«Colui che mi capisce, finisce per riconoscere che le mie proposizioni sono insensate.»
TOP SECRET TOP SECRET
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I. Finalità del Progetto 32
Progetto 32 è il nome in codice di una serie di esperimenti intrapresi nel Laboratorio di Ricerche Wompler a Millford, Utah, nel 19… La finalità del Progetto 32 consiste nel determinare:
a) se sia possibile mettere in moto un meccanismo autonomo autoriproducentesi, un «Sistema Riproduttivo,» e
b) l’utilizzazione militare, se è possibile, di tale sistema.
II. Precedenti del Progetto 32
Prima dell’inizio del presente progetto, era generalmente considerato non pratico, se non impossibile, realizzare e mettere in moto un sistema capace di autoalimentarsi, di apprendere e di riprodursi.
a) Sebbene i computer siano stati programmati per compiere semplici analogie (1) o «apprendere,» cioè di trarre profitto dai loro errori in semplici giochi, si sono dimostrati poco promettenti come macchine discenti. E perché un sistema sia autonomo, esso deve essere in grado di discriminare parti del suo ambiente, trarre analogie da esperienze passate e trarre profitto da errori di natura piuttosto complessa.
b) Sebbene esistessero già catene di produzione automatizzate «autonome,» si trovavano in balia dell’ambiente per quanto riguardava l’energia ed i materiali.
c) Alcuni computer sono già stati utilizzati per risolvere problemi di circuiti, e in effetti hanno «riprogettato» se stessi. Rimaneva tuttavia quello che sembrava un abisso invalicabile tra questi ed una vera macchina autoriproducentesi.
III. Gli esperimenti
I primi esperimenti comprendevano tentativi di costruire «simbiosi» tra vivente e non vivente: Inculcare nel sistema nervoso di un celenterato un circuito motore elettrico (2); Racchiudere ostriche in gusci di acciaio flessibile (3); Dotare topi di code azionate elettro-idraulicamente (4); e molti altri tentativi analoghi, nessuno dei quali soddisfacente.
IV. La Teoria
In base a questi primi esperimenti, è stato ideato un modular di sistema cellulare, dal funzionamento intermedio tra un polypidon ed una società altamente strutturata. Ogni cellula doveva essere:
a) Organizzata secondo linee simili a quelle delle sue compagne, ed equipaggiata in modo da riconoscere l’ordine e da reagire ad esso.
b) Equipaggiata in modo da riparare avarie infracellulari, nella misura del possibile, e da «mangiare» le cellule non funzionali.
c) Capace di convertire l’energia e il materiale del proprio ambiente in se stessa, e di costruire nuove cellule identiche a se stessa partendo dal surplus d’energia e di materiale, cioè di riprodursi.
d) Capace di impedire la propria distruzione, ricorrendo alla fuga, alla diversione o alla neutralizzazione dell’agente distruttivo. Per esempio, se fatta d’acciaio, essa deve: 1) rifuggire dal contatto con l’acqua marina; 2) verniciarsi per evitare tale contatto; oppure 3) realizzare qualche mezzo chimico per neutralizzare l’azione corrosiva dell’acqua marina.
Non sono stati disponibili mezzi pratici per collaudare e neppure per costruire un modello funzionante di questo sistema teorico, fino al completamento e all’adattamento del computer QUIDNAC.
V. Il Quidnac
Il QUIDNAC, ovvero Quantifiable Universal Integrai DNA Computer, progettato da T. Smilax, presentava tre qualità che lo rendevano raccomandabile per il progetto: a) dimensioni compatte; b) memoria virtualmente estensibile all’infinito; c) capacità di processi analogici complessi di apprendimento. Inoltre, T. Smilax era il capo del Progetto 32.
VI. Princìpi generali di Costruzione delle Cellule
Ogni cellula può essere considerata da alcuni punti di vista come un uovo, con «tuorlo,» «albume» e «guscio.» Ecco uno schema semplificato:
a) Il «tuorlo» consisteva del computer QUIDNAC, unitamente a vari strumenti di abbinamento e di controllo sulle funzioni dell’«albume» e del «guscio.»
b) L’«albume» conteneva utensili automatici da produzione e spazio d’immagazzinaggio per materie prime, utensili e pezzi di ricambio, ed energia.
c) Il «guscio» corazzato metallico conteneva mezzi di locomozione, strumenti sensorii, vernice, semplici estensori e (benché in non tutti i casi) mezzi di comunicazione.
