Per Miles fu un sollievo temporaneo, vedere che lo facevano salire e non scendere… anche se potevano benissimo ucciderlo in un altro posto che non fosse il garage sotterraneo. Ecco, Galeni potevano ucciderlo in garage, per evitare di dover trasportare il cadavere, ma il peso, per così dire, morto di Miles non avrebbe certo presentato le stesse difficoltà logistiche.
La stanza in cui lo fecero entrare era una specie di studio o ufficio privato, molto luminoso nonostante le finestre polarizzate. Lungo una parete, c’era uno scaffale trasparente pieno di dischetti e in un angolo una consolle di comunicazioni, il cui olovideo in quel momento mostrava un’inquadratura a grand’angolo della cella di Miles. Galeni era ancora a terra, svenuto.
L’uomo che la sera prima aveva diretto il rapimento di Miles era seduto su un panchetto con il sedile imbottito color beige davanti alla finestra ed esaminava una siringa ipodermica che aveva estratto da una valigetta aperta al suo fianco. Interrogatorio, dunque, non esecuzione. O forse interrogatorio prima dell’esecuzione… a meno che non intendessero semplicemente avvelenarlo.
Miles distolse lo sguardo dalla siringa, mentre l’uomo piegava la testa di lato per osservarlo con gli occhi azzurri socchiusi. Poi con un’occhiata veloce controllò la consolle… e quel gesto, il modo di muovere il corpo, con la mano che stringeva il bordo del panchetto, fecero capire a Miles chi aveva di fronte, anche se l’uomo non assomigliava al capitano Galeni, se non forse per il pallore della pelle. Capelli grigi tagliati corti, sessant’anni circa, il viso solcato dalle rughe, il corpo appesantito dall’età che non era certo di un atleta o di chi stava all’aria aperta. Indossava abiti terrestri di foggia tradizionale, uno stile del tutto diverso dai miscugli storici che Miles aveva ammirato al centro commerciale. Aveva l’aspetto di un uomo d’affari o di un professore, non certo quello di un pericoloso terrorista.
Se non fosse stato per la tensione omicida, quella posizione delle mani, le narici dilatate, la linea dura della bocca e la rigidità del collo, Ser Galen e Duv Galeni sarebbero stati una cosa sola.
Galen si alzò e girò intorno a Miles con l’aria di chi studia la scultura di un artista mediocre. Miles rimase rigido e immobile, sentendosi sporco, trasandato e più piccolo del solito, con le sole calze ai piedi. Era finalmente arrivato al punto focale, al centro da cui erano partiti tutti i suoi guai delle settimane precedenti. E il centro era quell’uomo, che gli girava intorno con gli occhi pieni di odio. O forse sia lui che Galen erano dei centri, come i fuochi gemelli di un’ellisse, riuniti e sovrapposti per creare, alla fine, un cerchio diabolico e perfetto.
Miles si sentì molto piccolo e molto fragile. Galen poteva anche cominciare spezzandogli le braccia, con la stessa espressione nervosa e assente con cui Elli Quinn si mordicchiava le unghie, solo per allentare la tensione. Ma mi vede davvero? O non sono che un oggetto, un simbolo che rappresenta il nemico… mi ucciderà soltanto per amor di allegoria?
«Dunque» disse Ser Galen, «ecco finalmente l’originale. Non c’è nulla di così impressionante che spieghi come ha potuto sedurre mio figlio accaparrandosi la sua lealtà. Che cosa ci vede in lei? Però rappresenta molto bene Barrayar. Il figlio mostro di un padre mostro, il genotipo morale segreto di Aral Vorkosigan fatto carne, perché tutti lo vedano. Forse, dopo tutto, c’è un po’ di giustizia nell’universo.»
«Molto poetico» ridacchiò Miles, «ma biologicamente inesatto, come lei ben sa, visto che mi ha clonato.»
Galen sorrise acido. «Non insisterò sulla cosa.» Terminò il giro e fissò Miles. «Immagino che lei non potesse opporsi alla sua nascita, ma perché non si è mai rivoltato contro quel mostro? È luì che l’ha fatta com’è…» proseguì con un ampio gesto della mano ad indicare il corpo ridotto e storpio di Miles. «Quale carisma da dittatore possiede quell’uomo, da riuscire ad ipnotizzare non solo il suo stesso figlio, ma anche quelli degli altri?» La figura stesa a terra nell’oloschermo parve becchettare un occhio di Galen. «Perché lo segue? Perché lo segue David? Quale gioia perversa e corrotta potrà mai ricavare mio figlio infilandosi in un’uniforme barrayarana e marciando dietro Vorkosigan?» Galen non era molto bravo a fingere l’ironia, sotto sotto traspariva l’angoscia.
«Tanto per dirne una, mio padre non mi ha mai abbandonato di fronte al nemico» sbottò Miles, furente.
Galen sollevò di scatto la testa, abbandonando del tutto l’atteggiamento ironico, si girò e si diresse verso lo sgabello per prendere la siringa.
Miles maledisse in silenzio la sua linguaccia. Se non fosse stato per quello stupido impulso di avere l’ultima parola, di ribattere allo scherno, avrebbe potuto lasciare che l’altro continuasse a parlare, e avrebbe scoperto qualcosa. Invece adesso a parlare sarebbe stato lui e Galen avrebbe avuto tutte le informazioni.
Le due guardie lo afferrarono per i gomiti e quello di sinistra gli tirò su la manica: ecco, era arrivato il momento. Galen premette la siringa sulla vena all’interno del gomito… un sibilo, una puntura. «Che cos’è?» ebbe appena il tempo di chiedere Miles, con una voce che suonò nervosa e debole alle sue stesse orecchie.
