CAPITOLO 4

La luce del tramonto, battendogli sul viso, destò Shevek quando il dirigibile, superato l’ultimo passo dei Ne Theras, voltò verso sud. Aveva dormito per la maggior parte della giornata: la terza del lungo viaggio. La sera della festa d’addio era mezzo mondo alle sue spalle. Egli sbadigliò e si stropicciò gli occhi e scosse il capo, cercando di allontanare dalle proprie orecchie il profondo ronzio dei motori del dirigibile; infine si destò del tutto, e comprese che il viaggio era quasi terminato, che dovevano ormai essere vicini ad Abbenay. Accostò il viso al finestrino polveroso, ed effettivamente, in basso sotto di loro, tra due rugginose creste montane c’era un grande campo chiuso da un muro: il Porto. Lo scrutò con impazienza, cercando di scorgere se ci fosse una nave sulla pista d’atterraggio. Per spregevole che fosse, Urras era pur sempre un altro mondo; egli desiderava vedere una nave di un altro mondo, un viaggiatore che avesse attraversato l’abisso asciutto e terribile, una cosa costruita da mani straniere. Ma non c’erano navi nel Porto.

I mercantili di Urras giungevano soltanto otto volte l’anno, e si fermavano esattamente quel tanto che bastava per le operazioni di carico e di scarico. Non erano visitatori graditi. Anzi, per qualche anarresiano le navi erano un’umiliazione che si rinnovava ogni volta.

Le navi portavano petrolio e derivati petroliferi, certe delicate parti meccaniche e certe piccole componenti elettroniche che le industrie anarresiane non erano attrezzate a produrre, e spesso anche una nuova specie di alberi da frutto o di cereali da provare. Riportavano a Urras un pieno carico di mercurio, rame, alluminio, uranio, stagno, e oro. E per gli urrasiani era un ottimo affare. La divisione di questi carichi, otto volte l’anno, era la funzione più prestigiosa dell’urrasiano Concilio dei Governi Mondiali e il massimo avvenimento della borsa mondiale di Urras. Di fatto, il Libero Mondo di Anarres era una colonia mineraria di Urras.

La cosa irritava. Ogni generazione, ogni anno, nei dibattiti del CDP ad Abbenay, fiere proteste si alzavano: «Perché continuiamo queste transazioni d’affari da profittatori con i proprietaristi guerrafondai?». E teste meno calde fornivano la risposta, sempre uguale: «Per gli urrasiani sarebbe più costoso venire di persona a scavare i minerali loro occorrenti; per questo non ci invadono. Ma se noi rompessimo i trattati commerciali, gli urrasiani userebbero la forza.» È assai difficile, tuttavia, per persone che non hanno mai pagato denaro per qualcosa, capire la psicologia del costo, l’argomento del prezzo di mercato. Sette generazioni di pace non avevano portato la fiducia.

Pertanto l’incarico di lavoro chiamato Difesa non aveva mai bisogno di sollecitare volontari. La maggior parte del lavoro della Difesa era talmente noioso che non veniva neppure chiamato «lavoro» in pravico, lingua che usava la stessa parola per «lavoro» e per «gioco», ma kleggich, sfacchinata, compito ingrato. Gli addetti alla Difesa equipaggiavano le dodici navi interplanetarie, le riparavano e le tenevano in orbita come rete di guardia; prestavano servizio presso stazioni radar e radiotelescopiche collocate in luoghi isolati; svolgevano lavori noiosi al Porto. E tuttavia c’era sempre una lunga lista di candidati. Per quanto fosse pragmatica la moralità che un giovane anarresiano assorbiva dall’ambiente, egli traboccava ugualmente di vita, e questa vita gli chiedeva altruismo, sacrificio della propria persona, spazio per il gesto assoluto. Solitudine, stato di allarme, pericolo, astronavi; tutte queste cose avevano l’attrattiva del romanzesco. E fu questo gusto del romanzesco a indurre Shevek a schiacciare il naso contro il finestrino finché il Porto vuoto non si fu allontanato alle spalle del dirigibile, e a lasciarlo in preda al disappunto poiché non aveva potuto vedere sulla piattaforma una delle intoccabili navi minerarie.

Sbadigliò nuovamente, si stiracchiò, e poi guardò fuori, in direzione della prua del dirigibile, per vedere se ci fosse qualcosa da vedere. Il dirigibile passava accanto all’ultima bassa cresta dei Ne Theras. Davanti ad esso, a partire dai bracci della catena montana, allargandosi verso sud, brillante sotto il sole del pomeriggio, giaceva in leggera discesa una grande baia verdeggiante.

La fissò con meraviglia, come l’avevano già fissata, seimila anni prima, i suoi antenati.

Nel Terzo Millenio di Urras i sacerdoti astronomi di Serdonou e Dhun avevano osservato le stagioni cambiare la lucentezza marrone dell’Altro Mondo, e avevano dato mistici nomi alle pianure e alle catene montuose, e ai mari che riflettevano il sole. La regione che rinverdiva prima di ogni altra nel nuovo anno lunare era stata da loro chiamata Ans Hos, il Giardino della Mente: l’Eden di Anarres.

Nei millenni successivi i telescopi avevano dimostrato che gli antichi sacerdoti non s’erano sbagliati. Ans Hos era davvero il punto più favorevole di Anarres; e il primo veicolo spaziale con un uomo a bordo che scese sulla Luna, scelse proprio quel punto per scendere, quell’area verde tra le montagne e il mare.

Ma l’Eden di Anarres risultò essere asciutto, freddo e ventoso, e il resto del pianeta risultò essere ancora peggio. La vita sul pianeta si era evoluta soltanto fino ai pesci e alle piante senza fiori. L’aria era sottile, come quella di Urras a un’elevata altitudine. Il sole bruciava, il vento raggelava, la polvere era soffocante.

Per duecento anni, dopo quella prima discesa, Anarres venne esplorato, cartografato, studiato, ma non colonizzato. Perché trasferirsi in un deserto terribile quando c’era abbondanza di spazio nelle dolci vallate di Urras?

Tuttavia, venne scavato. Le epoche del Nono e dell’inizio del Decimo Millennio, saccheggiatrici di se stesse, avevano svuotato le riserve minerarie di Urras; con il perfezionamento dell’astronautica, divenne più economico scavare la Luna che estrarre da minerali poveri o dall’acqua del mare i metalli occorrenti.

Nell’anno urrasiano IX-738 venne fondata una colonia ai piedi dei Monti Ne Theras, sede di una miniera di mercurio, nell’antica zona di Ans Hos. Il punto venne chiamato Città Anarres. Non era però una città: non c’erano donne. Gli uomini firmavano un contratto per due o tre anni come minatori o come tecnici, poi tornavano a casa, sul mondo reale.

La Luna e le sue miniere erano sotto la giurisdizione del Consiglio dei Governi Mondiali, ma nell’altra parte della Luna, nell’emisfero orientale, la nazione di Thu aveva un piccolo segreto: una base di astronavi e una colonia di minatori, con moglie e figli. Essi abitavano veramente sulla Luna, e la cosa era nota esclusivamente al loro governo. Fu il crollo di quel governo nell’anno 771 a far nascere la proposta, nel Consiglio dei Governi Mondiali, di dare la Luna alla Società Internazionale degli Odoniani: di comprarli con un mondo, prima che minassero fatalmente l’autorità della legge e la sovranità nazionale su Urras. Città Anarres venne evacuata, e dal bel mezzo della confusione che regnava in Thu partì in fretta un’ultima coppia di razzi che dovevano raccogliere i minatori. Ma non tutti i minatori decisero di ritornare. Ad alcuni di loro piaceva il deserto terribile.

Per più di vent’anni le dodici astronavi assegnate ai coloni Odoniani dal Consiglio dei Governi Mondiali fecero la spola tra i mondi, finché il milione di anime che avevano scelto la nuova vita non fu completamente trasportato al di là dell’abisso asciutto. Poi il porto venne chiuso all’immigrazione e aperto solamente ai mercantili dell’Accordo Commerciale. A quell’epoca Città Anarres accoglieva già centomila persone, ed era stata ribattezza Abbenay, che significava, nella nuova lingua della nuova società, «La Mente».

Il decentramento era stato un elemento essenziale nei progetti di Odo per la società ch’ella non poté mai vedere. Ella non aveva avuto intenzione di de-urbanizzare la civiltà. Anche se aveva suggerito che il limite naturale delle dimensioni di una comunità stava nella dipendenza dalla regione immediatamente circostante per ottenere il cibo e l’energia che le erano indispensabili, ella pensava che tutte le comunità dovevano essere collegate da reti di comunicazione e di trasporto, in modo che le merci e le idee potessero accorrere dove erano richieste, l’amministrazione potesse operare con semplicità e velocità, e tutte le comunità potessero giovarsi degli scambi reciproci. Ma la rete non doveva essere diretta dall’alto. Non ci doveva essere nessun centro di controllo, nessuna capitale, nessuna sede in cui potesse instaurarsi il meccanismo autoriproducentesi della burocrazia e potesse stabilirsi l’impulso di dominio di individui che cercassero di diventare capitani, comandanti, capi di stato.

