CAPITOLO 5

Shevek pose fine con sollievo alla propria carriera di turista. Il nuovo anno accademico si apriva, a Ieu Eun; ora poteva stabilirsi per vivere, e per lavorare, in Paradiso, invece di limitarsi a guardarlo dall’esterno.

Si incaricò di due seminari e di un corso aperto di lezioni. Nessuna attività di insegnamento gli era richiesta, ma egli aveva chiesto di insegnare, e gli amministratori gli avevano organizzato i seminari. Il corso aperto non era stato idea sua, né loro. Era venuta una delegazione di studenti e gli aveva chiesto di tenerlo. Egli aveva accettato subito: era uno dei modi in cui si organizzavano i corsi nei centri di apprendimento di Anarres: o per iniziativa degli insegnanti, o degli studenti e degli insegnanti insieme. Quando seppe che gli amministratori erano rimasti scossi dalla cosa, egli rise. — Si aspettano che gli studenti non siano anarchici? — disse. — E che altro possono essere i giovani? Quando sei al fondo, devi organizzarti per portarti su! — Non aveva intenzione di farsi allontanare da un corso per ragioni degli amministratori (aveva già combattuto in precedenza lo stesso tipo di battaglia) e poiché egli comunicò agli studenti la propria fermezza, anch’essi tennero duro. Allo scopo di evitare una pubblicità negativa, i Rettori dell’Università rinunciarono e Shevek iniziò il suo corso con un’aula piena, duemila persone. Ma la frequenza diminuì subito. Egli si attenne alla fisica, senza mai passare al caso personale o alla politica, e si trattava di fisica di livello molto avanzato. Eppure alcune centinaia di studenti continuarono a venire. Alcuni venivano per pura curiosità, allo scopo di vedere l’uomo giunto dalla Luna; altri erano attirati dalla personalità di Shevek, dai barlumi dell’uomo e del libertario che riuscivano a cogliere nelle sue parole anche se non riuscivano a seguire i suoi passaggi matematici. E un numero sorprendentemente alto di studenti era capace di seguire sia la filosofia, sia la matematica.

Erano superbamente addestrati, quegli studenti. La loro mente era fine, acuta, pronta. Quando non lavoravano, riposavano. Non venivano resi ottusi e distratti da una decina di altri impegni. Non cadevano mai addormentati in aula perché erano stanchi dopo avere prestato servizio nei lavori a rotazione, il giorno precedente. La loro società li manteneva in assoluta libertà dal bisogno, dalla distrazione e dalle preoccupazioni.

Quel che erano liberi di fare, tuttavia, era un altro discorso. Pareva a Shevek che la loro libertà da altri impegni fosse esattamente proporzionale alla loro mancanza di libertà d’iniziativa.

Egli rimase stupefatto del loro sistema di esami, quando gli venne spiegato; gli pareva che il procedimento di ficcarsi in testa informazioni per rigettarle a richiesta dovesse essere quanto di più efficace per disamorare il naturale desiderio di imparare che ciascuno porta in sé. Dapprima rifiutò di fare esami e di dare voti, ma ciò sconvolse talmente gli amministratori dell’Università che, non volendo essere scortese con i suoi ospiti, egli rinunciò. Chiese ai suoi studenti di scrivere una tesina sull’argomento della fisica che più li interessava, e comunicò che avrebbe dato a ciascuno il voto più alto, in modo che i burocrati avessero qualcosa da scrivere sui loro moduli e sui loro elenchi. Con sua grande sorpresa, molti studenti vennero da lui a lamentarsene. Desideravano che fosse lui a stabilire i problemi, a rivolgere le domande giuste; essi non volevano pensare alle domande, ma soltanto scrivere le risposte che avevano imparato. E alcuni di loro erano fortemente contrari al fatto che desse a tutti lo stesso voto. Come si poteva distinguere gli studenti diligenti da quelli che non avevano studiato nulla? A che scopo lavorare tanto? Se non c’erano delle classifiche competitive, tanto valeva non fare nulla.

— Certo, naturalmente — disse Shevek, preoccupato. — Se non volete fare il lavoro, allora non dovete farlo.

Se ne andarono via insoddisfatti, ma cortesi. Erano dei piacevoli giovani, con modi franchi e civili. Le letture di Shevek sulla storia urrasiana l’avevano portato alla convinzione che in realtà fossero, anche se la parola era caduta in disuso, degli aristocratici. All’epoca feudale l’aristocrazia aveva mandato i propri figli all’università, conferendo superiorità all’istituzione. Oggi avveniva l’inverso: l’università conferiva superiorità all’uomo. Con orgoglio, dissero a Shevek che la competizione per le borse di studio di Ieu Eun diventava ogni anno più severa, così dimostrando la sostanziale democraticità dell’istituzione. Egli rispose: — Avete messo un ulteriore lucchetto alla porta, e lo avete chiamato democrazia. — Amava i suoi cortesi, intelligenti studenti, ma non sentiva molto trasporto verso nessuno di loro. Progettavano di far carriera come scienziati accademici o industriali, e ciò che apprendevano da lui costituiva per loro soltanto un mezzo per ottenere tale fine, per ottenere il successo nella propria carriera. Essi avevano già, o ne negavano l’importanza, ogni altra cosa ch’egli avrebbe potuto offrire loro.

Shevek si trovò, pertanto, senza altre occupazioni che la preparazione dei suoi tre corsi; il resto del tempo era completamente suo. Non si era mai trovato in una situazione simile da quando aveva vent’anni o poco più, nei suoi primi anni all’Istituto di Abbenay. Dopo quell’epoca, la sua vita sociale e personale era diventata sempre più complicata ed esigente. Egli era stato non soltanto un fisico, ma anche un compagno, un padre, un Odoniano, e infine un riformatore sociale. E in quanto tale non era stato protetto, né si era aspettato protezione, dalle cure e dalle responsabilità che gli toccavano. Non era stato libero da alcuna cosa: era stato soltanto libero di fare ogni cosa. Qui avveniva l’inverso. Come tutti gli altri studenti e i professori, egli non aveva altro da fare che il suo lavoro intellettuale: nulla, letteralmente nulla, del resto. I letti venivano rifatti per loro, le stanze venivano spazzate per loro, ogni lavoro relativo alla loro permanenza veniva svolto da altri, veniva loro resa agevole la strada. E niente moglie, niente famiglia. Nessuna donna. Gli studenti dell’Università non avevano il permesso di sposarsi. I professori sposati di solito abitavano nei cinque giorni di lezione della settimana in appartamenti per scapoli, nell’area accademica, e andavano a casa soltanto per il fine settimana. Nulla che potesse distrarre. Completa tranquillità per lavorare; tutto il materiale a portata di mano; stimoli intellettuali, discussioni, conversazioni quanto si voleva; nessuna pressione. Il vero paradiso! Ma egli non pareva capace di mettersi al lavoro.

C’era qualcosa che mancava… in lui, si disse, non nell’ambiente. Egli non ne era all’altezza. Non era abbastanza forte per accettare ciò che gli veniva offerto con tanta generosità. Si sentiva prosciugato e arido, come una pianta del deserto, in questa bellissima oasi. La vita su Anarres l’aveva cauterizzato, aveva serrato ermeticamente la sua anima; le acque della vita sgorgavano tutt’intorno a lui, ma egli non riusciva a bere.

