Per un istante Baley si sentì gelare. Il robot positronico era il simbolo della superiorità degli spaziali sui terrestri. Era già un'arma.
Mantenne la voce ferma. «È un'arma economica. Per gli altri Mondi Esterni Solaria è importante come fonte di modelli avanzati, e quindi non sarà mai minacciata da loro.»
«Questo è un punto ovvio» disse con indifferenza Quemot. «Ci hanno aiutato a conseguire la nostra indipendenza. Quello che ho in mente è qualcosa d'altro, qualcosa di più sottile e di più cosmico.» Quemot aveva appuntato lo sguardo sui polpastrelli e ovviamente la sua mente era concentrata su idee astratte.
«È un'altra delle sue teorie sociologiche?»
Quemot faticò a sopprimere uno sguardo d'orgoglio, ma si costrinse a sorridere al terrestre.
«È proprio mia» confermò. «Originale, per quel che ne so, eppure ovvia, se si studiano i dati sulla popolazione dei Mondi Esterni. Per incominciare, da quando il robot positronico è stato inventato, è stato usato ovunque sempre più intensamente.»
«Non sulla Terra» obiettò Baley.
«Andiamo, andiamo, agente. Non so molto della Terra, ma ne so abbastanza per sapere che i robot fanno parte della vostra economia. Vivete in grandi Città sotterranee e lasciate disabitata la maggior parte della vostra superficie planetaria. E allora, chi manda avanti le vostre fattorie e le vostre miniere?»
«I robot» ammise Baley. «Ma, visto che ci siamo, dottore, i terrestri sono stati i primi a inventare il robot positronico.»
«Dice davvero? È sicuro?»
«Può controllare. È vero.»
«Interessante. Eppure là i robot hanno fatto meno progressi» disse pensoso il sociologo. «Forse a causa della popolazione numerosa della Terra. Ci vorrebbe molto più tempo. Sì… Voi avete dei robot nelle vostre Città.»
«Sì.»
«Più che, diciamo, cinquant'anni fa.»
Baley annuì con impazienza. «Sì.»
«E allora funziona. La differenza sta solo nel tempo. I robot tendono a soppiantare il lavoro umano. L'economia dei robot si muove in una sola direzione. Più robot e meno esseri umani. Ho studiato i dati sulla popolazione con molta cura, li ho messi in relazione e ho fatto qualche estrapolazione.» Si fermò per l'improvvisa sorpresa. «Ma questa si direbbe un'applicazione della matematica alla sociologia, no?»
«Infatti» confermò Baley.
«Dopo tutto ci può essere qualcosa. Dovrò pensarci su. In ogni caso, ecco le conclusioni a cui sono giunto, e sono convinto che non ci siano dubbi sulla loro correttezza. In ogni economia che abbia accettato il lavoro robotico il rapporto robot-umani tende continuamente ad aumentare, malgrado le leggi che possano essere state approvate per prevenire ciò. L'incremento può essere rallentato, ma non si ferma mai. All'inizio aumenta la popolazione umana, ma quella robotica aumenta sempre più velocemente. Poi, dopo che è stato raggiunto un certo punto critico…»
Quemot s'interruppe ancora, poi disse: «Ora vediamo. Chissà se il punto critico possa essere determinato con esattezza, se ci si può mettere su una cifra. Ecco che rispunta la sua matematica».
Baley era tutto agitato. «Che cosa accade, dopo che è stato raggiunto il punto critico, dottor Quemot?»
«Eh? In effetti la popolazione umana comincia a declinare. Un pianeta tende alla vera stabilità sociale. L'avrà anche Aurora. Persino la sua Terra l'avrà. La Terra ci metterà qualche secolo in più, ma è inevitabile.»
«Che cosa intende con stabilità sociale?»
«La situazione che c'è qui. A Solaria. Un mondo in cui tutti gli uomini costituiscono la classe oziosa. Così non c'è motivo di temere gli altri mondi. Basterà aspettare un secolo o due, e saranno tutti solariani. Suppongo che in un certo senso questa sarà la fine della storia umana: quanto meno la sua realizzazione. Finalmente, finalmente, tutti gli uomini avranno tutto quello di cui hanno necessità e tutto quello che desiderano. Sa, c'è una frase che una volta ho annotato, non so da dove venga: qualcosa a proposito della ricerca della felicità.»
Pensieroso Baley citò: «Tutti gli uomini sono “dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti… tra questi ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”».
«Proprio quella. Da dove è tratta?»
«Da qualche vecchio documento» rispose Baley.
«Vede come le cose sono cambiate qui a Solaria, e come cambieranno in tutta la galassia? La ricerca finirà. I diritti che l'umanità erediterà saranno la vita, la libertà e la felicità. Proprio questa. La felicità.»
