Finalmente una matina che alla stazione tutto pariva essiri tranquillo il maresciallo ripigliò la jeep e si diresse verso la casa di Ciccino. Ma stavolta la giornata minazzava pioggia, nuvole nivure carriche d’acqua arrancavano verso il paìsi.

Macari stavolta il maresciallo si fermò al belvedere durante l’acchianata a piedi e si domandò se questo paesaggio scuroso prossimo alla tempesta non era più bello di quello aperto e sereno dei giorni di sole.

Quando finalmente arrivò al cancelletto chiuso si fermò e chiamò a gran voce: Ciccino! Posso trasire? Il maresciallo Brancato sono! ».

La finestra del piano superiore era aperta, le imposte sbatacchiavano per il vento friddo.

Non s’affacciò nessuno.

«Ciccino! Venni per ringraziarti. Un minuto solo e me ne vado.»

Manco stavolta ci fu risposta.

Era in casa o no?

Comunque, sarebbe stato un gesto sbagliato aprire il cancelletto e andare a tuppiare alla porta. Doviva essere Ciccino, di sua volontà, ad accoglierlo.

Improvvisa la pioggia principiò a cadiri. Stizze pesanti, larghe, rade, di quelle che preludono a un acquazzone violento, da assammarare chi è allo scoperto.

«Ciccino! Sta piovendo! Fammi trasire!»

La porta si raprì, misericordiosa. L il maresciallo la taliò raprirsi con gratitudine, come l’altra volta che pioveva macari, solo che piovevano proiettili.

Ciccino non parlò, con la mano gli fece cenno di venire avanti, di viniri in casa. Il maresciallo trasì e Ciccino richiuse la porta.

La cammara era quasi allo scuro, scarsa era la luminosità che trasiva dall’unica finestra. Era una cammara di mangiare, una parete occupata dalla cucina, a mano manca una scala di legno portava al piano di sopra, dove c’era la cammara di dormiri. La stanza parse al maresciallo abbastanza pulita e ordinata. Ciccino, a quanto si arrinisciva a vidiri di lui, era invece assai trascurato, la varba longa, i capelli macari, il vistito stazzonato.

«Posso assittarmi?»

Ciccino rispose indicando una seggia di paglia.

Il maresciallo s’accomodò, Ciccino pigliò un’altra seggia e s’assittò davanti a lui. Stettero accussì per un pezzo, in silenzio. Poi Ciccino si susì, andò alla cridenza che c’era in un angolo, tornò con due bicchieri e un fiasco di vino, riempì i bicchieri, ne porse uno al maresciallo. Prima di portarli alla bocca, li isarono taliandosi negli occhi. Finirono di bere con comodo, sempre senza scangiarsi una parola.

Fora, intanto, diluviava.



Il maresciallo capì che attoccava a lui parlare per primo, se voliva capirci qualcosa del comportamento di Ciccino dopo la morte della mogliere. Abbisognava approfittare del momento che pareva bono, ma doviva pigliarla alla larga e quindi addentrarsi con estrema quatela.

«Oltre che a ringraziarti, sono venuto a farti, macari se in ritardo, le condoglianze. So che hai sofferto, e continui a soffrire, come un cane. Ma sei un omo di sperienza e perciò devi farti una ragione.»

«Pirchì devo farmi una ragione?»

La domanda strammò il maresciallo. Era molto semplice e lineare, la domanda, e appunto per questo di difficilissima risposta. Soprattutto se fatta da uno come Ciccino che non aviva figli e non aviva avuto altri affetti al di fuori di quello per la mogliere scomparsa.

La risposta però gli acchianò alle labbra spontanea, quasi non suggerita dal cervello.

«Perché accussì è la vita. Pinsavi che Marta campava in eterno? Lo sai che appena nasci, ti cominci a portare sulle spalle la tua morte.»

«Ma io non parlavo della morte.»

Matre santa, ma che voliva dire quell’omo? Il maresciallo aviva necessità di taliarlo nell’occhi, ma nella cammara c’era troppo scuro.

Il temporale non accennava a calmarsi.

Senza spiare permesso, si susì, addrumò la luce, tornò ad assittarsi. Ciccino non si era cataminato.



Ora il maresciallo lo potiva esaminare bene. Stava immobile sulla seggia, le mano posate supra le ginocchia, la faccia che pariva tagliata nel legno. Tiniva l’occhi stritti a fessura, pirchì accussì circava d’impedire alle lagrime di nesciri fora. Era la statua vivente di un dolore insopportabile che si irradiava torno torno fino a formare una specie di corazza invisibile ma impenetrabile. E fu allora che il maresciallo ebbe la certezza che per tutti i giorni che erano seguiti alla morte di Marta, Ciccino aviva passato gran parte delle giornate accussì, immobile sopra una seggia, sia che fora ci fosse luce sia che ci fosse scuro, a pinsare e a ripinsare un’idea fissa, una sola, che non riguardava la morte.

Ma allora che riguardava?

