«Dell’amore come spettacolo, Bathsheba aveva una discreta conoscenza; ma dell’amore, soggettivamente, non sapeva nulla.»
Quando Aurora fermò la macchina, B476 si arrampicò sulla spalliera del sedile e cominciò a squittire, lamentandosi per quella cessazione del movimento.
«Su, andiamo,» disse lei. Ma B476, un ratto da laboratorio bianco e nero, continuò a fremere innervosito fino a quando Aurora non gli accarezzò la schiena con il pollice.
Accendendosi una sigaretta, lei si appoggiò alla spalliera e guardò i pali storti del telefono, simili agli alberi di navi bloccate dalla bonaccia. Gli alberi cominciavano a gettare ombre molto lunghe, ormai, e Aurora si era persa.
Spalancò il cassetto del cruscotto, poi lo rinchiuse subito. L’istinto la spingeva a cercare lì dentro la carta stradale del Nevada, mentre sapeva benissimo che era nella tasca del suo impermeabile, appeso nell’armadio a casa sua, a Santa Filomena, lontana parecchie centinaia di chilometri.
Quante centinaia fossero, lei non ne aveva idea. Era evidente che quella strada stava diventando un sentiero per mucche, e che portava a nord, non a est. Era partita da Santa Filomena quella mattina, con l’idea di arrivare a Millford prima di notte. Sembrava che l’ultimo cartello «DEVIAZIONE — VIETATO L’ACCESSO — ZONA MILITARE — PERICOLO» l’avesse dirottata nella direzione sbagliata. Adesso poteva trovarsi a una dozzina come a un centinaio di chilometri di distanza dall’autostrada dell’Utah. Comunque, sembrava non ci fosse altro da fare che tirare avanti.
Con un sospiro, schiacciò la sigaretta nel portacenere già strapieno. Poi lo estrasse e lo vuotò fuori dal finestrino. Il vento s’impadronì del turbine di cenere e lo portò via in scie che il sole colorava di arancione pallido. La polvere tornava alla polvere, le ceneri alla cenere del deserto. Yucca Flats non poteva essere molto lontana. Alcune particelle di pulviscolo continuarono a volarle intorno in un insensato moto browniano, faville di luce ardente.
Il fulgore precipita dall’aria
Tante belle regine sono morte;
E la polvere ha chiuso gli occhi d’Elena…
B476 e B893 si erano raggomitolati vicino a lei sul sedile. I ratti da laboratorio erano sempre deboli e delicati, ed erano sensibili al rinfrescarsi dall’aria, quando calava il sole. Era assurdo, si disse Aurora, preoccuparsi tanto della sorte di un paio di ratti malaticci, quando la razza umana stava per essere strangolata dalla propria invenzione. Era…
Anormale?
Una volta, una rivista aveva scritto, a proposito dei bambini prodigio: «È errato supporre che non possano vivere esistenze felici, equilibrate, piene. L’idea popolare dei bambini prodigio nevrotici è infondata.»
Aurora aveva tre anni quando aveva letto quell’articolo e ne aveva valutato le promesse. Era così? Lei avrebbe avuto davvero un’esistenza felice, piena, equilibrata? Dunque lei era eguale a tutti gli altri? Oppure era destinata, come suo padre, a uno speciale tormento?
L’ipotesi vera era la seconda, e lei lo sapeva già quando aveva tre anni. Quando parlavano con lui, gli altri chiamavano suo padre «Charlie», ma dietro le spalle, lei lo sapeva, gli davano «dell’inventore matto», e ridevano di lui, con una sorta di paura negli occhi. Come lei avrebbe capito più tardi, quella era la ragione di tutti i brutti scherzi. Non ne avevano risparmiato uno, dal rovesciargli la latrina all’appendere un water nel granaio fino a spassi più maligni, come bruciargli la rastrelliera del granturco quand’era piena. Lui sembrava non si arrabbiasse mai: era solo perplesso. Soffiava nella pipa spenta, di solito vuota, e osservava il cane avvelenato o il chiodo piantato nel serbatoio del trattore come se fosse una specie di equazione da risolvere con un’attenta concentrazione.
Adesso, mentre Aurora ingranava di nuovo la marcia e si avviava per quella strada evanescente, le sembrava quasi che qualcuno stesse giocando un brutto scherzo a lei. Vide un altro cartello, «DEVIAZIONE»: indicava due solchi di ruote di carro che non potevano condurre da nessuna parte. Lei obbedì, scrollando la testa.
B476 le si arrampicò sulla spalla, si rannicchiò tra il collo di lei e la spalliera del sedile e si accinse a dormire. Lui e B893 non erano utilizzabili per gli esperimenti. Erano ratti «di scarto» che, a causa di difetti genetici o di condizionamenti particolari, erano inutili per gli esperimento comportamentistici. Lei aveva preso l’abitudine di portarseli a casa, per quei pochi mesi che vivevano. Certo, erano scherzi di natura, erano anormali… ma Aurora sapeva empatizzare con l’anormalità.
