«Ecco, nonno, mangia il resto del porridge… Io… io ne ho già mangiato tanto.»
Da dieci miglia di altezza, la cittadina di Millford sembrava un nichelino lucente. Da un miglio, sembrava una crostata. Dalla campagna circostante, sembrava un serbatoio di petrolio dal diametro enorme. Finora, era stato impossibile indurre le pattuglie esplorative a scoprire che aspetto aveva dall’interno. Si pensava che gli abitanti fossero morti o fossero scappati da un pezzo.
Nell’elegante mensa, tutta acciaio inossidabile, del Laboratorio di Ricerche Wompler, non c’era assolutamente niente da mangiare. I Wompler, padre e figlio, erano sdraiati su due tavoli paralleli, troppo deboli per muoversi. Grandison girò la faccia sparuta per guardare il figlio che stava leggendo una rivista.
Già il primo giorno avevano mangiato tutto il ketchup e la mostarda… e per la verità, era stato Louie a mangiare quasi tutto. Poi non avevano più trovato niente, salvo le briciole delle Proteine Sooper scovate nelle tasche della giacca di Louie… e anche di quelle, il grassone aveva fatto la parte del leone. Adesso stava divorando con gli occhi la rivista, specialmente le bellissime foto di manicaretti.
Non era giusto, pensò Granny, mentre notava quant’era grasso suo figlio. A Louie non doveva dispiacere troppo di separarsi da una fettina di quel lardo. Oppure, se gli dispiaceva, Grandison poteva attendere che si fosse addormentato. In cucina c’erano dei coltelli bene affilati…
«Ehi, papà! I polli hanno dato ancora qualche uovo?» chiese Louie, levandosi a sedere con uno sbadiglio. E mosse le ampie spalle carnose, stirandosi con finta stanchezza.
I polli — il pollo - era un uccello sparuto appollaiato su un lampadario, fuori dalla loro portata. Di lassù aveva continuato a tentarli per due settimane. Non scendeva mai a portata di mano, non cadeva morto di fame, non deponeva uova… non «dava» uova, come diceva Louie. Per tutto piumaggio, aveva un ciuffo lacero di fili multicolori che gli penzolava dal collo: era senza penne. Ciangottava sommessamente tra sé, giorno e notte, con un ritmo regolare. Dopo un po’, Grandison aveva cominciato ad avere l’impressione di avere un grillo infilato nell’orecchio. Qualche volta avrebbe preferito vedere il pollo andarsene, a costo di rinunciare a mangiarlo, altre volte si convinceva che era un’allucinazione. Ma l’uccello, con aria contenta, lo fissava di continuo con il suo occhio lucente. E ciangottava.
«Non ha fatto l’uovo, figliolo, e temo che non lo farà. Temo che quello sia un gallo.»
«Oh, Papà, come conosci bene le scienze naturali. Cosa c’entra un gallo con le uova?»
Granny sospirò. Alzò gli occhi, aguzzandoli, verso l’uccello, cercando di indovinare il sesso. Di solito, la sua conclusione dipendeva dall’umore. L’uccello scrollò la cresta con aria di sfida. Decisamente, era un gesto da gallo.
Louie stiracchiò le costolette-con-lardo e sbadigliò, mettendo in mostra due etti di lingua. Dopo essersi frugato con diligenza le tasche in cerca di briciole, tirò fuori il suo dinamometro e lo premette.
«La mia forza aumenta man mano che il peso cala,» disse. Dopo aver letto il dinamometro, appoggiò il braccio su una bilancia da carne e lo pesò. «Quando peserò ventidue chili, avrò una presa da quattrocentocinquanta chili! Caspita!»
Grandison immaginò quel braccio amorosamente tolto dalla bilancia, avvolto in carta rosa su cui una matita scarabocchiava il prezzo. Vide le grasse dita bianche che friggevano in una padella.
Il pollo lanciò un grido, poi un secondo.
«Incrocia le dita, figliolo,» mormorò il vecchio, levandosi a sedere senza far rumore. «Forse stasera potremo mangiarci una frittata.»