«Penta-rapido, naturalmente» rispose Galen tranquillo.
Miles non ne fu sorpreso, anche se avvertì un brivido, sapendo quello che lo aspettava. Aveva studiato la farmacologia, gli effetti e l’uso corretto del penta-rapido al corso della Sicurezza dell’Accademia Imperiale Barrayarana. Era la droga in uso per gli interrogatori non solo nel Servizio Imperiale, ma in tutta la galassia: il siero della verità, praticamente perfetto, irresistibile, innocuo per il soggetto anche dopo somministrazioni ripetute. Irresistibile e innocuo, tranne per quei pochi sfortunati che avevano una reazione naturale o indotta artificialmente a quella droga. Miles non era mai stato considerato come candidato per il condizionamento indotto, dal momento che la sua persona era ritenuta più importante di qualunque informazione segreta potesse conoscere. Altri agenti dello spionaggio non erano altrettanto fortunati. Lo shock anafilattico era una morte ancor meno eroica della camera di disintegrazione che si riservava in genere alle spie prigioniere.
Impotente, Miles attese di cominciare a cantare. L’ammiraglio Naismith aveva assistito a più di un interrogatorio con il penta-rapido: la droga spazzava via tutti i freni inibitori in un mare di benevolenza, buoni sentimenti e allegria. Era divertente da guardare… su qualcun altro. Ancora pochi istanti e sarebbe stato ridotto alla più ciarliera idiozia.
Pensò al risoluto capitano Galeni ridotto in quello stato vergognoso. Per quattro volte di fila, aveva detto… non c’era da stupirsi se era un po’ teso.
Miles sentì il cuore accelerare i battiti, come se avesse ingerito una dose troppo massiccia di caffeina; la vista gli si acutizzò in modo quasi doloroso, i contorni di tutti gli oggetti della stanza presero a brillare e le masse che racchiudevano divennero palpabili ai suoi sensi sovreccitati. Galen, poco discosto dalla finestra pulsante, era un diagramma elettrico vivo, e pericoloso, un voltaggio mortale sovraccarico in attesa di un pretesto per scaricarsi.
No, non era allegro.
Stava per avere uno shock anafilattico naturale. Miles trasse il suo ultimo respiro. Chissà se il suo inquisitore si sarebbe sorpreso…
Fu invece lui ad essere sorpreso, quando si accorse che continuava ad ansimare… niente shock anafilattico, dunque, solo un’altra delle sue maledette reazioni idiosincratiche alle droghe. C’era almeno da sperare che quella non gli provocasse il genere di allucinazioni che gli aveva dato quell’accidente di un sedativo somministratogli una volta da un medico ignaro. Ebbe voglia di urlare. I suoi occhi guizzarono per seguire anche il minimo movimento di Galen.
Una delle guardie gli mise una sedia dietro la schiena e lo fece sedere. In preda ad un tremito incontrollabile, Miles vi si lasciò cadere grato. Era come se i suoi pensieri esplodessero in tanti frammenti per poi riformarsi, come un film di fuochi artificiali fatto scorrere al contrario. Galen lo guardò corrugando la fronte.
«Descrivi le procedure di sicurezza per entrare e uscire dall’ambasciata barrayarana.»
Di sicuro quel genere di informazioni le avevano già spremute a Galeni… quella doveva essere una domanda solo per controllare se il penta-rapido faceva effetto, «…faceva effetto» sentì la propria voce riecheggiare i suoi pensieri. Oh, diavolo, aveva sperato che le sue strane reazioni alle droghe potessero comprendere anche la capacità di resistere all’impulso di mettere in parole tutto quello che gli passava per la testa. «… che immagine repellente…» Con la testa ciondoloni, fissò il pavimento davanti ai suoi piedi, come se potesse scorgervi un mucchio di materia cerebrale sanguinolenta vomitata lì per terra.
Ser Galen si avvicinò, gli sollevò la testa di scatto, prendendolo per i capelli, e sibilò a denti stretti: «Descrivi le procedure di sicurezza per entrare e uscire dall’ambasciata barrayarana!»
«Il responsabile è il sergente Barth» cominciò Miles, d’impulso. «Un insopportabile bigotto, totalmente privo di buone maniere e un imbecille fatto e finito…» Incapace di trattenersi, Miles rivelò non solo i codici, le parole d’ordine, i perimetri degli analizzatori e dei sensori, ma anche i turni del personale, le sue opinioni personali su ognuno di loro e terminò con una critica da cavare la pelle sulle pecche della rete di sicurezza. Un pensiero ne richiamava un altro e poi un altro ancora, in una catena esplosiva e inarrestabile come una serie di mortaretti. Non poteva fermarsi, continuava a blaterare.
Ma non solo lui non riusciva a fermarsi, nemmeno Galen era in grado di fermarlo. I prigionieri interrogati con il penta-rapido tendevano a passare con libere associazioni da un pensiero all’altro, se l’inquisitore non li manteneva in carreggiata con le sue domande; ed era proprio quello che stava facendo Miles, ma a velocità doppia. Normalmente, bastava una sola parola per interrompere la vittima, ma Miles tacque, ansante solo dopo che Galen lo ebbe ripetutamente schiaffeggiato, urlandogli contro.