Aurora era un genio in una comunità in cui il genio era trattato come una pericolosa deviazione della norma. La simmetria campaniforme della normale curva di distribuzione dei Quozienti d’Intelligenza, nella sua prima scuola, era diventata una gobba simile alla rocca di Gibilterra, prima che la notassero e!a spedissero ad una «scuola differenziale per bambini eccezionali». I suoi compagni di classe avevano palati fessi, catarratte agli occhi e menti opache. I maestri non capivano bene perché Aurora fosse finita lì: la sospettavano di avere qualche difetto nascosto e perciò più orribile.
Aurora non era rimasta a lungo alla scuola differenziale. Studiando a casa, a dieci anni aveva preso il diploma delle scuole superiori con un corso per corrispondenza. A tredici anni si era laureata summa cum laude in psicologia del comportamento all’University of Minnesota, e a diciassette era diventata Professore Associato di Psicologia all’University of California a Santa Filomena.
Era stato allora che aveva assunto l’aspetto scialbo e prudente che aveva preso il posto del vero carattere nella sua vita professionale. Portava i capelli corti (ma non troppo), le unghie corte e laccate di chiaro, scarpe con mezzi tacchi. Oltre al sobrio vestito a giacca che indossava, ce n’erano altri cinque nel suo armadio, a casa, di varie sfumature di grigio. Si truccava e si ingioiellava solo quel tanto necessario per non farsi notare per quel tipo di donna che non si trucca e non porta gioielli. Non che ad Aurora (la vera Aurora, racchiusa nel profondo della sua figura professorale) non sarebbe piaciuto essere ammirata, ma la sua posizione richiedeva un tatto particolare. Doveva rendersi poco appetibile agli occhi dei suoi studenti maschi (molti dei quali erano più vecchi di lei), per tenerli a debita distanza. Doveva sembrare più vecchia agli occhi dei suoi colleghi, che nonostante tutto tendevano inconsciamente ad essere scettici nei confronti dell’efficienza dei giovanissimi. Così la mimetizzazione delle aule e del laboratorio era diventata un’abitudine. Aurora aveva vent’anni, se ne sentiva venticinque, si comportava come se ne avesse trenta, e qualche volta la gente gliene attribuiva trentacinque.
Due figure erano ferme sulla strada, a sinistra; evidentemente aspettavano che qualcuno desse loro un passaggio nella direzione da cui arrivava Aurora. Rallentò per chiedere se sapevano la strada per Millford, Utah. Quando i due si girarono, Aurora rimase sbalordita nel riconoscere un suo allievo, Kevin Mackintosh.
«Che ci fa qui nel Nevada, Mr. Mackintosh?» gli chiese, frastornata.
Il giovanotto aveva gli occhi vitrei. Invece di risponderle, diede una gomitata al suo compagno. «Siamo davvero andati,» borbottò. «Quella pollastra lì mi sembra una delle mie prof.»
«Oh, era roba buona,» assentì l’altro, guardando da un’altra parte. «Quale pollastra?»
Aurora si innervosì un po’. Innestò la prima e tenne il piede sull’acceleratore. «Avete idea da che parte sia la strada per l’Utah?» chiese, incalzante.
Kevin Mackintosh pareva guardare nel vuoto. «La strada per il Tao?» mormorò. «Le Sette Vie. Guardi!» Levò le braccia verso il tramonto. «Apocalisse! Le vergini sagge accendono le lampade! La nera yoni della Notte accoglie il lingam fiammeggiante del Giorno!»
«Già, la Guerra dei Mondi,» disse Ron.
«Signora, il mio amico Ron, qui, ed io, abbiamo visto l’Inferno. Abbiamo visto la fine del mondo in smagliante technicolor. I paracadutisti che combattevano alla morte contro i Mostri venuti dallo Spazio. Hanno arrestato i nostri amici, ma noi siamo scappati.»
«Chi è stato?» chiese Aurora. «I Mostri Venuti dallo Spazio?»
«No, i paracadutisti. L’esercito. È la fine della civiltà.»
«Pentitevi!» urlò l’altro. «Avete visto Gorgo?»
«Il mio amico, qui, ed io stiamo attraversando il Sahara anche se non abbiamo acqua, e andiamo in Marocco.»
Aurora si rilassò un po’, riconoscendo un paio di studenti non troppo intelligenti del college, che drammatizzavano il loro primo incontro con la droga. «Se non v’interessa molto il modo in cui ci arrivate,» disse, energica, «potete venire con me nello Utah… spero.»