I piani di Odo, tuttavia, si erano basati sulla terra generosa di Urras. Sull’arida Anarres le comunità dovettero distribuirsi a larghi intervalli per trovare le risorse naturali, e poche di esse poterono risultare autosufficienti, indipendentemente dal limite a cui facessero retrocedere il loro concetto di ciò che è sufficiente al sostentamento. Lo ridussero in modo davvero drastico, ma raggiunsero un limite al di sotto del quale non erano disposte ad andare: non volevano regredire al tribalismo pre-urbano, pre-tecnologico. I Coloni sapevano che la loro anarchia era il prodotto di una civiltà molto alta, di una cultura complessa e differenziata, di un’economia stabile e di una tecnologia altamente industrializzata che potevano mantenere un’alta produzione e un rapido trasporto delle merci. Per quanto vaste fossero le distanze fra di loro, gli insediamenti si attennero agli ideali dell’organicismo complesso. Costruirono per prime le strade, per seconde le case. Le risorse e le produzioni di ogni particolare regione venivano scambiate continuamente con quelle di altre regioni, con un processo complicato di equilibri: l’equilibrio di differenze che è caratteristico della vita, dell’ecologia naturale e sociale.

Ma come si diceva nel modello analogico, non si può avere un sistema nervoso senza avere almeno un ganglio, e preferibilmente un cervello. Occorreva che ci fosse un centro. I computer che coordinavano l’amministrazione, la divisione del lavoro, la distribuzione delle merci e le federative centrali dei principali gruppi di lavoro, furono in Abbenay, fin dall’inizio. E fin dall’inizio i Coloni furono consapevoli del fatto che quell’inevitabile centralizzazione costituiva una minaccia costante, che andava rintuzzata mediante una costante vigilanza.


O bimba Anarchia, infinita promessa

Infinita attenzione.

Io ascolto, ascolto nella notte

Accanto alla cuna profonda mentre la notte

È gentile con la bimba.


Pio Atean, che prese il nome pravico Tober, scrisse questi versi nel quattordicesimo anno dell’Insediamento. I primi tentativi degli Odoniani per trasformare il loro nuovo linguaggio, il loro nuovo mondo, in poesia, furono rigidi, sgraziati, commoventi.

Abbenay, mente e centro di Anarres, era adesso davanti al dirigibile, nell’ampia pianura verde.

Il verde brillante e profondo dei campi era inconfondibile: un colore che non era quello nativo di Anarres. Solo qui e sulle tiepide coste del Mare Kerano attecchivano i cereali del Vecchio Pianeta. In ogni altro punto, la produzione principale di cereali era costituita di holum di terra e di mene erbacea.

Quando Shevek aveva nove anni, il suo lavoro scolastico pomeridiano, per vari mesi, era stato quello di accudire alle piante ornamentali della comunità di Piano Alto: piante delicate, esotiche, che dovevano venire nutrite e poste al sole come neonati. Egli aveva aiutato un vecchio in quel lavoro tranquillo ed esigente, e aveva amato il vecchio e aveva amato le piante, la terra, il lavoro. Quando vide il colore della Piana di Abbenay ricordò il vecchio, e l’odore del letame dei pesci da olio, e il colore dei butti sui sottili rami nudi, il verde chiaro e vigoroso.

Egli scorse nella distanza, tra i campi vividi, una lunga chiazza di bianco, che si risolse in cubi, come sale versato, quando il dirigibile la sorvolò.

Un ammasso di lampi accecanti al bordo orientale della città lo costrinse a strizzare le palpebre e per un istante gli fece vedere delle macchie scure: i grandi specchi parabolici che fornivano calore solare alle raffinerie di Abbenay.

Il dirigibile prese terra a una stazione per le merci al confine meridionale della città, e Shevek pose piede nelle strade della più grande città del mondo.

Erano strade ampie e pulite. Non avevano ombre, poiché Abbenay giaceva a poco meno di trenta gradi a nord dell’Equatore, e tutti gli edifici erano bassi, ad eccezione delle torri, robuste e sottili, delle turbine a vento. Il sole bianco splendeva nel cielo duro, scuro, azzurro cupo. L’aria era chiara e pulita, priva di fumo e di umidità. Le cose erano vivide, rigide nei bordi e negli angoli, nette. Ogni cosa si stagliava separatamente, risaltava in se stessa.

Gli elementi che componevano Abbenay erano uguali a quelli di ogni altra comunità Odoniana, ripetuti varie volte: botteghe, fabbriche, domicili, dormitori, centri d’apprendimento, sale di riunione, distributori, stazioni, refettori. Quasi sempre, gli edifici più grandi erano raggruppati intorno a spazi aperti, dando alla città una struttura cellulare: una sotto-comunità o quartiere dopo l’altro. Le industrie pesanti e gli impianti per le lavorazioni alimentari tendevano a raggrupparsi alla periferia della città, e il modulo cellulare veniva ripetuto, nel senso che le industrie facenti parte di uno stesso ciclo di lavorazioni quasi sempre sorgevano a fianco a fianco lungo una determinata strada o piazza. Il primo di questi raggruppamenti attraversato da Shevek era una serie di piazze, il distretto tessile, pieno di impianti per la lavorazione della fibra di holum, di laboratori per la filatura e la tessitura, tintorie e distributori di tessuto e di abiti; nel centro di ciascuna piazza era infissa una piccola foresta di aste piene da cima a fondo di bandiere e pennoni di tutti i colori prodotti dai tintori, che così affermavano con orgoglio le capacità locali. In maggior parte, gli edifici della città erano simili tra loro: disadorni, costruiti solidamente in pietra o in pomice artificiale. Alcuni edifici parevano enormi agli occhi di Shevek, ma quasi tutti avevano un piano solo, a causa della frequenza dei terremoti. Per la stessa ragione le finestre erano piccole, di una dura plastica al silicone che non si infrangeva. Erano piccole, ma assai numerose, poiché non veniva fornita illuminazione artificiale da un’ora prima dell’alba a un’ora dopo il tramonto. Non veniva fornito riscaldamento quando la temperatura esterna superava i 18 gradi. E questo non perché Abbenay fosse priva di energia elettrica — non lo era affatto, grazie alle turbine a vento e ai generatori basati sulla differenza di temperatura tra la superficie e l’interno della terra, usati per il riscaldamento — ma perché il principio dell’economia organica, così essenziale per il funzionamento della società, non poteva fare a meno di ripercuotersi profondamente sulla sua etica ed estetica. «L’eccesso è escremento» aveva scritto Odo nella Analogia. «L’escremento ritenuto entro il corpo è veleno».

Abbenay non aveva veleni: una città spoglia, luminosa, dai colori chiari e duri, dall’aria pura. Era tranquilla. Si poteva vederla tutta, larga e distesa come il sale versato.

Nulla era nascosto.

Le piazze, le strade austere, i bassi edifici, i cortili delle botteghe privi di muri di cinta, erano carichi di vitalità e di attività. Mentre Shevek passava, era continuamente consapevole della presenza di altre persone che camminavano, passavano, voci che gridavano, bisbigliavano, cantavano, gente viva, gente che faceva delle cose, che camminava a piedi. Botteghe e fabbriche si affacciavano su piazze o sui propri cortili aperti, e le loro porte erano spalancate. Passò davanti a una vetreria: l’uomo che vi lavorava pescò un grossa bolla di vetro fuso con la noncuranza con cui un cuoco serve un cucchiaio di minestra. Accanto alla vetreria c’era un largo cortile in cui veniva gettata la pomice artificiale. Il capo della squadra, una donna grande, con un grembiule tutto bianco di polvere, stava controllando il riempimento della forma con un flusso verbale forte e variopinto. Dopo, vennero una piccola fabbrica di fil di ferro, una lavanderia distrettuale, la bottega di un liutaio dove gli strumenti musicali venivano costruiti e riparati, il distributorio distrettuale di piccole merci, un teatro, una fabbrica di tegole. L’attività che si svolgeva in ciascuno di questi luoghi era affascinante, e quasi sempre esposta in piena vista. Intorno ai lavoratori si muovevano bambini, alcuni occupati ad aiutare gli adulti, altri fra i piedi, a fare torte di fango, altri ancora intenti a giocare per la strada, una bambina appollaiata sul tetto del centro d’apprendimento, con il naso affondato in un libro. Il fabbricante di filo aveva decorato l’architrave con figure di viticci in filo dipinto, allegri e ornati. L’espio sione di vapore e di chiacchiere provenienti dalle porte spalancate della lavanderia colpiva come un pugno. Nessuna porta era sbarrata, poche erano chiuse. Non c’erano cose celate e non c’erano avvisi pubblicitari. Era tutto aperto: tutto il lavoro, tutta la vita della città, aperti all’occhio e alla mano. E di tanto in tanto, lungo la Strada della Stazione, giungeva una cosa, dondolando e suonando una campanella: un veicolo pieno zeppo di gente, altra gente appesa come festoni a sbarre sulla sua parte esterna, vecchie donne che imprecavano vivacemente se dimenticava di rallentare alla loro fermata in modo che esse potessero uscire, un bambino piccolo, su un triciclo fatto in casa, che lo rincorreva follemente, scintille elettriche che piovevano azzurre dai fili sospesi in alto, agli incroci; come se la tranquilla e profonda vitalità delle strade si accumulasse di tanto in tanto su qualche punta di scarica e colmasse la distanza con uno schianto, una scintilla azzurrina e il puzzo di ozono. Erano gli omnibus di Abbenay, e quando passavano veniva il desiderio di salutarli con la mano.

