CAPITOLO 7

Shevek trovò una lettera nella tasca del nuovo soprabito bordato di pelliccia che aveva ordinato per l’inverno al negozio della via degli incubi. Non aveva idea di come la lettera ci fosse arrivata. Certamente non era nella posta che gli veniva recapitata tre volte al giorno, e che consisteva interamente di manoscritti ed estratti dei fisici di tutta Urras, di inviti a ricevimenti, di rozzi messaggi scritti da bambini delle scuole. Questa era invece un sottile foglio di carta incollato su se stesso, senza busta; non portava francobollo né la stampigliatura di una delle tre compagnie di recapito concorrenti.

La aprì, con una vaga apprensione, e lesse: «Se sei un Anarchico perché lavori con il sistema del potere tradendo il tuo Mondo e la Speranza Odoniana o sei qui per portarci questa Speranza? Sofferenti per l’ingiustizia e la repressione noi guardiamo al Mondo Gemello la luce di libertà nella notte buia. Unisciti a noi tuoi fratelli!» Non c’era firma, non c’era indirizzo.

La lettera agitò Shevek tanto moralmente quanto intellettualmente, dandogli una scossa che non era di sorpresa, bensì di una sorta di panico. Sapeva che c’erano, ma dove? Non ne aveva incontrato, non ne aveva visto nessuno, non aveva mai incontrato un povero. Aveva permesso che costruissero un muro intorno a lui, e non se n’era neppure accorto. Aveva accettato il riparo, proprio come un proprietarista. Si era lasciato comprare… come aveva detto Chifoilisk.

Ma non sapeva come abbattere il muro. E se lo avesse abbattuto, dove andare, poi? Il panico si serrò su di lui ancora più soffocantemente. A chi potersi rivolgere? Era circondato da ogni parte dai sorrisi dei ricchi.

— Vorrei parlarti, Efor.

— Certo, signore. Mi scusi, signore, faccio posto posare questa roba.

Il servitore si destreggiò abilmente con il pesante vassoio, tolse i copripiatti, versò il cioccolato amaro nella tazza, lo fece alzare schiumeggiando fino all’orlo, senza farlo traboccare e senza spandere gocce. Era chiaro ch’egli amava il rito della colazione del mattino e la propria abilità nell’officiarlo, ed era altrettanto chiaro che desiderava non subisse inopinate interruzioni. Parlava quasi sempre in modo molto chiaro, in iotico, ma ora, non appena Shevek gli aveva manifestato il desiderio di parlargli, Efor era scivolato nel locale dialetto cittadino. Shevek aveva un poco imparato a seguirlo; le trasformazioni della pronuncia risultavano coerenti a una loro logica, una volta imparata la regola, ma le elisioni lo lasciavano brancolante nel buio. Metà della frase veniva omessa. Era come un linguaggio cifrato, si disse: come se i «Nioti», come essi stessi si definivano, non volessero farsi capire dagli estranei.

Il servitore rimase fermo a lato della tavola, attendendo che Shevek si servisse. Egli sapeva — fin dalla prima settimana aveva imparato simpatie e antipatie di Shevek — che Shevek non voleva che gli porgesse la sedia, né essere servito mentre mangiava. La posa eretta e attenta sarebbe stata più che sufficiente a scoraggiare qualsiasi intenzione di instaurare un dialogo privo di formalità.

— Vuoi sederti, Efor?

— Se lei vuole, signore — rispose l’uomo. Mosse la sedia di mezzo centimetro, ma non si sedette.

— È appunto questa la cosa di cui vorrei parlarti. Sai che non amo darti ordini.

— Cerco fare cose come vuole signore senza fastidio di ordinare.

— Certo… non mi riferivo a questo. Sai, al mio paese nessuno dà ordini.

— Così credo di avere sentito dire, signore.

— Ecco, desidero conoscerti come mio uguale, mio fratello. Tu sei l’unico che io conosca, qui, che non sia ricco… non sia uno dei padroni. Desidero parlare con te, desidero sapere della tua vita…

S’interruppe, disperato, vedendo il disprezzo sul volto rugoso di Efor. Aveva fatto tutti gli errori possibili. Efor l’aveva preso per uno sciocco, un paternalista, un curioso.

Lasciò cadere le mani sul tavolo in segno di disperazione e disse: — Oh, al diavolo, scusami, Efor! Non riesco a dire quello che volevo dire. Ti prego di dimenticarlo.

— Come dice lei, signore. — Efor si ritirò.

Così finiva la cosa. Le «classi non possidenti» rimanevano lontane da lui come quando ne aveva letto nei corsi di storia, all’Istituto Regionale Settentrionale.

Intanto, aveva promesso agli Oiie di passare una settimana con loro, tra gli esami invernali e primaverili.

Oiie l’aveva invitato a cena varie volte, dal giorno della sua prima visita, e sempre in modo rigido, come per obbedire a un dovere d’ospitalità, o forse a un ordine del governo. Nella sua casa, comunque, anche se non abbassava mai la guardia nei riguardi di Shevek, Oiie era sinceramente amichevole. Con la sua seconda visita, i due bambini avevano deciso che Shevek era un vecchio amico, e la loro sicurezza della reazione di Shevek aveva ovviamente messo nell’imbarazzo il padre. Lo rendeva perplesso; egli non poteva realmente approvarla; ma non poteva dire che fosse ingiustificata. Shevek si comportava con loro come un vecchio amico, come un fratello maggiore. Essi lo ammiravano, e il più giovane, Ini, giunse ad amarlo con vera passione. Shevek era gentile, serio, onesto, e raccontava delle bellissime storie sulla Luna; ma c’era anche dell’altro. Egli rappresentava qualcosa, per il bambino, che Ini non sapeva descrivere. Anche molto più tardi nella sua vita, che venne profondamente e oscuramente influenzata da quel fascino infantile, Ini non trovò parole per esso, ma soltanto parole che conservavano un’eco di quel fascino: la parola viaggiatore, la parola esule.

L’unica forte nevicata dell’inverno cadde quella settimana. Shevek non aveva mai visto una nevicata più alta di un paio di centimetri. La bizzarria, la semplice quantità della tempesta lo esilarò. Lo dilettò il suo eccesso. Era troppo bianca, troppo fredda, silenziosa e indifferente per poter essere definita escrementale anche dal più sincero Odoniano; volerla vedere in modo diverso da una innocente magnificenza sarebbe stata soltanto piccolezza d’animo. Non appena il cielo si schiarì, egli uscì nella neve con i ragazzi, che la amavano esattamente quanto lui. Corsero per l’ampio giardino della casa di Oiie, si gettarono palle di neve, costruirono gallerie, castelli e fortezze di neve.

Sewa Oiie era ferma dietro la finestra, insieme con la cognata Vea, e osservava i bambini, l’uomo e la piccola lontra intenti a giocare. La lontra aveva trovato uno scivolo su una parete del castello di neve e continuava a scivolare giù sulla pancia e a risalire eccitata. Le guance dei ragazzi erano roventi. L’uomo, con i capelli lunghi e disordinati, color sabbia, legati sulla nuca con un cordino e le orecchie rosse per il freddo, eseguiva con energia operazioni di scavo. — Non qui! — Scava qui! — Dov’è la paletta? — Ho del ghiaccio in tasca! — le voci acute dei bambini echeggiavano in continuazione.

— Ecco il nostro forestiero — disse Sewa, sorridendo.

— Il più grande fisico vivente — disse la cognata. — Che buffo.

Quando egli entrò, soffiando e pestando i piedi per togliersi la neve dalle scarpe e respirando con quel fresco, gelido vigore e quel senso di salute che soltanto le persone appena uscite dalla neve posseggono, venne presentato alla cognata. Tese la mano grande e dura, fredda, e abbassò su Vea uno sguardo gentile. — Lei è la sorella di Demaere? — disse. — Sì, gli assomiglia. — E questo commento, che se fosse provenuto da chiunque altro sarebbe parso scipito a Vea, le piacque immensamente. «È un uomo» ella continuò a pensare quel pomeriggio, «un vero uomo. Che cosa avrà mai?»

Vea Doem Oiie era il suo nome, all’uso iotico; suo marito Doem era a capo di un grosso cartello industriale e viaggiava molto, passando all’estero una buona metà dell’anno come rappresentante d’affari del governo. Così venne spiegato a Shevek, mentre egli la osservava. In lei la sottigliezza di Demaere Oiie, il colorito pallido e gli occhi neri e ovali si erano trasformati in bellezza. Il petto, le spalle e le braccia erano tondi, soffici, e molto bianchi. Shevek sedette accanto a lei a tavola per il pranzo. Continuò a fissarle il petto nudo, tenuto sollevato dal corpetto rigido. L’idea di andarsene così seminuda in quella gelida temperatura era bizzarra, ma bizzarra come la neve, e anche i piccoli seni avevano un candore innocente, come la neve. La curva della sua nuca sfumava senza scosse nella curva della testa orgogliosa, rasata, delicata.

È molto attraente, Shevek informò se stesso. È come i letti di qui: soffice. Innaturale, però. Perché parla con tanta affettazione?

Egli si afferrò alla sua voce sottile e ai suoi modi affettati come a una pagliuzza in mezzo all’oceano, e non se ne accorse: non si accorse di affogare. Vea tornava a Nio Esseia col treno della sera: era venuta soltanto a passare il pomeriggio, ed egli non l’avrebbe vista più.

Oiie aveva il raffreddore, Sewa aveva da fare con i bambini. — Shevek, pensa che potrebbe accompagnare Vea alla stazione?

— Santo Dio, Demaere! Non costringere quel poveretto a venirmi a proteggere! Credi che ci siano i lupi per la strada? O pensi che i Mingrad selvaggi faranno un’incursione nell’abitato e mi rapiranno per i loro harem? Mi troveranno sulla soglia dell’ufficio del capostazione, domattina, con una lacrima congelata all’angolo dell’occhio e le minuscole, rigide manine strette a un mazzolino di fiori appassiti? Oh, questo non mi dispiacerebbe! — Sul chiacchiericcio scoppiettante e tintinnante, la risata di Vea s’infranse come un’onda: un’onda cupa, levigata, poderosa, che spazzava via ogni cosa e lasciava vuota la sabbia. Non rideva entro di sé, ma di sé, la risata nera, che spazza via le parole.

Shevek si infilò il cappotto in corridoio e l’attese alla porta. Camminarono in silenzio per un isolato. La neve scricchiolava e si schiacciava sotto i loro piedi.

— Davvero, lei è fin troppo cortese per…

— Per cosa?

— Per un anarchico — disse lei, nella sua voce sottile e strascicata con affettazione (era la stessa intonazione che veniva usata da Pae; e da Oiie quando era all’Università). — È un disappunto. Pensavo che fosse rozzo e pericoloso.