La tortura non faceva parte dell’interrogatorio con il penta-rapido, perché nel loro stato di rosea beatitudine, i prigionieri non avvertivano il dolore. Non era questo l’effetto su Miles: il dolore andava e veniva, come un’onda, lontano e distaccato prima, bruciante come una scossa elettrica un attimo dopo. Con raccapriccio, si accorse che stava piangendo. Allora smise, con un singhiozzo.
Galen lo fissava, con un misto di attrazione e ripugnanza.
«C’è qualcosa che non va» mormorò una delle guardie. «Non dovrebbe comportarsi così, non è normale. Che si tratti di qualche nuovo tipo di condizionamento?»
«Però non resiste al penta-rapido» fece notare Galen, guardando l’orologio. «Non sta nascondendo le informazioni, ne da’ più di quelle richieste, troppe di più.»
La consolle di comunicazione cominciò a trillare con insistenza.
«Rispondo io» si offrì Miles. «Probabilmente è per me.» Si alzò di scatto dalla sedia, tuffandosi in avanti, le ginocchia cedettero e cadde a faccia in giù sul tappeto, che gli pizzicò le guance. Le due guardie lo rimisero in piedi e lo fecero risedere. La stanza prese a girargli intorno lentamente. Galen rispose alla chiamata.
«A rapporto» disse dal video la voce brusca di Miles, nella sua incarnazione con l’accento barrayarano.
La faccia del clone non gli parve così famigliare come quella che si sbarbava tutte le mattine nello specchio. «Ha la riga dalla parte sbagliata. Se vuole farsi passare per me» osservò «non è…» Ma tanto nessuno lo ascoltava. Miles considerò gli angoli di incidenza e gli angoli di riflesso, con i pensieri che rimbalzavano avanti e indietro alla velocità della luce tra le pareti a specchio del suo cranio vuoto.
«Come sta andando?» Galen si sporse ansioso verso il video.
«Per poco, nei primi cinque minuti non è andato tutto a monte. Quel grosso dendarii che guidava, era nientemeno che il suo maledetto cugino.» La voce del clone era bassa e tesa. «Per pura fortuna sono riuscito a far passare il mio primo errore come uno scherzo. Ma divido la stanza con quel bastardo. E russa.»
«Verissimo» commentò Miles senza che nessuno glielo avesse chiesto. «Ma se vuoi davvero divertirti, aspetta che cominci a sognare di fare l’amore. Maledizione, vorrei farli io i sogni che fa Ivan. Invece non ho altro che orribili incubi: giocare a polo nudo contro una marea di cetagandani morti, usando come palla la testa mozzata del tenente Murka, che urla tutte le volte che la colpisco. Cadere e venir calpestato…» il borbottio di Miles si interruppe, tanto lo ignoravano tutti.
«Prima che questa storia finisca, avrai a che fare con un mucchio di gente che lo conosce» rispose burbero Galen. «Ma se riesci a ingannare Vorpatril, riuscirai a ingannare chiunque…»
«Puoi ingannare tutti qualche volta» cinguettò Miles, «e qualcuno tutte le volte, ma Ivan lo puoi ingannare sempre: tanto lui non presta attenzione.»
Galen gli rivolse un’occhiata irritata. «L’ambasciata è un microcosmo isolato perfetto per questa prova» proseguì rivolto al video, «prima che tu salga sul più vasto palcoscenico di Barrayar. La presenza di Vorpatril lo rende il banco di prova ideale. Se si accorge di qualcosa, dobbiamo eliminarlo.»
«Mmm.» Il clone non sembrava per nulla rassicurato. «Prima che cominciassimo, credevo che tu fossi riuscito a darmi tutte le informazioni possibili su Miles Vorkosigan… poi, all’ultimo momento scopri che per tutto questo tempo ha condotto una doppia vita… quali altri particolari non conosciamo?»
«Miles, ne abbiamo già discusso…»
Con un brivido, Miles si rese conto che Galen chiamava il clone con il suo nome: il condizionamento al suo ruolo era tale che non aveva neppure un nome suo? Strano…
«Lo sapevamo che ci sarebbero stati dei vuoti in cui avresti dovuto improvvisare. Ma non avremmo mai avuto un’opportunità migliore di questa sua inaspettata visita sulla Terra; molto più facile che aspettare altri sei mesi e fare lo scambio su Barrayar. No, è adesso o mai più.» Galen trasse un profondo respiro per calmarsi. «Dunque sei riuscito a passare la notte senza danni.»
Il clone sbuffò. «Già, a parte essermi svegliato mezzo strangolato da una maledetta coperta di pelo animata.»
«Cosa? Oh, la pelliccia viva. Non l’ha data alla sua donna?»
«Evidentemente no. Me la sono quasi fatta addosso prima di capire cos’era. E ho svegliato il cugino.»
«Ha sospettato qualcosa?» chiese subito Galen, preoccupato.
«Ho detto di aver avuto un incubo: sembra che Vorkosigan li abbia abbastanza spesso.»
Miles annuì con aria saputa. «È quello che vi avevo detto. Teste mozzate… ossa rotte… parenti mutilati… insolite alterazioni di importanti parti del mio corpo…» Sembrava che la droga avesse strani effetti sulla memoria, e senza dubbio questo era in parte quello che rendeva il penta-rapido così efficace per gli interrogatori.
I sogni che aveva fatto di recente gli stavano tornando in mente con molta più chiarezza di quanto non li avesse mai ricordati da sveglio. Però, tutto considerato era contento di avere l’abitudine a dimenticarli.
«Vorpatril ha fatto qualche osservazione in proposito, al mattino?» chiese Galen.
«No. E poi io non parlo molto.»