La Strada della Stazione terminava in una zona ampia e ariosa dove convergevano altre cinque strade; al centro c’era un parco triangolare di alberi e d’erba. In maggior parte, i parchi di Anarres erano dei terreni di gioco, con il fondo di sabbia o di terra, e un’aiola di holum arborei o cespugliosi. Ma questo parco era diverso. Shevek attraversò il lastricato privo di traffico ed entrò nel parco; lo attiravano sia il fatto di averlo visto spesso nelle fotografie, sia il desiderio di vedere alberi stranieri, di tipo urrasiano, da vicino, dal di sotto, per sperimentare il verde colore di quelle moltitudini di foglie. Il sole stava declinando, il cielo, ampio e chiaro, allo zenit si stava scurendo fino ad assumere un colore violaceo; era il buio dello spazio, che si mostrava attraverso l’atmosfera sottile. Entrò sotto gli alberi, con attenzione e sospetto. Non erano uno spreco, quelle foglie così affollate? Gli alberi di holum se la cavavano assai efficacemente con le loro spine e i loro aghi, senza averne troppi. Tutto questo fogliame fantasioso non era forse puro eccesso, escremento? Simili alberi non potevano vivere senza un terreno ricco, un continuo innaffiamento, molta attenzione. Egli ne disapprovava la prodigalità, lo sfarzo. Camminò sotto di essi, in mezzo ad essi. L’erba straniera era assai soffice sotto il suo piede. Pareva di camminare su carne viva. Intimorito, ritornò al sentiero battuto. Le scure braccia degli alberi si tesero al di sopra della sua testa, fermando su di lui le numerose mani ampie e verdi. Shevek si sentì prendere da un timore reverenziale.

Sentì di avere ricevuto una benedizione ch’egli non aveva chiesto.

A poca distanza, davanti a lui, in fondo al sentiero ormai in ombra, c’era una persona, seduta a leggere su una panca di pietra.

Shevek andò avanti con molta lentezza. Raggiunse la panca e rimase fermo in piedi davanti ad essa, a osservare la figura che sedeva con la testa china sul libro, nel crepuscolo verde e dorato al di sotto degli alberi. Era una donna di cinquanta o sessant’anni, vestita in modo strano, con i capelli raccolti sulla nuca in un nodo. La mano sinistra, portata al mento, celava a metà la bocca decisa; la destra teneva fermi i fogli di carta, sul ginocchio. Erano pesanti, quelle carte; la fredda mano su di esse era pesante. La luce smoriva rapidamente, ma la donna non alzò gli occhi. Continuò a leggere le bozze dell’Organismo sociale.

Shevek rimase a osservare Odo per vario tempo, quindi si sedette sulla panca accanto a lei.

Non aveva alcun concetto di cose come rango, stato, condizione, e sulla panca c’era molto spazio. Era spinto dal puro impulso di cercare compagnia.

Osservò il profilo forte e triste, le mani: le mani di una donna anziana. Alzò gli occhi sui rami ombrosi. Per la prima volta della sua vita comprese che Odo, il cui viso gli era noto fin dall’infanzia, le cui idee erano centrali e durevoli nella sua mente, come pure nella mente di tutti coloro ch’egli conosceva, Odo non aveva mai messo piede su Anarres: Odo era vissuta, e morta, ed era sepolta, all’ombra di alberi dalle foglie verdi, in città inimmaginabili, fra gente che parlava lingue ignote, su un altro pianeta. Odo era una straniera: un’esule.

Il giovanotto rimase a sedere accanto alla statua nella luce della prima sera, e l’uno era quasi immobile come l’altra.

Infine, accorgendosi che si stava facendo buio, Shevek si alzò e ritornò alle strade, chiedendo a un passante dove fosse l’Istituto Centrale delle Scienze.

Non era lontano: vi giunse poco dopo l’orario di accensione delle luci. Un’archivista o inserviente notturna stava nel piccolo ufficio accanto all’ingresso, e leggeva. Dovette bussare sulla porta aperta per richiamare la sua attenzione. — Shevek — disse. Era usuale iniziare la conversazione con una persona sconosciuta offrendole il proprio nome, come una sorta di appiglio a cui l’altra si potesse afferrare. Non c’erano molti altri appigli da offrire. Non c’erano ranghi sociali, non c’erano parole che li indicassero, non c’erano forme convenzionali per rivolgersi a una persona indicando rispetto.

— Kokvan — rispose la donna. — Ma non pensavi di arrivare ieri?

— Hanno cambiato programma di dirigibile merci. C’è un letto vuoto in qualcuno dei dormitori?

— La numero 46 è vuota. Dall’altra parte del cortile, l’edificio a sinistra. Sabul ha lasciato una nota per te. Dice di passare da lui domattina nell’ufficio di fisica.

— Grazie! — disse Shevek, e si avviò a grandi passi per il vasto cortile lastricato, dondolando nelle mani il suo bagaglio (un soprabito pesante e un paio di stivali da fatica). In tutto il perimetro del quadrangolo le luci erano accese. C’era un brusio, una presenza di persone, entro quello stato di quiete. Qualcosa si agitava nell’aria chiara e tagliente della notte cittadina: un senso di incombenza, di promessa.

L’ora del pasto serale non era terminata ed egli compì una rapida deviazione al refettorio dell’Istituto per vedere se c’era qualche avanzo per un arrivato dell’ultimo momento. Scoprì che il suo bel nome era già inserito nella lista regolare, e trovò eccellente il cibo. C’era perfino il dolce: frutta conservata, cotta a vapore. Shevek amava i dolci, e poiché era uno degli ultimi convittori e molti avevano avanzato la loro razione, ne prese un secondo piatto. Mangiò da solo, a un piccolo tavolo. Ai tavoli più grandi, accanto a lui, gruppi di giovani erano intenti a conversare, davanti ai piatti già vuoti; origliò discussioni sul comportamento dell’argo a temperature molto basse, sul comportamento di un insegnante di chimica a un colloquio, sulle curvature putative del tempo. Un paio di persone gli lanciarono un’occhiata; non si avvicinarono a parlargli, a differenza di quanto avrebbero fatto in una piccola comunità all’arrivo di un forestiero; i loro sguardi non mostravano inimicizia, forse, tutt’al più, sfida.

Trovò la Stanza 46 in un lungo corridoio di porte chiuse nel domicilio. Evidentemente si trattava di stanze singole, e non di camerate, ed egli si chiese perché l’archivista l’avesse spedito lì. Da quando aveva due anni era sempre stato in dormitori, stanze contenenti da quattro a dieci letti. Bussò alla porta del 46. Silenzio. Aprì il battente. La stanza era una singola, piccola, vuota, scarsamente illuminata dalla luce proveniente dal corridoio. Accese la lampada. Due sedie, una scrivania, un regolo calcolatore usato, alcuni libri, e, ben piegata sul palchetto del letto, una coperta di colore arancione, tessuta a mano. Qualcun altro viveva già lì, l’archivista aveva commesso un errore. Chiuse la porta. L’aprì di nuovo per andare a spegnere la lampada. Sulla scrivania, sotto la lampada, c’era un messaggio, scribacchiato su un pezzetto di carta: «Shevek, ufficio fisica, mattino, 2-4-1-154. Sabul».

Appoggiò il soprabito su una sedia, gli stivali sul pavimento. Rimase in piedi ancora per vario tempo, e lesse i titoli dei libri: normali testi di fisica e di matematica, rilegati in verde, con il Cerchio della Vita stampigliato sulla copertina. Poi appese il soprabito nell’armadio e ritirò gli stivali. Tirò attentamente la tendina dell’armadio. Attraversò la stanza da lì alla porta: quattro passi. Rimase esitante ancora un attimo, e poi, per la prima volta nella sua vita, chiuse la porta della propria stanza.

Sabul era una persona di quarant’anni, di bassa statura, robusto, trasandato. La sua peluria facciale era più scura e più fitta del normale, e sul mento si iscuriva fino a formare una regolare barbetta. Portava una pesante sovratunica invernale, e dall’aspetto della sovratunica doveva averla addosso dall’inverno precedente: gli orli delle maniche erano neri di sudiciume. Aveva modi bruschi e rancorosi. Parlava a pezzi e bocconi, così come scribacchiava gli appunti su pezzetti di carta. Borbottava. — Devi imparare lo iotico — borbottò a Shevek.

— Imparare lo iotico?

— Ho detto imparare lo iotico.

— E perché?

— Per leggere la fisica urrasiana! Atro, To, Baisk, questa gente. Nessuno li ha tradotti in pravico, nessuno li tradurrà mai. Sei persone, al massimo, su Anarres, sono capaci di capirli. In qualsiasi lingua.

— E come posso imparare lo iotico?

— Grammatica e dizionario!