Si fece pirsuaso che qualsiasi parola sarebbe stata sbagliata. Per vincere la sottile angoscia che l’aviva pigliato, il maresciallo si versò due dita di vino, lo bevve di colpo.

Davanti a lui, con un movimento lentissimo, Ciccino accennò a susirisi. Rigido, pariva un pupo di legno che per miracolo pigliava vita. Quanno fu addritta, si mosse ancora incerto verso la scala che portava al piano di sopra, l’acchianò con fatica gradino appresso gradino, scomparse.

Il maresciallo lo sentì caminare tanticchia, appresso Ciccino ricomparse, s’assittò nuovamente al posto di prima, posò sul tavolo quello che era andato a pigliare. Un medaglione sicuramente dell’Ottocento, di buona fattura macari se non prezioso, di un cinque centimetri massimo di diametro, che si portava al collo con un nastro di velluto nero.

Ciccino lo fece scivolare tanticchia verso il maresciallo che potè taliarlo più da vicino. Sul tondo smaltato era stata pittata una Crocefissione, i colori si mantenevano ancora brillanti.

«Bello» fece il maresciallo.

«L’accattai a Marta tri misi dopo che ci eravamo maritati. Lei se lo mise al collo, lo tiniva sutta tutti i vistiti, sulla pelle, e non se lo livò più.»

Allungò una mano, strinse nel pugno il medaglione.

Ripigliò a parlare con fatica, ogni parola gli pisava.

«Questo medaglione si rapre in due, come la cassa di un ralogio. Io, quanno l’arrigalai a Marta, mi fici fare una fotografia della mè faccia, la ritagliai e ce l’infilai. Quanno Marta morì, mi venne gana di taliare dintra al midaglione la mè faccia di quarantatrì anni fa. Lo raprii prima che la mittissero nel tabuto.»

Con l’unghia del pollice aprì il medaglione, lo porse al maresciallo.

«Taliasse vossia.»

Il maresciallo taliò la foto. Quella, macari a tener conto delle alterazioni dovute agli anni, non era certamente la faccia di Ciccino.

Era invece la faccia coi baffetti sottili di un picciotto di una vintina d’anni, simpatico, sorridente. Aviva un’ariata spavalda d’altri tempi. Teneva il colletto della cammisa bianca aperto e rivoltato sul collo della giacchetta, alla sportiva, come si usava verso gli anni ’40, e macari i capelli erano dell’epoca, pittinati lisci lisci e impiccicati sulla testa da una spessa passata di brillantina. Il picciotto portava inoltre un piccolo distintivo all’occhiello, impossibile capire di cosa si trattava, ma dalla forma al maresciallo venne in mente che potiva essiri il distintivo fascista che allora era obbligatorio mettere in mostra. La foto risaliva a quegli anni, non c’era dubbio.

«Lo conosci?»

«Mai visto.»

«Sicuro? Vedi, Ciccino, questa fotografia è stata fatta di certo verso il 1940 e quindi…»

«E quindi io non c’ero, allura, in paìsi.»

Il maresciallo con l’unghia tirò fora la piccola foto in parte sbiadita, la girò, darrè non c’era scritto nenti, la rimise a posto.

«E dov’eri?» spiò.

«A fari la guerra» disse Ciccino.

«Quanti anni avevi?»

«Nel ’40? Avivo vintidù anni, ma ero sutta all’armi da quanno ni aviva diciannovi. Appena scoppiò la guerra, mi spedirono al fronti. Prima in Francia, appresso in Libia.»

«Quando sei tornato a Belcolle?»

«Tardo. Gli inglisi mi pigliaro prigionero e mi portaro in India. Tornai che era il 1947. Avivo vintinovi anni.»

«Eri l’unico figlio mascolo?»

«No. C’era me frati Antonio, ma lo mannarono in Russia e non tornò più. A farla brevi, doppo tanticchia che ero arrivato, mè patri e mè matri accomenzarono a parlare di matrimonio. Mi dicivano, ed era veru, che io oramà stavo addivintanno troppo vecchiu per maritarmi.»

«E tu?»

«Io ero ancora troppo strammato, troppo confuso per tutto quello che avivo visto e avivo passato. La guerra, i compagni morti, la prigionia, la fame. Non arrinisciva a rimettermi.»

«Che facevi?»

«Caminavo. Mi sono fatto a pedi tutte le muntagne torno torno. Appresso m’addecisi. Avivo posato l’occhi supra a una picciotta, Marta Bianco, che aviva tri anni meno di mia e che ci accanoscevamo da picciliddri. Mentre ero in prigionia, qualche volta ci pinsai a Marta. Mi spiavo se aviva trovato un partito bono, se aviva figli. Doppo che tornai seppi da mè soro Gasparina che Marta non solo non si era maritata, ma non aviva avuto manco ziti. Era come se voliva aspittarmi. Ci maritammo nel 1950. Figli non se sono vinuti. Abbiamo campato per quarantatrì anni d’amuri e d’accordo. Non ci siamo mai lassati. Non c’è stata una notti che non abbiamo dormuto ’nzemmula. Una matina che non abbiamo rapruto l’occhi ’nzemmula. E ora sta bella surprisa. Vinissi con mia.»