Si costrinse a lavorare, ma anche nel lavoro non trovò alcuna certezza. Gli pareva di avere perso l’intuito che, quando egli provava a dare un giudizio di se stesso, gli pareva costituire il suo vantaggio su molti altri fisici, il senso di dove stesse il problema veramente importante, l’indizio che conduceva all’interno, verso il centro. Qui, non gli pareva di avere alcun senso della direzione. Egli lavorò al Laboratorio di Ricerca, lesse molto, e scrisse tre articoli nel corso dell’estate e dell’autunno: un mezzo anno molto produttivo, secondo il suo metro normale. Ma sapeva che in realtà non aveva fatto nulla di concreto.

In verità, quanto più egli viveva su Urras, tanto meno concreto il pianeta diveniva per lui. Gli pareva che gli sfuggisse di mano: il mondo vitale, magnifico, inesauribile che egli aveva visto dalle finestre della stanza il suo primo giorno sul pianeta. Scivolava via dalle sue mani goffe, forestiere, lo eludeva: e quando egli provava di nuovo a guardare, teneva in mano qualcosa di molto diverso, qualcosa ch’egli non aveva mai desiderato: fatto di carta straccia, involucri, spazzatura.

Riceveva denaro per gli articoli che scriveva. Già aveva in un conto della Banca Nazionale le 10.000 Unità Monetarie Internazionali del Premio Seo Oen, e una borsa di 5000 del Governo lotico. Quella somma venne ora aumentata dal suo stipendio di professore e dal denaro a lui pagato dalle Edizioni Universitarie per le tre monografie. Dapprima tutto ciò gli parve ridicolo; poi lo turbò. Non doveva respingere in blocco, con la scusa che era ridicola, una cosa che dopotutto aveva un’importanza soverchiante su Urras. Cercò di leggere un testo elementare di economia; lo trovò noioso in modo insopportabile, come ascoltare qualcuno che raccontasse interminabilmente un sogno lungo e stupido. Non riusciva a costringersi a capire come funzionavano le banche e così via, poiché le operazioni del capitalismo erano altrettanto prive di significato, ai suoi occhi, quanto i riti di una religione primitiva: altrettanto barbariche, altrettanto complicate e innecessarie. In un sacrificio umano agli dèi ci poteva almeno essere una terribile, malintesa bellezza; nei riti dei cambiavalute, in cui si dava per assodato che l’ingordigia, l’ignavia e l’invìdia fossero gli unici moventi degli atti umani, perfino il terribile diveniva banale. Shevek osservò con disprezzo questa mostruosa meschinità, senza interesse. Egli non ammise, non poté ammettere, che in verità lo spaventava.

Saio Pae l’aveva accompagnato a «fare acquisti» nel corso della sua seconda settimana in A-Io. Anche se non aveva intenzione di tagliarsi i capelli — i capelli, dopotutto, facevano parte di lui — egli desiderava un abito alla moda urrasiana e un paio di scarpe. Non aveva intenzione di apparire più straniero del minimo indispensabile. La semplicità del suo vecchio abito lo rendeva chiaramente un’ostentazione, e i suoi morbidi, rozzi stivali da deserto apparivano davvero strambi, in mezzo alle fantasiose calzature iotiche. Così, dietro sua richiesta, Pae l’aveva accompagnato nella Passeggiata Saemtenevia, la strada dei negozi eleganti di Nio Esseia, da un sarto e da un calzolaio.

L’intera esperienza era risultata così sbalorditiva per lui, che se l’era cancellata di mente non appena possibile; ma aveva continuato per mesi a sognarla, ad avere incubi. La Saemtenevia era lunga due miglia, ed era una massa compatta di persone, di traffico e di cose: cose da comprare, cose da vendere. Soprabiti, vestiti, gonne, giacche, calzoni, calzoncini, camicie, bluse, cappelli, scarpe, calze, sciarpe, scialli, panciotti, mantelli, ombrelli, vestiti da indossare mentre si dormiva, mentre si nuotava, mentre si giocava a qualche gioco, a un ricevimento pomeridiano, a un ricevimento serale, a un ricevimento in campagna, in viaggio, a teatro, in sella ai cavalli, facendo giardinaggio, ricevendo gli ospiti, andando in barca, andando a cena, andando a caccia, tutti diversi, tutti in centinaia di taglie, modelli, colori, spessori, materiali. Profumi, orologi, lampade, statuine, cosmetici, candele, quadri, macchine fotografiche, passatempi, vasi, sofà, bricchi, rompicapi, cuscini, bambole, colini, gualdrappe, gioielli, tappeti, stuzzicadenti, calendari, un sonaglino da neonato in platino con impugnatura di cristallo di rocca, una macchina elettrica per fare la punta alle matite, un orologio da polso con i numeri di diamante; figurette e ricordi e gingilli e non mi scordare e fronzoli e carabattole, ogni cosa inutile fin dall’inizio, o talmente ornamentata da nasconderne l’uso; ettari di articoli di lusso, ettari di escrementi. Al primo isolato Shevek si era fermato per dare un’occhiata a un soprabito peloso, maculato, esibizione centrale di una lucente vetrina di abiti e gioielli. — Quel soprabito costa 8400 unità? — domandò incredulo, poiché recentemente aveva letto in un giornale che il «salario medio» era di circa 2000 unità all’anno. — Oh, certo, è pelliccia naturale, molto rara oggi che gli animali sono protetti — aveva detto Pae. — Bel mantello, vero? Le donne amano le pellicce. — Ed erano andati avanti. Dopo un altro isolato, Shevek si era sentito completamente esausto. Non poteva più guardare. Avrebbe voluto chiudersi gli occhi.

E la cosa più strana, riguardo alla strada degli incubi, era che nessuna cosa, dei milioni che vi erano contenute, veniva fatta laggiù. Dov’erano le botteghe, le fabbriche, dov’erano i contadini, gli artigiani, i minatori, i tessitori, i chimici, gli scultori, i tintori, i disegnatori, i meccanici, dove erano le mani, le persone che producevano? Fuori vista, da qualche altra parte. Dietro muri. Tutte quelle persone, in ciascuno dei negozi, erano o compratori o venditori. Non avevano altra relazione con le cose se non quella del possesso.

Venne a sapere che una volta date le sue misure, egli poteva ordinare per telefono ogni altra cosa che gli occorreva, e decise di non tornare mai più alla strada dell’incubo.

Il vestito e le scarpe gli vennero consegnati nel giro di una settimana. Egli li indossò e si mise davanti allo specchio della camera da letto, lungo fino al pavimento. La giacca lunga e aderente, grigia, la camicia bianca, i calzoni neri a mezza gamba, i calzettoni e le scarpe lucide si adattavano bene alla sua lunga, sottile figura e ai suoi piedi sottili. Si chinò a toccare con circospezione la superficie di una scarpa. Era fatta dello stesso materiale che ricopriva le poltrone dell’altra stanza, il materiale che al tatto pareva pelle; aveva chiesto a qualcuno, recentemente, che cosa fosse, e gli era stato risposto che si trattava veramente di pelle: pelle di animale, o cuoio, come veniva chiamata. Aggrottò la fronte a quel contatto, si raddrizzò e voltò le spalle allo specchio, ma non prima di essere costretto a riconoscere che, così vestito, la somiglianza con sua madre Rulag era più forte che mai.