Nell’ambito di questo programma sono state costruite molte varianti, diverse per mezzi di locomozione, apparecchi sensori, mezzi di comunicazione e metodi di produzione. Si prevedeva che, oltre alle varianti proposte dallo sperimentatore, altre sarebbero state adattate e inventate dal sistema stesso.
(1) Tuttavia le controversie che contrappongono la semantica alla sintassi gettano tali dubbi su tali esperimenti da rendere i risultati enigmatici e divertenti, piuttosto che significativi. Quindi, sebbene un computer abbia capito che la risposta a «lancia:? = gatto: atto» era «ancia», non è riuscito a comprendere perché a «testa: letto =? : sedia» dovesse dare come risposta «schiena». Inoltre, un computer ha interpretato la seguente frase «lo spirito è forte ma la carne è debole» come «il whisky è buono, ma la bistecca è poco cotta».
(2) Insuccesso dovuto a temperature ambienti instabili, causa di shock.
(3) Insuccesso dovuto all’imprevista corrasione dell’acciaio da parte dell’acqua marina.
(4) Riuscito, ma di discutibile importanza militare. I risultati sono stati pubblicati separatamente come Mil-P-980089, PROTESI CAUDALI.
«Proprio non lo capisco,» disse Cal, posando il saldatore. Sebbene stesse parlando con Louie Wompler, tutti i tecnici dell’Esercito e della Marina che stavano intorno a loro alzarono la testa, pronti ad approfittare dell’occasione per fermarsi e chiacchierare. Louie se ne stava seduto, con la fronte aggrondata e con un pezzo di carta piegato tra le mani.
«Neanch’io,» disse. «Qui c’è qualcosa che non va. Dovrebbe agitare le ali quando faccio così, ma stia a vedere.» Tirò un lembo, e il quadrato di carta si aprì. Era una pagina d’una rivista di cucina, con la foto di un manicaretto.
«Volevo dire che non capisco il dottor Smilax. Cosa ci fa tutto il giorno, solo là dentro? Non può continuare a lavorare sul Quidnac; pensavo che l’avesse già finito da un pezzo, quando è venuto qui. Perché non possiamo mai vederlo né parlargli? Che faccia ha?»
L’appuntato Martin alzò gli occhi dal diagramma di un circuito. «Sta scherzando?» disse, cacciandosi una Lucky nell’angolo dell’ampia bocca contratta. «Ne ho sentite di tutti i colori sul conto del Vecchio.» Si guardò intorno e si chinò verso Cal. «Ho saputo che fa a pezzi i gattini su quel gran tavolo bianco, là dentro… giusto per divertirsi. Ho sentito dire che è un ciarlatano. Ho sentito dire che non è un vero dottore, solo un chiroterapista che una volta ha salvato la vita a un senatore, e per questo gli hanno dato questo lauto impiego. Ho sentito dire che se ne sta seduto là dentro tutto il giorno a imbottirsi di droga. Ho sentito dire…»
«Stupidaggini!» sputò un tecnico della Marina, con le maniche rimboccate che mettevano in mostra tatuaggi di personaggi di Walt Disney. «La verità è che lui è un russo. Tutte queste precauzioni della Sicurezza sono per impedire che gli altri russi vengano ad assassinarlo. La verità è che ha inventato il sistema per trapiantare cervelli di scimmie nelle teste dei bambini.»
Poi parlò uno scrittore tecnico borghese. Era autore di un famoso manuale militare, L’elevatore a forcone. «A me risulta,» disse cautamente, «che il dottor S. era un famoso chirurgo. Ma mentre operava la madre del Presidente, qualcosa è andato storto. Hanno insabbiato tutto, naturalmente, ma da allora è praticamente in pensione.»
Altri dei presenti li sentirono e si avvicinarono per dire la loro.
«Io ho saputo che i fratelli Frankenstein erano nati attaccati per la testa. Lui li ha separati. Ma ogni tanto gli vengono degli attacchi di mania omicida…»
«… nel racket degli aborti clandestini, vi ricordate? Ne hanno parlato tutti i giornali…»
«Dicono che in Russia avesse scoperto come guarire il cancro, ma poi è stato colpito alla testa e ha perso la memoria…»
«Panpepato,» sospirò Louie guardando l’illustrazione. Sembrava ignaro della discussione che infuriava attorno a lui. «E non posso mangiare dolci, finché mi alleno per l’Origami.»