Shevek non si arrese. — E dove li pesco?

— Qui — brontolò Sabul. Frugò in mezzo agli scaffali polverosi, pieni di piccoli libri dalla copertina verde. Aveva movimenti bruschi e nervosi. Trovò due volumi spessi e non rilegati su uno scaffale basso e li sbatté sullo scrittoio. — Dimmi quando sarai capace di leggere Atro in iotico. Di te non posso far nulla prima di allora.

— Che tipo di matematica usano gli urrasiani?

— Nessuna che non possa usare tu.

— C’è qualcuno, qui, che lavora sulla cronotopologia?

— Sì, Turet. Puoi consultarlo. Non hai bisogno di seguire il suo corso.

— Preventivavo di assistere alle lezioni di Garab.

— E perché?

— Il suo lavoro sulla frequenza e il ciclo…

Sabul si sedette e poi si rialzò. Il modo con cui si muoveva era insopportabile: non stava mai fermo, eppure era sempre tutto rigido, una raspa d’uomo. — Non sprecar tempo. Sei già molto più avanti di quella donna nella teoria della Sequenza, e le altre idee che tira fuori non valgono nulla.

— Mi interessano i princìpi della Simultaneità.

— La Simultaneità! Ma che razza di roba da profittatori vi rifila Mitis, laggiù tra i monti? — Il fisico aveva gli occhi di brace; sotto i capelli grossi e corti, le vene delle tempie si gonfiavano.

— Io stesso ne ho organizzato un corso come suo assistente.

— Cerca di crescere. Cerca di crescere. È l’ora di maturare. Adesso sei qui. Noi lavoriamo sulla fisica, non sulla religione. Butta via il misticismo, e cresci. Quanto impiegherai a imparare lo iotico?

— Mi sono occorsi alcuni anni per imparare il pravico — disse Shevek. Piccola ironia che non venne assolutamente recepita da Sabul.

— Io l’ho imparato in dieci decadi. Abbastanza per leggere l’Introduzione di To. Oh, al diavolo, ti serve un testo per lavorare. Potresti prendere quello. Ecco. Aspetta. — Cercò in un cassetto colmo a scoppiare, e infine ottenne un libro: un libro dall’aspetto curioso, rilegato in azzurro, senza Cerchio della Vita in copertina. Il titolo era stampigliato in lettere dorate e pareva dire Poilea Afio-ite, parole che non significavano nulla per Shevek; le forme di alcune delle lettere gli erano poco familiari. Shevek lo fissò, lo prese dalle mani di Sabul, ma non lo aprì. Finalmente la stringeva in mano, la cosa che aveva desiderato vedere, l’oggetto costruito dagli stranieri, il messaggio venuto da un altro pianeta.

Ricordò il libro che Palat gli aveva mostrato, il libro di tutti numeri.

— Ritorna quando sarai capace di leggerlo — brontolò Sabul.

Shevek si volse per allontanarsi. Sabul alzò di tono il suo brontolio: — Tieni con te quei libri! Non sono per il pubblico consumo.

L’uomo più giovane si arrestò, si volse indietro, e disse dopo un momento, con la sua voce pacata e un po’ diffidente: — Non comprendo.

— Non farli leggere a nessun altro!

Shevek non gli diede risposta.

Sabul si alzò di nuovo in piedi e gli si avvicinò: — Ascolta. Ora sei membro dell’Istituto Centrale delle Scienze; sei un addetto di Fisica, al lavoro con me, Sabul. Hai seguito il filo? Privilegio equivale a responsabilità. Corretto?

— Sto per acquisire conoscenze che non dovrò condividere — disse Shevek, dopo una breve pausa, scandendo la frase come se fosse stata una proposizione di logica.

— Se trovi un pacchetto di detonatori esplosivi per la strada, ti metti a «condividerli» con tutti i ragazzini che passano? Questi libri sono esplosivo. Ora capisci?

— Sì.

— Benissimo. — Sabul si voltò, accigliato a causa di quella che pareva una collera endemica, non specifica. Shevek uscì dalla stanza, portando con attenzione la dinamite con sé, con un misto di ribrezzo e di bruciante curiosità.

Si mise all’opera per imparare lo iotico. Lavorava da solo, nella Stanza 46, sia per l’avvertimento di Sabul, sia perché gli veniva molto naturale il lavorare da solo.

Fin da quando era molto giovane si era accorto di essere, in certi aspetti, assai diverso da tutte le altre persone a lui note. Per un bambino la consapevolezza di queste differenze è assai dolorosa, in quanto, non avendo ancora compiuto nulla ed essendo incapace di compiere alcunché, il bambino non può giustificarla. La presenza di adulti affezionati e sui quali si possa fare affidamento, i quali siano anch’essi, a loro modo, diversi, è l’unica rassicurazione che un simile bambino può avere; e Shevek non aveva mai goduto di questa rassicurazione. Suo padre era affezionato, certo, e su di lui si poteva fare affidamento. Qualsiasi cosa Shevek fosse, e qualsiasi cosa facesse, Palat la approvava, sinceramente. Ma Palat non aveva avuto la maledizione della diversità. Egli era uguale agli altri, uguale a tutti quegli altri ai quali la comunità veniva così facilmente. Egli amava Shevek, ma non poteva mostrargli che cosa fosse la libertà: quel riconoscere la solitudine di ciascuna persona, un riconoscimento che è l’unica cosa che trascenda tale solitudine.

Shevek si era dunque abituato a un isolamento interiore, interrotto da tutti i contatti occasionali quotidiani, dagli scambi della vita in comune e dalla compagnia di un ristretto numero di amici. Qui ad Abbenay egli non aveva amici, e poiché non era stato messo nell’abituale situazione del dormitorio, non se n’era fatto nessuno. Egli era troppo consapevole, a vent’anni, delle particolarità della propria mente e del proprio carattere per comportarsi in modo estroverso; si comportava in modo ritirato e altezzoso; e i suoi colleghi studenti, avvertendo che quella superiorità era reale, cercavano raramente di avvicinarsi a lui.

L’isolamento della sua stanza non tardò a divenirgli caro. Egli assaporò fino in fondo la propria totale indipendenza. Lasciava la stanza soltanto per il pasto del mattino e della sera al refettorio e per una piccola corsa quotidiana per la città, allo scopo di tenersi in allenamento i muscoli abituati all’esercizio; poi ritornava alla Stanza 46 e alla grammatica di iotico. Una volta ogni decade o due, era chiamato per i lavori a rotazione del «decimo giorno» della comunità, ma le persone con cui lavorava erano stranieri, non amici stretti come sarebbero stati in una piccola comunità, cosicché i giorni di lavoro manuale non portavano nessuna interruzione psicologica al suo isolamento né ai suoi progressi nella lingua iotica.

La grammatica stessa, essendo complicata, illogica, e schematizzata, gli dava piacere. Il suo apprendimento proseguì rapidamente quando ebbe accumulato un vocabolario fondamentale, poiché egli conosceva ciò che stava leggendo; conosceva il campo e i termini, e ogni volta che incontrava un ostacolo, o la sua intuizione o un’equazione matematica gli mostravano dove fosse giunto. Spesso si trattava di punti dove non si era mai spinto in precedenza. La Introduzione alla Fisica Temporale di To non era un libro per principianti. Una volta che si fu aperto la strada fino a metà del libro, Shevek non lesse più iotico, ma fisica; e comprese perché Sabul gli avesse fatto leggere i fisici urrasiani prima di ogni altra cosa. Essi erano assai più avanti di quanto si era fatto su Anarres negli ultimi venti o trent’anni. Le più brillanti intuizioni contenute nelle opere di Sabul sulla Sequenza erano in realtà delle traduzioni dallo iotico, non confessate.

Si tuffò negli altri libri che Sabul tirava fuori per lui, le opere più importanti dei fisici urrasiani contemporanei. La sua vita divenne ancor più da eremita. Egli non era attivo nel gruppo studentesco, e non presenziava alle riunioni di altri gruppi o federative, ad eccezione della letargica Federazione dei Fisici. Gli incontri di questi gruppi, veicoli sia di azione sociale, sia di rapporti sociali, erano il tessuto della vita in qualsiasi piccola comunità, ma qui in città parevano meno importanti. Non ci si sentiva indispensabili al loro funzionamento; c’erano sempre degli altri, pronti a fare ciò che doveva essere fatto, e che lo facevano abbastanza bene. Ad eccezione dei lavori del decimo giorno e dei soliti incarichi di pulizia del suo domicilio e dei laboratori, il tempo di Shevek era solamente suo. Egli spesso trascurava gli esercizi fisici, e occasionalmente anche i pasti. Tuttavia non mancò alle lezioni dell’unico corso da lui seguito, le lezioni di Garab sulla Frequenza e il Ciclo.