«No, grazie, signora. Dico sul serio, andiamo in Marocco; Ron ha la carta di credito delle linee aeree di suo padre. Ne abbiamo fin sopra la testa di questo paese. Bisogna andare in Marocco, con Dorothy Lamour e Bing Crosby e Bob Hope e William Burroughs.» Cominciò a cantare, con voce stonata, una versione approssimativa di «The Road to Morocco».
«Ho capito,» disse il suo compagno. «Hai visto Casablanca?»
«Se mai ce la faremo a trovare un passaggio per andarcene da qui. Non passano altro che jeep e carri armati, come in Campo di battaglia, e mica si fermano.»
«Così, se ne sono andati?» fece Aurora, e premette l’acceleratore.
«No andati,» spiegò paziente Mackintosh. «Armati.»
Quando Aurora si allontanò, Ron la guardò e lanciò un urlo. «Oh mio Dio, sto proprio andando! Oh mio Dio! CÈ UN RATTO CHE LE SPUNTA DALLA TESTA!»
«Già! Ehi, Ron, hai mai visto Giorni perduti?»
Un cartello la informò che le luci a sinistra erano quelle di Piedport, Nevada, sei chilometri più in là. Mentre Aurora stava per esalare un sospiro di sollievo e per infilare la deviazione (perché almeno a Piedport ci doveva essere un albergo), le luci della cittadina si spensero. Si fermò e attese per parecchi minuti, ma non successe niente. Era inutile stare lì ferma, e tanto valeva continuare e arrivare a un centro abitato che almeno avesse l’illuminazione.
La radio fece udire solo uno squittio che allarmò B476. Nessuno dei pulsanti pareva avere altro effetto che quello di variare l’intensità del sibilo. Era strano, perché non poteva essere più tardi delle nove. Avrebbe dovuto esserci una dozzina di stazioni.
Regolando i comandi a mano, trovò una stazione molto debole, a sud-est.
«…voi continuate a mandarci lettere e cartoline, eh? Indirizzatele tutte a me, siamo felici di avere vostre notizie… chiedeteci pure tutte le canzoni che volete… Ecco qui un comunicato, gente, sembra che abbiano avuto un guasto alla rete di distribuzione dell’elettricità dalle parti della California, Nevada, Oregon, Utah, Washington… Iowa, Kansas…»
Nel bel mezzo di questo elenco allarmante, la stazione si perse. Aurora trovò una stazione di San Francisco, ma quella si limitò ad esortarla a non telefonare all’azienda elettrica.
«Stanno facendo tutto il possibile per ristabilire il servizio. Ripeto il bollettino con il messaggio del Pentagono: «Il guasto è stato causato da un corto circuito di una centrale nel Nevada, in seguito ad un esperimento di cui non è consentito divulgare la natura, ma che era d’importanza vitale per la sicurezza della nazione. La corrente verrà ridata al più presto possibile’. Questo era il comunicato del Pentagono. E adesso, ve lo ripeto ancora una volta, non telefonate all’azienda elettrica…»
Aurora cominciò a vedere dei veicoli militari parcheggiati sui due lati della strada. Sembravano abbandonati, oppure gli occupanti si fingevano morti. Forse in quello che Mackintosh e il suo compagno le avevano detto c’era del vero, più di quanto avesse immaginato. E la caduta della corrente…
Si portò sul bordo della strada e parcheggiò. Conoscere i potenziali pericoli del Progetto 32 era inquietante, ma vedere concretati quei pericoli era troppo orribile perché potesse rendersene subito conto. Doveva evitare quel pensiero, si disse, spegnendo i fari. Aveva bisogno di contemplare la serenità del cielo.
Era il più luminoso che avesse visto, dai tempi della fattoria nel Minnesota. Non c’erano luci che nascondessero le stelle, e Aurora si stupì di quel fulgore. C’erano Sirio e Aldebaran, che indicavano le Pleiadi, e Orione. C’erano Castore e Polluce. Lei ripensò alle notti in cui aveva imparato i loro nomi, sbirciando con uno dei telescopi inservibili e pieni di crepe di suo padre.
In quella stagione la fattoria odorava di granturco ed era immersa nel frinire dei grilli… era sempre così, per tre stagioni all’anno. A intervalli irregolari, per tutta la notte, l’unico animale da allevamento della fattoria, il Gallo, si metteva a cantare. Per il Gallo, qualunque momento era l’alba; era come l’orologio rotto sulla mensola del camino e l’orologio rotto del corridoio. Di tanto in tanto, suo padre decideva di aggiustare uno degli orologi, ma lei non li aveva mai sentiti funzionare.
Suo padre aveva inventato una macchina per scuoiare i polli, ma non aveva avuto il coraggio di provarla, neppure sul Gallo, e neppure su qualunque altro pollo. Perciò, sebbene fosse un apparecchio molto bello, e su questo erano d’accordo tutti e due, era finito in mezzo al prato; aveva finito per arrugginirsi, e il Gallo vi si appollaiava per annunciare l’alba alle 11 di notte.
