. Le due gambe anteriori, molto divaricate, formavano quasi un triangolo equilatero con i minuscoli zoccoli artigliati.
Louis immaginò trattarsi di un animale alien. Non poteva esserci posto per un cervello, in quelle teste piatte. Tuttavia notò la gibbosità che spuntava tra la base dei colli, dove la criniera diventava una specie di folta zazzera protettiva… e un ricordo vecchio di centottant’anni gli fluttuò nella memoria.
Quella creatura era un burattinaio. Un burattinaio di Pierson. Il suo cervello e il cranio erano situati sotto la zazzera. Non si trattava di un animale; al contrario, era dotato di un’intelligenza pari almeno a quella di un uomo. E i suoi occhi, uno per testa, incassati in orbite profonde, fissavano Louis Wu da due direzioni.
Louis provò ad aprire la porta. Bloccata.
Era rimasto chiuso fuori, non dentro. Componendo una cifra poteva sparire. Ma non gli passò neanche per la mente. Un burattinaio di Pierson non si incontra tutti i giorni. La specie se n’era andata dallo spazio conosciuto molto tempo prima che Louis Wu nascesse.
— Posso aiutarti? — disse Louis.
— Sì! — rispose l’alien…
… con una voce che suscitava i sogni dell’adolescenza. Se avesse immaginato una donna con una voce simile sarebbe stata la somma di Cleopatra, Elena di Troia, Marilyn Monroe e Lorelei Huntz.
— Maledizione! — L’imprecazione era quanto mai appropriata. Non c’è giustizia! Una simile voce appartenere a un alien con due teste e di sesso indefinito!
— Non temere — disse l’alien, — lo so che puoi scappare se vuoi.
— All’università ho visto illustrazioni di cose come te. Ve ne siete andati da tanto tempo… o perlomeno lo credevamo.
— Quando la mia specie abbandonò lo spazio conosciuto, io non ero fra loro — replicò il burattinaio, — rimasi nello spazio conosciuto. Era necessario per la mia specie.
— Dove sei stato nascosto? In quale punto della Terra ci troviamo?
— Non ti riguarda. Sei tu Louis Wu MMGREWPLH?
— Sapevi già il mio nome? Ti sei interessato a me, in particolare?
— Certamente. Abbiamo scoperto la possibilità di manipolare la rete mondiale delle cabine transfert.
Louis si rese conto che ciò era possibile. Ma ci sarebbe voluta una fortuna di sporco denaro. Sì! era possibile. Ma… Perché?
— È necessaria una spiegazione…
— Non mi fai uscire di qui?
Il burattinaio si mise a riflettere. — Penso che dovrò farlo. Anzitutto devi sapere che sono protetto. Se tu mi attaccassi, le mie difese ti fermerebbero.
Louis Wu emise un suono di contrarietà: — Perché dovrei farlo?
Il burattinaio non rispose.
— Ora mi ricordo. Tu sei un vigliacco. Tutto il vostro sistema etico è basato sulla codardia.
— Il tuo giudizio ci sarà utile, anche se lo ritengo inesatto.
— Be’, potrebbe andare peggio! — riconobbe Louis. Ogni specie sensibile aveva le sue peculiarità. Senza dubbio sarebbe stato più facile trattare col burattinaio che con quella razza di paranoici dei Trinocs, o con gli kzinti dall’istinto omicida facile, o anche con i sessili Grogs con i loro… sgradevoli surrogati di mani.
La presenza del burattinaio spalancava in Louis una soffitta di polverose memorie. Le cognizioni sui burattinai e il loro impero commerciale, i contatti che avevano avuto con l’umanità e la loro improvvisa sconcertante sparizione si confondevano con il gusto del tabacco della prima sigaretta, la sensazione provocata dai tasti della macchina per scrivere sotto dita impacciate dall’inesperienza, le liste del vocabolario universale da imparare a memoria, il suono ed il gusto dell’inglese, le incertezze e l’imbarazzo dell’estrema gioventù. Aveva fatto degli studi sui burattinai durante un corso di storia all’università, dimenticandosi poi di loro per centottanta anni.
