Capitolo Tredicesimo Il viaggio meraviglioso

«Rudis indigestaque moles»

OVIDIO


Mentre la macchina accelerava, a bordo la conversazione rallentava: fino a che, mentre volavano nella periferia della città deserta, i cinque erano piombati in uno strano silenzio.

L’auto sbandò, rallentò, scese sballonzolando sui rulli d’acciaio in un tunnel buio. Cal la sentì sbatacchiata qua e là da getti di vapore e d’acqua: poteva sentire l’odore dell’acqua saponata. C’era lo stridore delle seghe sull’acciaio, e la tenebra fonda esplodeva e lampeggiava di guizzi lividi. In quella luce strana, Cal si accorse di essere solo. Gli altri quattro, la macchina, tutto ciò che gli era familiare era scomparso, tranne il pezzo di sedile cui era ancora legato dalla cintura di sicurezza, che si muoveva in avanti sui binari invisibili verso un appuntamento misterioso.

Attraverso una doppia porta irruppe in una sala invasa da una luce rossosangue, piena di figure mute e ben vestite. Manichini, pensò Cal con un senso di sollievo. Negli angoli, c’erano arti muti e nudi, a mucchi da carnaio. La metà superiore di un manichino, precariamente eretta, scivolò lungo un piano inclinato oleoso, sbatté con la faccia contro la parete e cadde riversa. In lontananza suonò una campana. Gli spruzzatori innaffiarono l’incendio inesistente, mentre delicate turbine idrauliche giravano sotto di loro. Nell’ombra atrosanguigna, la faccia sfasciata e senza naso del manichino ricevette la pioggia.


Brian Gallopini sì ritrovò inesplicabilmente solo, mentre il sedile al quale era legato usciva nell’arida, gialla luce del sole. La luce sfolgorò biancorossa nella sua retina; socchiuse gli occhi per sbirciare i globi. Soli artificiali? No: vasche per pesci rossi, vasche d’oro innalzate sulle leve verso il sole; un’offerta al sole. I pesci rossi galleggiavano a pancia in su.


I gatti strisciavano sui ripiani superiori, e andavano dal nulla al nulla. Alcuni portavano orologi d’oro o d’argento allacciati intorno alla parte mediana del corpo. Uno si soffermò per il tempo sufficiente perché Daisy potesse leggere l’orologio. Non andava bene. Daisy vide la data cambiare, dal 7 all’8, con uno scatto. Il gatto lanciò un breve grido e si mosse più in fretta. Solo allora, lei si accorse che tirava un piccolo barattolo pieno di pezzi di macchina.


Elicotteri giocattolo a due pale si aggiravano per la sala, intessendo sottili fili di rame in bizzarre trine prive di senso. Jack sbadigliò.


Ogni barattolo sembrava arrugginito quanto bastava per lasciar passare qualche batterio. L’accumulo di gas era terribile, come Harry dimostrò allegramente. Piantò il suo coltello in una scatoletta che gli fece esplodere sugo nero sopra la mano. Lui rise.

«Crauti!» disse. «Crauti marci!»

Cal non rise. «È strano. Quasi tutte le scorte sono andate, e il resto è marcito. In pochissimi giorni. Misterioso. È rimasto qualcosa?»

Harry rise ancora. «Niente di cui valga la pena di scrivere a casa,» disse, affondando il coltello in un altro barattolo, che schizzò fuori ricotta nera e grigia.

Più tardi Cal vide il modo in cui il sistema incorporava quei barattoli esplosivi in una specie di motore a combustione interna, usando un vecchio cilidro d’automobile, e ricaricando otto lattine dopo ogni rivoluzione. Ma in quel momento stava osservando i carrelli da supermarket.

Ferrifere erano le ruote maestose del suntuoso «mostro d’acciaio», o locomotiva, che stava su rotaie di metallo ferrico, lucido e brunito. Appariva possente e, in questo caso, l’apparenza non ingannava, perché in effetti stava sbuffando, impaziente di partire. Il vapore usciva sibilando con insistenza e dava energia alle bielle ironiche, e poi il colosso scendeva su solchi inclinati verso un enorme giro della morte. Salendo tra i ruggiti alla velocità di 180 chilometri orari, il leviatano continuava a fare un giro della morte dopo l’altro. Inserito in un cerchio verticale, alto quattrocento metri, avrebbe continuato così fino a quando non «fosse finito il vapore».