— Lo sono.

Lei lo guardò dalla coda dell’occhio. Aveva in testa uno scialle di colore rosso, legato sulla nuca; i suoi occhi risaltavano neri e luminosi su quel colore vivace e sul biancore della neve che li circondava.

— Ma ora mi accompagna in modo molto pacifico alla stazione, dottor Shevek.

— Shevek — disse lui, in tono blando. — Senza «dottore».

— È questo l’intero suo nome… nome e cognome?

Egli annuì, sorridendo. Si sentiva bene, vigoroso, gli piaceva l’aria luminosa, il calore del cappotto ben fatto che indossava, la bellezza della donna al suo fianco. Né preoccupazioni né pensieri pesanti potevano fare presa su di lui, oggi.

— È vero che ricevete il nome da un calcolatore?

— Sì.

— Che squallore, ricevere il nome da una macchina!

— Perché «squallore»?

— È una cosa così meccanica, così impersonale.

— Ma che cosa ci può essere, di più personale che un nome che non è portato da nessun’altra persona vivente?

— Nessun’altra persona? Lei è l’unico Shevek?

— Finché vivo. Ce ne sono stati altri, prima di me.

— Parenti, intende dire?

— Non diamo molta importanza alle parentele; siamo tutti parenti, capisce? Non so chi siano, salvo una, nei primi anni dell’Insediamento. Una donna, che ha progettato un tipo di cuscinetto che viene usato nei macchinari pesanti: lo chiamano ancora oggi un «shevek». — Sorrise di nuovo, più ampiamente. — Ecco una buona immortalità!

Vea scosse il capo. — Santo Dio! — esclamò. — Come fate a distinguere gli uomini dalle donne?

— Be’, abbiamo scoperto alcuni metodi…

Dopo un momento, giunse la sua risata morbida e pesante. Vea si passò il dorso della mano sugli occhi, che tendevano a lacrimare nell’aria fredda. — Sì, davvero, lei è rozzo! … Hanno preso tutti dei nomi prefabbricati, allora, e hanno imparato una lingua prefabbricata… tutto nuovo?

— I Coloni di Anarres? Sì. Erano persone romantiche, credo.

— E lei no?

— No. Oggi siamo tutti molto pragmatici.

— Si può essere entrambe le cose — disse lei.

Shevek non si era aspettato alcuna sottigliezza di mente da lei. — Sì, è vero — disse.

— Che ci può essere, di più romantico della sua venuta qui da noi, tutto solo, senza una moneta in tasca, a perorare per il suo popolo?

— E a venire guastato dal lusso mentre sono qui.

— Lusso? In una camera dell’Università? Santo Dio! Poverino! Non l’hanno portata in nessun posto decente?

— Vari posti, ma tutti uguali. Mi piacerebbe conoscere meglio Nio Esseia. Ho visto soltanto l’esterno della città… la carta del pacchetto. — Usò quella frase perché era rimasto affascinato fin dall’inizio dall’abitudine urrasiana di avvolgere ogni cosa in carta pulita, allegra, o plastica, o cartone o stagnola. Roba di bucato, libri, verdura, vestiti, medicine, ogni cosa arrivava dentro strati e strati di avvolgimenti. Perfino i pacchi di carta venivano avvolti in vari strati di carta. Nessuna cosa doveva entrare in contatto con un’altra. Egli aveva cominciato a pensare che anch’egli era stato impacchettato con cura.

— Lo so. L’hanno fatta andare al Museo Storico, e poi la visita del Monumento Dobunnae, e ascoltare un’orazione al Senato! — Egli rise, poiché quello era stato esattamente l’itinerario, un giorno della precedente estate. — Lo so! Sono così sciocchi con i forestieri. Ci penserò io a farle vedere la vera Nio!

— Mi piacerebbe.

— Conosco ogni tipo di gente meravigliosa. Io faccio collezione di persone. Qui lei è intrappolato tra tutti questi professori e politicanti ammuffiti… — E continuò a raccontargliela su questo tono. Egli traeva piacere dalle chiacchiere scombussolate di Vea, esattamente come dal sole e dalla neve.

Giunsero alla piccola stazione di Amoeno. Ella aveva già il biglietto; mancava poco all’arrivo del treno.

— Non resti qui ad aspettare, gelerà.

Egli non rispose, e si limitò a rimanere lì fermo, massiccio nel cappotto bordato di pelliccia, e a fissarla amabilmente.

Ella abbassò gli occhi su un polsino del cappotto e scostò un fiocco di neve dal ricamo.

— Lei ha moglie, Shevek?

— No.

— Non ha famiglia?

— Oh… sì. La compagna, le nostre figlie. Mi scusi, pensavo a qualcosa di diverso. Una «moglie», vede, mi fa pensare a qualcosa che esiste solo su Urras.

— Che cos’è una «compagna»? — Lo fissò maliziosamente negli occhi.

— Penso che voi direste una moglie.

— Perché non è venuta con lei?

— Non desiderava venire; e la figlia più piccola ha solo un anno… no, due, adesso. Inoltre… — Esitò.

— Perché non desiderava venire?

— Be’, là ha del lavoro da fare, qui no. Se avessi saputo quanto le sarebbero piaciute tante cose che avete qui, le avrei chiesto di venire. Ma non gliel’ho chiesto. C’è la questione della sicurezza, sa.

— La sicurezza qui?

Egli esitò ancora, e infine disse: — Anche quando tornerò a casa.

— Che cosa le succederà? — chiese Vea, ad occhi spalancati. Il treno stava risalendo la collina, appena fuori città.

— Oh, forse nulla. Ma alcuni mi considerano un traditore. Perché cerco di fare amicizia con Urras, vede. Potrebbero fare qualcosa quando tornerò a casa. Non voglio che succeda a lei e ai bambini. Ne abbiamo provato un po’, prima che partissi. Abbastanza.

— Sarà in pericolo di vita, vuol dire?

Si chinò verso di lei per sentire, poiché il treno stava entrando in stazione con un clangore di ruote e respingenti. — Non so — disse, sorridendo. — Sa che i nostri treni sono molto simili a questi? Un buon progetto non ha bisogno di cambiamenti. — Andò con lei a un vagone di prima classe. Poiché ella non apriva lo sportello, lo aprì lui. Infilò la testa nello scompartimento, quando Vea fu entrata, guardandosi intorno. — All’interno non sono affatto uguali, però! Questo è tutto privato… per lei sola?

— Oh, certo. Detesto la seconda classe. Uomini che masticano gomma di maera e sputano in terra. La gente mastica maera, su Anarres? No, certamente no. Oh, ci sono così tante cose che vorrei sapere di lei e del suo paese!

— Mi piace parlarne, ma nessuno me le chiede.

— Ma allora incontriamoci davvero e parliamone! La prossima volta che sarà a Nio, mi telefonerà? Promessa.

— Lo prometto — rispose lui, sorridendo.

— Ottimo! So che lei non rompe le promesse. Non so ancora niente di lei, eccetto questo. Questo posso vederlo. Arrivederci, Shevek. — Posò la mano guantata sulla sua per un istante, mentre egli teneva ancora aperto lo sportello. La locomotiva diede il segnale a due note della partenza; egli chiuse lo sportello e rimase a guardare il treno che si allontanava, e il viso di Vea simile a un guizzo di bianco e di rosso al finestrino.

Ritornò dagli Oiie con lo spirito molto allegro, e fece a palle di neve con Ini fino a quando non scese il buio.

RIVOLUZIONE IN BENBILI! DITTATORE FUGGE!
CAPI RIBELLI TENGONO LA CAPITALE!
SEDUTA DI EMERGENZA AL CGM. PROBABILITÀ
A-IO POSSA INTERVENIRE.

Il giornale popolare raggiungeva, a causa dell’eccitazione, i caratteri tipografici più grossi. L’ortografia e la grammatica si erano perse per strada; si leggeva come le frasi di Efor: «Con ieri notte ribelli tengono tutto l’occidente di Meskti e costringono in ritirata l’esercito…». Era il tempo dei verbi Nioti: passato e futuro pigiati in un unico presente, fortemente carico e instabile.

Shevek lesse i giornali e cercò nell’Enciclopedia del Consiglio dei Governi Mondiali una descrizione del Benbili. La nazione era formalmente una democrazia parlamentare, di fatto una dittatura militare, in mano a generali. Era un vasto paese dell’emisfero occidentale, montagne e savane aride, spopolato, povero. «Sarei dovuto andare nel Benbili» Shevek pensò, poiché l’idea del paese lo attirava; immaginava pianure pallide, il vento che soffiava. La notizia l’aveva scosso in modo strano. Egli ascoltava i bollettini alla radio, che in passato non aveva quasi mai acceso dopo avere scoperto che la sua funzione fondamentale era quella di fare pubblicità a cose in vendita. I rapporti della radio, e quelli del telex ufficiale nelle stanze di riunione, erano brevi e asciutti: bizzarro contrasto con i giornali popolari, che gridavano Rivoluzione! in ogni pagina.

Il generale Havevert, il Presidente, era riparato indenne nel suo famoso aereo blindato, ma alcuni generali di rango inferiore erano stati presi ed evirati, punizione che i Benbili preferivano tradizionalmente all’esecuzione. L’armata in ritirata bruciava i campi e le città del proprio popolo mentre passava. Guerriglieri partigiani tendevano agguati ai militari. I rivoluzionari di Meskti, la capitale, aprirono le prigioni, dando amnistia a tutti i carcerati. Leggendo questo, Shevek sentì il cuore balzargli in petto. C’era speranza, c’era ancora speranza… Seguì le notizie della lontana rivoluzione con crescente interesse. Il quarto giorno, osservando la trasmissione di un dibattito al Consiglio dei Governi Mondiali, vide l’ambasciatore iotico al CGM annunciare che l’A-Io, muovendosi a sostegno del governo democratico del Benbili, inviava rinforzi armati al Presidente Generale Havevert.

I rivoluzionari Benbili, in gran parte, non erano neppure armati. Le truppe iotiche sarebbero arrivate con cannoni, carri armati, aerei, bombe. Shevek lesse sui giornali la descrizione del loro equipaggiamento e si sentì male allo stomaco.