— Rimarrò qui — disse al burattinaio, — se può farti comodo.
— No. Dobbiamo fare conoscenza.
Il burattinaio si mosse e i suoi muscoli si contrassero, guizzando sotto la pelle morbida. La porta della cabina transfert si aprì con uno scatto, e Louis Wu entrò nella stanza.
Il burattinaio indietreggiò di alcuni passi.
Louis si abbandonò sopra una sedia, più per mettere a suo agio il burattinaio che per se stesso. Un uomo seduto ha sempre un’aria inoffensiva. La sedia era una massaggiatrice automatica concepita esclusivamente ad uso degli umani. Louis percepì un odore pungente, piuttosto gradevole, che gli richiamava alla mente gli scaffali delle spezie e i gabinetti chimici.
L’alien si riposava appoggiato sulla gamba posteriore, che teneva piegata. — Sarai curioso di sapere perché ti ho portato qui. Ci vuole una spiegazione. Che cosa sai della mia specie?
— È passato molto tempo da quando frequentavo l’università. Avevate un impero commerciale, non è vero? E si estendeva in tutto lo spazio conosciuto, o perlomeno in quello che noi amiamo chiamare spazio conosciuto. Ci risulta che i Trinocs l’hanno acquistato da voi, e i Trinocs li abbiamo conosciuti soltanto venti anni fa.
— Precisamente, abbiamo trattato affari con i Trinocs. Più che altro per mezzo dei robot, se ben ricordo.
— Il vostro impero commerciale è durato almeno un migliaio di anni su un’estensione di moltissimi anni-luce. E ve ne siete andati lasciandovelo alle spalle. Perché?
— Come si può dimenticare? Siamo sfuggiti all’esplosione del Nucleo della Galassia!
— Ne ho sentito parlare. — Louis ricordava anche, sia pure vagamente, che erano stati proprio gli alien a scoprire la reazione a catena della Novae. — Ma perché fuggire adesso? I Soli del Nucleo si sono trasformati in Novae diecimila anni fa. La luce non arriverà sin qui che tra ventimila anni.
— Non si deve permettere che gli umani si disperdano — disse il burattinaio. — Ne sareste gravemente danneggiati. Non vedete il pericolo? La radiazione dell’urto d’onda renderà inabitabile questa zona della Galassia!
— Ventimila anni sono tanti.
— Uno sterminio tra ventimila anni è sempre uno sterminio. La mia specie è fuggita in direzione della Nebulosa di Magellano. Alcuni di noi, tuttavia, sono rimasti, nel caso che la migrazione dei burattinai dovesse incontrare dei pericoli. Ora ci siamo.
— Ah sì? Che pericolo?
— Non sono ancora autorizzato a rispondere a questa domanda. Però puoi guardare questo. — Il burattinaio si mise a cercare qualcosa sul tavolo.
Louis si stava chiedendo dove fossero le mani del burattinaio. Si accorse che erano proprio le sue bocche ad esplicare quella funzione. E funzionavano benissimo, pensò Louis, mentre il burattinaio gli allungava una riproduzione oleografica. Le labbra del burattinaio erano molli ed elastiche e sporgevano di qualche centimetro al di sotto dei denti. Erano asciutti come dita umane e terminavano in minuscole protuberanze del tutto simili a dita. Dietro ai denti quadrati, tipici dei vegetariani, Louis intravide una lingua guizzante e biforcuta.
Prese l’olografia e la guardò.
In un primo momento non riuscì a capirci niente, ma continuò ad osservarla cercando di risolvere l’enigma. C’era un dischetto di un bianco intenso, che poteva essere un sole di tipo GO oppure K9, con una corda profonda e corta tagliata da una linea nera. Ma quell’oggetto incandescente non poteva essere un Sole. Dietro al disco, sullo sfondo nero dello spazio, si vedeva una striscia blu cielo, perfettamente diritta e con i contorni perfettamente delineati.