Jack seguiva con gli occhi la locomotiva, aspettando che cadesse. I suoi fari verdazzurri, del colore delle Calliphoridae, splendevano nella foschia pomeridiana. La locomotiva faceva girare una gigantesca manovella, fatta di travi d’acciaio piegate, che aveva come manico un palo telefonico. La manovella muoveva un sistema d’ingranaggi sopra una gru appollaiata sul tetto di un basso edificio, che poteva essere una fabbrica o una scuola.


Gorgogliando, la fila di lavatrici automatiche ricominciò il suo complicato balletto. Ognuna delle tozze lavatrici balzò al suo posto. Se avessero cominciato a muoversi verso di lei, si disse Daisy, si sarebbe messa a urlare. Anche se non sarebbe servito a niente.

Comunque, era un posto come un altro per starsene seduta, a dare un’occhiata a un giornale abbandonato.


IL LANCIO DELLA SONDA PER VENERE


Che idea oscena. Non diceva niente dei movimenti delle lavatrici, notò Daisy. Naturalmente, non c’era un titolo come Entrano in scena le lava-attrici.

Una delle macchine lanciò grandi lingue di fiamma verde.


Quanti cosmetici esistevano per rendere o per conservare belle le donne! Brian Gallopini (Ph. D.) non se ne era mai reso conto. Lì Lady Clinge, la Regina Esther, il Principe Gloriani ed altri nobili si contendevano il privilegio di prendersi cura della superficie delle signore. Ma attualmente facevano a gara per fornire alle grosse macchine simili a scatoloni lubrificanti alla cold cream e carburanti profumati. Una grossa di travi metalliche era stata legata insieme, formando un’elica per azionare un grosso coso a forma di cassa, che le casse più piccole adesso stavano caricando: una specie di gigantesco modellino d’aereo senz’ali. Il modello cominciò a muoversi, maestoso, e uscì dalla facciata sventrata dell’officina, e la sua elica gigantesca frullava sollevando una trina di spuma.


Su di un carro coperto con la scritta WAGONS WEST COCKTAIL LOUNGE, tirato da un cavallo, che si dirigeva lentamente verso est, giaceva un mucchio di figure nude.

«Manichini,» assicurò Harry a Cal.

I due erano in sella a pony meccanici del supermarket, diretti verso ovest. Quando passarono davanti a un casinò in piena attività, Harry indicò gli esseri simili a zombie che stavano dentro. Senza pensare a niente, infilavano monete nelle slot-machines e tiravano le leve. Le ruote giravano, si formavano le combinazioni, ma niente li scuoteva. Non erano macchine, eppure non erano inequivocabilmente umani. Erano i soli elementi di tutta Las Vegas che rimanevano esteriormente immutati, benché al servizio di un nuovo padrone. Con una mano reggevano i club-sandwich e li mangiucchiavano, senza concedersi pause nel loro lavoro.


«Judo,» borbottò Harry in tono d’ammirazione, mentre guardava due scatole grosse come cani che si facevano guerra. «O qualcosa del genere.» Una aveva per scudo un cartello piegato, sul quale era ancora visibile la parola KENO. Kenogenesi? si chiese Cal. Che altro poteva aizzare così un fratello contro il fratello?

La scatola che sembrava un bassotto combatteva con due paia di cesoie tagliafili, mordicchiando le zampe delicate dell’altra, una scatola alta, tipo airedale, che era armata di una sfera di piombo fissata a un bastone e cercava di ridurre il bassotto ancora più piatto. Keno sarebbe riuscito ad accorciare Fido? Oppure Fido avrebbe ridotto Keno alla sottomissione?

Con un ronzio rabbioso si affrettò a intervenire la macchina a raggi X uscita da uno studio di dentista e dipinta di color lavanda. Cal trascinò via Harry prima che entrambi ricevessero una dose letale di radiazioni.


«Kinematografo!» gridò il Professore, ispezionando gli apparecchi a lui sconosciuti dell’officina elettronica. «Fonogramma! Stereofono!» Si fermò davanti a una videocassetta. Poiché non aveva mai visto prima la televisione, Brian si incantò a vedere il vecchio documentario sulla sonda venusiana, che scorreva avanti e indietro come un palindromo.