Garab era abbastanza anziana da perdere spesso il filo e divagare. La frequenza alle sue lezioni era scarsa e assai variabile. Presto s’accorse che il giovanotto magro dalle orecchie grandi era il suo unico costante ascoltatore. Ed ella cominciò a tenere per lui le lezioni. Gli occhi chiari, fissi, intelligenti, del giovanotto si incontravano con i suoi, le davano stabilità, la destavano, ed ella ritornava a brillare, ritrovava la visione perduta. Garab saliva sempre più in alto, e gli altri studenti la fissavano confusi e sorpresi, perfino spaventati, se qualcuno di loro ne aveva l’intelligenza necessaria. Garab scorgeva un universo assai più vasto di quello che la maggioranza delle persone riesce a vedere, e questo universo faceva loro chiudere gli occhi. Il giovanotto dagli occhi chiari la osservava senza battere ciglio. Ed ella gli vedeva nel volto la propria gioia. Ciò che ella offriva, ciò che ella aveva offerto per l’intera sua vita, ciò che nessun altro aveva mai condiviso con lei, egli prendeva, condivideva. Era suo fratello, di là dal golfo di cinquanta anni, ed era la sua redenzione.

Quando si incontravano negli uffici di fisica o nel refettorio, a volte si mettevano direttamente a parlare di fisica, ma altre volte l’energia di Garab non era sufficiente a farlo, e allora trovavano poco da dirsi, poiché la vecchia donna era altrettanto timida quanto il giovane uomo. — Tu non mangi abbastanza — lei gli diceva. Egli sorrideva e le orecchie gli diventavano rosse. Nessuno dei due sapeva cos’altro dire.

Dopo essere stato metà anno all’Istituto, Shevek diede a Sabul una tesi di tre pagine intitolata: «Una critica dell’ipotesi dell’Infinita Sequenza di Atro». Sabul gliela ritornò dopo una decade, brontolando: — Traducila in iotico.

— L’ho già scritta in partenza quasi completamente in iotico — disse Shevek, — poiché usavo la terminolgia di Atro. Copierò l’originale. A che scopo?

— A che scopo? Perché quel maledetto profittatore di Atro possa leggerla! C’è una nave il quinto della prossima decade.

— Una nave?

— Un mercantile di Urras!

Così Shevek scoprì che non soltanto petrolio e mercurio viaggiavano avanti e indietro tra i mondi separati, e non soltanto libri come quelli ch’egli aveva letto, ma anche lettere. Lettere! Lettere a proprietaristi, a sudditi di governi basati sull’iniquità del potere, a individui che erano inevitabilmente sfruttati e sfruttatori, poiché consentivano ad essere elementi della Macchina-Stato. E tali persone scambiavano davvero idee con uomini liberi in maniera non aggressiva, volontaria? Potevano veramente ammettere l’eguaglianza e prendere parte alla solidarietà intellettuale, o cercavano soltanto di dominare, di affermare il proprio potere, di possedere? L’idea di scambiare veramente lettere con un proprietarista lo allarmava, ma sarebbe stato interessante scoprire…

Tante erano le scoperte che erano state forzate in lui nel corso di quel primo mezzo anno ad Abbenay, che egli aveva dovuto ammettere di essere stato — e forse di essere tuttora? — assai ingenuo; ammissione non facile per un giovane intelligente.

La prima, e tuttora la più dura da accettare di queste scoperte era che doveva imparare lo iotico, ma doveva tenere per sé le proprie conoscenze: una situazione così nuova per lui, e così conturbante dal punto di vista morale, che egli non l’aveva ancora analizzata fino in fondo. Evidentemente, il fatto ch’egli non dividesse la propria conoscenza con gli altri non recava loro alcun danno. D’altra parte che danno poteva venire loro dal fatto di sapere ch’egli conosceva lo iotico, e che anch’essi potevano impararlo? Certo la libertà stava piuttosto nell’apertura che nella segretezza, e la libertà valeva sempre il rischio. Comunque, non poteva vedere quale fosse il rischio. Una volta pensò che Sabul desiderasse tenere riservata la nuova fisica urrasiana… possederla, come una proprietà, una fonte di potere sui suoi colleghi di Anarres. Ma questa idea era talmente contraria ai modi di pensare di Shevek che ebbe grande difficoltà a formularsi nella sua mente, e quando si formulò, egli la cancellò immediatamente, con disprezzo, come un pensiero sinceramente disgustoso.

Poi c’era la faccenda della stanza privata, un’altra spina morale. Da bambino, dormire solo in camera singola voleva dire che avevi dato talmente fastidio agli altri del dormitorio che non erano più disposti a sopportarti; avevi egoizzato. Solitudine uguale essere in disgrazia. Da adulti, il principale riferimento per le stanze singole era sessuale. Ciascun domicilio aveva un certo numero di singole, e una coppia che desiderasse copulare usava una di queste singole non occupate per una notte, una decade o finché avesse voluto. Una coppia che si fosse dichiarata compagni prendeva una stanza doppia; in una piccola città in cui non fosse disponibile alcuna camera doppia, spesso se ne costruiva una a un’estremità di un domicilio, e in questo modo, una stanza alla volta, venivano a crearsi strani edifici lunghi, bassi, sinuosi, che venivano chiamati «treni di compagni». A parte l’accoppiamento sessuale, non c’era motivo di non dormire in dormitorio. Potevate sceglierne uno piccolo o uno grande, e se i compagni di camerata non vi piacevano, potevate trasferirvi in un altro dormitorio. Ciascuno aveva la bottega, il laboratorio, lo studio, il capannone o l’ufficio che gli occorreva per il proprio lavoro; si poteva essere riservati quanto si voleva nei bagni; l’isolamento sessuale era liberamente disponibile e socialmente raccomandato; ma al di là di questo, l’isolamento non era funzionale. Era eccesso, spreco. L’economia di Anarres non avrebbe potuto sostenere la costruzione, la manutenzione, il riscaldamento, l’illuminamento di case o appartamenti singoli. Una persona che fosse per natura genuinamente antisociale doveva allontanarsi dalla società e provvedere a se stessa. Ed era completamente libera di farlo. Poteva costruirsi una casa dove preferiva (tuttavia, se avesse rovinato un buon panorama o un lembo di terra fertile, avrebbe rischiato di subire gravi pressioni da parte dei vicini, miranti a farlo traslocare). C’era un buon numero di solitari e di eremiti ai margini delle più vecchie comunità anarresiane: solitari che pretendevano di non far parte di una specie sociale. Ma per coloro che accettavano il privilegio e l’obbligazione della solidarietà umana, l’isolamento aveva valore solamente quando serviva a una qualche funzione.

La prima reazione di Shevek nell’essere messo in una stanza singola, dunque, fu per metà di disapprovazione e per metà di vergogna. Perché l’avevano messo lì dentro? Presto ne scoprì la ragione. Era il giusto genere di luogo per il suo genere di lavoro. Se le idee gli giungevano a mezzanotte, egli poteva accendere la lampada e metterle subito su carta; se gli venivano all’alba, non gli venivano sbalzate via dalla mente dalla conversazione e dal trepestio di quattro o cinque compagni di camerata che si alzavano; se non gli venivano affatto ed egli doveva trascorrere intere giornate seduto a tavolino, a fissare fuori della finestra, non c’era nessuno dietro la sua schiena a chiedersi perché stesse in ozio. L’isolamento, quindi, era quasi altrettanto desiderabile nella fisica quanto nel sesso. Ma, tuttavia, era necessario?

Al pasto serale, al refettorio dell’Istituto, c’era sempre il dolce. A Shevek piaceva molto: quando ne rimanevano delle razioni, se ne serviva due piatti. E la sua coscienza, la sua coscienza di membro di una società organica, faceva indigestione. Non ricevevano tutti, in ogni refettorio, da Abbenay all’ultimo paesino, la stessa razione, parti esattamente uguali? Questo gli era stato sempre detto, e questo egli aveva sempre riscontrato. Naturalmente c’erano delle varianti regionali: specialità locali, mancanze, sovrabbondanze, rimedi estemporanei in situazioni come i Campi di Progetto, cuochi inetti, cuochi esperti, in effetti una varietà infinita entro la cornice immutabile. Ma nessun cuoco poteva avere il talento di fare il dolce se mancavano gli ingredienti. La maggior parte dei refettori serviva il dolce una o due volte per decade. Qui veniva servito ogni sera. Perché? I membri dell’Istituto Centrale delle Scienze erano forse migliori dell’altra gente?

Shevek non rivolse a nessuno queste domande. La coscienza sociale, l’opinione degli altri, era la massima forza morale che motivasse il comportamento degli anarresiani, ma in Shevek era leggermente meno forte che in tanti altri. Una gran parte dei suoi problemi apparteneva a un genere non compreso dagli altri, ed egli si era abituato ad analizzarseli da solo, in silenzio. Così egli fece per questi nuovi problemi, che erano molto più difficili per lui, in un certo senso, che non quelli della fisica temporale. Non chiese l’opinione di nessuno. Smise di prendere il dolce al refettorio.

Tuttavia non si trasferì in un dormitorio. Soppesò il disagio morale rispetto al vantaggio pratico, e trovò che il secondo pesava di più. Egli lavorava meglio nella stanza privata. Il lavoro ch’egli svolgeva meritava di essere fatto, ed egli lo stava svolgendo bene. Era centralmente funzionale per la sua società. La responsabilità giustificava il privilegio.

Ed egli lavorò.