«Questo è fuori dalla parte» osservò Miles, volonteroso.
«Fingo di avere uno di quei piccoli episodi temporanei di depressione a cui lui va soggetto, stando ai rapporti… e quello che è?» chiese il clone, storcendo il collo.
«Vorkosigan in persona.»
«Ah, bene: non ho fatto che ricevere chiamate tutta la mattina dai suoi mercenari che chiedevano ordini.»
«Eravamo d’accordo che saresti stato alla larga dai mercenari.»
«Certo, ma dillo a loro.»
«Tra quanto pensi di poter avere quegli ordini che ti toglieranno dall’ambasciata richiamandoti su Barrayar?»
«Non abbastanza presto da evitare del tutto i dendarii. Ne ho accennato all’ambasciatore, ma sembra che Vorkosigan sia a capo delle indagini per ritrovare il capitano Galeni; è sembrato sorpreso che volessi andarmene, così ho fatto marcia indietro, per il momento. Il capitano ha cambiato idea e ha deciso di collaborare, finalmente? Se non lo ha fatto, dovrete provvedere voi a contraffare quegli ordini e a farli passare con il corriere o qualcosa di simile.»
Galen esitò. «Vedrò cosa posso fare. Nel frattempo, tu continua a immedesimarti nella parte.»
Galen non sa che noi sappiamo che c’è di mezzo il corriere? Quel pensiero balzò nella mente di Miles con chiarezza quasi normale e lui riuscì a vocalizzarlo solo con un borbottio.
«Va bene. Mi avevi promesso che lo avresti tenuto in vita per potergli fare delle domande fino a quando non me ne fossi andato di qui, ed ecco la prima domanda. Chi è il tenente Bone e che cosa deve farne con l’eccedenza dalla Triumph? Non mi ha detto di che eccedenza si trattasse.»
Una delle guardie sollecitò Miles: «Rispondi alla domanda.»
Miles cercò di riacquistare chiarezza di pensiero e di espressione. «È il ragioniere della mia flotta. Immagino che debba scaricarlo nel suo conto di investimento e farlo girare come al solito. È un’eccedenza di denaro» si sentì obbligato a spiegare e poi ridacchiò amaramente: «temporanea, ne sono sicuro.»
«Credi che possa andare?» chiese Galen.
«Direi di sì. Io le ho detto che era un ufficiale esperto e che doveva agire a sua discrezione e questo mi è parso che!a soddisfacesse abbastanza, anche se io ho continuato a chiedermi cosa le avevo ordinato di fare. Bene, un’altra domanda: chi è Rosalie Crew e perché ha chiesto all’ammiraglio Naismith un risarcimento di mezzo milione di crediti federali GSA?»
«Chi?» esclamò Miles a bocca aperta, sinceramente perplesso. «Cosa?» Nella sua confusione non riusciva assolutamente a convertire il mezzo milione di crediti federali in marchi imperiali barrayarani, se non in un ammontare vago che era "un sacco, veramente un sacco di soldi"; per un attimo non riuscì ad associare il nome, poi tutto si chiarì. «Oh, già, è quell’impiegata del negozio di vini. L’ho salvata, impedendo che bruciasse viva. Ma perché cita me? Perché non ha citato Danio, è stato lui a bruciarle il locale… certo, lui è al verde…»
«Ma io come mi devo comportare?» chiese il clone.
«Hai voluto essere me» disse Miles in tono acido, «arrangiati.» Ma i suoi processi mentali non si arrestarono. «Sporgi una controdenuncia per danni fisici; devo essermi stirato la schiena, sollevandola di peso. Mi fa ancora male…»
Galen lo interruppe. «Non fare niente di simile, sarai fuori di lì prima che la cosa vada in tribunale.»
«Va bene» rispose il clone, dubbioso.
«E lasceresti i dendarii nelle peste?» intervenne Miles furente. Strinse gli occhi, cercando disperatamente di pensare nonostante la stanza che gli girava intorno. «Ma già, a te non frega niente dei dendarii, vero? E invece te ne deve fregare! Hanno rischiato le loro vite per te… per me… è sbagliato… tu sei disposto a tradirli, senza neppure pensarci sopra, non sai neppure cosa sono…»
«Appunto» sospirò il clone, «e proprio a proposito di quello che sono, che tipo di rapporto c’è tra te e questo comandante Quinn? Hai finalmente deciso se scopartela o no?»
«Siamo solo buoni amici» canticchiò Miles e poi scoppiò a ridere, isterico, e si tuffò verso la consolle… le guardie cercarono di afferrarlo e lo mancarono… e arrampicandosi sulla scrivania, ringhiò nel video. «Stai lontano da lei, piccolo stronzo! Lei è mia, hai sentito? Mia, mia, tutta mia… Quinn, Quinn, bellissima Quinn, Quinn della notte, bellissima Quinn» cantò stonato mentre le guardie lo riportavano sulla sedia. Qualche pugno lo ridusse al silenzio.
«Credevo che fosse sotto l’effetto del penta-rapido» disse il clone rivolto a Galen.
«Ed è così.»
«Ma questi non mi sembrano gli effetti del penta-rapido!»
«Infatti, c’è qualcosa che non va. Eppure lui non dovrebbe essere condizionato… sto cominciando a dubitare seriamente dell’utilità di tenerlo in vita come banca dati, se non possiamo fidarci delle sue risposte.»
«Fantastico» borbottò il clone. Poi si guardò alle spalle. «Devo andare. Farò un altro rapporto questa sera, se per allora sarò ancora vivo.» E la sua immagine scomparve con un trillo irritato.