«… e l’ASPCA scatenerebbe l’inferno se scoprisse quello che sta facendo. Per questo…»
Cal finì il suo lavoro e uscì nel corridoio per allontanarsi dal turbine di teorie sensazionali sul conto di Smilax. Le notizie certe sul conto dell’uomo che stava oltre quella porta proibita si riducevano a zero. Eppure, perché tutte le voci che correvano sul suo conto avevano sfumature orripilanti? Perché nessuno lo vedeva come un vecchio eremita innocuo? Perché tutte le dicerie includevano paradigmi di crudeltà, di demenza, di megalomania? Era come se… ma nessuno poteva mettere in giro voci del genere sul proprio conto. Sul proprio conto? Per un momento Cal si chiese se esisteva davvero un individuo «T. Smilax, M.D.» Cal appoggiò l’orecchio alla porta proibita e ascoltò.
Gli giunse un ronzio meccanico fievole e acuto. Sembrava il rumore di mille trapani da dentista che lavorassero in sordina su mille denti cariati. Il rumore si interruppe per un momento, e Cal udì un altro suono: il guaito di un cagnolino sofferente. Non appena questo incominciò, il ronzio meccanico ricominciò, soffocandolo.
Quando Cal rientrò in laboratorio, Karl gli disse: «La stavamo appunto cercando.»
«Siamo pronti per una prova,» spiegò Kurt. Rimasero ritti, con le cartelle in mano, ai due lati del tavolo da laboratorio, mentre Cal effettuava gli ultimi assestamenti e attivava il sistema.
Era una serie di scatolette di metallo grigio, ognuna delle quali aveva all’incirca le dimensioni d’un pacchetto di sigarette, ammucchiate alla rinfusa in un cubo alto una sessantina di centimetri. Quando l’interruttore che spuntava in cima a ciascuna scatoletta veniva fatto scattare, irradiava a tutte le altre un segnale modulato di avviamento; e per spegnerle si usava lo stesso metodo.
Non appena ogni scatoletta si attivava, cominciava a correre sul tavolo sulle sue rotelle orientabili, evitando di scontrarsi con le sue simili. Quando tutte le scatole erano in movimento, creavano l’illusione di un complicato moto browniano sulla superficie scura del tavolo, di cui esploravano ogni centimetro quadrato.
Kurt e Karl posarono sul tavolo vari pezzetti e frammenti di metallo. I pezzi più piccoli venivano immediatamente divorati dalle singole scatolette, ma le barre più grosse attiravano l’attenzione dell’intero branco. Ormai diventate grandi come pacchetti di sigarette king-size, si buttavano sulle barre come formiche, lavoravano con cesoie e torce minuscole… e ingrossavano.
A Cal dava i brividi guardarle mentre si ingozzavano ordinatamente.
«Qualcuno ha un orologio?» chiese Karl, fissando intento la catena che ornava il panciotto di Hita. Il matematico sospirò.
«E va bene,» disse, consegnando l’orologio a calotta. «Ma ci stia attento, per favore. È un orologio antico, con carica di otto giorni. Un pezzo insostituibile.»
Karl lo fece dondolare per la catena al di sopra del tavolo. Le scatole cominciarono a fremere e a modificare i loro movimenti a casaccio. Si radunarono sotto l’orologio. Karl lo faceva dondolare dolcemente, e il branco grigio reagiva, seguendone eccitato i movimenti. Cominciarono ad arrampicarsi l’una sull’altra, ad ammucchiarsi in una piramide ondeggiante e barcollante, protendendosi verso il corpo metallico dell’orologio, verso il suono del suo cuore ticchettante. Il mucchio grigio cominciò a tremare, di riflesso.
Ogni volta che stavano per raggiungere l’orologio, Karl lo alzava un po’ di più. La sua faccia infantile aveva un’espressione di concentrazione estatica e crudele, mentre stuzzicava la piramide, che diventava più alta e più sottile. Cal vide le scatolette delle file più basse aggrapparsi con gli estensori le une alle altre per consolidare il mucchio. Karl alzò l’orologio una terza volta, una quarta.
La scatoletta più in alto, reggendosi su uno spigolo, si aprì come una minuscola valigia. Due esili verghette si protesero verso l’alto.
«E quelle cosa sono? Sembrano antenne radio d’un’automobile,» disse Louie.
«Stia attento!» urlò Hita. «Sta cercando di agguantarlo!»
«No,» gli assicurò Karl. «Stia a vedere questo.»
