La signora Matranga era fimmina risoluta e di parola imperativa. Suo figlio Marcuzzo, dodicino, assittato allato a lei, era vagnato di sudore.
«Marescià, Marcuzzo, questo figlio mè, è uno sdilinquente tali e quali a sò patre! Ogni matina inveci di andari alla scola, sinni va a spasso campagne campagne e non sente né prighere né vastonate! Io non ce la fazzo più, Marescià! Mi tacisse la carità, ci parlasse vossia.»
Rientrava nei suoi compiti istituzionali rimproverare uno scolaro che non aviva gana di studiare? Forse, anzi certamente, no. Ma se si rifiutava, cosa avrebbe detto di lui in paìsi la signora Matranga a tutte le clienti del suo negozio di frutta e verdura?
Parlò a Marcuzzo, sempre più atterrito e sudatizzo, per una decina di minuti. Alla fine il dodicino solennemente giurò di non fare più assenze e la signora Matranga s’addichiarò soddisfatta.
Smesso l’abito di sostituto pater familias gli toccò d’indossare subito dopo quello di giudice di pace per una facenna di confini tra la terra di Gaspano Mongitore e quella di Girlanno Dibetta.
Mettere d’accordo Mongitore e Dibetta, contadini di testa più dura delle pietre che costituivano l’ottanta per cento delle loro terre, fu cosa longa e laboriosa che però si concluse felicemente sia pure nella tarda matinata.