Da ogni parte sorgevano elaborazioni meccaniche in stile rococò. Daisy le guardava, incapace di concentrare lo sguardo, di comprendere. La vita senza fine di un elevatore di cereali sollevava lungo un piano inclinato una quantità di bocce da bowling e le faceva cadere dalle finestre del secondo piano del casinò. Attraverso fori collimanti, le palle da bowling precipitavano nella cucina del seminterrato dove, poiché la loro energia potenziale si era convertita in energia cinetica, la loro quantità di moto si trasformava in impulsi quando esse urtavano, una ad una, le leve di una pressa. Notte e giorno, la pressa stampava intelaiature d’alluminio per nuove cellule, nuove cellule, nuove cellule. In compagnia dei club-sandwich, le bocce da bowling venivano poi issate al pianterreno a mezzo del montacarichi. I sandwich venivano convogliati su nastri trasportatori fino agli organismi che essi alimentavano e che a loro volta facevano funzionare le dinamo a un braccio, mentre le bocce da bowling rotolavano in un pozzo di caduta, arrivavano sulla strada e venivano caricate sull’ascensore in attesa. L’ascensore era azionato da ingranaggi a orologeria, da un sistema idraulico e, in ultima analisi, dai barattoli di crauti che esplodevano in un’altra parte della città. Questi facevano oscillare i pistoni, girando una manovella che comprimeva l’aria in lunghi serbatoi cilindrici. I cilindri formavano poi i rulli per il trasporto di oggetti pesanti nei dintorni dell’ascensore dove, connesso a motori ad aria, un sistema idraulico e gli ingranaggi tolti dall’orologio di una torre, li faceva funzionare incessantemente. L’energia per modellare le lamiere d’alluminio era fornita dall’evacuazione della riserva d’acqua della città, attraverso turbine idrauliche. L’alluminio veniva fuso in una vasca del reparto animali di un grande magazzino vicino, riscaldata dai raggi del sole concentrati attraverso le vaschette dei pesci rossi. I rottami di alluminio venivano scaricati nella vasca da una catena di gatti.


«NESSUN’ALTRA PALESTRA PUÒ FARVI UNA SIMILE OFFERTA!» Harry lesse l’insegna alla luce della lampada tascabile. «Mangiate quanto volete e dimagrite egualmente!» Il cartellone raffigurava degli uomini in varie posizioni di tortura raffinata: con le braccia tirate da pulegge in posa da crocifissi; frustati dalia cinghia ad anello di un vibratore; piegati in due come feti sotto una piattaforma carica di pesi schiaccianti; e distesi come Prometeo, con il fegato rivolto al cielo, e i manubri stretti nelle mani protese e sofferenti.

Harry lesse il cartellone una seconda volta. Poiché aveva appena finito di salire cinque piani di scale trascinando qualcosa, aveva bisogno di riprendere fiato.


«O Magica Sonda!» intonò il Professore. Ne era incantato, e fingeva di incantarla a sua volta; stava in posa, levando il bastone come una bacchetta magica sopra il televisore. Il razzo arretrò lentamente verso terra e inghiottì e spense le sue fiamme come un mangiatore di fuoco da luna-park.

«O Levitazione!» mormorò. «O Tenebrosa Opera di Monsieur Mesmer!» Come rabdomante, protese la bacchetta magica verso il lavello nell’angolo. Come aleumomante, sparse della limatura di ferro su un magnete.

«L’immagine dell’assassino,» ammonì, «apparirà sulla retina della vittima!»

Ma ora, magicamente, l’immagine sullo schermo si trasformò. Un uomo sorrise, poi versò della birra in un bicchiere, fino a coronarlo di spuma. In un’altra parte del negozio, si stava svegliando un juke-box.


Harry si mise la lampada tascabile sotto al mento per tenerla ferma e l’accese. Daisy lanciò un urlo, e lui rise.

«Sono soltanto io.»

«Dovrebbero chiuderti in gabbia,» gracidò lei.

«Se ritira quello che ha detto,» fece lui, «le confiderò un segreto. È morto qualcuno, e io so chi è.»

«Morto? Chi?»