— Sembra una stella con un anello intorno — disse Louis.
— Puoi continuare a studiarlo, se vuoi. Ora ti posso spiegare la ragione per cui ti ho portato qui. Ho intenzione di formare una squadra esplorativa composta di quattro membri, me e te compresi.
— Una squadra per esplorare che cosa?
— Per ora non te lo posso dire.
— Oh, andiamo! Dovrei essere un bel pazzo per fare un salto nel buio di questo genere!
— Buon compleanno — fece il burattinaio.
— Grazie — rispose Louis stizzito.
— Perché hai piantato a metà il tuo party?
— Non ti riguarda.
— Invece sì. Scusami, Louis Wu. Perché hai piantato il party?
— Avevo semplicemente deciso che ventiquattro ore non erano sufficienti per uno che compie duecento anni. Così sono stato il primo ad andarmene e ho allungato quella giornata spostandomi oltre la linea di mezzanotte. Un alien non può capire…
— Allora eri entusiasta per il modo in cui stavano andando le cose?
— No. Non proprio. No… — Entusiasta no, casomai il contrario. Anche se la festa si era svolta piuttosto bene.
Tutto era cominciato un minuto dopo la mezzanotte. Perché no? Aveva amici in ogni fuso orario. Non c’era ragione di sprecare un solo minuto di quella giornata. In tutta la sua casa c’erano letti per sonnellini brevi ma profondi. Chi invece non voleva perdere neanche un minuto aveva a sua disposizione droghe eccitanti, che aiutavano a rimanere svegli, alcune anche con interessanti effetti collaterali.
C’erano invitati che Louis non vedeva da cento anni, altri che incontrava tutti i giorni. Qualcuno era stato una volta un suo nemico mortale. C’erano donne da lui completamente dimenticate, al punto che più volte si era sorpreso per il suo cambiamento di gusti.
Era facilmente immaginabile che ci sarebbero volute delle ore per fare tutte le presentazioni. Quante liste di nomi da imparare a memoria in anticipo! Troppi amici erano diventati degli estranei.
Così, poco prima della mezzanotte, Louis Wu era penetrato in una cabina-transfert e, dopo aver composto una cifra, era sparito.
— Ero annoiato a morte — disse Louis Wu. — "Raccontaci del tuo ultimo ritiro, Louis. Ma come fai a stare così solo?". "Sei stato un dritto ad invitare l’ambasciatore dei Trinocs, Louis!". "È un po’ che non ci vediamo".
— Sei un uomo senza pace, Louis Wu. I tuoi ritiri… sei stato tu a lanciare questa moda, no?
— Non ricordo come è incominciata. Ha preso piede piuttosto bene. Adesso quasi tutti i miei amici lo fanno.
— Ma mai tanto spesso come te. Ti isoli dall’umanità ogni quarant’anni, più o meno. Abbandoni il mondo degli uomini per raggiungere i confini dello spazio conosciuto. Te ne stai tutto solo in una navicella monoposto, finché non si fa sentire di nuovo il bisogno della compagnia. Sei tornato dal tuo ultimo ritiro, il quarto, venti anni fa. Sei un irrequieto, Louis. In ogni mondo dello spazio conosciuto, hai trascorso tanti anni da essere considerato uno del luogo. Questa sera hai abbandonato il party del tuo compleanno. Sei di nuovo in agitazione?
— Sono affari miei, non ti pare?
— Certo. Il mio è solo un problema di reclutamento. Come membro della squadra esplorativa mi sembri una buona scelta. Sai affrontare il rischio, dopo averlo ben calcolato. Non hai paura di rimanere solo con te stesso. Sei abbastanza furbo e abbastanza prudente da essere ancora in vita a duecento anni. Non hai trascurato le cure mediche e il tuo fisico è come quello di un ventenne. Inoltre, e quel che più conta, sembri apprezzare la compagnia degli alien.