Ci fu una lunga interruzione tra i trimestri di studio, a metà dell’autunno. Molti studenti si recarono a casa a trascorrere le vacanze. Shevek si recò in campeggio sui monti Meitei per alcuni giorni con un gruppo di studenti e di ricercatori del Laboratorio, poi ritornò per farsi assegnare alcune ore al grosso computer, che durante il periodo scolastico era sempre impegnato. Tuttavia, stanco di un lavoro che non portava a nulla, egli lavorò senza eccessivo impegno. Dormì più del solito, camminò, lesse, e si disse che il guaio stava nel fatto che aveva avuto troppa fretta, tutto qui; non si può afferrare un intero nuovo mondo in pochi mesi. I prati e i boschetti dell’Università erano bellissimi e disordinati, foglie dorate che s’illuminavano e volavano via nel vento piovigginoso, sotto un morbido cielo grigio. Shevek cercò le opere dei grandi poeti iotici e le lesse; ora riusciva a capirli quando parlavano di fiori, e del volo degli uccelli, e del colore delle foreste in autunno. Questa comprensione scese in lui come un grande piacere. Era piacevole ritornare al crepuscolo alla propria stanza, che con la sua tranquilla bellezza di proporzioni non cessava mai di soddisfarlo. Adesso s’era abituato a quella grazia e a quella comodità: gli era divenuta familiare. Così come le facce che vedeva alla Refezione Serale, i colleghi, alcuni amati di più, altri di meno, ma tutti, ormai, familiari. Così gli era familiare il cibo, con tutta la sua varietà e quantità, che all’inizio l’avevano sorpreso. Le persone che servivano a tavola conoscevano i suoi desideri e lo servivano come egli stesso si sarebbe servito da sé. Continuava a non mangiare carne; aveva provato, per educazione e per mostrare a se stesso che non nutriva pregiudizi irrazionali, ma il suo stomaco aveva delle ragioni proprie, che la ragione non conosceva, e si era ribellato. Dopo un paio di mezzi disastri, aveva rinunciato al tentativo ed era rimasto vegetariano, senza tuttavia perdere l’amore del cibo. Amava molto la cena. Aveva acquistato tre o quattro chili da quando era giunto su Urras; ora aveva un aspetto molto sano, abbronzato dalla vacanza in montagna, riposato dalla festa. Era una figura che colpiva, quando si alzava, come ora, dal tavolo nella grande sala da pranzo dal soffitto a travi molto alto, nell’ombra, le pareti a pannelli, piene di ritratti, e le tavole illuminate da fiamme di candela e porcellana e argento. Salutò qualcuno a un tavolo e fece per andarsene, con un’aria di tranquillo distacco. Dall’altra parte della sala. Chifoilisk lo scorse e lo seguì, raggiungendolo sulla porta.

— Ha qualche minuto per me, Shevek?

— Sì. Andiamo nella mia stanza? — Adesso era abituato all’uso continuo degli aggettivi possessivi, e riusciva a pronunciarli senza imbarazzo.

Chifoilisk parve avere un attimo di esitazione. — Che ne direbbe della biblioteca? Dobbiamo passarle davanti, e devo entrare a prendere un libro.

Si diressero verso il lato opposto del quadrilatero, verso la Biblioteca della Nobile Scienza (vecchio termine per indicare la fisica, che in certi usi si era conservato anche su Anarres), camminando a fianco a fianco nell’oscurità interrotta dal picchiettio della pioggia. Chifoilisk aveva aperto l’ombrello, ma Shevek camminava nella pioggia come gli iotici camminavano al sole, con gioia.

— Si bagna — brontolò Chifoilisk. — E ha già la tosse, no? Dovrebbe fare più attenzione.

— No, adesso sto bene — disse Shevek, e sorrise mentre camminava a grandi passi nella pioggia fine e fresca. — Il dottore del Governo, lei l’ha visto, mi ha dato varie cure, inalazioni. Funzionano; non tossisco più. Ho chiesto al dottore di descrivere il procedimento e i farmaci usati, per radio, al Gruppo dell’Iniziativa di Abbenay. E lui l’ha fatto. Era contento di farlo. È una cosa molto semplice, e può alleviare molte sofferenze causate dalla tosse da polvere. Ma perché, perché non è stato fatto prima? Perché noi non lavoriamo insieme, Chifoilisk?

Il thuviano emise un brontolio ironico. Erano giunti alla sala di lettura della biblioteca. Corridoi di vecchi libri, sotto delicati doppi archi di marmo, erano fermi nella serenità e nella semioscurità; le lampade poste sui lunghi tavoli di lettura erano delle semplici sfere di alabastro, disadorne. Non c’erano altri lettori, ma un bibliotecario si affrettò a seguirli e ad accendere il fuoco nel caminetto di marmo e a chiedere loro se desiderassero altro, poi si ritirò nuovamente. Chifoilisk, fermo davanti al caminetto, osservò il fuoco che si propagava lentamente alla legna. Al di sopra dei suoi occhi piccoli, le sopracciglia erano ispide; il suo viso ordinario, scuro, intelligente, pareva più anziano del solito. — Desidero dirle delle cose antipatiche, Shevek — esordì con la sua voce roca. E aggiunse: — Non che questa sia una novità, penso… — Un’umiltà che Shevek non aveva mai cercato in lui.

— Cosa sarebbe?

— Desidero sapere se lei sa cosa sta facendo, qui.

Dopo una pausa, Shevek rispose: — Credo di sì.

— Lei si rende conto, quindi, di essere stato comprato?

— Comprato?

— Diciamo assunto, se preferisce. Ascolti. Per quanto sia intelligente, un uomo non può vedere le cose che non sa come guardare. Come può lei capire la sua situazione, qui, in un’economia capitalista, in uno stato plutocratico, oligarchico? Come può riconoscerla, lei che viene da una piccola comune di idealisti morti di fame, lassù nel cielo?

— Chifoilisk, ci sono molti idealisti su Anarres, glielo assicuro. I Primi Coloni erano degli idealisti, certo, a lasciare questo mondo per il nostro deserto. Ma questo accadde sette generazioni fa! La nostra società è pratica. Forse troppo pratica, troppo preoccupata della semplice sopravvivenza. Che cosa c’è di idealistico nella cooperazione sociale, nella reciproca assistenza, quando si tratta dell’unico modo per rimanere vivi?

— Non posso discutere i valori dell’Odonianismo con lei. Anche se la cosa mi piacerebbe! Sa, conosco abbastanza il vostro movimento. Siamo molto più vicini ad esso, nel mio paese, che non questa gente dell’A-Io. Siamo entrambi dei prodotti del grande movimento rivoluzionario dell’ottavo secolo… siamo socialisti, come voi.

— Ma voi siete archisti. Lo Stato di Thu è ancor più centralizzato che lo Stato dell’A-Io. Una singola struttura di potere controlla ogni cosa: il governo, l’amministrazione, la polizia, l’esercito, l’istruzione, le leggi, i commerci, la produzione. E mantenete un’economia monetaria.

— Un’economia monetaria basata sul principio che ciascun lavoratore viene pagato come merita, per il valore del suo lavoro… non dai capitalisti che è costretto a servire, ma dallo stato di cui è un membro!

— È lui che fissa il valore del proprio lavoro?

— Perché non viene in Thu, a vedere come funziona il vero socialismo?