«Cal. Poveraccio, ha avuto un incidente.» Harry fece un esperimento: coprì la lampada tascabile con le dita, per vedere le ossa in trasparenza. «Una brutta caduta.»


All’improvviso, Brian non fu più solo. I jukebox erano con lui, e suonavano 200 DELLE VOSTRE SELEZIONI PREFERITE. La loro musica lo trascinò in un passato di minuetti e di valzer, di marce patriottiche, mentre gli slittavano davanti in lente giravolte, riempiendo la sala di luci e di suoni.

Chiazze di azzurro cobalto, di fragola, di verde pallido, di ocra turbinavano sulle pareti e sul soffitto. Su uno dei jukebox un pannello ondeggiava celeste, sbiadiva in un lilla orchidea, poi ammiccava rosso scarlatto. Il cromo e l’alluminio e il vetro assumevano le ricche tinte — corallo, turchese, rubino, cedro — e le moltiplicavano fino a che tutta la sala squillava di colori. Brian si sentiva la faccia trasformata in un mosaico di rosa, propora, ambra, sentiva i ritmi della luce palpabile che arpeggiavano sui suoi occhi, mentre le chitarre, gli zufoli e gli ottoni sonanti arpeggiavano sui suoi timpani. Con le labbra beate e multicolori formava le parole cretine delle canzoni, sommerse da quel tumulto. Era meraviglioso, e lui faceva parte di quel prodigio: prese posto nel corteggio mentre i jukebox sfilavano verso la porta. Isole di carminio e d’indaco volavano sul soffitto e sulle pareti davanti a lui, sfrecciando e contraendosi e convergendo verso l’uscita. Lui sentiva che avrebbe seguito la parata dei jukebox praticamente dovunque, via e via fino a quando lui stesso non sarebbe divenuto altro che un suono per la strada.


La luce rossa filtrò attraverso le dita di Harry e scintillò su qualcosa che stava nella polvere.

«Cal è morto! Oh, che peccato,» fece Daisy. «Mi era abbastanza simpatico.»

Harry sorrise nell’oscurità. «Oh, Cal è sempre stato abbastanza simpatico alle donne,» disse. «Ehi, ma dove va?»

«Guarda, sta succedendo qualcosa in quel cinema drive-in,» si voltò a gridare lei. «Forse gli altri sono lì.»

«Mi aspetti,» disse Harry, inginocchiandosi per raccogliere la moneta.


Lentamente un divano-letto si aggobbì, ripiegandosi a organetto come un bruco per misurare il suo progresso lento, ma straordinariamente morbido.


Visitate Parigi! esortava un manifesto sul camion pieno di scarpe rotte. Il manifesto mostrava la torre Eiffel, un venditore di palloncini, un chiosco. Cal, disteso sul letto di scarpe rotte, ebbe tutto il tempo di pensarci sopra. La caduta lo aveva lasciato senza fiato.


U-H — pV (è immagazzinato nel cimitero).


Dal ventre di ROBO il robot uscirono suoni da ventriloquo. Fabbricato con i pezzi di un meccano, faceva lampeggiare le lampadine che fungevano da occhi, agitava le braccia rigide e manifestava in modi simili la propria cordialità. Era ritto nella vetrina buia di un negozio di giocattoli, con i cristalli infranti.

«Ciao, Terrestri,» tuonò rivolto a Daisy. Nel passare, lei sbirciò nell’interno, dove un secondo ROBO si alzava in quel momento, barcollando. Questo aveva solo un braccio, e la testa era formata da un barattolo di latta che portava ancora l’etichetta Pere Harmony.

Daisy e Harry passarono oltre, in fretta. I ROBO non dissero loro addio


«Ci tengono prigionieri a Las Vegas,» batté Cal sulla telescrivente, poi spostò la levetta da TRASMISSIONE a RICEZIONE. La telescrivente tacque per un lungo attimo, riflettendo, sferragliando. Poi rispose: «Ci tengono prigionieri # (%$H) (?e) U¼½pa wE a 77 bEin XXXaX a K ½||* ozzz %3/4%#½ s" aa é$§£ ||EHWKY ffl3/4ffi¼ffl wyG è ↔ ¼W$s"

Sul grande schermo venivano proiettate delle radiografie. Brian Gallopini attendeva, sbadigliando, che incominciasse il film.