Perse peso; camminò leggero sulla terra. Mancanza di lavoro fisico, mancanza di varietà di occupazione, mancanza di rapporti sociali e sessuali, nessuna di queste cose gli pareva una mancanza, bensì una libertà. Egli era l’uomo libero: poteva fare ciò che desiderava fare quando lo desiderava fare per tutto il tempo che desiderava farlo. Ed egli lo fece. Egli lavorò. Egli lavorò/giocò.

Stava stendendo degli appunti per una serie di ipotesi che portavano a una teoria coerente della Simultaneità. Ma questa cominciò ad apparirgli una meta alquanto angusta: ce n’era una assai più grande, una teoria unificata del Tempo, che poteva raggiungere, se fosse soltanto riuscito a portarsi fino ad essa. Gli pareva di essere in una stanza chiusa a chiave in mezzo a una grande pianura aperta: sarebbe stata tutt’intorno a lui, se avesse potuto trovare il modo di uscire, il cammino libero. Questa intuizione divenne la sua ossessione. Nel corso di quell’autunno e di quell’inverno, perse sempre più l’abitudine di dormire. Un paio di ore durante la notte e un altro paio lungo la giornata gli erano sufficienti, e questi brevi sonni non erano il tipo di sonno profondo ch’egli aveva sempre avuto in precedenza, ma quasi una veglia su un altro livello, tanto erano pieni di sogni. Egli sognava vividamente, e i sogni erano parte del suo lavoro. Vedeva il tempo ripiegarsi su se stesso, come un fiume che scorreva a monte, verso la sorgente. Egli teneva la contemporaneità di due momenti nella sinistra e nella destra; come allontanava le mani, sorrideva nel vedere che i momenti si separavano come bolle di sapone in divisione. Allora si alzava e scarabocchiava, senza essere pienamente desto, la formula matematica che l’aveva eluso per giorni interi. Vedeva lo spazio chiudersi su di lui come le pareti di una sfera che crollasse su se stessa, verso il proprio centro e verso un vuoto centrale; lo spazio si chiudeva sempre più, ed egli si destava con un grido di «aiuto!» chiuso nella gola, lottando in silenzio per sfuggire alla conoscenza della propria eterna vacuità.

In un freddo pomeriggio, verso la fine dell’inverno, egli si fermò all’ufficio di fisica, mentre tornava dalla biblioteca alla propria stanza, per vedere se c’era una lettera per lui nella scatola. Non aveva ragione di aspettarne, dato che non ne aveva scritto alcuna agli amici dell’Istituto Regionale Settentrionale; ma negli ultimi due giorni non si era affatto sentito bene, aveva confutato alcune delle proprie ipotesi più affascinanti e si era riportato, dopo mezzo anno di duro lavoro, giusto al punto da cui era partito, il modello a fasi era troppo vago per risultare utile, la gola gli doleva: sperava che ci fosse una lettera di qualche conoscente, o anche soltanto qualcuno, in ufficio, a cui rivolgere due parole. Ma c’era soltanto Sabul.

— Guarda qui, Shevek.

Ed egli osservò il libro che l’uomo più anziano gli porgeva: un libro sottile, rilegato in verde, con il Cerchio della Vita sulla copertina. Lo prese e osservò la pagina del titolo: «Una critica dell’ipotesi della Sequenza Infinita di Atro». Erano il suo saggio, la risposta e difesa di Atro, e la sua replica. Il tutto era stato tradotto o ritradotto in pravico, e stampato dalle Edizioni del CDP di Abbenay. C’erano due nomi degli autori: Sabul, Shevek.

Sabul sporse il collo sulla copia che Shevek teneva in mano, e la fissò con un sorriso maligno. Il suo brontolio divenne aspro e inframmezzato di sorrisini: — Abbiamo spacciato Atro. L’abbiamo spacciato, quel maledetto profittatore! Che si provino ancora, a cercare di parlare di «puerile imprecisione»! — Sabul covava da dieci anni un risentimento verso la Rivista di Fisica dell’Università di Ieu Eun, che aveva parlato dei suoi lavori teorici dicendo che erano «tarpati dal provincialismo e dalla puerile imprecisione con cui il dogma Odoniano infetta ogni area del pensiero.» — Lo vedranno, ora, chi è provinciale! — disse, sogghignando. In quasi un anno da che lo conosceva, Shevek non poteva dire di averlo mai visto sorridere.

Shevek andò a sedersi dall’altra parte della stanza, e per farlo dovette togliere da una panca una pila di libri; l’ufficio di fisica era ovviamente un ufficio comune, ma Sabul teneva questa seconda stanza, delle due dell’ufficio, sempre piena di materiali usati da lui, in modo tale che non pareva ci fosse mai abbastanza posto per qualcun altro. Shevek osservò il libro che ancora teneva in mano, poi alzò gli occhi verso la finestra. Si sentiva malato, e ne aveva l’aspetto. Aveva anche l’aspetto preoccupato; ma con Sabul non era mai stato timoroso o ritroso, come spesso gli capitava con le persone che desiderava conoscere. — Non sapevo che l’avessi tradotto — gli disse.

— L’ho tradotto, l’ho curato redazionalmente. Ho messo in chiaro alcuni dei punti più complessi, ho aggiunto i passaggi che avevi tralasciato, e così via. Lavoro di un paio di decadi. Dovresti essere orgoglioso del libro. Le tue idee formano gran parte degli spunti del libro finito.

Il libro era composto da cima a fondo di idee di Shevek e di Atro.

— Già — disse Shevek. Si guardò le mani. Infine disse: — Mi piacerebbe pubblicare l’articolo che ho scritto in questi ultimi mesi sulla Reversibilità. Dovrebbe andare ad Atro. Sono cose che gli interessano. Si è fermato sulla causalità.

— Pubblicarlo? E dove?

— In iotico, voglio dire… su Urras. Invialo ad Atro, come l’altro, e lui vedrà di farlo pubblicare su una delle riviste locali.

— Non puoi dare loro da pubblicare neppure una parola che non sia stata in precedenza stampata qui.

— Ma con questo libro è successo proprio così. Tutto il materiale del libro, eccetto la mia conclusione, è uscito sulla Rivista di Ieu Eun… prima che il libro venisse pubblicato qui.

— Sì, non ho potuto evitarlo, ma perché credi che mi sia affrettato a far pubblicare il libro? Credi che tutti, al CDP, approvino il fatto che scambiamo idee con Urras in questo modo? La Difesa chiede che ogni parola che lascia Anarres su quelle navi sia controllata da un esperto approvato dal CDP. E inoltre, credi che i fisici provinciali che non riescono ad approfittare di questo canale di comunicazione con Urras approvino il fatto che lo usiamo? Credi che non siano invidiosi? C’è gente che aspetta unicamente che noi facciamo un passo falso. E se noi venissimo scoperti a farlo, perderemmo la cassetta postale sulle navi di Urras. Ti è chiaro il quadro complessivo, ora?

— E come ha potuto, fin dall’inizio, l’Istituto avere quella cassetta postale?

— L’elezione di Pegvur al CDP, dieci anni fa. — Pegvur era un fisico di una certa distinzione. — E io ho sempre proceduto con la massima attenzione per non perderla, da quando c’è. Capisci?

Shevek annuì.

— E poi, Atro non ha voglia di leggere quel tipo di roba. Ho esaminato l’articolo e te l’ho restituito la scorsa decade. Quando ti deciderai a smettere di perdere tempo su quelle teorie reazionarie a cui si abbarbica Garab? Non vedi che ha sprecato tutta la vita su di esse? Se continuerai, riuscirai soltanto a renderti ridicolo. La qual cosa, certo, è un tuo diritto inalienabile. Ma non riuscirai a rendere ridicolo me!

— E se presentassi l’articolo per la pubblicazione qui, in pravico?

— Tempo perso.

Shevek assorbì queste parole con un piccolo cenno del capo. Si rialzò, allampanato e ossuto, e rimase immobile per un attimo, lontano fra i suoi pensieri. La arcigna luce invernale gli lambiva i capelli, ch’egli adesso portava raccolti sulla nuca, a coda, e il viso immobile. Si recò alla scrivania e prese una copia dalla piccola fila dei nuovi libri. — Mi piacerebbe mandare uno di questi a Mitis — disse.

— Prendine quanti ne vuoi. Ascolta. Se pensi di sapere meglio di me ciò che fai, allora presenta quell’articolo alle Edizioni. Non hai bisogno del permesso! Qui non è una sorta di gerarchia, lo sai! Io non posso fermarti. L’unica cosa che posso fare, è darti un consiglio.

— Tu sei il consulente dell’Associazione Edizioni per i manoscritti di fisica — disse Shevek. — Pensavo che fosse un risparmio di tempo per tutti chiedertelo subito.

La sua gentilezza era inflessibile; poiché non intendeva competere per il dominio, egli non era domabile.