Si sentiva male ed era incollerito e non aveva nessuno a cui parlare. Pae era fuori discussione. Atro era un ardente militarista. Oiie era un uomo probo, ma le sue insicurezze private, le sue ansie di possidente, lo portavano ad afferrarsi a concetti rigidi di legge e di ordine. Poteva accettare la sua simpatia personale per Shevek soltanto rifiutando di ammettere che Shevek fosse un anarchico. La società Odoniana si definiva anarchica, egli diceva, ma in effetti erano semplicemente dei populisti primitivi il cui ordinamento sociale funzionava senza un visibile governo perché erano pochi e perché non avevano altri stati confinanti. Una volta che la loro proprietà fosse minacciata da un rivale aggressivo, essi si sarebbero dovuti svegliare, e riconoscere la realtà, o sarebbero stati spazzati via. I ribelli del Benbili si stavano accorgendo proprio ora della realtà: stavano scoprendo che la libertà non vale niente se non si hanno dei cannoni per appoggiarla. Egli spiegò queste cose a Shevek nell’unica discussione che ebbero sull’argomento. Non aveva importanza chi governasse, o pensasse di governare, il Benbili: la politica della realtà riguardava la lotta di potere tra l’A-Io e il Thu.

— La politica della realtà — ripeté Shevek. Guardò Oiie e disse: — Ecco una curiosa frase, sulle labbra di un fisico.

— Niente affatto. Tanto il fisico quanto il politico trattano le cose che sono, con delle forze reali: con le leggi fondamentali del mondo.

— Lei mette le sue basse miserabili «leggi» per proteggere la ricchezza, le sue «forze» di cannoni e di bombe, nella stessa frase con la legge dell’entropia e la forza di gravità? Avevo un’idea assai più alta della sua mente, Demaere!

Oiie si ritirò da quella folgore di disprezzo. Non disse altro, e Shevek non disse altro, ma Oiie non dimenticò mai l’accaduto. Rimase fissato nella sua mente, da quel giorno in poi, come il momento più vergognoso della sua vita. Perché se Shevek l’illuso e semplicistico utopista l’aveva messo a tacere così facilmente, la cosa era vergognosa; ma se Shevek il fisico e l’uomo che egli non poteva fare a meno di amare, ammirare, a tal punto ch’egli ambiva di guadagnarsene il rispetto, come se fosse, chissà come, un grado di rispetto più appetibile di quello che si poteva comunemente trovare da altre parti, se questo secondo Shevek lo disprezzava, allora la vergogna era intollerabile, ed egli doveva nasconderla, chiuderla a chiave per il resto della propria vita nella stanza più buia della propria anima.

L’argomento della rivoluzione nel Benbili aveva reso più acuti certi problemi per Shevek: soprattutto il problema del proprio silenzio.

Era difficile per lui non fidarsi delle persone con cui viveva. Egli era cresciuto in una cultura che si basava deliberatamente e continuamente sulla solidarietà umana, sull’assistenza reciproca. Per alienato che egli fosse sotto alcuni aspetti da quella cultura, e straniero come egli era per quella di Urras, tuttavia l’abitudine di tutta una vita non si era cancellata: egli partiva dal presupposto che la gente avrebbe aiutato. Si fidava degli altri.

Ma gli avvertimenti di Chifoilisk, che egli aveva cercato di minimizzare, continuavano a ritornare a lui. Le sue stesse percezioni e il suo istinto li rafforzavano. Che gli piacesse o no, doveva imparare la sfiducia. Egli doveva rimanere in silenzio, doveva tenere per se stesso la sua proprietà; doveva conservare il proprio potere contrattuale.

Parlava poco, in quei giorni, e scriveva ancor meno. La sua scrivania era un ammasso di carte insignificanti; ma i suoi pochi appunti di lavoro erano sempre con lui, in una delle sue numerose tasche urrasiane. Non si alzava mai dal calcolatore da tavolo senza cancellarne tutte le memorie.

Egli sapeva di essere molto vicino a raggiungere quella Teoria Generale Temporale che gli iotici desideravano così ardentemente per le loro navi spaziali e il loro prestigio. E sapeva anche di non averla ancora raggiunta, forse di non poterla raggiungere mai. Non aveva mai ammesso chiaramente né la prima cosa né la seconda davanti a un’altra persona.

Prima di lasciare Anarres, egli aveva creduto di avere la teoria in pugno. Aveva le equazioni. Sabul sapeva ch’egli le aveva, e gli aveva offerto la riconciliazione, il riconoscimento, in cambio della possibilità di stamparle e di prendersi parte della gloria. Egli le aveva rifiutate a Sabul, ma non era stato un grande gesto morale. Il gesto morale, dopotutto, sarebbe stato quello di darle alla propria tipografia, al Gruppo dell’Iniziativa, ed egli non aveva fatto neppure quello. Non era completamente sicuro di essere pronto per la pubblicazione. C’era qualcosa che non era perfettamente giusto, qualcosa che richiedeva una piccola rifinitura. E dato ch’egli aveva lavorato per dieci anni sulla teoria, non ci sarebbe stato niente di male nel dedicarle ancora qualche tempo, per renderla perfettamente levigata.

Il piccolo «qualcosa» che non era perfettamente giusto continuò a parergli sempre più sbagliato. Un piccolo errore di ragionamento. Un grosso errore. Una crepa che raggiungeva le fondamenta… La notte prima di lasciare Anarres aveva bruciato ogni sua carta sulla Teoria Generale. Era giunto a Urras con niente. Da mezzo anno, egli, per usare i loro termini, li imbrogliava.

O imbrogliava se stesso?

Era possibile che una teoria generale della temporalità fosse una meta illusoria. Oppure che, pur essendo possibile unificare sotto una teoria generale la Sequenza e la Simultaneità, egli non fosse l’uomo destinato a unificarle. Aveva cercato di farlo per dieci anni, e non c’era riuscito. I matematici e i fisici, atleti dell’intelletto, compiono da giovani i loro grandi lavori. Era più che possibile… era probabile… che egli fosse ormai bruciato, finito.

Era perfettamente consapevole di essersi trovato nello stesso umore abbattuto e di avere avuto gli stessi presagi di insuccesso in tutti i periodi che avevano preceduto i suoi momenti di massima creatività. Scoprì che cercava di incoraggiare se stesso con questa considerazione, e si infuriò per la propria ingenuità. Interpretare l’ordine temporale come ordine di causa era la cosa più stupida che un filosofo temporale potesse fare. Stava già perdendo la propria intelligenza a causa dell’età? Era meglio limitarsi a mettersi al lavoro sul piccolo, ma pratico, compito di rifinire il concetto di intervallo. Sarebbe potuto risultare utile a qualcun altro.

Ma anche in questo, anche nel parlarne con altri fisici, egli si accorgeva di trattenere qualcosa. E anch’essi se ne accorgevano.

Era stufo di trattenere, stufo di non parlare, di non parlare della rivoluzione, di non parlare di fisica, di non parlare di nulla.

Stava attraversando il parco, diretto all’aula di lezione. Gli uccelli cantavano sugli alberi nuovamente ricoperti di foglie. Non li aveva uditi cantare per tutto l’inverno, ma ora essi cantavano, riversavano le dolci note. Rii-tii, cantavano, tii-daa. Questo è mia proprietà-taa, questo è territorio mio-oo, appartiene a me-ee.

Shevek rimase immobile per alcuni istanti sotto gli alberi, ad ascoltare.

Poi lasciò il sentiero, percorse il parco in un’altra direzione, verso la stazione, e prese un treno del mattino per Nio Esseia. Ci doveva essere una porta aperta da qualche parte di quel maledetto pianeta!

Egli pensò, mentre sedeva sul treno, di cercare di uscire dall’A-Io; di recarsi nel Benbili, magari. Ma non esaminò seriamente il pensiero. Avrebbe dovuto viaggiare su una nave o un aeroplano, e l’avrebbero seguito e fermato. L’unico posto in cui poteva sottrarsi alla vista dei suoi ospiti benevoli e protettivi era nella loro stessa grande città, sotto il loro naso.

Non era una fuga. Anche se fosse riuscito a uscire dal paese, egli sarebbe stato ugualmente prigioniero, chiuso entro Urras. Non la potevate chiamare fuga, indipendentemente dal nome che gli archisti, con la loro mistica dei confini nazionali, potevano darle. Ma d’improvviso si sentì allegro, come non si era più sentito da giorni, al pensiero che i benevoli e protettivi ospiti potevano temere, per qualche tempo, che egli fosse scappato.

Era il primo giorno veramente mite di primavera. I campi erano verdi, e luccicavano di acque. Sui terreni da pascolo ogni animale da allevamento era accompagnato dal proprio piccolo. Le piccole pecore erano particolarmente affascinanti, rimbalzavano come bianche matasse di elastico, la coda girava e girava. Tutto solo in un recinto, il padre del gregge, ariete, toro o stallone, dal collo possente, se ne stava fermo sulle quattro zampe, potente come una nube di tempesta, carico di generazioni. I gabbiani passavano su polle traboccanti, bianco su azzurro, e nuvole candide illuminavano il cielo turchino. I rami degli alberi da frutta avevano la punta rossa, e alcuni boccioli erano aperti, rosa e bianchi. Osservando dal finestrino del treno, Shevek trovò che il suo umore inquieto e ribelle era pronto a sfidare perfino la bellezza del giorno. Era una bellezza ingiusta. Che cosa avevano fatto, gli urrasiani, per meritarsela? Perché era stata data a loro con tanta prodigalità, con tanta grazia, e ne era stata data così poca, pochissima, al suo popolo?

Sto ragionando come un urrasiano, disse a se stesso. Come un maledetto proprietarista. Come se il merito significasse qualcosa. Come se si potesse guadagnare la bellezza, o la vita! Cercò di non pensare a nulla, di lasciarsi trasportare avanti e di osservare la luce del sole nel cielo gentile e le piccole pecore che rimbalzavano nei campi primaverili.

Nio Esseia, città di cinque milioni di anime, innalzava le sue torri delicate e lucenti al di là delle verdi paludi dell’Estuario, e pareva costruita di nebbia e di luce solare. Quando il treno deviò senza scosse su un lungo viadotto, la città si innalzò più alta, più luminosa, più solida, finché d’improvviso racchiuse completamente il convoglio nella ruggente oscurità di un raccordo sotterraneo, venti binari paralleli, e poi liberò treno e passeggeri negli spazi enormi e brillanti della Stazione Centrale, sotto la cupola di color avorio e turchino che godeva fama di essere la più vasta cupola innalzata su qualsiasi mondo dalla mano dell’uomo.