Nella forneria, Jack trovò il pane fresco ammucchiato sul piano di carico. Il forno cuoceva il pane automaticamente, ma nessun camion veniva a portarlo via.

Jack aveva avuto fame da un po’, senza rendersene conto. Quella, si disse, era psicologia di massa. Subconscio in azione. Quello che tu hai sempre dentro, veramente (in quel momento, però, era a stomaco vuoto) ma non lo sai. Un pannello segreto si spalanca e viene rivelato l’assassino. Oppure è come una radiografia.


Urlando e agitando le braccia, Cal corse verso le figure d’ombra. Quelle non si voltarono a guardarlo, e lui rallentò il passo.

Passarono sotto un fioco lampione azzurrato: un esercito di pseudouomini in marcia. Molti indossavano bretelle e cinti erniari complicatissimi, che luccicavano e si flettevano nella semioscurità.

Cal vide una cabina telefonica dall’altra parte della strada. Guizzando e schivando, attraversò impacciato la colonna, vi entrò e sollevò il ricevitore. Il telefono era muto. Afonia. Neppure un suono, tranne…

Luccicando e cigolando, l’esercito continuò a zoppicare, ad allontanarsi nel buio.


L’orologio zodiacale sullo schermo segnalava il TEMPO CHE MANCA ALL’INIZIO DEL FILM. Ad ogni minuto che passava, un dodicesimo del quadrante dell’orologio scompariva. Il Professore, che non aveva mai visto un film in vita sua, osservava attento, ma non riusciva a capire che cosa accadeva a tutti i settori che svanivano.


Mentre l’automobile sbandava, rallentava, scendeva sballonzolando sui rulli d’acciaio di una stazione di lavaggio, il Sistema Riproduttivo aveva scoperto una macchina per fare il ghiaccio nella cucina del Silver Horseshoe Casino. Mentre l’automobile veniva fatta a pezzi e lanciata in varie direzioni, il Sistema Riproduttivo scoprì nelle custodie polverose dello studio televisivo un buon numero di vecchi film dell’orrore. Mentre Brian socchiudeva gli occhi davanti ai soli artificiali nel Reparto Animali del grande magazzino, il Sistema Riproduttivo scoprì un «motore» di vetro, esposto per pubblicità in un autosalone, e si accinse a farlo funzionare.

La faccia schiacciata e priva di naso del manichino ricevette la pioggia, mentre i gatti strisciavano sui ripiani superiori. Harry guardava un uomo dipinto su una parete metallica, come se fosse un insetto. Il Sistema Riproduttivo guardava i caratteri stampati dei libri della biblioteca e ne decifrava il significato. Poi li bruciò, gettandoli in una caldaia. Il fuoco della caldaia era basso, soffocato dalle ceneri dell’Enciclopedia Britannica, dell’Enciclopedia Americana e di Mrs. Thrumbold, la bibliotecaria.

I carrelli per la spesa, sospinti da bombolette spray d’insetticida, vagavano per le corsie del supermarket Faresafe, mentre Harry piantava il coltello in un barattolo e rideva. Cal osservava i carrelli, ma Harry, indebolito dai fumi, cadde svenuto. Cal lo trascinò fuori, mentre Jack guardava sbadigliando gli elicotteri giocattolo. Dentro al freezer del Silver Horseshoe Casino, le cellule armate di piccozze lavoravano meticolosamente, foggiando ingranaggi di ghiaccio.

Jack osservava la colossale locomotiva che scendeva lungo le guide inclinate verso un enorme giro della morte, e aspettava di vederla cadere. Daisy guardava una lavatrice che lanciava lingue di fiamma verde. Un bambino, che era entrato strisciando in una casa semisfasciata per dormire, fu svegliato da uno strano rumore.

Cal e Harry guardarono gli esseri simili a zombie che infilavano le monete nelle slot-machines. Daisy osservò l’ascesa delle bocce da bowling, senza riuscire a concentrare lo sguardo e senza comprendere. Il defunto sindaco di Las Vegas salì, quando il suo corpo si riempì di gas, alla superficie della sua piscina. Un’elica gigantesca sollevò una trina di spuma.

Trascinandosi dietro il cavo penzolante e camminando impettito, un flipper messaggero salutò un altro flipper messaggero, quando lo incrociò, mostrandogli un 450 e una Super Special Light.