— Certo — Louis aveva conosciuto alcuni xenofobi. Li considerava imbecilli. La vita si riduceva ad una noia mortale, se si era costretti a dialogare solo con gli umani.
— Qui non si tratta di un salto nel buio. Non ti basta che ci sia io con te? Io, un burattinaio? Che cosa dovresti temere, che non tema io prima di te? La saggia prudenza della mia razza è proverbiale.
— È vero! — fece Louis. Era un fatto, ormai: lo aveva agganciato. Quella sua combinazione di xenofilia, irrequietezza e curiosità lo avrebbe spinto a seguire il burattinaio, ovunque andasse. Però voleva saperne qualcosa di più.
E si trovava nella posizione ideale per le trattative. Un alien non alloggiava in una stanza come quella per pura combinazione. Quell’albergo così dozzinale, quella stanza così comune da apparire addirittura rassicurante agli occhi di un terrestre, dovevano avere un’attrezzatura particolare per il reclutamento.
— Non vuoi dirmi che cosa hai intenzione di esplorare? — disse Louis. — Vuoi almeno dirmi dove?
— Alla distanza di duecento anni-luce, in direzione della Nebulosa Minore.
— Ma ci vogliono almeno due anni per arrivare lassù, e con una velocità a iperpropulsione.
— No. Abbiamo una nave che viaggia più velocemente di un comune mezzo a iperpropulsione. Percorre la distanza di un anno-luce in cinque quarti di minuto.
Louis aprì la bocca, senza riuscire a pronunciare sillaba. Un minuto e un quarto?
— Non ti devi sorprendere, Louis Wu. Altrimenti, come potevamo inviare un agente al centro della Galassia per studiare la reazione a catena delle Novae? Avresti dovuto intuire l’esistenza di una nave del genere. Se la mia missione avrà successo, ho l’intenzione di lasciare la nave al mio equipaggio con tutti i disegni. Questa nave sarà il tuo stipendio. Osserva le caratteristiche del volo quando raggiungeremo il gruppo dei burattinai in migrazione. Là conoscerai l’obbiettivo della nostra esplorazione.
Unirsi alla migrazione dei burattinai! - Fai conto su di me — disse Louis Wu. La prospettiva di vedere una specie intelligente al completo, e in migrazione! Navi smisurate che trasportavano migliaia o milioni di burattinai, intere ecologie operanti…
— Bene — Il burattinaio si alzò. — Il nostro equipaggio sarà composto di quattro elementi. Andiamo a scegliere il terzo. — E trotterellò dentro la cabina-transfert.
Louis fece scivolare l’enigmatica olografia in tasca, e lo seguì. All’interno della cabina, tentò di leggere il numero che il burattinaio stava componendo sul quadrante, nella speranza di individuare il punto nel quale si trovavano. Ma il burattinaio compose velocemente le cifre e già erano partiti.
Louis Wu seguì il burattinaio nella penombra di un ristorante di lusso. Lo riconobbe per le decorazioni in oro e nero e per la raffigurazione, esageratamente voluminosa, di un paio di stivali da cavallerizzo. Si trovavano da Krushenko, a New York.
Mormoni increduli seguirono l’ingresso del burattinaio. Un capo cameriere, un umano imperturbabile come un robot, li guidò verso un tavolo. Una delle sedie era stata sostituita da un enorme cuscino quadrato che l’alien, al momento di sedersi, piazzò tra la coscia e lo zoccolo della gamba posteriore.
— Eri atteso — concluse Louis.
— Sì. Ho prenotato. Al Krushenko sono abituati a servire i clienti alien.
Louis notò altri alien: quattro kzin seduti al tavolo vicino al loro, e un kdatlyno al centro della sala. Faceva un bell’effetto, data la vicinanza del Palazzo delle Nazioni Unite. Louis programmò il numero corrispondente a una bibita secca alla tequila.
— È stata una buona idea — commentò. — Ero mezzo morto di fame.