— Conosco già come funziona il vero socialismo — disse Shevek. — Potrei spiegarvelo, ma il vostro governo me lo lascerebbe spiegare, in Thu?

Chifoilisk spostò col piede un ceppo che non aveva preso fuoco. L’espressione del suo volto, mentre fissava le fiamme, era amara; i solchi tra il naso e gli angoli delle labbra erano assai profondi. Non rispose alla domanda di Shevek. Dopo un po’, disse: — Non intendo giocare a botta e risposta con lei. Non serve; e comunque non voglio. La cosa che devo chiederle è la seguente: sarebbe disposto a venire in Thu?

— Non ora, Chifoilisk.

— Ma che cosa può riuscire a fare… qui?

— Il mio lavoro. E poi, qui sono vicino alla sede del Consiglio dei Governi Mondiali.

— Il Consiglio? Da trent’anni il Consiglio è una creatura dell’A-Io. Non conti su di esso per salvarsi!

Pausa. — Dunque, sono in pericolo?

— Non s’è accorto neppure di questo?

Altra pausa.

— Riguardo a chi, precisamente, intende avvertirmi? — chiese Shevek.

— Riguardo a Pae, in primo luogo.

— Oh, sì, Pae. — Shevek appoggiò le mani sulla cappa scolpita, intarsiata in oro, del caminetto. — Pae è un ottimo fisico. È molto servizievole. Ma non mi fido di lui.

— Perché?

— Be’… evade.

— Sì. Un giudizio psicologico molto acuto. Ma Pae non è pericoloso per lei perché è una persona sfuggente, Shevek. Pae è pericoloso perché è un agente leale e ambizioso del Governo lotico. Fa rapporto su di lei, e su di me, con regolarità, al Ministero della Sicurezza Nazionale… la polizia segreta. Non intendo sottovalutare le sue capacità, Shevek, Dio sa, ma lei non si accorge che la sua abitudine di accostarsi a ciascun individuo come a una persona, un individuo a sé, non funziona, qui, non può funzionare? Lei deve comprendere i poteri che stanno alle spalle dei singoli individui.

Mentre Chifoilisk parlava, l’atteggiamento rilassato di Shevek si era irrigidito; adesso stava dritto come Chifoilisk, e fissava il fuoco. Disse: — Come fa a sapere di Pae?

— Esattamente come so che la sua stanza, Shevek, contiene un microfono nascosto, al pari della mia. Lo so perché è il mio mestiere saperlo.

— Anche lei è un agente del suo governo?

Il volto di Chifoilisk si abbassò; poi egli si voltò bruscamente verso Shevek, e disse piano, con odio: — Sì, naturalmente. Se non lo fossi, non sarei qui. Lo sanno tutti. Il mio governo invia all’estero soltanto persone delle quali si può fidare. E di me si fida! Perché io non mi sono lasciato comprare, come tutti questi maledetti ricchi professori iotici. Io credo nel mio governo, nel mio paese. Ho fede in loro. — Forzava le parole a uscire, come in una specie di tormento. — Lei deve guardarsi intorno, Shevek! Lei è come un bambino in mezzo ai ladri. Sì, sono gentili con lei, le danno una bella stanza, lezioni da tenere, studenti, denaro, visite ai castelli, visite alle fattorie modello, visite ai graziosi paesini. Soltanto il meglio di ogni cosa. Tutto bello, graziosissimo! Ma per quale motivo? Perché l’hanno portata qui dalla Luna, le fanno dei complimenti, le stampano i libri, la tengono così bene nella bambagia, al calduccio, in aule scolastiche e laboratori e biblioteche? Crede che lo facciano per disinteresse scientifico, per amore fraterno? Qui siamo in una economia di profitto, Shevek!

— Lo so. E sono venuto per contrattare con essa.

— Contrattare? Dare cosa?… E in cambio di che?

Il volto di Shevek aveva assunto la stessa espressione fredda, grave, che aveva nel lasciare il Forte di Drio. — Lei sa che cosa voglio, Chifoilisk. Voglio che il mio popolo esca dall’esilio. Sono venuto qui perché non credo che vogliate la stessa cosa, in Thu. Voi avete paura di noi, laggiù. Voi temete che noi possiamo riportare in vita la rivoluzione, la vecchia rivoluzione, quella vera, la rivoluzione per la giustizia che voi avete cominciato e poi fermato a mezza via. Qui nell’A-Io hanno meno paura di me, perché hanno dimenticato la rivoluzione. Qui non credono più ad essa. Qui pensano che quando il popolo può possedere abbastanza cose, è contento di vivere in prigione. Ma io non lo crederò mai. Io voglio che i muri cadano. Io voglio la solidarietà, la solidarietà umana. Voglio il libero scambio tra Urras e Anarres. Ho lavorato per esso come ho potuto su Anarres, ora lavoro per esso come posso su Urras. Laggiù ho agito. Qui, scambio.

— Che cosa?

— Oh, lei lo sa, Chifoilisk — disse Shevek con voce bassa, in tono diffidente. — Lei lo sa, cosa vogliono da me.

— Sì, lo so, ma non credevo che lo sapesse lei — disse il thuviano, parlando anch’egli a voce bassa; la sua voce roca divenne un mormorio ancora più roco, tutto respiro e fricative. — Ci è arrivato, allora… la Teoria Generale Temporale?

Shevek lo fissò, forse con una punta di ironia.

Chifoilisk insistette: — Esiste già in forma scritta?

Shevek continuò a fissarlo per un lungo istante, e poi rispose direttamente alla domanda: — No.

— Ottimamente!

— Perché?

— Perché se esistesse, l’avrebbero già presa.

— Cosa intende dire?

— Esattamente ciò che ho detto. Senta, non è stata proprio Odo a dire che dove c’è proprietà c’è furto?

— «Per fare un ladro, fai un padrone; per creare un crimine, crea delle leggi.» L’organismo sociale.

— Bene. Dove ci sono degli scritti in una camera chiusa a chiave, là ci sono delle persone con le chiavi della serratura!

Shevek fece una smorfia. — Sì — disse infine, — è una cosa molto spiacevole.

— Spiacevole per lei. Non per me. Io non ho i suoi scrupoli morali individualistici, lei lo sa. Sapevo già che non ha una copia scritta della Teoria. Se avessi creduto diversamente, avrei fatto qualsiasi sforzo per averla, con la persuasione, con il furto, o con la forza, se avessi pensato di poterla rapire senza entrare in guerra con l’A-Io. Qualsiasi cosa, pur di toglierla a questi grassi capitalisti iotici e di consegnarla al Presidio Centrale del mio paese. Poiché la più alta causa che io possa servire sono la potenza e il bene del mio paese.

— Lei mente — disse Shevek, tranquillo. — Io credo che lei sia un patriota, sì. Ma lei colloca al di sopra del patriottismo il suo rispetto per la verità, la verità scientifica, e forse anche la sua lealtà verso le singole persone. Lei non mi tradirebbe.

— Lo farei, se potessi — disse Chifoilisk, violentemente. Fece per dire qualcosa, s’interruppe, e infine disse, con rabbia e rassegnazione: — La pensi come crede. Io non posso spalancarle gli occhi per lei. Ma, ricordi, noi la desideriamo. Se una volta o l’altra arriverà a vedere cosa succede quaggiù, venga in Thu. Lei ha scelto le persone sbagliate per cercare di farne i suoi fratelli! E se… no, non spetta a me dirlo. Comunque, non conta… se non vuole venire da noi in Thu, almeno non dia la sua Teoria agli iotici. Non dia niente agli usurai! Se ne vada. Torni a casa. Dia al suo popolo ciò che ha da dare!