«6.000.000,» rispose il secondo flipper.

Il Professore contemplò l’ascesa e la discesa della sonda venusiana. Il defunto sindaco di Las Vegas ridiscese sul fondo della sua piscina. Gli ingranaggi di ghiaccio non funzionarono.

Cal salvò Harry da una macchina a raggi X tutta decorata, che innaffiava di radiazioni la strada. Jack si era perduto. Una banca era stata saccheggiata. Sulla morbida cenere grigia del danaro giaceva un guardiano morto, con la fondina vuota. Qualcosa cercava di entrare nella stanza dove stava il bambino.

«O Levitazione!» esclamò Brian. Harry sferrò un pugno a Cal e gli fece perdere i sensi, lo trascinò su per cinque piani fino a un tetto, e lo buttò nel vuoto. Cal non levitò. «L’immagine dell’assassino apparirà sulla retina della vittima!» Quel tetto ricordava a Harry un altro tetto, sul quale lui aveva saltato la corda tanto tempo prima. Mentre scendeva, lesse alla luce della lampada tascabile il cartellone che faceva pubblicità a una palestra.

Visitate Parigi! disse un manifesto a Cal quando questi riprese conoscenza. La caduta sul mucchio di scarpe l’aveva lasciato senza fiato. Al tramonto il motore di vetro si avviò, funzionò per un attimo, ed esplose in schegge lucenti. «Ciao, Terrestre,» disse ROBO. «Ci tengono prigionieri,» batté convulsamente Cal. Jack ricordò di avere fame. Un divano-letto pieghevole lo trasportò nel cinema drive-in. Brian e i juke-box salutarono rumorosamente Cal, Harry, Daisy e Jack. Cal salutò cordialmente Brian, Harry, Daisy e Jack. Jack, felice di essere stato ritrovato dopo essersi perso, salutò tutti con notevole sollievo. Daisy si mostrò sorpresa nel vedere Cal, ma salutò lui, Brian e Jack. Harry salutò Brian e Jack. L’ultimo settore dell’orologio sullo schermo scomparve. Incominciava il «Film», un centone di pellicole educative provenienti dalla scuola (ora trasformata in fabbrica), di trasparenti raffazzonati e di vecchi film dell’orrore:

«Le macchine sanno fare tante cose,» disse una voce deliziosa e deliziata. «Sì, le macchine sanno fare tante cose. La mamma vi cuce i vestitini con una macchina, e li lava con un’altra!»

La donna che cuce viene bruscamente sostituita da un sauro che agita furioso la coda, sferzando i grattacieli. Sotto la sua zampa c’è un’automobile. Scena di un sotterraneo, una ragazza legata a una ruota gigantesca. «Sappiamo che tu non avresti parlato sotto la tortura, Goodfelloe, ma non sopporterai di vedere lei straziata dalla mia ruota!»

Un orrore indicibile lo invade quando i raggi della luna piena fanno spuntare il pelo sulle sue mani. Egli diviene più di un lupo… e meno di un essere umano. Una forma scura si muove tra le nebbie di Rue Morgue, seguendo un’esile fanciulla. Il dottor Frankenstein strappa il lenzuolo che copre il suo esperimento… e il tavolo è vuoto! Papà falcia il prato con una macchina.

«No!» disse il bambino, indietreggiando verso un angolo del materasso sudicio. La stanza era pazzamente inclinata. C’erano dei punti in cui l’intonaco si era staccato, e le canne del graticcio sembravano ossa sbiancate.

Il nero carro funebre con lo stemma del Conte Alucard sferraglia nella notte transilvana. Non c’è il cocchiere. Strani esseri vegetali hanno circondato la piccola fattoria. «Dunque mi credete pazzo? Credete che sia una follia, il desiderio di creare la Vita?» Il bambino si lava i denti con lo spazzolino elettrico ed è felice.

Un pannello si apre, rivelando… «Ma mi dica, dottore, quale è la sua teoria a proposito di questi delitti misteriosi?» «Teoria? Come sarebbe a dire? Perché dovrei avere una teoria, io? Dove vuole arrivare?» Le macchine mungono le mucche.