— Risparmio di tempo, cosa vuoi dire? — brontolò Sabul, ma anche Sabul era un Odoniano: si torceva come se fosse fisicamente torturato dalla propria ipocrisia; distolse lo sguardo da Shevek, tornò a guardarlo, e disse in tono sprezzante, con la voce spessa di collera: — Fai pure, allora! Presenta quel maledetto articolo! Mi dichiarerò incompetente a dare un giudizio. Dirò loro di chiederlo a Garab. E lei l’esperto di Simultaneità, non io. La mistica elucubratrice! L’universo è una gigantesca corda d’arpa, oscillante dentro e fuori dell’esistenza! E che nota suonerà mai, per inciso? Brani dalle Armonie Numeriche, probabilmente? Il fatto è che io non sono competente… o, in altre parole, non desidero… dare pareri per le Edizioni o per il CDP sugli escrementi intellettuali!

— Il lavoro che ho fatto per te — disse Shevek, — è parte del lavoro che ho svolto seguendo le idee di Garab sulla Simultaneità. Se vuoi l’uno, devi pigliare anche l’altro. Il grano cresce meglio nella merda, come diciamo noi nell’Insediamento Settentrionale.

Rimase fermo ancora un istante, e non ricevendo parole di risposta da Sabul, disse addio e uscì.

Sapeva di avere vinto una battaglia, e facilmente, senza visibile violenza. Ma violenza c’era stata.

Come aveva predetto Mitis, egli era «l’uomo di Sabul». Sabul aveva cessato da anni di essere un fisico funzionante; la sua alta reputazione era costruita sull’espropriazione da altre menti. Shevek doveva fornire le idee, e Sabul ne avrebbe preso il credito.

Ovviamente era una situazione intollerabile sotto l’aspetto etico, che Shevek doveva denunciare e lasciar subito cadere. Solo, Shevek non intendeva farlo. Egli aveva bisogno di Sabul. Egli intendeva pubblicare ciò che scriveva, e mandarlo alle persone che potevano capirlo, i fisici urrasiani; aveva bisogno delle loro idee, dei loro commenti, della loro collaborazione.

E dunque avevano contrattato, egli e Sabul: contrattato come profittatori. Non era stata una battaglia, ma una vendita. Tu mi dai questo e io ti do quello. Tu lo rifiuti a me, e io lo rifiuto a te. D’accordo? D’accordo! La carriera di Shevek, come l’esistenza della sua società, dipendeva dalla continuazione di un fondamentale, inconfessato, contratto di profitto. Non una relazione di aiuto reciproco e di solidarietà, ma una relazione di sfruttamento; non organica, ma meccanica. Può la vera funzione nascere dalla fondamentale disfunzione?

Ma io desidero solamente che il lavoro sia svolto, si giustificava Shevek nella propria mente, mentre percorreva il viale, diretto al quadrangolo domiciliare nel pomeriggio grigio e ventoso. È il mio dovere, è la mia gioia, è lo scopo di tutta la mia vita. L’uomo con cui devo lavorare è competitivo, cercatore di dominio, profittatore, ma io non posso cambiare questo stato di cose; se voglio lavorare, devo lavorare con lui.

Pensò a Mitis e al suo avvertimento. Pensò all’Istituto dell’Insediamento Settentrionale e alla festicciola della sera precedente la sua partenza. Gli pareva, ora, che fosse passato molto tempo, e che fosse un luogo così infantilmente tranquillo e sicuro che per poco non pianse per la nostalgia. Mentre passava sotto l’arco dell’Edificio delle Scienze Vitali, una ragazza girò la testa a guardarlo, ed egli pensò che assomigliava alla ragazza — come si chiamava? — dai capelli corti, quella che aveva mangiato tante frittelle la sera della partenza. Si fermò e si voltò, ma la ragazza era già scomparsa dietro l’angolo. E, comunque, aveva i capelli lunghi. Andato: tutto se n’era andato. Uscì dal riparo del portico e s’immerse nel vento. Nel vento c’era una pioggia fine, rada. La pioggia era sempre rada, quando c’era. Quel pianeta era un pianeta asciutto. Asciutto, pallido, ostile. «Ostile!» disse forte Shevek, in iotico. Non aveva mai sentito parlare la lingua; aveva un suono assai strano. La pioggia gli colpiva la faccia come ghiaia. Era una pioggia ostile. Alla gola dolente si era aggiunto un terribile mal di capo, di cui si accorgeva solamente ora. Entrò nella Stanza 46 e si stese sulla predella del letto, che gli parve assai più bassa del solito. Tremava, e non poteva smettere di tremare. Si coprì con la coperta arancione e si rannicchiò tutto, cercando di dormire, ma non riuscì a non tremare, perché era sottoposto a un costante bombardamento atomico da tutte le parti, che aumentava con l’aumento della temperatura.

Non era mai stato malato, e non aveva mai conosciuto un fastidio fisico peggiore della stanchezza. Non avendo idea di che cosa fosse una febbre alta, egli pensò, durante gli intervalli di lucidità di quella lunga notte, che stesse impazzendo. Il timore della follia lo spinse a cercare di nuovo aiuto quando giunse il giorno. Aveva troppa vergogna di se stesso per chiedere aiuto ai vicini di corridoio; si era sentito delirare nella notte. Si trascinò alla clinica locale, a otto isolati di distanza, e le fredde strade illuminate dall’alba gli girarono solennemente intorno. Alla clinica diagnosticarono la sua pazzia con un leggero attacco di polmonite e gli dissero di andare a letto nella Corsia Due. Egli protestò. L’infermiera lo accusò di egoizzare e gli spiegò che se fosse tornato a casa avrebbe recato a un medico il fastidio di andare a visitarlo laggiù e di fornirgli delle cure private. Egli andò in un letto della Corsia Due. Tutte le altre persone della corsia erano dei vecchi. Giunse un’infermiera che gli porse un bicchiere d’acqua e una compressa. — Che cos’è? — chiese Shevek, sospettoso. I suoi denti avevano ripreso a battere.

— Antipiretico.

— E sarebbe?

— Porta giù la febbre.

— Non ne ho bisogno.

L’infermiera alzò le spalle. — D’accordo — disse, e se ne andò.

Molti giovani anarresiani pensavano che fosse una vergogna essere malati: un risultato dell’ottima profilassi della loro società, e anche forse una confusione che nasceva dall’uso analogico delle parole «sano» e «malato». A loro, la malattia pareva un crimine, anche se involontario. Cedere all’impulso criminale, compiacerlo prendendo sostanze che lenivano il dolore, era immorale. Si tenevano alla larga da compresse e iniezioni. Con l’arrivo della maturità e della vecchiaia, molti di loro cambiavano idea. Il dolore diveniva più forte della vergogna. L’infermiera diede ai vecchi della Corsia Due le medicine, ed essi scherzarono con lei. Shevek osservò la scena con opaca incomprensione.

Più tardi ci fu un dottore con un ago ipodermico. — Non voglio — disse Shevek. — Piantala di egoizzare — disse il medico. — Girati dall’altra parte. — Shevek obbedì.

Più tardi ancora ci fu una donna con una tazza d’acqua per lui, ma egli tremava talmente che l’acqua si rovesciò, bagnando la coperta. — Lasciami solo — egli disse. — Chi sei? — Lei glielo disse, ma lui non capì. Le disse di andarsene, si sentiva bene. Poi le spiegò perché l’ipotesi ciclica, sebbene improduttiva per se stessa, fosse essenziale per i suoi passi verso una possibile teoria della Simultaneità, fosse una pietra angolare. Egli parlò in parte nella propria lingua e in parte in iotico, e scrisse le formule e le equazioni su una lavagna con un pezzo di gesso, in modo che lei e il resto del gruppo potessero capire, dato che temeva che non capissero la faccenda della pietra angolare. Lei gli toccò la fronte e gli legò i capelli dietro la testa. Le sue mani erano fredde. In tutta la vita non aveva mai sentito nulla di più piacevole che il tocco di quelle mani. Tese la mano per afferrargliela. Lei non c’era, se n’era andata.

Molto tempo più tardi, egli si destò. Poteva respirare. Stava perfettamente bene. Ogni cosa era a posto. Non si sentiva portato a muoversi. Muoversi avrebbe disturbato il momento perfetto, stabile, l’equilibrio del mondo. La luce invernale sul soffitto era bella in modo inesprimibile. Rimase steso a guardarla. I vecchi della corsia ridevano tra loro: vecchie risate secche e scoppiettanti, un suono bellissimo. La donna arrivò e si sedette accanto alla sua branda. Lui la guardò e sorrise.

— Come ti senti?

— Come appena nato. Chi sei?

Anche lei sorrise. — La madre.

— Rinascita. Ma pensavo di ricevere un corpo nuovo, non lo stesso che usavo già.

— Di che cosa al mondo stai parlando?

— Niente al mondo. A Urras. La rinascita fa parte della loro religione.

— Hai ancora la testa leggera. — Gli toccò la fronte. — Non hai febbre. — La sua voce, nel pronunciare queste parole, toccò e colpì qualcosa, molto profondo nell’intimo di Shevek: un luogo buio, un luogo chiuso tra mura, e lì venne respinto e respinto indietro nell’oscurità. Egli guardò la donna e disse con terrore: — Sei Rulag.

— Te l’ho detto. Diverse volte!

Ella assunse un’aria di spigliatezza, perfino di umorismo. Per Shevek invece non era questione di assumere qualcosa. Non aveva la forza di muoversi, ma si ritrasse da lei senza nascondere il timore, come se non si fosse trattato di sua madre, ma della sua morte. Se ella notò quel debole movimento, non diede segno di essersene accorta.