Si susì a fatica, principiò ad acchianare la scala. Il maresciallo lo seguì.



Nella cammara di sopra il letto matrimoniale era in ordine, cummigliato da una coperta. Allato c’era invece una brandina con il linzolo stazzonato che strisciava ’n terra, il cuscino era addivintato giallognolo.

«Da quanno Marta è morta, non arrinescio più a dormire solo nel letto granni» fece Ciccino con la voce che gli si spezzava.

«Ragioniamo» principiò il maresciallo.

«Che voli ragionare?»

«Stammi a sentire. Quella foto risale al ’40. Quindi la storia tra Marta e questo picciotto, se c’è stata, è capitata prima del vostro matrimonio».

«D’accordo con vossia» disse fermo Ciccino «ma nella testa di mè mogliere questa storia non è finita mai. Il medaglione lo dimostra. E io sto niscenno pazzo. Devo almeno sapiri chi è.»

«E quando l’hai saputo, che te ne viene?»

«Non lo saccio. Ma accanoscenno chi era, come si chiamava, che faciva, posso forse capiri pirchì Marta gli ha voluto tanto beni, pirchì l’ha sempre pinsato per tutti i quarantatrì anni del nostro matrimonio. E forsi posso riuscire alla fine a capacitarmi, a farmi una ragione.»

Il temporale si stava allontanando.

Fu allora che l’altro temporale, quello che Ciccino era riuscito fino a quel momento a dominare, esplose in un pianto dirotto. L’omo mise le vrazza sul tavolo, vi appoggiò la testa, lasciò che il suo corpo fosse sconvolto dai singhiozzi mentre un lamento come di vestia ferita gli nisciva dalle labbra.

«Sfogati, sfogati» gli disse il maresciallo. E per pudore scinnì la scala, andò alla porta, si mise a taliare fora.


La pioggia aviva lavato arboli, piante, pietre, il paesaggio delle montagne vicine sbrilluccicava di colori, pariva che era stato finite di pittare in quel momento. L’aria era tanto pulita e frisca da essiri frizzante.

Il maresciallo respirò a fondo, come a volersi puliziare del dolore, della desperazione che aviva respirato dintra la cammara di Ciccino.

Ne sentì la voce, vicinissima.

«Mi aiutasse, pi carità.»

Si voltò. Ciccina era arrivato alle sue spalle con la faccia ancora rigata dalle lagrime, con l’occhi ancora lucidi di pianto.

«Mi aiutasse. Vossia lo può.»

«E come, Ciccino?»

«Tinisse il medaglione.»

Lo porse al maresciallo che automaticamente lo pigliò in mano.

«Che me ne faccio?»

«C’è la fotografia. Vossia può informarsi in paìsi, fari domande… Vossia può arrinesciri a sapiri di chi è quella faccia… Maresciallo, a vossia tutti lo stimano e l’arrispettano, capace che ci dicono cose che a mia non me le vogliono fari sapiri…»

«È passato troppo tempo, Ciccì»

«E vossia ci pruvasse. E se non attrova nenti, pacienza, veni a dire che il destino voli accussì, farmi moriri dispirato.»

«E va bene, ci provo. Dammi una settimana di tempo» fece il maresciallo intascando con un sospiro il medaglione. «Ma tu, mi raccomando, cerca nel frattempo di non tare fesserie. Mi sono spiegato?»

«Sissì. Grazii.»



Quanno arrivò all’inizio della curva del viottolo, che per la pioggia si era cangiato in un ammasso di fango scivoloso, si voltò. Ciccino era ancora sulla porta che lo taliava allontanarsi.

Ma chi glielo aviva fatto fare a gettarsi a testa sotto in quell’impresa? Se lo spiò arraggiato con sé stesso mentre scinniva lungo la trazzera con passetti da mezzo paralitico per evitare il rischio di sciddricare e allordarsi di fanghiglia.

Come mai si era lasciato contagiare dalla pazzia di quell’omo? Sì, era inutile negarlo o adoperare altre parole: si trattava di una pazzia pura e semplice. Ciccino aviva detto che a lui la faccia di quel picciotto non era nota. Dunque doviva trattarsi di qualcuno, un forestiero, arrivato a Belcolle nel 1940, o negli anni immediatamente successivi, e che nel 1947, data del rientro di Ciccino, era già andato via. Un soldato? Ma durante la guerra, a stare a quanto aviva appreso dai paisani, a Belcolle non c’erano stati presidii militari. Anzi, a dirla tutta, la guerra si era scordata di Belcolle, non l’aviva mai voluta pigliare in considerazione. Tanto che, sempre a dire dei paisani, in quegli anni terribili Belcolle era stato un posto accussì sicuro che molta gente dai paesi più martellati dai bombardamenti si era trasferita lì.

Un momento! Forse quel picciotto era uno sfollato. Qualcuno che era stato sì a Belcolle, ma per poco tempo. Come dire un fantasma.

E come si doviva procedere per arrivare all’identificazione di un fantasma?

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