Shevek vagabondò per quelle migliaia di metri quadrati di marmo levigato, sotto l’immensa volta eterea, e giunse infine al lungo schieramento di porte da cui folle di persone entravano e uscivano continuamente: ogni persona con la propria finalità, ognuna separata dall’altra. Tutte parevano, a lui, ansiose. Egli aveva già visto, spesso, quell’ansia sul volto degli urrasiani, e se ne era chiesto la ragione. Era forse dovuta al fatto che, per quanto denaro avessero, dovevano sempre preoccuparsi di averne di più, per non morire in povertà? O era dovuta alla colpa, poiché, per poco che fosse il denaro da essi posseduto, c’era sempre qualcuno che ne aveva di meno? Qualunque fosse la causa, essa dava a tutti i volti una sorta di identità, ed egli si sentiva molto solo in mezzo a loro. Nello sfuggire alle sue guide e ai suoi guardiani, non aveva considerato cosa si provava trovandosi abbandonati a se stessi in una società in cui gli uomini non si fidavano l’uno dell’altro, in cui il postulato morale fondamentale non era la reciproca assistenza, ma la reciproca aggressione. Si sentiva un po’ spaventato.

Si era vagamente immaginato di andare in giro per la città e di scambiare qualche parola con la gente, con dei membri della classe non possidente, se essa ancora esisteva, o delle classi lavoratrici, come essi si definivano. Ma tutta quella gente gli passava davanti di corsa, per affari, e non desiderava chiacchiere oziose, non desiderava sprecare il proprio tempo prezioso. La loro fretta infettò anche Shevek. Doveva andare da qualche parte, pensò, mentre si affacciava sulla luce solare e sull’affollata magnificenza di Via Moie. Dove? La Biblioteca Nazionale? Lo Zoo? Ma egli non voleva panorami.

Incapace di decidere, si fermò davanti a un negozio, accanto alla stazione, che vendeva giornali e gingilli. I titoli di prima pagina dicevano THU INVIA TRUPPE A SOSTEGNO BENBILI RIBELLI, ma egli non ebbe alcuna reazione. Egli guardava le fotografie a colori nell’espositore, e non i giornali. Gli era venuto in mente di non avere alcun ricordo di Urras. Quando si viaggiava, era bene portare con sé, al ritorno, un ricordo. Gli piacevano quelle fotografie, scene dell’A-Io: le montagne che aveva scalato, i grattacieli di Nio, la cappella dell’Università (era quasi il panorama che vedeva dalla finestra!), una contadina nell’elegante abito della sua provincia, le torri di Rodarre, e quella che aveva colpito immediatamente la sua vista, un piccolo di pecora in un prato fiorito, che zampettava e, a quanto pareva, rideva. La piccola Pilun avrebbe apprezzato quella pecora. Prese una cartolina di ciascun tipo e le portò al banco. — Cinque fa cinquanta e con l’agnellino sessanta; e una piantina, ecco qui, signore, una e quaranta. Bella giornata, la primavera finalmente è arrivata, vero, signore? Non ha niente di più piccolo, signore? — Shevek aveva mostrato una banconota da venti unità monetarie. Pescò in tasca gli spiccioli che aveva ricevuto quando aveva acquistato il biglietto, e, con un piccolo studio delle denominazioni dei biglietti e delle monete, mise insieme una unità e quaranta. — Esatto, signore. Grazie, e le auguro una piacevole giornata!

Il denaro aveva comprato anche la cortesia, oltre che le cartoline e la piantina? Che cortesia avrebbe mostrato il negoziante se egli fosse entrato come entravano gli anarresiani in un distributorio di merci: per prendere ciò che volevano, fare un cenno del capo al contabile e poi uscire?

Inutile, inutile fare questi ragionamenti. Quando sei nel Paese dei Proprietaristi, pensa da proprietarista. Vestiti come lui, mangia come lui, agisci come lui, sii come lui.

Non c’erano parchi nel centro della città di Nio: il terreno era troppo prezioso per sprecarlo in frivolezze. Egli continuò a immergersi sempre più nelle stesse strade larghe e sfavillanti che gli avevano fatto percorrere varie volte. Giunse alla Saemtenevia e la attraversò in fretta, per evitare una ripetizione dell’incubo ad occhi aperti. Giunse così nel distretto commerciale. Banche, uffici, edifici governativi. Era tutta così, Nio Esseia? Grandi scatole lustre di pietra e di vetro, immensi, decorati, enormi pacchetti vuoti, vuoti.

Passando davanti a una vetrina con la scritta «Galleria d’Arte», egli entrò, pensando di poter sfuggire alla claustrofobia morale delle strade e di trovare nuovamente in un museo la bellezza di Urras. Ma tutti i quadri del museo avevano dei cartellini col prezzo incollati alla cornice. Rimase a fissare un nudo dipinto con abilità. Il cartellino diceva 4000 UMI. — Si tratta di un Fei Feite — disse un uomo scuro, comparso al suo fianco senza fare rumore. — La settimana scorsa ne avevamo cinque. La cosa più grossa del mercato artistico, tra poco tempo. Un Feite è un investimento sicuro, signore.

— Quattromila unità è il denaro che occorre per mantenere in vita due famiglie per un anno in questa città — disse Shevek.

L’uomo lo esaminò e disse, strascicando le parole: — Sì, certo, signore, ma quella, lei vede, è un’opera d’arte.

— Arte? Un uomo fa dell’arte perché deve farla. Per quale motivo è stato fatto quel quadro?

— Lei è un artista, vedo — disse l’uomo, ora con chiara insolenza.

— No, sono un uomo che riconosce la merda quando la vede! — Il mercante indietreggiò, allibito. Quando fu uscito dalla portata di Shevek, cominciò a mormorare qualcosa sulla polizia. Shevek sogghignò e uscì dal negozio. Giunto a metà isolato, si fermò. Non poteva andare avanti così.

Ma dove poteva andare?

Da qualcuno… da qualcuno, un’altra persona. Un essere umano. Qualcuno disposto a dargli aiuto, non a venderlo. Chi? Dove?

Pensò ai figli di Oiie, i bambini che lo amavano, e per qualche tempo non riuscì a pensare ad altri. Poi gli si formò nella mente un’immagine, lontana, piccola e chiara: la sorella di Oiie. Come si chiamava? «Prometta di telefonarmi» gli aveva detto, e da allora gli aveva inviato due volte lettere d’invito a ricevimenti, scritte con grafia chiara e infantile, su carta spessa, profumata in modo dolciastro. Egli le aveva ignorate, come gli inviti di estranei. Ora le ricordò.

Insieme ricordò anche l’altro messaggio, quello che era comparso inesplicabilmente nella tasca del suo cappotto: Unisciti a noi tuoi fratelli. Ma non poteva trovare alcun fratello, su Urras. Entrò nel negozio più vicino. Era un negozio di dolci, tutto ghirigori dorati e stucchi rosa, con file di casse di vetro piene di scatole, piatti, cestini di paste e cioccolate rosse, brune, color crema e oro. Chiese alla donna dietro le casse se lo poteva aiutare a trovare un numero di telefono. Ora si sentiva sottomesso, dopo l’accesso di collera dal venditore di quadri, e così umilmente ignorante e straniero che la donna ne fu conquistata. Non solo lo aiutò a cercare il nome nella ponderosa guida dei numeri telefonici, ma compose per lui il numero al telefono del negozio.

— Pronto?

Egli disse: — Shevek. — Poi tacque. Per lui il telefono era il veicolo di urgenti necessità: comunicazioni di morti, nascite, e terremoti. Non aveva idea di che cosa dire.

— Chi? Shevek? Davvero? Come è stato caro a telefonare! Non mi dà nessun fastidio svegliarmi, se si tratta di lei.

— Dormiva ancora?

— Dormivo come un sasso, e sono ancora a letto. Si sta bene e al calduccio. Da dove mi telefona?

— Sono in via Kae Sekae, mi pare.

— E che ci fa? Venga qui. Che ore sono? Santo Dio, è quasi mezzogiorno. So dov’è, troviamoci a metà strada. Al laghetto delle barche, nei giardini del Vecchio Palazzo. Riesce a trovarlo? Senta, lei si deve assolutamente fermare, ho un ricevimento veramente paradisiaco questa sera. — Continuò a parlargli per un po’; egli disse sì a tutte le sue parole. Quando ebbe terminato la conversazione e passò davanti al banco, la donna del negozio gli sorrise. — Meglio portarle una scatola di dolci, non le pare, signore?

Egli si arrestò. — Devo farlo?

— Non guasta mai, signore.

Nella voce della donna c’era qualcosa di sfacciato e di allegro. L’aria del negozio era dolce e tiepida, come se tutti i profumi di primavera vi si fossero affollati. Shevek, fermo in mezzo alle casse di piccole graziose lussuosità, alto, pesante, con la testa fra le nuvole, ricordava quei pesanti animali nei recinti, gli arieti e i tori stupefatti dal trepido tepore primaverile.

— Le do io una cosa adatta — disse la donna, e riempì una piccola scatola metallica, squisitamente smaltata, di minuscole foglie di cioccolata e rose di zucchero. Avvolse la scatola in carta morbida, infilò il pacchetto in un’altra scatola, di cartone argentato, avvolse la scatola di cartone in un foglio di carta spesso, di colore rosa, e legò il tutto con un nastro di velluto verde. In tutti i suoi abili movimenti si poteva avvertire una sorridente e simpatica complicità, e quando diede a Shevek il pacchetto completato, ed egli lo prese mormorando un ringraziamento e si voltò per andare, non ci fu nulla di pungente nella sua voce che gli ricordava: — Fa dieci e sessanta, signore. — Avrebbe forse potuto lasciarlo andare, compatendolo, come le donne usano compatire la forza; ma egli, obbedientemente, tornò indietro e le contò il denaro.

Trovò il modo di arrivare con la metropolitana ai giardini del Vecchio Palazzo, e si recò al laghetto delle barche, dove bambini vestiti in modo affascinante facevano navigare battelli giocattolo, meravigliose piccole imbarcazioni con corde di seta e finiture in bronzo simili a gioielli. Scorse Vea dall’altra parte dell’ampio, chiaro cerchio dell’acqua e fece il giro del laghetto per raggiungerla, cosciente del sole, del vento di primavera, e degli scuri alberi del parco che mettevano le prime foglie di colore verde pallido.

Fecero colazione a un ristorante del parco, su un terrapieno coperto da un’alta cupola di vetro. Alla luce del sole, entro la cupola, gli alberi erano in piena foglia: salici, ai bordi di un laghetto dove grassi uccelli bianchi nuotavano e osservavano con indolente avidità coloro che mangiavano, in attesa di briciole. Vea non si incaricò di ordinare, indicando chiaramente che era ospite di Shevek, ma abili camerieri lo consigliarono in modo così accorto che egli ebbe l’impressione di fare ogni cosa da solo; e fortunatamente aveva molto denaro in tasca. Il cibo era straordinario. Egli non aveva mai assaggiato simili sottigliezze di gusto. Abituato a consumare due pasti al giorno, di solito saltava la colazione di mezzogiorno caratteristica degli urrasiani, ma oggi la consumò da cima a fondo, mentre invece Vea si limitò delicatamente a pizzichi e assaggi. Infine dovette fermarsi, ed ella rise nello scorgere la sua espressione colpevole.