— Il mio popolo non lo vuole — disse Shevek, senza alcuna particolare inflessione. — Crede che non abbia già provato?


Quattro o cinque giorni più tardi, Shevek, che aveva chiesto di Chifoilisk, venne a sapere che era tornato in Thu.

— Per non più tornare? Non mi aveva detto di essere di partenza.

— Un thuviano non sa mai quando arriverà un ordine del suo Presidio — disse Pae, poiché, naturalmente, era stato Pae a riferirlo a Shevek. — L’unica cosa che sa, è che quando l’ordine arriva è meglio non perdere tempo. E non soffermarsi a prendere commiato per strada. Povero Chifoilisk! Mi chiedo cosa avrà fatto di sbagliato.


Shevek si recò una volta o due a visitare Atro nella sua bella casetta ai bordi dell’area universitaria; Atro vi abitava con un paio di servitori, vecchi quanto lui, che se ne prendevano cura. A quasi ottant’anni, era, come diceva lui stesso, un monumento a un fisico di prima categoria. Anche se non aveva visto finire nell’oblio il suo lavoro, come era successo a Garab, la semplice età gli aveva fatto raggiungere una condizione di disinteresse simile a quella della donna. Il suo interesse per Shevek, almeno, pareva essere completamente personale: una sorta di relazione cameratesca. Egli era stato il primo fisico Sequenziale convertito al modo di Shevek di accostarsi alla comprensione del tempo. Aveva combattuto, con le armi di Shevek, per le teorie di Shevek, contro l’intero corpus della rispettabilità scientifica, e la battaglia era durata per alcuni anni, fino alla pubblicazione di Princìpi della Simultaneità nella stesura integrale, seguita immediatamente dalla vittoria dei Simultaneisti. Quella battaglia era stata il punto culminante della vita di Atro. Egli non sarebbe stato disposto a combattere per qualcosa di meno che la verità, ma era stata la lotta ad essere amata da lui, più che la verità.

Atro poteva far risalire la propria genealogia per undici secoli, tra generali, principi, grandi latifondisti. La famiglia era tuttora proprietaria di un territorio di tremila ettari, con quattordici villaggi, nella provincia di Sie, la zona più rurale dell’A-Io. Egli aveva delle espressioni verbali provinciali, degli arcaismi che conservava con orgoglio. La ricchezza non gli faceva alcuna impressione, ed egli si riferiva al governo del paese dicendo che erano «demagoghi e politici senza spina dorsale». Il suo rispetto non era in vendita. Eppure egli lo dava, liberamente, a qualsiasi sciocco provvisto di quello che egli definiva «il giusto cognome». Per alcuni versi risultava assolutamente incomprensibile a Shevek… un enigma: l’aristocratico. Eppure il suo genuino disprezzo per il denaro e il potere faceva sì che Shevek lo trovasse più vicino a lui di ogni altra persona incontrata su Urras.

Una volta, mentre sedevano insieme nel porticato chiuso da vetrate in cui coltivava ogni tipo di fiori rari e fuori stagione, gli avvenne di usare la frase «noi Cetiani». Shevek la notò e gli chiese: — «Noi Cetiani»… non è una parola dei merli? — «Merli» era una parola del gergo giornalistico per indicare la stampa popolare, i quotidiani, le trasmissioni radio, la narrativa, fabbricati ad uso delle masse lavoratrici urbane.

— «Merli!» — ripeté Atro. — Mio caro amico, dove diavolo vai a pescare questi volgarismi? Con «Cetiani» intendo appunto ciò che gli scrittori dei quotidiani e i loro lettori, gente che muove ancora le labbra quando legge, intendono con questo termine. Urras e Anarres!

— Mi sorprendeva che tu usassi una parola straniera… una parola in-Cetiana, anzi.

— Definizione per esclusione — il vecchio si difese ridendo. — Cento anni fa non avevamo bisogno di questa parola. «Umanità» bastava. Ma le cose sono cambiate, una sessantina di anni fa. Avevo diciassette anni, era una bella giornata di sole all’inizio dell’estate, ricordo ancora perfettamente. Esercitavo il cavallo, e la mia sorella maggiore si sporse dalla finestra per gridare: «Stanno parlando con qualcuno venuto dallo Spazio Interstellare, per radio!». La mia povera cara mamma pensò che fossimo giunti alla fine: diavoli stranieri, capirai. Ma si trattava semplicemente degli Hainiti, che facevano grandi parole sulla pace e la fratellanza. Be’, oggi «umanità» è una parola che copre un campo un po’ troppo vasto. Che cosa definisce la fratellanza se non la non-fratellanza? Definizione per esclusione, mio caro! Noi due siamo parenti. I tuoi antenati probabilmente menavano a brucare le capre nelle montagne mentre i miei opprimevano servi a Sie, alcuni secoli fa; ma siamo membri della stessa famiglia. Per accorgersene, basta solo incontrare… o ascoltare… uno straniero. Un essere di un altro sistema solare. Un uomo, cosiddetto, che non ha nulla in comune con noi ad eccezione della disposizione pratica di due gambe, due braccia e una testa con una specie di cervello dentro!

— Ma gli Hainiti non hanno dimostrato che siamo…

— Tutti di origine straniera, figli dei coloni interstellari Hainiti, mezzo milione di anni fa, o un milione, o due o tre milioni, sì, lo so. «Dimostrato»! Per il Numero Primario, Shevek, mi sembri una matricola al primo esame! Come puoi parlare seriamente di testimonianze storiche, lungo un intervallo di tempo così vasto? Quegli Hainiti lanciano in aria i millenni come se fossero palle di gomma, ma la loro è soltanto l’arte del giocoliere. «Dimostrazione»! Nientemeno. La religione dei miei padri mi informa con uguale autorevolezza che io sono discendente di Pinra Od, che Dio esiliò dal Giardino poiché aveva avuto l’ardire di contarsi le dita delle mani e dei piedi, sommandole fino a venti, e così scatenando il Tempo sull’universo. E io preferisco questa storia a quella degli Hainiti, se devo scegliere!

Shevek rise; l’allegria di Atro gli dava piacere. Ma il vecchio era serio. Picchiò sul braccio di Shevek, e, aggrottando le sopracciglia e torcendo le labbra come sempre faceva quando parlava con convinzione, disse: — Spero che tu provi gli stessi sentimenti, mio caro. Lo spero sinceramente. Ci sono molte cose ammirevoli, ne sono certo, nella tua società, ma essa non vi insegna ad operare delle distinzioni… cosa che, dopotutto, è la migliore che ci insegni la civiltà. Non voglio che quei maledetti stranieri giungano a fare breccia in te servendosi dei tuoi concetti sulla fratellanza e l’assistenza mutua e così via. Ti rovesceranno addosso interi fiumi di «umanità comune» e «lega di tutti i mondi» e così via, e mi spiacerebbe che li trangugiassi interi. La legge dell’esistenza è la lotta, la competizione, l’eliminazione del debole… una guerra spietata per la sopravvivenza. E io desidero che siano i migliori a sopravvivere. Il tipo di umanità che conosco. I Cetiani. Noi due: Urras e Anarres. Noi siamo davanti a loro, ora come ora; a tutti quegli Hainiti e Terrestri e come altro si chiamano, e dobbiamo continuare a stare in testa. Sono stati loro a portarci il viaggio interstellare, ma le navi interstellari che noi costruiamo oggi sono migliori delle loro. Quando arriverai a pubblicare la tua teoria, spero sinceramente che tu pensi al tuo dovere nei riguardi del tuo popolo, della tua razza. A quel che significa la lealtà, e a chi è dovuta. — Le facili lacrime della vecchiaia erano sorte negli occhi quasi ciechi di Atro. Shevek posò la mano sul braccio dell’uomo più anziano, per rassicurarlo, ma non disse nulla.