Galen tornò a rivolgersi a Miles con un elenco di domande sul Quartier Generale Barrayarano, sull’Imperatore Gregor, sulle abitudini di Miles quando era di stanza nella capitale di Barrayar, Vorbarr Sultana, e poi una serie infinita di domande sui dendarii. E Miles rispose, incapace di fermarsi, continuò a parlare, a parlare. Ma ad un certo punto incappò nel verso di una poesia e finì con il recitare tutto il sonetto. Neppure gli schiaffi di Galen riuscirono a farlo tornare in riga: la sua catena di libere associazioni era troppo forte. Dopo di allora, riuscì molto spesso a non rispondere alle domande. Le opere in rima con una metrica cadenzata erano quelle che funzionavano meglio; poi brani di narrativa, canzoni oscene dei dendarii, qualunque cosa: una parola casuale o un modo di dire dei suoi inquisitori facessero scattare. Sembrava che possedesse una memoria fenomenale. Il viso di Galen era verde di rabbia.
«Di questo passo staremo qui fino a quest’inverno» disse disgustata una delle guardie.
Le labbra sanguinanti di Miles si distesero in una smorfia maniacale. «"Ora l’inverno del nostro scontento"» esclamò, «"è trasformato in gloriosa estate da questo sole di York…"»
Erano passati anni da quando aveva imparato a memoria quell’antica tragedia, ma i vividi pentametri giambici lo trascinarono senza pietà. A parte pestarlo fino a fargli perdere conoscenza, non c’era nulla che Galen potesse fare per spegnerlo. Miles non era neppure arrivato alla fine del primo atto quando le due guardie lo trascinarono giù per il tunnel di caduta e lo sbatterono senza tante cerimonie nella sua prigione.
Una volta in cella, i suoi neuroni, ormai partiti in quarta, lo spinsero da una parete all’altra della stanza, camminando e recitando, facendolo balzare sulla panca al momento adatto, facendolo recitare in falsetto tutte le parti femminili, senza respiro, fino all’ultimo verso. Dopodiché, crollò sul pavimento e lì rimase, ansimando.
Il capitano Galeni, che durante l’ultima ora era rimasto rannicchiato in un angolo della panca, con le braccia intorno alle orecchie per proteggerle, sollevò cauto la testa e chiese in tono benevolo: «Ha finito?»
Miles rotolò supino e fissò il soffitto senza vederlo. «Tre hurrà per la letteratura… mi sento male.»
«Non mi sorprende.» Anche Galeni aveva un aspetto pallido e malaticcio, ancora scosso dagli effetti dello storditore. «Che cos’era quello?»
«La tragedia o la droga?»
«La tragedia l’ho riconosciuta, grazie. Che droga?»
«Penta-rapido…»
«Lei scherza.»
«Non scherzo. Ho parecchie reazioni imprevedibili alle droghe. C’è un’intera classe di sedativi che non posso prendere. A quanto pare, le due cose sono collegate.»
«Che botta di fortuna!»
Dubito seriamente dell’utilità di mantenerlo in vita…
«Non credo proprio» rispose Miles in tono distante. Si rimise in piedi a fatica, rimbalzò nella stanza da bagno, vomitò e svenne.
Si svegliò con il bagliore impietoso della lampada che gli trapassava gli occhi e si mise un braccio sul volto, per proteggersi. Qualcuno (Galeni?) lo aveva disteso sulla panca. Il capitano dormiva, respirando pesantemente. Un piatto che conteneva un pranzo ormai freddo e rappreso, era appoggiato in fondo alla panca di Miles. Doveva essere notte fonda. Con un moto di nausea, Miles guardò quel cibo, poi lo nascose sotto la panca, per non vederlo. Il tempo si trascinò inesorabile, mentre lui si girava, si alzava, si sedeva, tornava a sdraiarsi, dolorante e in preda alla nausea, incapace persino di rifugiarsi in quel sollievo temporaneo che era il sonno.
Il mattino seguente dopo colazione vennero a prendere Galeni, che uscì con un’espressione di cupo disgusto negli occhi. Poi dal corridoio arrivarono i rumori di una lotta violenta: era Galeni, che cercava di farsi stordire, un mezzo draconiano, ma sicuramente efficace di evitare l’interrogatorio. Ma non ci riuscì: i suoi carcerieri lo riportarono in cella, ridacchiante e vacuo, parecchie ore dopo.
Il capitano rimase sdraiato per circa un’ora, emettendo ogni tanto qualche vaga risatina, prima di sprofondare in un sonno agitato. Con uno sforzo eroico, Miles resistette alla tentazione di approfittare degli effetti residui della droga per fargli qualche domanda… perché, purtroppo, i soggetti trattati con il penta-rapido ricordavano tutto. E ormai Miles era quasi certo che una delle parole chiave personali di Galeni fosse tradimento.
Finalmente il capitano, grigiastro in volto, ritornò ad uno stato di coscienza un po’ torpido ma sostanzialmente lucido. I postumi del penta-rapido erano un’esperienza molto, molto, sgradevole; almeno in quello, la risposta di Miles alla droga non era stata diversa dal normale. Fu con una certa comprensione e simpatia che guardò il capitano fare la sua gita al bagno.
Galeni tornò e si lasciò cadere pesantemente sulla panca mentre il suo sguardo si posava sul piatto con la sua cena ormai fredda. Dopo avere cincischiato svogliatamente con il cibo, chiese a Miles: «Lo vuole lei?»