— Ho mangiato troppo.

— Due passi possono servire.

Furono proprio «due passi»: una lenta passeggiata di dieci minuti sull’erba, e poi Vea si lasciò scivolare graziosamente all’ombra di un’alta siepe, schiarita da fiori gialli. Egli si sedette accanto a lei. Una frase usata da Takver gli venne in mente, mentre guardava i piedi sottili di Vea, decorati di piccole scarpine bianche dal tacco vertiginosamente alto. «Una speculatrice del corpo», così Takver chiamava le donne che usavano la loro sessualità come arma in una lotta di potere con gli uomini. A osservarla, Vea era la speculatrice del corpo capace di mettere fuori combattimento tutte le altre. Scarpe, abiti, cosmetici, gioielli, gesti, ogni cosa di lei gridava provocazione. Era così elaboratamente, ostentatamente un corpo femminile, che non pareva quasi più un essere umano. Incarnava tutta quella sessualità repressa degli iotici che si affacciava nei loro sogni, romanzi e poesia, nei loro infiniti quadri di nudi femminili, nella loro musica, nella loro architettura a cupole e curve flessuose, nei loro dolci, nei loro bagni e nei loro materassi. Vea era la donna dentro il tavolino.

La sua testa, completamente rasata, era spolverata di una cipria contenente minuscole scagliette di mica, e un debole luccichio offuscava la nudità dei contorni. Indossava una sciarpa o uno scialle trasparente, sotto il quale la forma e il tessuto delle sue braccia nude si mostravano ammorbiditi e protetti. Il seno era coperto; le donne iotiche non uscivano di casa a seno nudo: riservavano la sua nudità a chi la possedeva. I polsi erano carichi di braccialetti d’oro, e nel cavo della gola un singolo gioiello azzurro risaltava contro la pelle soffice.

— Come fa, a stare su?

— Che cosa? — Poiché non poteva vedere direttamente il gioiello, ella poteva pretendere di non sapere d’averlo, costringendo Shevek a indicarlo, e forse a portare la mano al di sopra del suo seno per toccare la gemma. Shevek sorrise e la toccò. — È incollata?

— Oh, quella. No, ho un piccolissimo magnetino lì, e la pietra ha un piccolissimo pezzettino di metallo nella parte posteriore, oppure è il contrario? Comunque, rimaniamo appiccicati insieme.

— Lei ha un magnete sotto la pelle? — domandò Shevek, schiettamente disgustato.

Vea sorrise e sollevò lo zaffiro, in modo ch’egli potesse vedere come ci fosse soltanto una minuscola cicatrice argentea. — Lei mi disapprova in modo così assolutamente totale… è un sollievo. Sento che qualsiasi cosa io faccia o dica, non posso cadere più in basso, nella sua opinione, poiché ho già raggiunto il fondo!

— Non è affatto vero — egli protestò. Sapeva che la donna celiava, ma conosceva poche regole di quel gioco.

— No, no; so riconoscere l’orrore morale quando lo vedo. Così. — Aggrottò la fronte in segno di disgusto; entrambi risero. — Sono davvero così diversa dalle donne di Anarres?

— Oh, certo, davvero.

— Sono tutte terribilmente forti, coi muscoli? Mettono gli stivali, hanno grossi piedi piatti, abiti senza forma, e si depilano una volta al mese?

— Non si depilano affatto.

— Non si depilano mai? Da nessuna parte? Oh, Dio! Parliamo d’altro.

— Parliamo di lei. — Appoggiò la schiena al terreno coperto d’erba, abbastanza vicino a Vea da essere avvolto dai profumi naturali e artificiali del suo corpo. — Vorrei sapere, le donne urrasiane sono contente di essere sempre inferiori?

— Inferiori a chi?

— Agli uomini.

— Oh… quello! Che cosa le fa credere che io lo sia?

— Mi pare che ogni cosa fatta dalla vostra società sia fatta da uomini. L’industria, le arti, l’amministrazione, il governò, le decisioni. E per tutta la vita portate il nome del padre e quello del marito. Gli uomini vanno a scuola, e voi non ci andate; sono maschi tutti gli insegnanti, i giudici, la polizia, e il governo, no? Perché lasciate che comandino tutto? Perché non fate ciò che vi pare?

— Ma noi lo facciamo! Le donne fanno esattamente quello che vogliono. E non devono sporcarsi le mani, o infilarsi elmetti di bronzo, o mettersi a gridare da un banco del Direttorato, per ottenerlo.

— Ma che cos’è, quello che fate?

— Come, comandare gli uomini, naturalmente! E lei deve sapere, non c’è nessun pericolo a dirlo, poiché non saranno mai disposti a crederlo. Dicono: «Ah ah, sei proprio divertente, piccola!» e ti danno un buffetto sulla nuca e poi se ne escono a passo dell’oca, pienamente soddisfatti, con tutte le medaglie che tintinnano.

— E voi siete soddisfatte?

— Naturalmente, sì.

— Non ci credo.

— Perché non si accorda con i suoi princìpi. Gli uomini hanno sempre qualche teoria, e le cose devono sempre accordarsi ad essa.

— No, non per qualche teoria, ma perché posso vedere che lei non è contenta. Che lei è inquieta, insoddisfatta, pericolosa.

— Pericolosa! — Vea rise, raggiante. — Che complimento assolutamente meraviglioso! Perché sono pericolosa, Shevek?

— Be’, perché lei sa che agli occhi degli uomini è soltanto una cosa, qualcosa che si possiede, si compra, si vende. E dunque lei pensa soltanto a ingannare il possessore, a vendicarsi…

Lei gli pose deliberatamente la piccola mano sulle labbra. — Silenzio — disse. — So che non intende essere volgare. La perdono. Ma ora basta.

Egli si aggrottò ferocemente di fronte all’ipocrisia, e di fronte alla comprensione che forse poteva averla davvero ferita. Sentiva ancora sulle labbra il breve tocco della sua mano. — Mi spiace! — disse.

— No, no. Come può capire, lei, che viene dalla Luna? E poi, lei è soltanto un uomo… Comunque, le dirò una cosa. Se prendeste una delle vostre «sorelle», lassù sulla Luna, e le deste la possibilità di togliersi gli stivali, e di fare un bagno e un massaggio e una depilazione, e di infilarsi un paio di sandaletti allegri, e di mettersi un gioiello all’ombelico, e del profumo, la cosa le piacerebbe, glielo assicuro. E piacerebbe anche a voi! Oh, come vi piacerebbe! Ma voi non lo fareste mai, voi, povere cose, con le vostre teorie. Tutti fratelli e sorelle, e niente divertimento.

— Ha ragione — disse Shevek. — Niente divertimento. Mai. Su Anarres stiamo tutto il giorno a scavare piombo nelle budella delle miniere, e quando viene la notte, dopo il solito pasto di tre grani di holum cotti in un cucchiaio di acqua di mare, recitiamo antifonicamente i Detti di Odo, fino all’ora di andare a letto. Cosa che facciamo tutti separatamente, e senza sfilarci gli stivali.

La sua conoscenza pratica dello iotico non era sufficiente a permettergli i voli verbali che avrebbe potuto fare nella propria lingua, una di quelle estemporanee fantasticherie che soltanto Takver e Sedik avevano ascoltato con frequenza sufficiente da non badare più ad esse; tuttavia, per quanto fossero zoppe, le sue parole sorpresero Vea. Proruppe la sua risata nera, pesante e spontanea. — Santo Dio, ma lei è anche spiritoso! C’è qualcosa che lei non sia?

— Un venditore — egli rispose.

Lei lo studiò, sorridendo. C’era qualcosa di professionale, da attrice, nella sua posa. Le persone di solito non si osservano con attenzione a brevissima distanza, a meno che non siano madre e bambino piccolo, o dottori con pazienti, o amanti.

Egli si rizzò a sedere. — Vorrei ancora camminare — disse.

Ella allungò la mano perché lui la prendesse e la aiutasse ad alzarsi. Il gesto era indolente e invitante, ma ella disse con una tenerezza incerta nella voce: — Lei è davvero come un fratello… Prenda la mia mano. Poi la lascerò andare!

Passeggiarono lungo i sentieri del grande giardino. Entrarono nel palazzo, conservato come museo degli antichi tempi della regalità, poiché Vea disse che le piaceva guardare i gioielli che conteneva. Ritratti di principi e baroni arroganti li fissavano dalle pareti tappezzate di broccato e dall’alto di caminetti scolpiti. Le stanze erano piene di argento, oro, cristallo, legni rari, tappezzerie e gioielli. Accanto ai cordoni di velluto stavano ferme le guardie. Le loro uniformi nere e scarlatte si sposavano bene agli splendori, ai tendaggi in filo d’oro, alle coperte di piume intessute, ma i loro volti rompevano quell’armonia: erano volti annoiati e stanchi, stanchi di starsene in piedi tutto il giorno, in mezzo a sconosciuti, per svolgere un lavoro inutile. Shevek e Vea giunsero a una teca di vetro nella quale era contenuto il mantello della Regina Teaea, fatto con le pelli conciate di ribelli spellati vivi, che quella donna terribile e spavalda indossava quando andava tra la propria gente flagellata dalla peste a pregare Dio di porre fine alla malattia, quattordici secoli prima. — Mi sembra pergamena — disse Vea, esaminando lo straccio scolorito e macchiato dal tempo esposto nella vetrina. Alzò lo sguardo su Shevek. — Si sente bene?

— Penso che preferirei allontanarmi da questo luogo.

Una volta in giardino, il suo viso riprese colore; ma si guardò alle spalle, in direzione delle mura del palazzo, con odio. — Perché il vostro popolo si tiene stretto alle proprie vergogne? — disse.

— Ma è soltanto storia. Quelle cose non potrebbero più succedere, oggi!