— Anch’essi avranno la Teoria, naturalmente. A suo tempo. E meritano di averla. La verità scientifica si diffonderà, non puoi nascondere il sole sotto un sasso. Ma prima che la abbiano, voglio che la paghino! Voglio che noi abbiamo il posto che ci spetta. Voglio il rispetto: ed è questo, ciò che tu ci puoi ottenere. Il trasporto istantaneo… se noi divenissimo padroni del trasporto istantaneo, il loro motore interstellare non varrebbe più un fagiolo. E non è il denaro che voglio, lo sai. Voglio che la superiorità della scienza Cetiana sia riconosciuta, la superiorità della mente Cetiana. Se ci dev’essere una civiltà interstellare, allora, per Dio, non voglio che il mio popolo sia un suo membro di bassa casta! Noi dobbiamo entrarci come dei grandi signori, con un grande dono nelle mani… così deve essere. Bene, bene, a volte mi scaldo un po’ su queste cose. E, detto per inciso, come va il tuo libro?

— Ho lavorato sull’ipotesi gravitazionale di Skask. Ho l’impressione che si sbagli nell’usare soltanto equazioni differenziali parziali.

— Ma anche il tuo ultimo articolo era sulla gravità. Quando ti deciderai a dedicarti alla cosa importante?

— Sai che per noi Odoniani i mezzi sono il fine — disse Shevek, in tono leggero. — Inoltre, non posso presentare una teoria del tempo che trascuri la gravità, non ti pare?

— Vuoi dire che ce la dai a pezzi e bocconi? — chiese Atro, con sospetto. — Non mi era venuto in mente. Farò meglio a riguardare quel tuo ultimo articolo. Alcune sue parti non mi erano molto chiare. Mi si stancano così tanto gli occhi, di questi tempi. Credo che quel maledetto affare ingranditore proiettore che devo usare per leggere si sia guastato. Non mi pare che proietti chiaramente le parole.

Shevek fissò il vecchio fisico con rimorso e affezione, ma non gli disse altro sullo stato della sua teoria.


Inviti a ricevimenti, dediche, inaugurazioni e così via venivano recapitati a Shevek quasi ogni giorno. Egli si recò ad alcuni, poiché era venuto su Urras con una missione, e doveva cercare di svolgerla: doveva promuovere l’idea di fraternità, doveva rappresentare, con la sua stessa persona, la solidarietà dei due Pianeti. Egli parlava, e la gente lo ascoltava e diceva: — Ha proprio ragione.

Si chiese perché il governo non gli impedisse di parlare. Chifoilisk doveva avere esagerato, in vista dei propri interessi, la portata del controllo e della censura che potevano esercitare. Egli parlava parole di pura anarchia, ed essi non lo fermavano. Ma avevano davvero bisogno di fermarlo? Gli pareva ogni volta di parlare alle stesse persone: ben vestite, ben nutrite, beneducate, sorridenti. Era quello l’unico tipo di persone esistente su Urras? — È il dolore, che porta gli uomini ad unirsi — diceva Shevek, ritto davanti a loro, ed essi annuivano e dicevano: — Ha proprio ragione.

Cominciò a odiarli, e, quando se ne accorse, smise da un giorno all’altro di accettare i loro inviti.

Ma questo era accettare il fallimento e accrescere il suo isolamento. Egli non stava facendo ciò che era venuto a fare. Non erano stati gli altri a isolarlo, si disse; era stato — come sempre — egli stesso a isolarsi da loro. Egli era solo, soffocantemente solo, tra tutte le persone che vedeva ogni giorno. Il guaio era che non era in contatto. Egli sentiva di non avere toccato nulla, nessuno, su Urras in tutti quei mesi.

Nel Refettorio degli Anziani di Facoltà, a tavola, una sera disse: — Sapete, non so come vivete, qui. Vedo le case private, sì, ma dall’esterno. Dall’interno conosco solo la vostra vita non privata… sale di riunione, refettori, laboratori…

Il giorno successivo, Oiie, un po’ rigidamente, chiese a Shevek se voleva venire a cena e fermarsi per la notte, il prossimo fine settimana, a casa sua.

La casa era situata ad Amoeno, un paese a poche miglia da Ieu Eun, ed era, per il metro urrasiano, una modesta casa della classe media, forse più antica del normale. Era stata costruita circa trecento anni prima, in pietra, con stanze dai pannelli di legno. Il doppio arco caratteristico iotico compariva nelle finestre e nelle porte. Una relativa mancanza di mobili piacque subito a Shevek: le stanze avevano un aspetto austero, spazioso, con le loro grandi distese di pavimenti lucidi e profondi. Si era sempre sentito a disagio fra le decorazioni eccessive e l’arredo degli edifici pubblici in cui si tenevano i ricevimenti, le inaugurazioni e così via. Gli urrasiani avevano molto gusto, ma spesso questo gusto pareva in conflitto con un impulso verso l’ostentazione, verso la spesa elevata. L’origine naturale, estetica del desiderio di possedere cose veniva nascosta, pervertita dalle pressioni economiche e competitive, che a loro volta emergevano sotto forma di qualità delle cose: così tutto ciò che raggiungevano era una specie di meccanica prodigalità. Qui invece c’era della grazia, raggiunta mediante la limitazione.

Un servitore prese loro il cappotto all’ingresso. Giunse la moglie di Oiie, a salutare Shevek, dalla cucina seminterrata, dove stava dando ordini al cuoco.

Parlando prima di pranzo, Shevek scoprì di rivolgere la parola quasi esclusivamente alla donna, con un’amichevolezza, un desiderio di esserle simpatico, che sorprese lui per primo. Ma era così bello parlare di nuovo con una donna! Niente di strano che la propria esistenza gli fosse parsa isolata, artificiale, tra uomini, sempre tra uomini, priva della tensione e dell’attrazione della differenza sessuale. E Sewa Oiie era attraente. Osservando le linee delicate della nuca e delle tempie, egli dimenticò le proprie obiezioni alla moda urrasiana di radere la testa femminile. Sewa era reticente, piuttosto timida; egli cercò di farla sentire a proprio agio con lui, e rimase assai compiaciuto quando gli parve di esserci riuscito.

Si avviarono per il pranzo e vennero raggiunti a tavola da due bambini. Sewa Oiie disse, a mo’ di scusa: — Sa, non si riescono più a trovare bambinaie decenti, da questa parte del paese. — Shevek annuì, senza sapere che cosa fosse esattamente una bambinaia. Osservava i bambini con lo stesso sollievo, lo stesso diletto di sempre. Non aveva più visto bambini da quando aveva lasciato Anarres.