— Non siamo qui per mangiare, ma per reclutare il terzo membro.
— In un ristorante?
Il burattinaio alzò la voce, ma quello che disse non era una risposta. — Non hai mai conosciuto il mio Kzin Kchula-Rrit? È il mio animaletto favorito.
Ci mancò poco che a Louis non andasse la tequila per traverso. Al tavolo dietro le spalle del burattinaio stavano sedute quattro montagne di pelliccia color arancione, e ogni montagna era uno kzin; alle parole del burattinaio si voltarono, sfoderando i denti aguzzi come aghi. Ci si poteva illudere che fosse un sorriso, ma quel rictus, in uno kzin, non era certo un sorriso.
Il nome dei Rrit appartiene alla famiglia del Patriarca di Kzin. Louis, tracannando il resto della sua bibita, decise che la cosa non aveva importanza. L’insulto era mortalmente offensivo e tutt’al più si poteva finire sbranati una volta sola.
Lo kzin più vicino si alzò.
La ricca pelliccia arancione, macchiata di nero intorno agli occhi, copriva il corpo di una specie di gatto soriano alto tre metri. La corpulenza dello kzin non era determinata dal grasso ma da un ammasso di muscoli, forti e scattanti, distribuiti in maniera insolita su una struttura altrettanto fuori del comune. Le mani che sembravano guantate di nero, sfoggiavano artigli irti e lucenti.
Un quarto di tonnellata di carnivoro intelligente si curvò sul burattinaio: — Di’ un po’, chi ti dice di poter insultare il Patriarca e continuare a vivere?
Il burattinaio rispose immediatamente, senza tremori nella voce: — Sono io che ho preso a calci uno kzin, chiamato Capitan Chuft, con lo zoccolo posteriore, rompendogli tre ossa dell’endoscheletro. Era in un mondo che gira attorno a Beta-Lira. Avevo bisogno di uno kzin di coraggio.
— Va’ avanti — fece lo kzin dagli occhi azzurri. Nonostante i limiti imposti dalla conformazione della bocca, lo kzin pronunciava la lingua universale in maniera eccellente. Il suo tono però non rivelava alcun segno della rabbia che lo invadeva.
L’arrivo del pranzo a base di carne sistemò la faccenda prima che lo kzin, fumante di collera, si facesse salire definitamente il sangue alla testa. La carne era stata riscaldata a temperatura corporea. E tutti gli kzin riacquistarono il sorriso.
— Questo umano e io — disse il burattinaio, — esploreremo un luogo che gli kzin non si sono mai sognati di vedere. Per il nostro equipaggio abbiamo bisogno di uno kzin. Uno kzin ha abbastanza coraggio da seguire un burattinaio?
— Si è sempre detto che i burattinai sono dei mangiapiante, più abili nel guidare la gente lontano da una battaglia che ad affrontarla.
— Giudicherai tu. Se sopravvivi, riceverai i progetti di un nuovo e prezioso mezzo spaziale, oltre alla nave. Puoi considerarla come la paga per un’impresa estremamente rischiosa.
Il burattinaio, pensò Louis, non stava certo risparmiando gli sforzi per insultare lo kzin. Non si offre mai a uno kzin una ricompensa per una missione pericolosa. Lo kzin non teme il pericolo!
Invece, l’unica osservazione da parte dello kzin fu: — Accetto.
Gli altri kzin lo rimproverarono con un ringhio furioso. Per tutta risposta, il primo kzin emise un ruggito altrettanto robusto. Nel ristorante furono messi un funzione i silenziatori sonici: i ruggiti degli kzin risuonarono ovattati pur senza cessare del tutto.
Louis ordinò un’altra bibita. Per quel che sapeva sulla storia degli kzin, questi quattro dovevano possedere una eccezionale capacità di autocontrollo. Il burattinaio, infatti, era ancora vivo.
La discussione si spense e i quattro kzin si voltarono. Quello con gli occhi cerchiati di pelo nero disse: — Come ti chiami?