Era una bella donna, dai capelli scuri, con lineamenti fini e ben proporzionati che non mostravano linee dovute all’età, anche se doveva avere più di quarant’anni. Ogni cosa, nella sua persona, era armoniosa e controllata. La sua voce era bassa, piacevole di timbro. — Non sapevo che tu fossi qui ad Abbenay — disse, — né dove fossi; anzi non sapevo neppure se c’eri ancora. Ero nel magazzino delle Edizioni, a guardare tra le nuove pubblicazioni, a scegliere per la bilioteca di Ingegneria, e ho visto un libro di Sabul e Shevek. Sabul lo conoscevo, naturalmente. Ma chi era Shevek? Perché il nome mi suonava così familiare? Ci ho messo almeno un minuto per arrivarci. Strano, no? Ma la cosa non mi pareva ragionevole. Lo Shevek che conoscevo avrebbe avuto soltanto vent’anni, ed era poco probabile che fosse co-autore di trattati di metacosmologia con Sabul. Ma ogni altro Shevek avrebbe dovuto avere meno di vent’anni! … Dunque andai a vedere. Un ragazzo del domicilio mi disse che eri qui… È una clinica in cui manca un mucchio di personale. Non so perché gli addetti non si facciano assegnare una quota più alta di incarichi di lavoro dalla Federazione Medica, oppure non riducano il numero delle accettazioni; alcuni tra infermieri e dottori lavorano otto ore al giorno! Naturalmente ci sono delle persone, nelle arti mediche, che desiderano proprio questo: l’impulso all’autosacrificio. Sfortunatamente, però, non porta al massimo di efficienza… È stato strano trovarti. Non ti avrei mai riconosciuto… Sei sempre in contatto con Palat? Come sta?

— È morto.

— Ah. — Non ci fu pretesa di trauma o di dolore nella voce di Rulag, soltanto una specie di triste assuefazione, una nota tetra. Shevek ne fu commosso: riuscì a vederla, per un momento, come una persona.

— Quand’è morto?

— Otto anni fa.

— Avrà avuto al massimo trentacinque anni.

— C’è stato un terremoto a Piani Ampi. Vivevamo là da cinque anni, era ingegnere edile per la comunità. Il terremoto danneggiò il centro di apprendimento. Egli era con gli altri; cercava di portare fuori alcuni bambini intrappolati nell’interno. Una seconda scossa di terremoto fece crollare tutto l’edificio. Ci furono trentadue morti.

— C’eri anche tu?

— Ero partito per cominciare il mio addestramento all’Istituto Regionale circa dieci giorni prima del terremoto.

Ella rifletté, con il viso liscio e immobile. — Povero Palat. È stato un po’ da lui… morire con altri, un elemento statistico, uno su trentadue…

— La statistica sarebbe stata più alta se non si fosse recato all’interno dell’edificio — disse Shevek.

Lei, allora, lo guardò. Lo sguardo non indicava quali emozioni provasse o non provasse. Ciò che diceva poteva essere spontaneo oppure deliberato, non c’era modo di capirlo. — A te piaceva molto Palat.

Egli non rispose.

— Tu non gli assomigli. Anzi, tu assomigli piuttosto a me, eccetto che nel colore dei capelli. Pensavo che tu assomigliassi a Palat. Lo davo per certo. È strano come la nostra immaginazione dia alcune cose per certe. Egli rimase con te, dunque?

Shevek annuì.

— Fu fortunato — disse Rulag. Non sospirò, ma nella sua voce c’era l’eco di un sospiro.

— Anch’io.

Ci fu una pausa. Rulag sorrise debolmente. — Sì. Avrei potuto mantenere i contatti con voi. Mi biasimi, per non averlo fatto?

— Biasimarti per questo? Non ti ho mai conosciuta.

— No. Io e Palat ti abbiamo tenuto con noi nel domicilio, anche dopo svezzato. Entrambi eravamo d’accordo nel farlo. In quei primi anni il contatto individuale è essenziale; gli psicologi l’hanno dimostrato senza possibilità di dubbio. La piena socializzazione può svilupparsi soltanto da quell’inizio affettivo… Io ero disposta a restare compagni. Ho cercato di far avere a Palat un incarico qui ad Abbenay. Non c’è mai stata un’apertura nel suo tipo di lavoro, ed egli non voleva venire senza un incarico. Aveva i suoi lati ostinati… Dapprima mi scriveva, di tanto in tanto, per dirmi come stavate, poi cessò di scrivere.

— Non importa — disse il giovanotto. Il suo viso, assottigliato dalla malattia, era coperto di goccioline sottilissime di sudore, che facevano parere le guance e la fronte argentee, come oliate.

Cadde di nuovo il silenzio, e Rulag disse con la sua voce controllata, piacevole: — Be’, sì; importava, e importa ancora. Ma Palat era più adatto a stare con te e a farti superare i tuoi anni integrativi. Tendeva a sostenere, era parentale, e io non lo sono. Il lavoro viene per prima cosa, per me. È sempre venuto per primo. Comunque, sono contenta che tu adesso sia qui, Shevek. Forse potrò esserti di qualche utilità, ora. So che Abbenay è un posto scostante, ai primi tempi. Ci si sente sperduti, isolati, privi della semplice solidarietà che si trova nelle città più piccole. Conosco delle persone interessanti, che forse ti piacerebbe incontrare. È gente che ti potrebbe essere utile. Conosco Sabul; ho una certa idea degli ostacoli che hai potuto incontrare, con lui e con l’intero Istituto. Amano giocare a dominare, laggiù. Occorre una certa esperienza per sapere come batterli al loro stesso gioco. In ogni caso, sono lieta che tu sia qui. Mi dà un piacere che non ho mai cercato… una specie di gioia… Ho letto il tuo libro. È tuo, vero? Altrimenti, perché Sabul lo pubblicherebbe come co-autore insieme a uno studente di vent’anni? Il suo argomento è fuori della mia portata. Io sono soltanto un ingegnere. Confesso di essere orgogliosa di te. È strano, no? Irragionevole. Proprietaristico, addirittura. Come se tu fossi qualcosa che mi appartenesse! Ma quando si diventa più vecchi si ha bisogno di certe rassicurazioni che non sono, tutte le volte, completamente razionali. Per andare avanti.

Egli vide la sua solitudine. Vide il suo dolore, e se ne offese. Quel dolore lo minacciava. Minacciava la dedizione di suo padre, l’amore chiaro e costante in cui aveva preso radice la sua vita. Che diritto aveva Rulag, che aveva lasciato Palat nel bisogno, di venire nel momento del proprio bisogno al figlio di Palat? Egli non aveva nulla, nulla da dare a lei, o a chiunque altro. — Sarebbe stato meglio — disse, — che tu avessi continuato a pensare anche a me come a un numero di una statistica.

— Ah — disse lei: la debole, abituale, desolata risposta. Distolse gli occhi da lui.

I vecchi all’estremità della corsia la stavano ammirando, facendosi l’un l’altro cenni col capo.

— Suppongo — disse lei, — di avere cercato di avanzare delle pretese su di te. Ma pensavo che tu avresti potuto avanzare delle pretese su di me. Se tu l’avessi voluto.

Egli non disse nulla.

— Noi non siamo, eccetto che dal punto di vista biologico, madre e figlio, naturalmente. — Aveva riacquistato il suo debole sorriso. — Tu non ti ricordi di me, e il bambino che ricordo non è l’uomo di vent’anni. Tutto ciò appartiene al passato, è irrilevante. Ma noi siamo fratello e sorella, qui, ora. Ed è questo ciò che realmente importa, non è vero?

— Non lo so.

Lei rimase seduta senza parlare per un minuto, poi si alzò in piedi. — Tu hai bisogno di riposare. Stavi molto male la prima volta che sono venuta. Dicono che adesso starai perfettamente bene. Non penso che ritornerò.

Egli non parlò. Lei disse: — Addio, Shevek — e, mentre parlava, si volse per andarsene. Egli ebbe una rapida visione o un’immagine da incubo del suo volto, che, mentre parlava, cambiava drasticamente, s’infrangeva, andava a pezzi. Ma doveva essere stata immaginazione. Ella uscì dalla corsia con il passo misurato e aggraziato di una bella donna, ed egli la vide fermarsi a parlare, sorridendo, con l’infermiera, nel corridoio.

Allora lasciò libera di esprimersi la paura che era giunta con lei, il senso della rottura delle promesse, dell’incoerenza del tempo. Non riuscì a fermarsi. Cominciò a piangere, cercando di nascondere il volto dietro lo scudo del proprio braccio, poiché non aveva la forza di voltarsi. Uno dei vecchi, uno dei vecchi malati, si avvicinò a lui, si sedette sulla sponda della branda e gli picchiò con la mano sulla spalla. — Non è niente, fratello. Andrà tutto a posto, fratellino — mormorò. Shevek lo udì e sentì il tocco della mano, ma non ne ricevette conforto. Neppure dal fratello può venire conforto nell’ora cattiva, nel buio ai piedi del muro.

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