Ella lo condusse a uno spettacolo pomeridiano a teatro, una commedia su giovani persone sposate, piena di battute sulla copulazione in cui la copulazione non veniva mai espressamente citata. Shevek si sforzò di ridere quando rideva Vea. Dopo di questo si recarono in un ristorante del centro, un luogo di incredibile opulenza. Costo del pranzo cento unità. Shevek ne toccò ben poco, avendo mangiato a mezzogiorno, ma cedette alle insistenze di Vea e bevve due o tre bicchieri di vino, che risultò più piacevole di quanto non si fosse aspettato, e che non parve avere effetti deleteri sul suo ragionamento. Non aveva denaro sufficiente a pagare il pranzo, ma Vea non fece alcuna offerta di condividere la spesa, e si limitò a suggerirgli di compilare un assegno, cosa che egli fece. Quindi presero una vettura a nolo per recarsi all’appartamento di Vea; ella gli lasciò anche pagare l’autista. Che Vea, si domandò lui, fosse in realtà una prostituta, quella entità misteriosa? Ma le prostitute, nella descrizione di Odo, erano donne povere, e certo Vea non era povera; il «suo» ricevimento, gli aveva detto, era in corso di allestimento da parte del «suo» cuoco, della «sua» cameriera e del «suo» maggiordomo. Inoltre, gli uomini dell’Università parlavano delle prostitute con disprezzo, dicendo che erano creature oscene, mentre Vea, nonostante il suo continuo adescamento, mostrava una tale sensibilità nei riguardi del linguaggio schietto, sulle questioni relative al sesso, che Shevek controllava le proprie parole, come avrebbe potuto fare, a casa, con un bambino timido di dieci anni. Nel complesso, non sapeva che cosa esattamente fosse Vea.

Le stanze di Vea erano grandi e lussuose, con bellissime viste delle luci di Nio, e arredate completamente di bianco, perfino i tappeti. Ma Shevek stava diventando insensibile al lusso, e inoltre aveva sonno. Gli ospiti non sarebbero giunti ancora per un’ora. Mentre Vea si cambiava gli abiti, egli cadde addormentato in un’ampia, bianca poltrona del soggiorno. La cameriera, posando rumorosamente qualcosa sul tavolo, lo svegliò in tempo per vedere Vea di ritorno, vestita, ora, nell’abito ufficiale che le donne iotiche indossavano la sera, una gonna pieghettata che partiva dalle anche e scendeva fino a terra, lasciando nudo tutto il torso. Nel suo ombelico luccicava un piccolo gioiello, proprio come nelle riprese che egli aveva visto, insieme con Tirin e Bedap, un quarto di secolo prima, all’Istituto Regionale delle Scienze dell’Insediamento del Nord, identico… Semidesto e pienamente eccitato, egli la fissò ad occhi spalancati.

Lei gli restituì lo sguardo, con un debole sorriso.

Si sedette su un basso sgabello imbottito, accanto a lui, in modo da poterlo guardare in faccia. Si aggiustò la bianca gonna sulle caviglie e disse: — Ora, mi dica come è veramente tra uomini e donne, su Anarres.

Era incredibile. La cameriera e l’uomo maggiordomo erano nella stessa stanza; Vea sapeva che egli aveva una compagna, ed egli sapeva che l’aveva anche lei; e non una parola che riguardasse la copulazione era passata tra loro. Eppure il suo vestito, i movimenti, il tono… che cos’erano se non l’invito più aperto?

— Tra un uomo e una donna c’è quello che vogliono ci sia tra loro — disse, piuttosto bruscamente. — Entrambi e insieme.

— Allora è vero, davvero non avete moralità? — chiese lei, come se fosse stata scossa, ma anche compiaciuta.

— Non capisco cosa voglia dire. Ferire una persona laggiù è esattamente come ferire una persona qui.

— Vuole dire che avete tutte le identiche vecchie regole? Deve sapere, io credo che la moralità sia soltanto un’altra superstizione, come la religione. Finirà col venire ripudiata.

— Ma la mia società — egli disse, completamente frastornato, — è un tentativo di raggiungerla. Ripudiare il moralismo, sì… le regole, le leggi, le punizioni… in modo che le persone possano vedere il bene e il male e scegliere tra i due.

— Dunque avete gettato via tutti i «devi fare così» e «non devi fare cosà». Ma, sa, penso che voi Odoniani non abbiate capito tutta la faccenda. Avete ripudiato sacerdoti e giudici e leggi sul divorzio e tutto il resto, ma avete conservato tutti i guai che stanno loro dietro. Vi siete limitati a cacciarli nell’interno, nelle vostre coscienze. Ma sono ancora lì. Siete altrettanto schiavi quanto lo eravate prima! Voi non siete veramente liberi!

— Come può dirlo?

— Ho letto l’articolo di una rivista, sull’Odonianesimo — disse lei. — E siamo stati insieme tutto il giorno. Io non la conosco, ma conosco alcune cose di lei. So che lei ha una… una Regina Teaea dentro di lei, proprio dentro quella sua testa chiomata. E le dà ordini tutto il giorno, proprio come li dava ai suoi servi la vecchia tiranna. Dice: «Fai questo!», e lei lo fa, e «Non fare questo!» e lei non lo fa.

— Ed è quello il posto che le compete — disse lui, sorridendo. — Nella mia testa.

— No. Meglio averla in un palazzo. Così potreste ribellarvi contro di lei. Lei si sarebbe ribellato! Il nonno del suo trisavolo l’ha fatto; almeno egli è corso sulla luna per sfuggire. Ma ha portato con sé la Regina Teaea, e voi l’avete ancora!

— Forse. Ma ella ha imparato, su Anarres, che se mi ordina di far male a un’altra persona, io faccio male a me stesso.

— La solita vecchia ipocrisia. La vita è lotta, e vince il più forte. Tutto ciò che la civiltà fa, è nascondere il sangue e mascherare l’odio dietro le belle parole!

— La vostra civiltà, forse. La nostra non nasconde nulla. È tutto in piena luce. La Regina Teaea indossa la propria pelle, laggiù. Noi seguiamo una sola legge, soltanto una, la legge dell’evoluzione umana.

— La legge dell’evoluzione è quella della sopravvivenza del più forte!

— Sì, e il più forte, nell’esistenza di ogni specie sociale, è colui che è più sociale. In termini umani, più morale. Vede, non abbiamo né prede né nemici, su Anarres. Abbiamo solo l’un l’altro. Non si può guadagnare forza dal ferimento reciproco. Solo debolezza.

— Non m’importa di ferire o non ferire. Non m’importa dell’altra gente, e non importa neppure a nessun altro. Gli altri fingono che a loro importi. Io non voglio fingere. Io voglio essere libera!

— Ma Vea… — egli cominciò, con tenerezza, poiché le perorazioni sulla libertà lo commuovevano sempre, ma in quel momento il campanello suonò. Vea si alzò, stirò la gonna con la mano e si fece avanti sorridendo per dare il benvenuto agli ospiti.

Nel corso dell’ora seguente giunsero trenta o quaranta persone. Dapprima Shevek si sentì indispettito, insoddisfatto e annoiato. Era semplicemente uno dei soliti ricevimenti in cui tutti se ne stavano tra i piedi con un bicchiere in mano a parlare forte e a sorridere. Ma presto divenne più interessante. Cominciarono a nascere discussioni e polemiche, la gente si sedette a parlare, cominciò a sembrare una festa a casa. Delicati piccoli pasticcini con pezzetti di carne e pesce cominciarono a circolare, i bicchieri venivano continuamente riempiti dall’attento cameriere. Shevek accettò una bevanda. Ormai vedeva da mesi gli urrasiani trangugiare alcool, e non gli pareva che qualcuno di loro si fosse ammalato. Il liquido sapeva di medicina, ma qualcuno gli spiegò che era quasi tutta acqua con acido carbonico, che gli piaceva. Aveva sete, e quindi lo bevve subito.

Un paio di persone parevano decise a parlare di fisica con lui. Una di esse era assai cortese, e Shevek riuscì a sfuggirgli per qualche tempo, poiché trovava difficile parlare di fisica con coloro che non fossero fisici. L’altro era asfissiante, e non era possibile sfuggirgli; ma l’irritazione, Shevek scoprì, rendeva assai più facile parlare. L’uomo sapeva tutto, evidentemente perché aveva un mucchio di soldi. — Secondo me — egli informò Shevek, — la sua Teoria della Simultaneità, semplicemente, nega il fatto più ovvio che riguardi il tempo, il fatto che il tempo passa.

— Be’, in fisica una persona sta attenta a quello che chiama «fatti». È diversa dal mondo degli affari — disse Shevek, molto pacatamente e gentilmente, ma c’era qualcosa, nella sua pacatezza, che portò Vea, che chiacchierava con un altro gruppo, a voltarsi per ascoltare. — Entro i termini rigorosi della Teoria della Simultaneità, la successione non è considerata come un fenomeno fisicamente obiettivo, bensì soggettivo.

— Su, cerchi di non spaventare Dearri, e ci dica che cosa significa in parole adatte ai bambini — disse Vea. L’acutezza della donna fece sorridere Shevek.

— Be’, noi pensiamo che il tempo «passi», scorra davanti a noi; ma se invece fossimo noi a muoverci in avanti, dal passato al futuro, scoprendo sempre il nuovo? Sarebbe come leggere un libro, vedete. Il libro è già lì, tutto insieme, tra le copertine. Ma se volete leggere la storia e capirla, dovete cominciare dalla prima pagina, e andare avanti, sempre con ordine. Così l’universo sarebbe un libro grandissimo, e noi saremmo dei lettori piccolissimi.

— Ma il fatto è — disse Dearri, — che noi sperimentiamo l’universo come una successione, un flusso. In tal caso, a che serve la teoria che su qualche piano superiore possa essere già tutto esistente nell’eternità? Per divertire voi teorici, forse, ma non ha applicazioni pratiche, non ha peso nella vita reale. A meno che non ci dica che possiamo costruire una macchina del tempo! — aggiunse con una sorta di dura, falsa giovialità.

— Ma noi non sperimentiamo l’universo soltanto come una successione — disse Shevek. — Lei non sogna mai, signor Dearri? — Era contento di essersi, almeno per una volta, ricordato di chiamare qualcuno «signore».

— E cosa c’entra?

— Soltanto nello stato cosciente, a quanto pare, noi sperimentiamo il tempo. Un bambino neonato non ha tempo; non può distanziarsi dal passato e capire come si collega al presente, o pianificare il modo in cui il suo presente potrebbe collegarsi al suo futuro. Egli non sa che il tempo passa; non comprende la morte. Anche la psiche inconscia dell’adulto è simile, abitualmente. Nel sogno non c’è tempo, e le successioni cambiano, e causa ed effetto sono tutti mescolati tra loro. Nel mito e nella leggenda non c’è tempo. A quale passato si riferisce la fiaba, quando dice: «C’era una volta»? E così, quando il mistico compie la riconnessione della sua ragione e del suo inconscio, egli vede ogni cosa divenire come una singola entità, e comprende l’eterno ritorno.

— Sì, i mistici — disse l’uomo timido, con ansia. — Tebore, nell’Ottavo Millennio. Egli scrisse: La mente inconscia si coestende con l’universo.

— Sì, ma noi non siamo neonati — interruppe Dearri, — noi siamo uomini razionali. La sua Simultaneità è una sorta di regressivismo mistico?