Le due verghette passarono oltre all’orologio e salirono uno, due anelli della catena; poi si fermarono. Alcune scatolette si misero a «bere» alla presa di corrente diretta situata sul tavolo e formarono una catena da questa alla piramide. Vi fu un improvviso lampo sfrigolante di luce e l’orologio cadde: la piccola valigia aperta l’afferrò, ritirò immediatamente le corna protese e si richiuse.
«Ehi! Ridammelo!» Il matematico afferrò la scatoletta colpevole e la scosse. Cercò di aprirla a forza, poi la scosse di nuovo.
«Ahi!» All’improvviso la scatoletta piombò sferragliando sul tavolo, cominciò a correre in giro pazzamente e si perse tra le compagne. All’estremità dell’indice di Hita c’era una goccia di sangue. «Mi ha morso!» esclamò incredulo il giapponese.
«Sì!» annuì entusiasta Kurt. «Doveva aspettarselo che si sarebbe difesa. Lei la stava minacciando.»
«Sì, stava solo difendendo la sua proprietà,» aggiunse Karl.
«La sua proprietà!» Hita guardò prima uno dei gemelli, poi l’altro. Sorridevano compiaciuti, come genitori indulgenti. Senza aggiungere una parola, il matematico uscì dal laboratorio.
«Vediamo cosa fanno con questo,» dissero in coro i due fratelli. Spinsero l’oscilloscopio sul suo supporto a rotelle e lo appoggiarono al tavolo. Le creature grige lo notarono immediatamente. Adesso erano di dimensioni diverse: andavano da quelle che quasi non erano cresciute per niente, a quelle che avevano raggiunto il volume di cassette per attrezzi. Finora nessuna si era riprodotta.
Si avventarono intorno all’oscilloscopio e cominciarono ad ammucchiarsi contro il suo fianco. Dalla scatola più in alto uscì un minuscolo cacciavite per sondare l’apparecchio. Trovò una feritoia dell’aerazione, e cercò di forzare. Il cacciavite si ruppe. Vi fu uno scatto smorzato, e il moncherino rientrò.
«State a vedere,» ammonì Karl.
Dalla scatola uscì del fumo, poi un rumore di energico, rapido smartellare. Un attimo dopo apparve una grossa lama di cacciavite ancora rovente. Forzò l’involucro dell’oscilloscopio, ripiegando l’acciaio per aprire un foro grosso come un pugno. Da un’altra scatola uscì un paio di pinze, che entrò nell’oscilloscopio e cominciò a frugare e a rovistare in fretta. Di tanto in tanto si sentiva uno spicinio di vetro infranto. A intervalli regolari, la pinza usciva portando il bottino: una valvola rotta, un pezzo di filo lungo cinque centimetri, mezza resistenza o una scheggia di vetro. La scatola ingoiava tutto, avidamente.
«Ehi!» esclamò Louie, accorgendosi finalmente di quello che stava accadendo. «Se lo vede mio padre!»
Era troppo tardi. In quel preciso momento, Grandison si affacciò sulla soglia. «Se vedo cosa?» Vide la scatola estrarre una manciata di transistor e ingozzarli come se fossero acini d’uva succulenta. «Cosa diavolo succede qui dentro?» Lanciando un’occhiataccia a Cal, gridò: «Neanche due settimane fa le avevo detto di aver cura delle apparecchiature! Cosa diavolo intende fare, a distruggere in questo modo la mia proprietà?»
Cal si mosse per spegnere il sistema ma Kurt lo trattenne per un braccio. «No,» disse. «Commette degli errori, ma imparerà. La settimana prossima ci sarà un’ispezione del generale Grawk dell’Aeronautica. Lasciamolo continuare fino ad allora. Gli daremo un angolo di laboratorio tutto suo, perché possa crescere.» E aggiunse, rivolgendosi al presidente della società: «Non si preoccupi, signore. Questo sistema renderà miliardi alla società per ogni dollaro che costa.»
«Beh, è una consolazione.» L’espressione di Grandison cambiò. «Ma ho avuto una brutta notizia. Hita è morto adesso all’infermeria.»
Cal sbarrò gli occhi. «Cos’ha detto?»
«Hita. L’addetto alle statistiche. È morto per un morso di serpente.»
Con un piccolo scoppio di tuono, il tubo catodico si spaccò. Le scatole continuarono a pascolare tranquillamente.
«Povera ramificazione,» mormorò Cal, con un brivido. «Poveri piccoli anapesti.»