«No, grazie.»
«Mmm.» Galeni nascose il piatto sotto la panca, per toglierlo dalla vista e si appoggiò alla parete.
«Cosa volevano sapere questa volta?» chiese indicando con il mento la porta.
«Soprattutto la mia storia personale.» Galeni contemplò le calze, che ormai erano rigide per lo sporco, ma Miles non era sicuro che vedesse quello che guardava. «Sembra che gli riesca davvero difficile afferrare il concetto che credo sul serio in quello che dico. A quanto pare era sinceramente convinto che gli sarebbe bastato presentarsi e fare un fischio per farmi correre con la lingua fuori, come facevo quando avevo quattordici anni. Come se tutte le esperienze della mia vita di adulto non contassero nulla, come se avessi indossato questa uniforme solo per scherzo, o per disperazione, o confusione mentale… qualunque cosa, ma non per una decisione ragionata e meditata.»
Non c’era bisogno di chiedere a chi si stava riferendo. «Ma come, non è stato per l’eleganza degli stivali?» chiese Miles con una smorfia acida.
«Mi sono lasciato abbagliare dagli orpelli sgargianti della divisa» lo informò Galeni in tono soave.
«È questo che ha detto? In ogni caso è feudalesimo, se si escludono gli esperimenti di centralizzazione del fu imperatore Ezar Vorbarra. Comunque, gli sgargianti orpelli del neofeudalesimo glieli concedo.»
«Sono perfettamente a conoscenza dei principi di governo barrayarani, grazie» gli fece notare il dottor Galeni.
«Per quello che sono» mormorò Miles. «È stato tutto basato sull’improvvisazione, sa.»
«Lo so. E sono contento di vedere che lei non è ignorante in storia come la maggior parte dei giovani ufficiali del giorno d’oggi.»
«Allora… se non è stato per gli eleganti stivali e le mostrine dorate, perché lei è dalla nostra parte?»
«Oh, naturale… ricavo un sadico piacere psicossessuale dall’essere un bravaccio, un sicario e un criminale. È la ricerca del potere» terminò guardando la lampada sul soffitto.
«Ehi» esclamò Miles agitando una mano, «parli con me, non con lui, eh? Lui ha già avuto il suo turno.»
«Mmm.» Galeni incrociò le braccia con espressione cupa. «In un certo senso immagino che sia vero: cerco il potere. O lo cercavo.»
«Per quello che può valere, non è certo un segreto per l’alto comando barrayarano.»
«Per nessun barrayarano comune, anche se quelli che vivono al di fuori della vostra società non se ne rendono mai conto. Come immaginano che una società di caste apparentemente chiuse sia riuscita a sopravvivere senza andare in pezzi allo sconvolgimento dell’ultimo secolo dalla fine dell’Era dell’Isolamento? In un certo senso, il Servizio Imperiale ha svolto in parte la stessa funzione avuta dalla chiesa medioevale qui sulla Terra: ha agito cioè da valvola di sfogo, attraverso la quale chiunque possiede un minimo di talento può cancellare la sua casta d’origine. Vent’anni di servizio imperiale ed escono che sono a tutti gli effetti dei Vor onorari. I nomi non sono cambiati dall’epoca di Dorca Vorbarra, quando i Vor erano una casta chiusa di ladri di cavalli…»
Miles fece una smorfia nel sentire descrivere in quel modo la generazione del suo bis-bisnonno.
«… ma la sostanza è cambiata radicalmente. Eppure, nonostante tutto, i Vor sono riusciti, con la forza della disperazione, a restare abbarbicati a determinati principi vitali di sacrificio e servizio. Con la certezza che un uomo deciso e che non scende a compromessi, ha comunque la possibilità di percorrere la sua strada e dare…» si interruppe di colpo e si schiarì la gola, arrossendo. «Era la mia tesi di laurea: "il Servizio Imperiale Barrayarano: un secolo di cambiamenti".»
«Capisco.»
«Io volevo servire Komarr…»
«Come suo padre prima di lei» terminò Miles. Galeni alzò gli occhi di colpo, aspettandosi un’espressione sarcastica, ma nello sguardo di Miles trovò solo un’ironica comprensione… almeno Miles sperò che fosse così.
Galeni allargò le braccia, in un gesto che era rassegnazione e assenso. «Sì. E no. Nessuno dei cadetti che sono entrati nel Servizio insieme a me hanno ancora visto una guerra vera. Io invece ne ho vista una dalla strada…»
«Sospettavo che avesse conosciuto la rivolta komarrana molto più da vicino di quanto dicono i rapporti della Sicurezza» commentò Miles.
«Come apprendista arruolato di forza da mio padre» confermò Galeni. «Certe notti scorrerie, altre missioni di sabotaggio… ero piccolo di statura per la mia età e ci sono posti in cui un bambino che gioca riesce a passare mentre un adulto verrebbe subito fermato. Prima di aver compiuto quattordici anni avevo già aiutato ad uccidere… Non ho illusioni a proposito delle gloriose truppe imperiali durante la rivolta di Komarr. Ho visto uomini che indossavano questa uniforme…» indicò con una mano i pantaloni verdi, «fare cose vergognose. Per rabbia, o per paura, per frustrazione o disperazione, a volte solo per pura e semplice cattiveria. Ma che differenza faceva per i cadaveri; gente normale che incappava in quel fuoco incrociato, morire bruciati sotto il fuoco del plasma dei malvagi invasori o essere fatti a pezzi dalle implosioni gravitiche dei bravi patrioti? Libertà? Non possiamo certo fingere che Komarr fosse una democrazia prima dell’arrivo dei barrayarani. Mio padre tuonava che Barrayar aveva distrutto Komarr, ma quando io mi guardavo intorno, Komarr era sempre lì.»