Ci fu una pausa, mentre Shevek si serviva una pasta di cui non aveva voglia, e se la portava alle labbra. Aveva già perso la pazienza una volta, oggi, e si era reso ridicolo. Una volta era sufficiente.

— Forse la potreste vedere — disse, — come un tentativo di raggiungere un punto d’equilibrio. Vede, la Sequenza spiega meravigliosamente il nostro senso del tempo lineare, e i documenti dell’evoluzione. Essa include la creazione, e la mortalità. Ma qui si ferma. Si occupa di tutto ciò che cambia, ma non può spiegare perché le cose, anche, durino. Parla solamente della freccia del tempo… mai del cerchio del tempo.

— Il cerchio? — chiese l’interlocutore più cortese, con una tale evidente sete di conoscenza che Shevek dimenticò Dearri e si tuffò nell’argomento con entusiasmo, gesticolando con le mani e le braccia come per mostrare all’ascoltatore, materialmente, le frecce, i cicli, le oscillazioni di cui parlava. — Il tempo procede a cicli, oltre che su una linea. La rivoluzione di un pianeta: capisce? Un ciclo, un’orbita attorno al sole, e fa un anno, no? E due orbite due anni, e così via. Si possono contare le orbite interminabilmente… un osservatore può farlo. E in realtà un simile sistema è quello che ci permette di computare il tempo. Costituisce il cronometro, l’orologio. Ma all’interno del sistema, del ciclo, dov’è il tempo? Dov’è l’inizio, dov’è la fine? L’infinita ripetizione è un processo atemporale. Deve essere paragonato, riferito a qualche processo ciclico o non ciclico, per poter essere visto come temporale. Bene, questo è molto strano e interessante, vede. Gli atomi, come lei sa, hanno un moto ciclico. I composti stabili sono fatti di costituenti che hanno un moto regolare, periodico, relativo l’uno all’altro. Di fatto, sono i piccoli cicli, reversibili nel tempo, degli atomi a dare alla materia una permanenza sufficiente a rendere possibile l’evoluzione. Le piccole intemporalità sommate insieme compongono il tempo. E anche sulla scala più ampia, il cosmo: ebbene, lei sa che noi pensiamo che l’intero universo sia un processo ciclico, un’oscillazione tra espansione e contrazione, senza un «prima» e un «dopo». Soltanto all’interno di ciascuno dei grandi cicli in cui viviamo, soltanto là c’è il tempo lineare, l’evoluzione, il cambiamento. Così dunque il tempo ha due aspetti. C’è la freccia, il fiume che scorre, senza di cui non c’è cambiamento, non c’è progresso, direzione, creazione. E c’è il cerchio o ciclo, senza di cui è il caos, la successione priva di significato di istanti, un mondo senza orologi, o stagioni, o promesse.

— Non potete asserire due affermazioni contraddittorie sulla stessa cosa — disse Dearri, con la calma conferita da una conoscenza superiore. — In altre parole, uno di questi «aspetti» è reale, e l’altro è semplicemente un’illusione.

— Molti fisici hanno detto la stessa cosa — annuì Shevek.

— Ma lei cosa dice? — chiese colui che voleva sapere.

— Be’, io credo che sia un modo troppo facile per sfuggire alla difficoltà… Si può rifiutare l’essere o il divenire, con la scusa che è un’illusione? Il divenire senza l’essere non ha significato. L’essere senza il divenire è una grande noia… Se la mente è capace di percepire il tempo in entrambi questi modi, allora una vera cronosofia dovrebbe fornire un campo nel quale la relazione tra i due aspetti o processi del tempo possa venire compresa.

— Ma a cosa serve questa specie di «comprensione» — disse Dearri, — se non dà come risultato delle applicazioni pratiche, tecnologiche? Soltanto un gioco di parole, ecco.

— Lei fa domande come un vero speculatore — disse Shevek, e neppure un’anima, lì dentro, seppe che l’aveva insultato con la parola più offensiva del suo vocabolario; anzi, Dearri fece un piccolo cenno d’assenso, accettando il complimento con soddisfazione. Vea tuttavia avvertì la tensione e s’intromise: — Io, realmente, non capisco una parola di quanto lei dice, lo sa, ma mi pare che se ho davvero capito ciò che ha detto a proposito del libro… che ogni cosa, in realtà, esiste già ora… dunque noi potremmo predire il futuro? Se è già qui? …

— No, no — disse l’uomo timido, che per l’occasione aveva perso ogni timidezza. — Non è qui come può esserlo un divano o una casa. Il tempo non è lo spazio. Non ci si può camminare dentro! — Vea annuì, felice, come se il fatto di essere stata rimessa al suo posto le desse sollievo. E come se avesse ricevuto coraggio dal fatto di avere scacciato la donna dai reami del pensiero superiore, l’uomo timido si voltò verso Dearri e disse: — Mi pare che l’applicazione della fisica temporale sia nel campo dell’etica. Lei è d’accordo, dottor Shevek?

— L’etica? Be’, non saprei. Io mi occupo prevalentemente di matematica, sa. Non si può mettere sotto equazioni il comportamento morale.

— Perché no? — chiese Dearri.

Shevek lo ignorò. — Ma è vero, la cronosofia tocca davvero l’etica. Poiché il nostro senso del tempo tocca la nostra abilità nel separare causa ed effetto, fini e mezzi. Il bambino, anche questa volta, o l’animale: essi non vedono la differenza tra ciò che compiono ora e ciò che succederà a causa di questa loro azione. Non sono capaci di azionare una carrucola, o di fare una promessa. Ma noi sì. Vedendo la differenza tra l’adesso e il non adesso, noi possiamo fare la connessione. E qui fa il suo ingresso la moralità. La responsabilità. Dire che un fine buono nascerà da un mezzo cattivo è come dire che se tiro questa corda della carrucola solleverò il peso appeso a quell’altra corda. Infrangere una promessa equivale a negare la realtà del passato; pertanto è negare la speranza di un vero futuro. Se tempo e ragione sono l’uno funzione dell’altra, se noi siamo creature del tempo, allora è meglio che lo sappiamo, e che cerchiamo di trarne il bene. Di agire responsabilmente.

— Ma senta — disse Dearri, con ineffabile soddisfazione a causa della propria acutezza, — lei ha appena detto che nel suo sistema della Simultaneità non ci sono un passato e un futuro, ma solo una sorta di eterno presente. Così, come si può essere responsabili del libro che è già stato scritto? L’unica cosa che si può fare è quella di leggerlo. Non resta scelta, non resta libertà d’azione.

— Questo è il dilemma del determinismo. Lei ha ragione, è implicito nel pensiero simultanista. Ma anche il pensiero Sequenziale ha il suo dilemma. Si potrebbe esprimerlo con una piccola immagine sciocca… lei getta una pietra contro un albero, e se lei è un Simultanista, la pietra ha già colpito l’albero, mentre se lei è un Sequenzialista, non potrà mai colpirlo. Quale scegliere, allora? Forse lei preferirà scagliare pietre senza preoccuparsi della cosa, senza operare la scelta. Io invece preferisco complicare le cose, e le scelgo entrambe.

— E come… e come le riconcilia? — chiese l’uomo timido, con ansia.

Shevek quasi rise per la disperazione. — Non lo so. Sto lavorando da molto tempo per farlo! Dopotutto, la pietra colpisce davvero l’albero. Né la pura sequenza né la pura unità potranno spiegarlo. Noi non vogliamo la purezza, ma la complessità, il rapporto di causa ed effetto, fini e mezzi. Il nostro modello del cosmo dev’essere inesauribile come il cosmo stesso. Una complessità che comprenda non solo la durata, ma anche la creazione, non solo l’essere, ma anche il divenire, non solo la geometria, ma anche l’etica. Non è la risposta, ciò che cerchiamo, ma soltanto il modo corretto di formulare la domanda…

— Tutto molto bello, ma l’industria ha bisogno di risposte — disse Dearri.

Shevek si voltò lentamente, abbassò gli occhi su di lui e non disse parola.

Cadde un pesante silenzio, nel quale Vea si infilò subito, con grazia e incoerenza, per tornare al suo tema della predizione del futuro. Altri vennero richiamati dall’argomento, e tutti cominciarono a riferire le proprie esperienze con indovini e chiaroveggenti.

Shevek decise di non dire più nulla, indipendentemente da ciò che gli avessero chiesto. Aveva più sete del solito; lasciò che il cameriere gli riempisse ancora il bicchiere, e sorseggiò il liquido frizzante e piacevole. Si guardò intorno, cercando di dissipare la collera e la tensione osservando gli altri. Ma anche gli altri si comportavano in modo molto emotivo, per degli iotici: gridavano, ridevano forte, si interrompevano l’un l’altro. Una coppia indulgeva in preliminari sessuali, in un angolo. Shevek distolse lo sguardo, disgustato. Ma egoizzavano perfino nel sesso? Accarezzarsi e copulare davanti a gente non accoppiata era altrettanto volgare quanto mangiare davanti a persone affamate. Riportò la propria attenzione al gruppo che stava intorno a lui. Avevano lasciato la predizione, ora, ed erano passati alla politica. Stavano discutendo della guerra, di quel che il Thu avrebbe fatto come mossa successiva, di quel che l’A-Io avrebbe fatto, di quel che il CGM avrebbe fatto.

— Perché parlate soltanto in astratto? — egli domandò d’improvviso, chiedendosi, mentre parlava, perché mai avesse aperto bocca, visto che aveva deciso di non parlare più. — Non sono nomi di paesi, sono persone che si ammazzano tra loro. Perché i soldati vanno? Perché una persona va a uccidere degli stranieri?

— Ma questa è proprio la funzione dei soldati — disse una donna piccola e graziosa, con un’opale nell’ombelico. Vari uomini cominciarono a spiegare a Shevek il principio della sovranità nazionale. Vea li interruppe. — Lasciatelo parlare. Come risolverebbe, lei, questo pasticcio, Shevek?

— La soluzione è perfettamente visibile.

— E dove?

— Anarres!

— Ma ciò che la sua gente fa sulla Luna non risolve i nostri problemi di qua.

— I problemi dell’uomo sono sempre uguali. Sopravvivenza. Di specie, di gruppo, di individuo.

— La difesa nazionale… — cominciò a gridare qualcuno.