Il medico si rialza e si toglie gli occhiali. «Strano. Se almeno sapessimo che cosa ha lasciato quei due piccoli segni sulla sua gola.» Le macchine rendono la vita più facile e più lieta.

«No,» disse il bambino. La scatola grigia conosceva bene la sua parte. Avanzò in silenzio, levando alto il braccio con l’ascia.

«L’esercito non può far niente, signore. I mostri si sono impadroniti della città.» Una ragazzina che ride e corre sui pattini a rotelle; un ragazzino consegna i giornali, informando un’elegante bicicletta cromata. «Qui nella giungla, mia cara, vi sono molti misteri su cui coloro che vivono fuori di qui preferiscono non indagare.» «Qui, nella grande Catena di Mesabi, c’è una delle più grandi miniere scoperte nel mondo! Le macchine hanno bisogno di ferro.» Un egittologo solleva un oggetto. «Uhm. Sembra lo Scarabeo della Morte. Ma come diavolo è finito nella stanza del povero Emerson?» «Papà usa le macchine nel suo lavoro…» Tornio, calcolatrice, camion del latte e trapano da dentista si spartiscono lo schermo in parti eguali.

Appare la radiografia di un braccio fratturato. «Questa deve essere la Città Perduta!» esclamò l’esploratore più anziano, scostando le felci per guardare. «…E anche nelle ore di svago.» Carrello da golf, cinepresa, mulinello per canna da pesca, fucile da caccia. «Nessuno può sentirti anche se gridi, mia cara. Siamo soli nel castello. Ah! Ah! Ah! Ah!»

Cal pensò alle due macchine che combattevano. Kenogenesi. Alteravano i propri geni con il passare del tempo. Era inevitabile che di tanto in tanto succedesse una cosa del genere. Una specie di demenza. Si avventavano sui loro simili. Normalmente, pensava, erano incapaci di uccidere di proposito. Era inconcepibile che potessero sempre riconoscersi tra loro, in tutte le mutazioni. No, molto più probabile che rispettassero tutte le forme di vita. Ma…

«Le macchine sono buone con noi, finché noi siamo buoni con loro.» Papà dà l’olio al tosaerba. «Guardami negli occhi, mia cara.» Il mesmerista inturbantato si piega sulla fanciulla pallida. «Negli occhi. Negli occhi.»

«Ci sono macchine che fanno più belle le donne…» Quattro donne sotto i caschi, dal parrucchiere, leggono Popular Mechanics. «Non può essere stato un essere umano a far questo!» «Le macchine…» «Santo cielo! È… una testa umana!»

La scatola avanzò in silenzio, seguendo tutte le mosse del bambino, costringendolo a rincantucciarsi nell’angolo. L’ombra della lama dell’ascia si allungò. Ma all’ultimo secondo si arrestò, misteriosamente sgretolata dalla ruggine.

«No! La luce del sole… non la sopporto! Arrrgghiaaaa!» La Città Perduta viene sepolta da un rapido fiume di lava; la casa schiantata degli Usher scivola nello sciroppo limaccioso della palude; il castello è in fiamme; l’isola misteriosa sprofonda per l’eternità; gli alieni si dissolvono sotto la pioggia. Mentre la testa del mostro affonda fumigando nel calderone d’acido ribollente, nel suo occhio c’è quasi un’espressione di supplica. «Vi sono certi misteri,» intona lo scienziato dai capelli bianchi, «che è meglio lasciare nelle mani della Divinità.» «Grazie a Dio è tutto finito!» singhiozza sua figlia, gettandosi tra le braccia del giovane scienziato e distogliendo lo sguardo dal cadavere dell’invasore alieno. Il giovane scienziato scuote la testa dai capelli tagliati a spazzola, e guarda l’alieno. «Chissà se è finita davvero?» mormora.

Appare la testa del manichino dal naso sfondato, illuminata di rosso, con una distanza enorme tra i due occhi. «Sì, le macchine sanno fare tante cose,» gorgoglia. «Non sei felice di essere una macchina?» Lo schermo si spegne.

L’unico jukebox rimasto di quelli che avevano fatto parte del corteo del professor Gallopini si accende, risplendendo di turbinanti luci colorate. «Ti vedrò nei miei sogni,» promette alle cinque figure in fuga. Dietro di loro, lo schermo gigante ondeggia e crolla.

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