Erano bambini molto puliti, posati, che parlavano quando si rivolgeva loro la parola, vestiti in giacchetta azzurra di velluto e calzoni corti. Adocchiarono Shevek con timore, come se si fosse trattato del Mostro Venuto dallo Spazio. Il bambino di nove anni si comportava in modo severo con quello di sette; gli mormorò di non fissare l’ospite, lo pizzicò selvaggiamente quando gli disobbedì. Il più piccolo gli restituì il pizzicotto e cercò di dargli un calcio da sotto la tavola. Il Principio della Superiorità non pareva ancora instaurato bene nella sua mente.

Oiie, a casa, era un uomo completamente diverso. Lo sguardo reticente scompariva dalla sua faccia; non strascicava le parole. La famiglia lo trattava con rispetto, ma nel rispetto c’era reciprocità. Shevek aveva ascoltato in abbondanza le opinioni di Oiie sulle donne, e si sorprese nel vedere che trattava la moglie con cortesia, perfino con delicatezza. «Questa è cavalleria» pensò Shevek, che aveva imparato recentemente la parola, ma presto si disse che era qualcosa di migliore. Oiie era affezionatissimo alla moglie, e ne aveva la massima fiducia. Si comportava con lei e con i bambini nel modo in cui avrebbe potuto comportarsi un anarresiano. In effetti, a casa, egli d’un tratto si rivelava come un tipo semplice e fraterno di uomo, un uomo libero.

Parve a Shevek un ambito di libertà molto piccolo, una famiglia molto piccola, ma si sentiva così bene, così libero anch’egli, che non provava desiderio di criticare.

In una pausa della conversazione, il bambino più piccolo disse con la sua voce chiara, piccola: — Il signor Shevek non sa bene le buone maniere.

— Come mai? — chiese Shevek, prima che la moglie di Oiie facesse in tempo a sgridare il bambino. — Che cosa ho fatto?

— Non ha detto grazie.

— E di che cosa?

— Quando le ho passato il piatto dei sottaceti.

— Ini! Stai bravo!

Sedik! Non egoizzare! Il tono era esattamente lo stesso.

— Pensavo che tu li stessi dividendo con me. Erano invece un dono? Noi diciamo grazie soltanto per i doni, al mio paese. Ci dividiamo le altre cose senza neppure parlarne, sai. Vuoi che ti ridia i sottaceti?

— No, non mi piacciono — disse il bambino, alzando gli occhi scuri, molto luminosi, sul volto di Shevek.

— Questo rende particolarmente agevole condividerli — disse Shevek. Il bambino maggiore fremeva dal desiderio represso di pizzicare Ini, ma Ini si mise a ridere, mostrando i piccoli denti bianchi. Dopo qualche tempo, nel corso di una pausa, disse con voce bassa, piegandosi verso Shevek: — Le piacerebbe vedere la mia lontra?

— Certo.

— È nel giardino. Mamma l’ha messa fuori perché pensava che potesse darle fastidio. Alcuni grandi non amano gli animali.

— A me piace vederli. Non abbiamo animali, nel mio paese.

— No? — disse il bambino maggiore, fissandolo ad occhi spalancati. — Babbo! Il signor Shevek dice che non hanno animali!

Anche Ini lo fissò ad occhi spalancati. — Ma che cosa avete?

— Gente. Pesci. Vermi. E alberi di holum.

— Che cosa sono gli alberi di holum?

La conversazione andò avanti per mezz’ora. Era la prima volta che a Shevek era stato chiesto, su Urras, di descrivere Anarres. I bambini rivolgevano le domande, ma i genitori ascoltavano con interesse. Shevek si tenne scrupolosamente lontano dal modello etico; non era venuto per fare opera di proselitismo sui figli del proprio ospite. Semplicemente, spiegò loro com’era la Polvere, che aspetto aveva Abbenay, che tipo di abiti si portava, che cosa faceva la gente quando voleva un nuovo abito, che cosa facevano i bambini a scuola. Quest’ultima parte divenne propaganda, nonostante le sue intenzioni. Ini e Aevi erano affascinati dalla sua descrizione di una scuola che comprendeva giardinaggio, falegnameria, recupero, tipografia, riparazione di impianti idraulici, riparazione della strada, drammaturgia, e tutte le altre occupazioni della comunità degli adulti, e dalla sua ammissione che nessuno veniva mai punito per alcunché.

— Anche se a volte — egli disse, — ti fanno andare avanti per conto tuo per un certo periodo di tempo.

— Ma che cos’è — disse d’improvviso Oiie, come se la domanda, trattenuta per molto tempo, gli venisse fuori sotto pressione, — che cos’è che tiene in ordine la gente? Perché non si derubano e non si ammazzano tutti?

— Nessuno possiede alcunché che si possa rubare. Se uno vuole una cosa, la prende dal deposito. E per quanto riguarda la violenza, be’, non saprei, Oiie; lei pensa che proverebbe desiderio di uccidermi, ordinariamente? E se lo provasse, pensa che basterebbe una legge a fermarla? La coercizione non è il mezzo più efficace per ottenere l’ordine.

— D’accordo, ma come convincete la gente a fare i lavori sporchi?

— Che lavori sporchi? — chiese la moglie di Oiie, che aveva perso il filo.

— Raccogliere la spazzatura, seppellire i morti — disse Oiie; Shevek aggiunse: — Scavare il mercurio — e per poco non disse: «Lavorare la merda» ma ricordò il tabù iotico sulle parole scatologiche. Aveva meditato, fin dai primi tempi della sua permanenza su Urras, sul fatto che gli urrasiani vivevano tra montagne di escremento, ma non nominavano mai la merda.

— Be’, li facciamo tutti. Ma nessuno è costretto a farli per molto tempo, a meno che non ami quei lavori. Un giorno ogni decade, il comitato manutenzione della comunità o il comitato di isolato o chi altri ha bisogno può chiedere a una persona di unirsi a quei lavori; fanno delle liste a rotazione. Gli incarichi di lavoro spiacevoli, o quelli pericolosi come le miniere di mercurio e le macine, di solito durano soltanto mezzo anno.

— Ma allora l’intero personale sarà costituito di persone che stanno ancora imparando il lavoro.

— Sì. Non è molto efficiente, ma che altro si può fare? Non si può dire a un uomo di lavorare in un incarico che finirà per storpiarlo o per ucciderlo in pochi anni. Perché dovrebbe accettare?

— E può rifiutare l’ordine?

— Non è un ordine, Oiie. Egli va al Div-Lab… l’ufficio per la divisione del lavoro… e dice: «Voglio fare questo e quest’altro, che cosa potete darmi?» E laggiù gli dicono dove ci sono posti vuoti.

— Ma allora, come mai la gente accetta di fare i lavori sporchi? Perché accetta il ciclo del giorno su dieci?