Essi ribatterono ed egli ribatté. Sapeva ciò che intendeva dire, e sapeva che avrebbe convinto tutti, poiché era chiaro e sincero, ma per qualche motivo non riusciva a dirlo nel modo giusto. Tutti urlavano. La donna piccola e graziosa batté la mano sull’ampio bracciolo della poltrona su cui sedeva, ed egli vi si accomodò. La testa rasata, luccicante della donna spiò da dietro il suo braccio. — Salve, Uomo della Luna! — disse. Vea si era momentaneamente unita a un altro gruppo, ma adesso era tornata accanto a lui. Aveva il viso arrossato; i suoi occhi parevano grandi e liquidi. Gli parve di vedere Pae dall’altra parte della stanza, ma le facce erano tante, si confondevano tra loro. Le cose accadevano a pezzi e brandelli, inframmezzate da vuoti, come se gli fosse stato concesso di assistere al funzionamento del Cosmo Ciclico dell’ipotesi della vecchia Garab, da dietro le quinte. — Il principio dell’autorità legale deve essere sostenuto, altrimenti degenereremmo nella mera anarchia! — tuonava un uomo grasso e accigliato. Shevek disse: — Sì, sì, degenerate pure! Noi l’apprezziamo da un secolo e mezzo. — I piedi della donna piccola e graziosa, calzati in sandaletti d’argento, fecero capolino da sotto la gonna, su cui erano cucite centinaia e centinaia di perline che la ricoprivano tutta. Vea disse: — Ma ci parli di Anarres… com’è, realmente? È davvero così bello, lassù?

Egli era seduto sul bracciolo della poltrona, e Vea era rannicchiata sul cuscino accanto alle sue ginocchia, eretta e flessuosa, con i soffici seni che lo fissavano con i loro occhi ciechi, con il volto sorridente, compiaciuto, arrossato.

Qualcosa di cupo ruotava nella mente di Shevek, oscurando ogni cosa. Aveva la bocca secca. Terminò il bicchiere che il cameriere gli aveva appena servito. — Non so — rispose; sentiva la lingua quasi paralizzata. — No. Non è bello. È un mondo molto brutto. Non è come questo. Anarres è tutto polvere e colline aride. Tutto magro, tutto asciutto. E la gente non è bella. Hanno mani e piedi grossi, come me e come il cameriere che ci serve. Ma non hanno la pancia grossa. Diventano molto sporchi, e tutti fanno il bagno insieme, nessuno qui lo fa. Le città sono molto piccole e brutte, sono orribili. Non ci sono palazzi. La vita è noiosa, ed è un duro lavoro. Non sempre si può avere quello che si vuole, e neppure quello di cui si ha bisogno, perché non c’è abbastanza. Voi urrasiani avete abbastanza. Abbastanza aria, abbastanza pioggia, erba, oceano, cibo, musica, edifici, fabbriche, macchine, libri, vestiti, storia. Voi siete ricchi, voi possedete. Noi siamo poveri, noi manchiamo. Voi avete, noi non abbiamo. Ogni cosa è bella, qui. Fuorché le facce. Su Anarres non c’è nulla di bello, fuorché le facce. Le altre facce, gli uomini e le donne. Noi abbiamo solo quello, solo gli altri. Qui voi guardate i gioielli, là guardate gli occhi. E negli occhi vedete lo splendore, lo splendore dello spirito umano. Perché i nostri uomini e donne sono liberi… non possedendo nulla, sono liberi. E voi, i possessori, siete posseduti. Siete tutti in prigione. Ciascuno è solo, isolato, con il fagotto di ciò che possiede. Voi vivete in prigione, morite in prigione. E la sola cosa che posso vedere nei vostri occhi… il muro, il muro!

Tutti lo stavano fissando.

Udì la propria voce echeggiare ancora nel silenzio, sentì le orecchie bruciare. L’oscurità, il vuoto, rigirò ancora una volta nella sua mente. — Ho il capogiro — disse, e si alzò in piedi.

Vea accorse al suo braccio. — Venga da questa parte — disse, ridendo un poco, e senza fiato. La seguì mentre si faceva strada tra la gente. Ora sentiva di avere il viso molto pallido; e il capogiro non gli passava; sperava che lo stesse portando nella camera da bagno, o a una finestra dove avrebbe potuto respirare aria fresca. Ma la stanza in cui giunsero era grande e illuminata debolmente da luci indirette. Contro una parete si distingueva la mole di un letto grande, bianco; uno specchio copriva metà di un’altra parete. C’era una vicina, dolce fragranza di stoffe e di biancheria, e del profumo usato da Vea.

— Lei è troppo — disse Vea, portandosi direttamente davanti a lui e fissandolo in viso, nella semioscurità, con quella risata ansante. — Davvero troppo… lei è impossibile… è magnifico! — Gli posò le mani sulle spalle. — Oh, la faccia che facevano! Devo proprio darle un bacio per questo! — E, sollevandosi in punta di piedi, gli presentò la bocca, e la gola bianca, e i seni nudi.

Egli la strinse e le baciò la bocca, forzandole indietro la testa, e poi la gola e il seno. Ella cedette in un primo momento, come se non avesse ossa, poi si contorse un pochino, ridendo e spingendolo via debolmente, e cominciò a dire: — Oh, no, no, adesso si comporti bene — e poi: — Su, ragioni, dobbiamo tornare dagli altri. No, Shevek, si calmi, questo non va affatto! — Non le prestò attenzione. La spinse con sé verso il letto, ed ella venne, pur continuando a parlare. Con una mano, Shevek armeggiò con i complicati vestiti che indossava e riuscì a sbottonare i calzoni. Poi c’era il vestito di Vea, la gonna bassa ma stretta, ch’egli non riuscì a sollevare. — Ora basta — disse lei. — No, ora mi ascolti, Shevek, non va proprio, non ora. Non ho preso contracettivi, se resto gravida sarò in un bel pasticcio, mio marito torna tra quindici giorni! No, mi lasci — ma egli non poteva lasciarla; premeva la faccia contro la sua pelle soffice, sudata, profumata. — Ascolti, non mi rovini il vestito, la gente se ne accorgerà, per l’amor del Cielo. Aspetti… abbia solo pazienza, possiamo predisporlo, possiamo trovare un posto dove incontrarci, devo stare attenta alla mia reputazione, non posso fidarmi della cameriera, abbia pazienza, non ora… Non ora! Non ora! — Spaventata infine dalla sua cieca urgenza, dalla sua forza, lo spinse via con tutta la forza, premendogli le mani contro il petto. Egli fece un passo indietro, confuso dal suo improvviso tono impaurito e dalla sua resistenza; ma ormai non si poteva più fermare, la resistenza della donna era servita soltanto a eccitarlo maggiormente. La strinse a sé, e il suo seme schizzò contro il bianco tessuto della gonna.

— Mi lasci! Mi lasci! — ripeteva lei, con lo stesso bisbiglio acuto di prima. Egli la lasciò. Rimase immobile, stordito. Armeggiò con i calzoni, cercando di chiuderli. — Io… mi spiace… pensavo che volesse…

— Per l’amor di Dio! — esclamò Vea, guardandosi la gonna nella semioscurità, afferrando le pieghe con due dita. — Ma guarda solo! Adesso mi dovrò cambiare!

Shevek rimase lì imbambolato, con la bocca aperta, respirando con difficoltà, le braccia penzoloni; poi d’improvviso si voltò e uscì incespicando dalla stanza semibuia. Ritornato nella stanza illuminata del ricevimento, passò tra la gente che vi si affollava, inciampò in una gamba, si trovò la strada bloccata da corpi, abiti, gioielli, seni, occhi, fiamme di candela, mobilio. Finì a sbattere contro una tavola. Su di essa c’era un vassoio d’argento nel quale piccole paste piene di carne, salse ed erbe erano disposte in cerchi concentrici, simili a un grande, pallido fiore. Shevek annaspò per respirare, si piegò su se stesso e vomitò sul vassoio.


— Lo porto a casa — disse Pae.

— Se lo porti via, per l’amor di Dio — disse Vea. — Lo stava cercando, Saio?

— Oh, un poco. Fortunatamente Demaere le ha telefonato.

— Glielo regalo.

— Non darà alcun fastidio. Si è addormentato in corridoio. Posso fare una telefonata, prima di uscire?

— Dia un bacio per me al Capo — disse Vea, ironicamente.

Oiie era giunto con Pae nell’appartamento della sorella, e con lui se ne andò. Si accomodarono nel sedile di mezzo della grossa auto governativa che Pae riusciva sempre ad avere con una telefonata: la stessa auto che era andata a prendere Shevek allo spazioporto l’estate precedente. Ora Shevek era steso dove l’avevano buttato, sul sedile posteriore.

— È stato con sua sorella tutto il giorno, Demaere?

— A partire da mezzogiorno, a quanto so.

— Grazie a Dio!

— Perché si preoccupa del fatto che sia andato nella zona povera? Ogni Odoniano è già convinto che siamo un mucchio di oppressi e di schiavi salariati; che differenza fa, anche se vede qualcosa che gli incoraggia la convinzione?

— Non m’importa di ciò che vede. Non vogliamo che sia visto. Non ha letto i quotidiani dei merli? O i manifestini che circolavano la scorsa settimana nella Città Vecchia, che parlavano del «Precursore»? Il mito dell’uomo che annuncia il millennio, «uno straniero, un proscritto, un esule che porta nelle mani vuote il tempo che verrà». Citavano queste parole. La marmaglia ha uno di quei suoi maledetti attacchi apocalittici. Cerca un personaggio da seguire. Un catalizzatore. Parlano di sciopero generale. Non impareranno mai. Hanno sempre bisogno di una lezione. Maledette bestie rivoltose, mandiamole a combattere il Thu, è l’unica cosa buona che riusciremo a cavarne.

Nessuno dei due disse altro, per tutto il viaggio.

Il guardiano notturno della Casa degli Anziani di Facoltà li aiutò a portare Shevek nella sua stanza. Lo misero sul letto. Cominciò subito a russare.

Oiie rimase ancora per togliere a Shevek le scarpe e per stendere una coperta sopra di lui. Il fiato dell’ubriaco puzzava; Oiie si allontanò dal letto, il timore e l’amore che provava per Shevek si alzavano in lui, e ciascuno soffocava l’altro. Aggrottò la fronte e mormorò: — Brutto scemo. — Spense la luce e tornò nell’altra stanza. Pae, fermo accanto alla scrivania, esaminava le carte di Shevek.

— Andiamo — disse Oiie, la cui espressione di disgusto si era fatta più intensa. — Venga. Sono le due. Ho sonno.

— Ma cosa ha continuato a fare, il bastardo, Demaere? Qui non c’è ancora nulla, assolutamente nulla. Che sia un imbroglio completo? Ci siamo fatti fregare da un maledetto paesano ingenuo proveniente dall’Utopia? Dov’è la sua teoria? Dov’è il nostro volo spaziale istantaneo? Dov’è il nostro vantaggio sugli Hainiti? Nove, dieci mesi che nutriamo il bastardo, per niente! — Comunque, s’infilò in tasca uno dei fogli prima di seguire Oiie alla porta.

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