— Chiamatemi Nessus — fece il burattinaio. — Il mio vero nome è… — Per un istante una musica d’orchestra sgorgò dalle notevoli gole del burattinaio.
— Molto bene, Nessus. Noi quattro costituiamo l’ambasciata kzinti sulla Terra. Questo è Harch, questo è Ftanss e quello con le strisce gialle è Hroth. Io sono solo un apprendista, e vengo da famiglia modesta, quindi non ho un nome. Sono designato col mio titolo professionale: Speaker-agli-Animali.
Louis se ne risentì.
— Il problema è che la nostra presenza qui è necessaria. Trattative delicate… ma che non vi riguardano. Si è deciso che soltanto io posso essere sostituito. Se la vostra nuova nave ha un reale valore, mi unirò a voi. In caso contrario dovrò dar prova del mio coraggio in qualche maniera.
— È soddisfacente — disse il burattinaio e si alzò. Louis rimase seduto e chiese: — Qual è la traduzione della tua qualifica in lingua kzinti?
— Nella Lingua dell’Eroe… — lo kzin pronunciò alcune parole arrotando la erre in modo acuto.
— Allora perché non l’hai detto nella tua lingua? Era un insulto deliberato?
— Sì — rispose. — Ero furioso.
Conoscendo le loro abitudini, Louis si era aspettato che lo kzin mentisse. Louis avrebbe fatto finta di credergli e lo kzin, in futuro, si sarebbe mostrato più cortese… adesso era troppo tardi per fare marcia indietro. Louis ebbe un attimo di esitazione prima di dire: — E quale sarebbe l’usanza?
— Dobbiamo batterci a mani nude… dopo che tu mi avrai lanciato la sfida. Oppure uno di noi due deve porgere le sue scuse.
Louis si alzò. Era un suicidio, ma conosceva le usanze maledettamente bene. — Ti sfido a duello — disse. — Dente per dente, unghia per unghia, visto che non siamo capaci di dividerci un universo in pace.
Senza alzare la testa, lo kzin chiamato Hroth disse ad alta voce: — Faccio io le scuse per il mio compagno Speaker-agli-Animali.
— Che? — esclamò Louis.
— È il mio compito — spiegò lo kzin con le strisce gialle. — Data la sua indole, è naturale per uno kzin trovarsi nella condizione di battersi o di chiedere scusa. Sappiamo che cosa accade quando ci battiamo. Al giorno d’oggi la popolazione kzinti è un ottavo di meno di quanto non fosse quando abbiamo conosciuto gli uomini. I nostri mondi coloniali sono passati a voi, ogni specie da noi asservita è stata emancipata e ha imparato l’etica e la tecnologia umana. Quando uno di noi deve scegliere tra il combattimento e le scuse, io ho l’incarico di porgere le scuse per lui.
Louis si risedette. Non era ancora giunta la sua ora. — Non mi piacerebbe per niente avere un incarico come il tuo — osservò.
— Lo credo bene, visto che volevi batterti disarmato con uno kzin. Ma il Patriarca mi considera inabile a qualsiasi altro lavoro. Non sono molto intelligente e la mia salute è malferma; la mia capacità organizzativa è terribile. In che altro modo potrei conservarmi un nome?
Louis inghiottì un sorso di tequila sperando che qualcuno cambiasse argomento. Si sentiva imbarazzato di fronte all’umiltà dello kzin.
— Mangiamo — propose Speaker. — A meno che la nostra missione non sia urgente, Nessus.
— Niente affatto. Il nostro equipaggio non è ancora al completo. I miei colleghi mi chiameranno non appena avranno individuato un quarto membro qualificato. Ma certo! Mangiamo.
Speaker-agli-Animali aggiunse qualcosa prima di rigirarsi verso il suo tavolo. — Louis Wu, la tua sfida era prolissa. Per sfidare uno kzin basta un urlo di rabbia. Urla e scatta.
— Urla e scatta — fece Louis. — Magnifico.