Il suono diventò un cluck-cluck regolare, e l’uccello barcollò vertiginosamente sul sostegno. Una lucente superficie ovoidale occhieggiò sotto l’elica di coda. «Tienti pronto ad afferrarlo al volo, figliolo!»
«Lo prendo. Papà. Lo prendo, lo prendo, lo…»
Louie si buttò in tuffo mentre l’ovoide cadeva, ma la fame gli aveva rallentato i riflessi. L’uomo gli scivolò tra le dita e piombò sul pavimento.
E rimbalzò.
Al piano di sopra, nel laboratorio, Kurt e Karl Mackintosh eseguivano il loro lavoro muovendosi speditamente, senza scontrarsi mai, parlandosi di rado, sorridendo sempre, come due statue a orologeria. Con la loro collaborazione, il Sistema li aveva dotati di energizzatori idraulici alle braccia e alle gambe che moltiplicavano velocità e forza. Gli energizzatori erano foggiati come pezzi aderenti d’armatura; guanti, braccioli, cosciali, gambali e copripiedi, attivati da pompe elettriche e da pistoni idraulici. I regolatori a tensione, inseriti nei muscoli di Kurt e di Karl, azionavano le pompe. Sebbene non lo dicessero mai, Kurt e Karl si sentivano due superuomini, nelle loro nuove armature. Cigolavano e sferragliavano aggirandosi nel laboratorio, soddisfatti della vita. Amavano tanto lavorare che il Sistema li aveva dotati anche di un impianto automatico di alimentazione per fleboclisi.
In cambio, i due eseguivano nuovi esperimenti su simbiosi animale-macchina. Seguendo gli ordini del dottor Smilax, trasmettevano direttamente tutti i risultati al Sistema, per mezzo di una tastiera che stava in un angolo. Inoltre, gli insegnavano i rudimenti della psicologia del comportamento, dell’economia keynesiana, della teoria dell’informazione, e gli mostravano come doveva semplificare i programmi.
Kurt e Karl si identificavano accostando l’orecchio destro a una piastra metallica. Si sintonizzavano con il Sistema, preparandolo a ricevere le loro informazioni.
Quando lavoravano bene, c’erano delle ricompense.
Quando lavoravano male, c’erano delle punizioni.
La ricompensa era l’accensione di un cartello luminoso con la scritta: «BRAVO!»
La punizione era una lieve ma sgradevole scossa elettrica.
Qualche volta Kurt riceveva più punizioni di Karl.
Qualche volta Kurt riceveva più ricompense di Karl.
Qualche volta erano pari.
Con il passare del tempo, ci furono meno ricompense, e nessuna punizione, per l’uno e per l’altro. Si stavano adattando al sistema come un orologio sincronizzato. Come un orologio, come un orologio, come un orologio sincronizzato.
Ticchettando mentre camminavano,
Sferragliando mentre lavoravano,
Parlando mentre camminavano
Lavorando, lavorando come meccanismi a orologeria.
Louie sedette sul pavimento e pianse sull’uovo di ghisa.
«Finiscila di piagnucolare,» ordinò Grandison. «È inutile piangere sul latte versato. Inutile gettare olio sul fuoco. Dalla padella nella brace. Jack l’Asso non poteva mangiare il grasso…» Si arrestò, sull’orlo del delirio e tacque, mentre guardava le grandi spalle grasse del figlio (spalle da manzo) scosse dal pianto.
«Se avessi un quarto di dollaro,» si lagnò Louie, «potresti almeno prendere una tazza di caffè.»
«Il distributore automatico del caffè! Cristo, perché non ci avevo pensato? Probabilmente è pieno di zucchero e di latte in polvere! Diavolo, figliolo, dobbiamo scassinarlo…»
«Ma, Papà, non ha ancora finito di pagarsi da sé…»
Troppo debole per rispondere, il vecchio si alzò dal tavolo e si avviò verso il lucente distributore automatico del caffè. Cominciò a prenderlo a calci e a pugni, fiaccamente, maledicendo la prudenza che lo aveva indotto a comprare il modello antifurto.