«Non si ricavano tasse da un terra bruciata» mormorò Miles.
«Una volta ho visto una bimba…» si interruppe, mordendosi un labbro e poi riprese a capofitto, «la differenza pratica, per la gente comune, sta nella mancanza della guerra. Io voglio… volevo… fare quella differenza pratica. Una carriera nel Servizio, un congedo onorevole, possibilità di una nomina ministeriale… l’ascesa di grado nei ranghi civili, poi…»
«La nomina a viceré di Komarr?» suggerì Miles.
«Una speranza simile sarebbe megalomane» disse Galeni. «Ma un incarico nel suo staff, certo.» Quel sogno scomparve dai suoi occhi mentre si guardava intorno nella stanza prigione e sulle labbra si disegnò un silenzioso sorriso di autoderisione. «Mio padre invece vuole vendetta. La dominazione straniera di Komarr non solo è un abuso, ma è anche intrinsecamente malvagia, per principio. E cercare l’integrazione con lo straniero non è compromesso, ma collaborazionismo e capitolazione. I rivoluzionari komarrani sono morti per i miei peccati, eccetera. Eccetera.»
«Allora sta ancora cercando di persuaderla a passare dalla sua parte.»
«Oh, sì. Credo che continuerà a parlare fino al momento in cui premerà il grilletto.»
«Non le sto chiedendo di… uhm… scendere a compromessi con i suoi principi o qualcosa di simile, ma non vedo proprio come potrebbe peggiorare la mia posizione se lei cercasse di, diciamo, salvarsi la vita» disse Miles in tono cauto. «"Colui che combatte e scappa, vive per combattere un altro giorno", con quel che segue.»
«È proprio per quella logica che non posso arrendermi» rispose Galeni scuotendo la testa. «Non non voglio, non posso. Lui non può fidarsi di me. Se io cambiassi idea, lo farebbe anche lui e si sentirebbe costretto a convincersi di dovermi uccidere proprio come ora finge di convincersi che non deve farlo. Ha già sacrificato mio fratello. In un certo senso, la causa ultima della morte di mia madre è stata proprio quella perdita e tutte le altre che lui le ha inflitto in nome della causa. Mi rendo conto che tutto questo può sembrare molto edipico» aggiunse con improvviso imbarazzo, «ma… l’angoscia che si accompagna alle decisioni più dolorose ha sempre affascinato il lato romantico della sua anima.»
Miles scosse il capo. «Mi rendo conto che lei lo conosce meglio di me. Eppure… be’, la gente si fa ipnotizzare dalle scelte difficili e smette di cercare delle alternative. La determinazione di essere stupidi è una forza molto potente…»
Quell’affermazione gli valse un’improvvisa risata di Galeni e un’occhiata pensierosa.
«… ma ci sono sempre delle alternative. È certo molto più importante la lealtà ad una persona che non a un principio.»
Galeni sollevò un sopracciglio. «Immagino che la cosa non dovrebbe sorprendermi, venendo da un barrayarano. Da una società che per tradizione si è organizzata su giuramenti interni di fedeltà invece che su una struttura esterna di leggi astratte… è questa la posizione politica di suo padre?»
Miles si schiarì la gola. «Direi piuttosto la teologia di mia madre. Da due punti di partenza diametralmente opposti, arrivano a questa strana convergenza di vedute. La teoria di mia madre è che i principi vanno e vengono, ma che le anime degli esseri umani sono immortali e che quindi bisognerebbe schierarsi con i più forti. Mia madre tende ad essere estremamente logica. È betana, sa?»
Galeni si sporse in avanti, interessato, stringendo le mani tra le ginocchia. «La cosa che mi sorprende di più, è che sua madre abbia davvero avuto una parte nella sua educazione. La società barrayarana ha la tendenza ad essere così, ehm, aggressivamente patriarcale. E la Contessa Vorkosigan ha la reputazione di essere la più invisibile delle mogli di politici.»
«Già, invisibile» convenne Miles tutto allegro, «come l’aria. Se scompare non te ne accorgi… fino al respiro seguente.» Represse un lampo di nostalgia e di violenta paura… Se questa volta non ce la faccio a tornare…
Galeni esibì un sorriso di educata incredulità. «È difficile immaginare il Grande Ammiraglio che si arrende alle… ah… blandizie muliebri.»
«Si arrende alla logica. Mia madre è una delle poche persone che conosco che ha quasi del tutto dominato la volontà di essere stupida.» Miles corrugò la fronte, riflettendo. «Suo padre è un uomo brillante, vero? Voglio dire, date le circostanze. È riuscito ad eludere la Sicurezza, a mettere insieme, anche se solo temporaneamente, delle azioni efficaci, ha dei seguaci, ed è senza dubbio tenace…»
«Sì, direi di sì» rispose Galeni.
«Umm.»
«Cosa?»
«Be’… c’è qualcosa in tutto questo complotto che mi sconcerta.»
«Direi che c’è ben più di una cosa!»
«Non da un punto di vista personale, ma da un punto di vista della logica. In astratto. Come complotto, in quanto complotto, c’è qualcosa che non quadra neppure dal suo punto di vista. Certo è un azzardo, si devono correre dei rischi, è sempre così quando si cerca di mettere in pratica un piano… ma qui si va ben oltre i problemi pratici. C’è qualcosa di bizzarro, in tutto questo.»
