Il maresciallo Antonio Brancato, comandante la Stazione dei Carabinieri di Belcolle, cangiando il foglio del calendario, come faciva ogni matina appena trasuto nel suo ufficio, vitti che era il ventisei di maggio, vale a dire che mancavano quattro giorni al compleanno di Giacomina, la sua unica sorella, maritata a Genova e matre di tre figli. Doviva provvidire subito, prima che qualche facenna improvisa gli faciva passare la cosa di mente.

Avvertì il piantone che nisciva e che sarebbe tornato passata una mezzorata.

Andò da Cosimo, il tabaccaro e sciglì una delle cinco cartoline postali, leggermente ingiallute, che da anni raffiguravano il paìsi da diverse angolature. A taliarlo in cartolina e dall’alto, come aviva fatto il fotografo, Belcolle pariva un paìsi grazioso, da vacanza estiva: la disposizione delle case, che non arrivavano a duecento, dava all’abitato una forma di barca, con la prua stritta e fina verso i quasi duemila metri di Pizzo Carbonara e la poppa chiatta e larga verso il lontanissimo mare di Cefalù, una barca assurdamente arenata supra una montagna verde di boschi e di pascoli.

D’inverno però la situazione cangiava, la nivi ci mittiva nenti a cummigliare, a seppellire case, arboli, strate sutta a un bianco uniforme, mentre un vento gelido e crudele impoppava dalle Madonie per giorni e giorni.

Ma il paìsi non si racchiudeva tutto in quelle casuzze fotografate nella cartolina, si espandeva per chilometri attraverso rade abitazioni di viddrani, pastori, boscaioli, sperse al limite dei boschi, sui costoni della montagna, in qualche tratto di valle.

Una volta era stato costretto, per effettuare un arresto, ad acchianare fino a una casupola a Pizzo Stella e ancora arricordava la jeep che non andava più né avanti né narrè, bloccata da un mare di nivi, la lunga marcia tutta in salita, il friddo che spurtusava le ossa a malgrado che il corpo era in movimento e faticava. Fortuna che i paisani erano pirsone a posto, quiete, forse tanticchia troppo mutanghere tra di loro, ma si sa che la genti di montagna è di scarsa parola, non ama dare cunfidenza agli stranei. Curiosamente però con lui, che straneo lo era di certo, i belcollesi parlavano, e come!

E quella confidenza, della quale giustamente tra sé si gloriava, se l’era guadagnata, come dire, sul campo. In cinco anni che si trovava lì era arrinisciuto a sapiri quasi tutto di tutti, intervenendo in questioni, liti, dispute che gli vinivano presentate in forma non ufficiale per aviri un parere, un giudizio, un orientamento. «Marescià, vinissi a mettiri ’u bonu…» Mettere il buono: ossia dire la parola giusta, pacificare, risolvere, appianare, fare in modo che la bilancia non penda troppo da una parte o dall’altra.

«Ecco perché si chiama Stazione!» si disse un giorno che nel suo ufficio erano trasute e nisciute, proprio come in una stazione ferroviaria, una decina di persone per domandargli consigli, pareri, istruzioni su come comportarsi.

Scrisse la cartolina, l’impostò nella buca allato alla tabaccheria, si diresse all’edicola. Papuzzo, l’edicolante, aviva già pronto il quotidiano dell’isola che lui era solito accattare.

«Fammi vedere macari tutti i giornali che ti sono arrivati.»

Papuzzo lo taliò strammato per l’insolita richiesta, ma non replicò.

Supra a uno dei quotidiani, il maresciallo attrovò quello che arcava: una fotografia, bastevolmente grande, del novo Presidente, Scalfaro, nominato il giorno avanti.

Tornato in ufficio, ritagliò la fotografia e la mise al posto di quella di Cossiga, il precedente Presidente. Avanti che gli arrivava la foto ufficiale, chissà quanto tempo sarebbe passato e mantenere la foto scaduta non gli pareva cosa giusta.

Era fatto accussì, un omo preciso al quale piaciva che tutto stava al posto indovi doviva stare.

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