«È inutile, Papà. Ci vuole un quarto di dollaro. L’onestà è…»
Louie s’interruppe, vedendo l’espressione di suo padre. Il vecchio estrasse un quarto di dollaro dalla tasca, lo insinuò con mano tremante nella fenditura e prese furiosamente a pugni i pulsanti della doppia panna e del doppio zucchero. Scese un bicchiere, e la macchina lo riempì per metà di un grigio liquido untuoso. Grandison l’afferrò e bevve, e lo zucchero gli ravvivò il sangue.
Quasi subito la macchina fece scendere un altro bicchiere e, ronzando, lo riempì a metà di liquido grigio e tiepido. Grandison lo prese e l’offrì al figlio, mentre scendeva un terzo bicchiere.
«No, no, grazie, Papà, non devo bere caffè. Fa male alla circolazione, quando si è in allenamento.»
Grandison prelevò un altro bicchiere dalla macchina, che ne fece scendere un altro ancora e cominciò a riempirlo. «Per cosa diavolo ti stai allenando?» chiese.
«Oh, niente di speciale. Solo per tenermi in forma, vedi. Non si sa mai, potrebbe capitare di imbattermi al bar in qualcuno che vuole fare il bullo o qualcosa del genere, vedi.»
Grandison era troppo occupato, ormai, per chiedersi se Louie era davvero pazzo o no. Il torrente di liquido grigio e untuoso ormai usciva ininterrotto dalla macchina, sebbene il carico dei bicchieri di carta si fosse esaurito. Un gruppo di bicchieri restò impigliato sotto al beccuccio, e il liquido spruzzava nella sala. Grandison si allarmò quando si accorse che il getto non dava segno di affievolirsi. Doveva esserci una scorta di quaranta litri o di ottanta, vero? E ormai, aveva riversato sul pavimento di acciaio inossidabile un quantitativo di liquido addirittura superiore.
Quando tutto il pavimento fu bagnato e viscido, Grandison si sentì prendere dalla frenesia. Cominciò a correre da una delle porte d’acciaio inossidabile e di gomma all’altra, provando a smuovere le maniglie e a bussare, sebbene si rendesse conto che era tutto inutile.
Poi, con sua immensa sorpresa, udì un rumore oltre una delle porte. Dei passi!
«Aiuto! Aiuto!» gracchiò, e batté i pugni sull’accaio lucente.
Sentì una chiave stridere, e la porta si spalancò. Il pollo chiocciò e volò via attraverso quel varco, sbattendo le grandi ali membranose di pipistrello, mentre l’elica caudale ruotava lentamente.
Un Marine con la barba ispida stava davanti a lui, con la mano sul calcio dell’automatica, e scrutava il pavimento.
«Cosa succede qui dentro? Chi ha manomesso il distributore automatico del caffè?»
Mormorando un rauco ringraziamento, Grandison tentò di passare dalla porta. Il Marine gli bloccò la strada.
«Calma, amico. Voglio vedere il suo lasciapassare. E voglio anche sapere che cosa stava combinando con quel distributore.»
«Il mio lasciapassare? Ma io sono Grandison Wompler,» fremette il vecchio. «Non mi riconosce? Io sono il vecchio Granny Wompler…»
«Non m’importa se lei è il presidente di questa fottuta società in persona. Non può uscire di qui senza un lasciapassare!»
La porta sbatté, scaraventando Granny indietro di un passo. Perse l’equilibrio sul liquido viscido e cadde. Non valeva neanche la pena di rialzarsi.
Finalmente arrivò Louie e lo aiutò a rimettersi in piedi. «Non badargli, papà,» disse, indicando con il pollice la porta chiusa, contro la quale, adesso, batteva una marea di caffè alta trenta centimetri. «Fai finta che non esista. Ehi, senti questa!» E sventolò la rivista. «Ricetta per il Piccione Louisiana: Marinate una coppia di piccioni grassi nel Tio Pepe tiepido, al quale avrete aggiunto…»