— Perché quei lavori sono fatti insieme… e per altre ragioni. Deve sapere, la vita su Anarres non è ricca come qui. Nelle piccole comunità non ci sono molti intrattenimenti, e c’è un mucchio di lavoro da fare. Così, se uno lavora, per esempio, a un telaio meccanico, ogni dieci giorni è piacevole uscire all’aperto e posare un tubo o arare un campo, con un gruppo differente di persone… E poi c’è la sfida. Qui voi pensate che l’incentivo per il lavoro sia finanziario, il bisogno di denaro o il desiderio di profitto, ma dove non c’è denaro i veri motivi sono più chiari, forse. La gente ama fare le cose. Ama farle bene. La gente si assume i lavori duri, pericolosi, perché trae motivo d’orgoglio dal farli, perché può… «egoizzare», noi lo chiamiamo… mettersi in mostra?… con i più deboli. «Ehi, guardate qua, pivelli, come sono forte!» Capite? Una persona ama fare le cose che sa fare bene… In realtà, si tratta della questione dei mezzi e dei fini. Dopotutto, il lavoro viene fatto per amore del lavoro. È il piacere durevole della vita. La coscienza individuale lo sa. E anche la coscienza sociale, l’opinione dei vicini. Non c’è altra ricompensa, su Anarres, altra legge. Il proprio piacere, e il rispetto dei propri vicini. Nient’altro. Ed essendo così, vedete come l’opinione dei vicini divenga una forza davvero potente.

— Nessuno vi si oppone mai?

— Forse non abbastanza spesso — disse Shevek.

— Ciascuno lavora così duramente, dunque? — chiese la moglie di Oiie. — Che cosa succede a un uomo che, semplicemente, non vuole cooperare?

— Be’, si trasferisce. Gli altri si stancano di lui, sapete. Si fanno beffe di lui, o lo trattano male, lo battono; in una piccola comunità, possono mettersi d’accordo nel togliere il suo nome dalla lista dei pasti, in modo che debba cucinare e mangiare da solo; questo è umiliante. Così si trasferisce, e resta per un po’ di tempo in un altro luogo, e poi magari si trasferisce di nuovo. Alcuni continuano a farlo per tutta la vita. Nuchnibi, vengono chiamati. Io sono una specie di nuchnib. Sono qui perché sono fuggito dal mio incarico di lavoro. Mi sono spostato più degli altri. — Shevek parlava con tranquillità; se ci fu amarezza nella voce, i bambini non riuscirono a discernerla, né gli adulti a spiegarsela. Ma un breve silenzio fece seguito alle sue parole.

— Non so chi faccia i lavori sporchi qui — disse. — Non vedo mai nessuno che li faccia. È strano. Chi li fa? Perché li fa? Sono pagati di più?

— I lavori pericolosi, a volte. Per i lavori semplicemente manuali, no. Sono pagati meno.

— E perché li fanno, allora?

— Perché una paga bassa è migliore di niente paga — disse Oiie, e l’amarezza della sua voce fu pienamente avvertibile. La moglie cominciò a dire qualcosa, nervosamente, per cambiare argomento, ma Oiie continuò: — Mio nonno faceva il cameriere. Ha lavato pavimenti e cambiato lenzuola sporche in un albergo per cinquant’anni. Dieci ore al giorno, sei giorni la settimana. Lo faceva perché lui e la famiglia potessero mangiare. — Oiie s’interruppe bruscamente, e rivolse a Shevek il suo vecchio sguardo di riserbo, di diffidenza, e poi, quasi con aria di sfida, fissò la moglie. Ella non sostenne il suo sguardo. Sorrise e disse con voce nervosa, infantile: — Il padre di Demaere ebbe molto successo nella vita. Quando morì, possedeva quattro compagnie. — Aveva il sorriso di una persona in pena, e le sue mani sottili e abbronzate si stringevano fortemente una sull’altra.

— Non credo che abbiate uomini di successo, su Anarres — disse Oiie, con pesante sarcasmo. Poi giunse il cuoco per cambiare i piatti, e Oiie cessò immediatamente di parlare. Il bambino Ini, come se sapesse che i discorsi seri non sarebbero ripresi nel corso della permanenza del servitore nella stanza, disse: — Mamma, il signor Shevek può vedere la mia lontra alla fine del pranzo?

Quando tornarono in salotto, Ini ebbe il permesso di portare il suo animaletto: una lontra di terra non ancora completamente cresciuta, un animale molto comune su Urras. Erano state addomesticate, spiegò Oiie, fin dall’epoca preistorica, prima per servirsene per il riporto dei pesci, poi come animale da salotto. La creatura aveva gambe corte, schiena flessuosa e arcuata, pelame marrone scuro e lucente. Era il primo animale non in gabbia visto da Shevek a breve distanza, e aveva meno paura di quanta ne avesse Shevek. I denti bianchi e aguzzi erano impressionanti. Allungò la mano con cautela per strofinare la schiena dell’animale, come gli suggeriva Ini. La lontra si rizzò sulle zampe posteriori e lo fissò. I suoi occhi erano neri, spruzzati d’oro, intelligenti, curiosi, innocenti. — Ammar — bisbigliò Shevek, colpito da quello sguardo al di là del golfo dell’essere… — Fratello.

La lontra emise un suono, ritornò sulle quattro zampe ed esaminò con interesse le scarpe di Shevek.

— La trova simpatico — disse Ini.

— Anch’io — rispose Shevek, un po’ tristemente. Ogni volta che vedeva un animale, il volo degli uccelli, lo splendore degli alberi autunnali, la tristezza scendeva in lui e dava al piacere un orlo tagliente. Egli non pensava consciamente a Takver in quei momenti, non pensava alla sua assenza. Piuttosto, era come se Takver fosse presente anche se egli non pensava a lei. Era come se alla bellezza e alla bizzarria delle bestie e delle piante di Urras fosse stato affidato un messaggio per lui da parte di Takver, che non le avrebbe mai viste, i cui antenati per sette generazioni non avevano toccato la pelliccia tiepida di un animale o visto un frullo d’ali all’ombra degli alberi.

Passò la notte in una camera da letto sotto il cornicione. Era fredda, cosa, che gli piacque dopo l’eterno surriscaldamento delle stanze dell’Università, e molto alla buona: il letto, gli armadi dei libri, una cassapanca, una sedia e un tavolo di legno verniciato. Era come a casa, pensò, dimenticando l’altezza del letto e la morbidezza del materasso, le fini coperte di lana e le lenzuola di seta, le statuine di avorio sulla cassapanca, le rilegature in cuoio dei libri, e il fatto che la stanza, e ogni cosa in essa contenuta, e la casa di cui faceva parte, e il terreno su cui la casa sorgeva, erano proprietà privata, proprietà di Demaere Oiie, anche se egli non l’aveva costruita e non ne lavava i pavimenti. Shevek lasciò perdere queste fastidiose discriminazioni. Era una bella stanza, e non era poi tanto diversa da una stanza singola di un domicilio.

Dormendo in quella stanza, egli sognò di Takver. Sognò che era con lui nel letto, che le sue braccia erano intorno a lui, i loro corpi si stringevano… ma in che stanza, in che stanza erano? Dove erano? Erano sulla Luna insieme, faceva freddo, e camminavano accanto. Era un posto piatto, la Luna, tutto coperto di neve bianco-azzurrina, sebbene la neve fosse sottile e si potesse facilmente scostarla col piede per mostrare il luminoso terreno bianco. La Luna era morta, era un luogo morto. — Non è veramente così — egli diceva a Takver, accorgendosi che era intimorita. Stavano camminando verso qualcosa, una linea lontana, di una materia che pareva mobile e luccicante come plastica, una remota, quasi invisibile barriera che attraversava il bianco pianoro innevato. Nel suo cuore, Shevek aveva paura di avvicinarsi, ma disse ugualmente a Takver: — Presto lo raggiungeremo. — Lei non gli rispose.

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