«È audace. Ma se ha successo, se il suo clone si impadronisce dell’Impero, lui avrà tutto, sarà al centro della struttura di potere barrayarana. Del potere assoluto.»
«Stronzate» disse Miles.
Galeni sollevò un sopracciglio.
«Solo perché il sistema su cui questo potere si basa non è messo per iscritto, questo non significa che non esista. Lei sa benissimo che il potere dell’Imperatore deriva esclusivamente dalla collaborazione che è in grado di ottenere dall’esercito, dai dignitari, dai ministri e dal popolo in generale. Accadono cose terribili agli imperatori che non svolgono la loro funzione con piena soddisfazione di questi gruppi. Lo smembramento dell’imperatore Yuri il Folle è abbastanza recente. Anzi, mio padre ha assistito di persona, quando era bambino, a quella esecuzione decisamente cruenta. Eppure, ancor oggi, la gente si chiede perché non abbia mai cercato di impadronirsi dell’Impernim!
«Ed ecco qui questa imitazione di me, che vuole impadronirsi del potere con un colpo di mano cruento, per poi trasferire potere e privilegi a Komarr, anzi, magari anche proclamandone l’indipendenza. Risultato?»
«Prosegua» lo incitò Galeni affascinato.
«L’esercito si offenderà, perché così getterò al vento quelle vittorie che hanno pagato a caro prezzo. I dignitari si offenderanno, perché mi sono posto al di sopra di essi. I ministri si offenderanno perché la perdita di Komarr come fonte di tasse e punto focale dei commerci ridurrà il loro potere. Il popolo si offenderà per tutte queste ragioni, più il fatto che ai loro occhi io sono un mutante e dunque, nella tradizione barrayarana, fisicamente impuro. L’infanticidio per ovvie deformità fisiche è ancora praticato segretamente nelle regioni più isolate, lo sapeva? Nonostante siano quarant’anni che è stato messo fuori legge. Se riesce a immaginare un destino più orrendo che l’essere smembrato vivo, be’, quel povero clone ci si sta buttando a capofitto. Non sono sicuro che neppure io potrei impadronirmi dell’Impero e sopravvivere, anche senza le complicazioni di Komarr. E quel ragazzino ha solo… quanti anni? Diciassette, diciotto? È un complotto idiota. Oppure…»
«Oppure?»
«Oppure è un complotto del tutto diverso.»
«Umm.»
«Inoltre» proseguì Miles con minor foga, «perché Ser Galen che, se non sbaglio nel giudicarlo, odia mio padre più di quanto ami… chiunque altro, dovrebbe darsi tanta pena per mettere proprio il sangue dei Vorkosigan sul trono imperiale barrayarano? Come vendetta mi pare un po’ oscura. E ammesso che per qualche miracolo riesca a mettere sul trono quel ragazzo, come si propone di controllarlo?»
«Col condizionamento?» suggerì Galeni. «O minacciando si smascherarlo?»
«Mmm, forse.» Di fronte a quel punto morto, Miles tacque. Dopo parecchi minuti riprese.
«Secondo me il complotto vero è molto più semplice e più astuto. La sua intenzione è quella di far apparire il clone nel bel mezzo di una lotta di potere, solo per creare il caos su Barrayar. I risultati di quella lotta sono irrilevanti, il clone è solo una pedina sacrificabile. Al culmine di questa lotta su Barrayar, che più sarà sanguinosa e meglio sarà, scoppia una rivolta su Komarr. Deve avere un alleato all’interno pronto a farsi avanti con una forza militare abbastanza forte da bloccare l’uscita della distorsione. Dio, spero solo che non abbia stretto un patto col diavolo, che non si sia alleato con i cetagandani a questo scopo.»
«Barattare l’occupazione barrayarana con un’occupazione cetagandana non mi pare un’idea molto brillante… no, non è pazzo fino a questo punto. Ma che ne sarà del suo costosissimo clone?» chiese Galeni, riflettendo sulle implicazioni.
Miles fece un sorriso torvo. «A Ser Galen non importa un fico: il clone è solo un mezzo per raggiungere un fine.» Aprì la bocca, la chiuse, la riaprì. «Solo che… continuo a sentire la voce di mia madre, nella testa. È di lì che ho preso il mio perfetto accento betano, sa? Quello che uso per l’ammiraglio Naismith. E la sento anche adesso.»
«E cosa dice?» chiese Galeni sollevando le sopracciglia, divertito.
«Miles, dice, cosa ne hai fatto di tuo fratello?»
«Il clone non è suo fratello!» esclamò Galeni.
«Al contrario, per la legge betana, il clone è proprio mio fratello.»
«È una follia. Sua madre non può pretendere che lei protegga quella creatura.»
«Oh, ma certo che può» sospirò cupo Miles, mentre la fitta di panico inespresso si trasformava in un peso sullo stomaco. Complicato, troppo complicato…
«E questa è la donna che, a suo dire, sta dietro all’uomo che è dietro l’Impero di Barrayar? Non lo capisco. Il conte Vorkosigan è il più pragmatico dei politici; guardi solo lo schema di integrazione komarrana.»
«Già, guardiamolo» replicò Miles cordiale.
Galeni gli scoccò un’occhiata sospettosa. «Gli individui prima dei principi, eh?» commentò poi.
«Appunto.»
Il capitano si accasciò sulla panca. Dopo un po’, torse un angolo della bocca nella parodia di un sorriso, mormorando: «Mio padre è sempre stato un uomo di grandi… principi.»