Sul prato si erano aggiunti altri ornamenti, con il passare degli anni. Un pallone aerostatico che perdeva. Una specie di doccia meccanica per gli uccellini, che gli uccellini evitavano. Un modello perfezionato di macchina per cucire. E circa 168 telescopi, il primo incominciato quando Aurora era nata e sua madre era morta, l’ultimo rimasto incompleto diciassette anni più tardi.
Ogni volta, suo padre molava con diligenza le lenti per un giorno o due, poi passava ad altri progetti. Di tutti i telescopi sul prato, l’unico funzionante era quello che suo padre aveva acquistato da un rigattiere e aveva riparato con lo scotch. Con quello, Aurora aveva scrutato il quadrato di Pegaso, Vega e il trono di Cassiopea, le stesse stelle immutabili che adesso guardava attraverso il parabrezza.
Una sagoma nera e orrenda si mise tra lei e le stelle. La portiera dell’auto si aprì e uno gnomo dal collo taurino, in uniforme, salì accanto a lei. Lasciò la portiera aperta per un momento, per vederla meglio.
«Calma, pupa,» ringhiò, agitando una pistola. «Sono il generale Grawk dell’Aeronautica degli Stati Uniti, e non ho mai violentato una donna in vita mia. Non ne ho mai avuto bisogno, se capisce quel che voglio dire. Certo che c’è sempre una prima volta, no? Ahah!»
«Come sarebbe? Scenda dalla mia macchina!» Aurora lo disse con il suo più severo tono professorale. Lui ridacchiò.
«Requisisco questa macchina, signora mia. Emergenza nazionale. Forse avrà sentito che è mancata la corrente dappertutto?» Si puntò il pollice sul petto. «Sono stato io. Comunque, ho bisogno di una macchina con autista, e lei è la prescelta.» Si fece un po’ più vicino. «Non è poi così male, vede.»
Un fievole squittio risuonò sotto al generale.
«Si alzi! Si è seduto sul mio ratto!» gridò Aurora.
Si compì una trasformazione istantanea. Quello che un attimo prima era un piccolo scimpanzé aggressivo, sogghignante, sicuro di sé, urlò e volteggiò per finire sul sedile posteriore. Il corpo di B893 giaceva schiacciato sul cuscino del sedile anteriore. Aurora lo prese per la coda. Era morto. Un sorriso strano le aleggiò sul volto, mentre lo sollevava, rigirandolo nella luce.
«RATTObuttiviaquelRATTOvialontanodaMEbuttiviaquelRATTO!» urlò lui.
«Scenda dalla mia macchina. Subito.»
La canna della pistola le fece schizzar via dalla mano B893 fuori dalla portiera aperta. Grawk ritornò sul sedile anteriore e la guardò con un’espressione mutata, più rispettosa. «Mi è simpatica,» disse. «Non perde la calma, lei. Il suo ratto, eh? Che bell’idea. Ma adesso muoviamoci. Svolti a destra alla prossima pietra miliare.» E sbatté la portiera. Aurora non si mosse.
«Ho un altro ratto in macchina con me,» disse freddamente, assaporando ogni parola. «Vivo.»
«DOVE? Oddio, ce l’ho addosso? Dove?»
«È al sicuro, fuori dalla sua portata, per il momento. Ma se non butta la pistola sul sedile posteriore e non comincia a comportarsi da gentiluomo, questo ratto glielo infilo dentro al colletto!»
«Sta… sta scherzando.» Un lungo silenzio. «Su, non può essercene un altro… c’è?» Un altro lungo silenzio, poi la pistola cadde con un tonfo sul sedile posteriore.
«E adesso, generale, la condurrò dovunque vorrà andare, se mi dice cos’è tutta questa storia.»
«Andiamo al quartier generale del NORAD, nel Colorado. È più sicuro,» disse lui, con voce turbata. «Non posso dirle cosa ci faccio qui… è un segreto.»
«Se ha qualcosa a che fare con il Progetto 32, può dirmelo,» fece Aurora e gli passò la borsetta. «Lì dentro ci sono i miei documenti.»
«Chi è lei?» Il generale frugò nella borsa, tirò fuori una carta e vi puntò contro una lampada tascabile. «Aurora Candlewood, Ph. D. Consulente Psicologico Speciale del Progetto 32. Una bambina come lei? E che significa quel titolone, pupa?»
«Se lei sta per dirmi quello che immagino, significa che il Progetto 32 ha un bisogno disperato della mia presenza.»
«Glielo dico io di che cosa abbiamo bisogno,» fece lui. «Di un bravo ammazzadraghi.»
«Giusto. E adesso, per favore, le spiace dirmi qualcosa di più sul conto del drago?»