«Può darsi» commentò asciutto Baley. «Ma sulla sua Solaria un uomo è stato ucciso e un altro potrebbe morire.»
Si pentì di queste parole mentre le pronunciava, perché il volto di Quemot aveva un'espressione come se fosse appena stato schiaffeggiato. Il vecchio chinò il capo. Senza alzare gli occhi disse: «Ho risposto meglio che potevo alle sue domande. C'è qualcos'altro che desidera?».
«No, basta così. La ringrazio, signore. Mi scusi se ho disturbato il suo dolore per la morte di un amico.»
Lentamente Quemot alzò gli occhi. «Sarà difficile trovare un altro compagno di scacchi. Era molto puntuale agli appuntamenti e giocava molto bene. Era un buon solariano.»
«Capisco» disse Baley sommessamente. «Posso avere il permesso di usare il suo parlatorio per entrare in contatto con la prossima persona che intendo vedere?»
«Naturalmente» disse Quemot. «I miei robot sono i suoi. E ora la lascio. Visione terminata.»
Dopo appena trenta secondi dalla sparizione di Quemot, Baley aveva un robot al suo fianco; si chiese ancora una volta come venivano controllate queste creature. Aveva visto le dita di Quemot muoversi verso un interruttore mentre toglieva la comunicazione, e questo era stato tutto.
Forse il segnale era completamente generico e diceva solo: «Fa' il tuo dovere!». Forse i robot ascoltavano tutto quello che succedeva ed erano sempre consapevoli di quello che a un dato momento un uomo avrebbe potuto desiderare, e se un particolare robot non era destinato in quel momento a quel particolare lavoro, la rete radio che univa tutti i robot entrava in azione stimolando a muoversi il robot più adatto.
Per un istante Baley s'immaginò Solaria come una rete robotica con piccole maglie che diventavano sempre più piccole, con ogni essere umano messo esattamente al suo posto. Pensò alla teoria di Quemot di mondi che si trasformavano tutti in Solaria: di reti che si formavano e si restringevano sulla Terra, finché…
I suoi pensieri vennero meno alla voce del robot, che parlava con la tranquillità e il rispetto della macchina.
«Sono pronto ad aiutarla, padrone.»
«Sai come raggiungere il posto dove una volta lavorava Rikaine Delmarre?»
«Sì, padrone.»
Baley scrollò le spalle. Non avrebbe mai imparato a evitare di fare domande inutili. Il robot lo sapeva. Punto e basta. Gli venne in mente che per controllare i robot con vera efficienza uno doveva essere un esperto, quasi un robotista. Quanto bene ci riusciva il solariano medio? Probabilmente soltanto così così.
«Allora chiama questo posto» ordinò «ed entra in contatto con l'assistente di Delmarre. Se l'assistente non c'è, trovalo dovunque sia.»
«Sì, padrone.»
Mentre il robot si voltava, Baley lo richiamò. «Aspetta! Che ora è al posto di lavoro di Delmarre?»
«Circa le 0630, padrone.»
«Del mattino?»
«Sì, padrone.»
Di nuovo Baley sentì l'irritazione per un mondo che si era reso vittima dell'andare e venire del sole. Era quello che succedeva a vivere sulla nuda superficie del pianeta.
Pensò di sfuggita alla Terra e ne distolse la mente a fatica. Finché teneva fermamente la questione in mano, si era comportato bene. Scivolare nella nostalgia l'avrebbe rovinato.
Disse: «Chiama comunque l'assistente, ragazzo, e di' che si tratta di una faccenda del governo… E fa' portare da uno degli altri ragazzi qualcosa da mangiare. Un sandwich e un bicchiere di latte andranno benissimo».
Masticava pensieroso un sandwich che conteneva della carne affumicata, con in mente il pensiero che Daneel Olivaw, dopo quello che era successo a Gruer, avrebbe considerato sospetto ogni tipo di cibo. E Daneel avrebbe anche potuto aver ragione.
Comunque finì il sandwich senza malessere (per lo meno senza malessere immediato) e sorbì il latte. Non aveva saputo da Quemot quello che avrebbe voluto sapere, ma qualcosa aveva saputo. Quando gli si presentò quest'idea alla mente, gli sembrò di aver saputo un sacco di cose.
Poco sull'omicidio, certo, ma molto di più sulla situazione generale.
Tornò il robot. «L'assistente accetterà il contatto, padrone.»
«Bene. C'è stato qualche problema?»
«L'assistente dormiva, padrone.»
«Però ora è sveglio?»
«Sì, padrone.»
L'assistente gli fu improvvisamente di fronte, a letto e con in volto un'espressione d'imbronciato risentimento.
Baley rinculò come se gli avessero eretto davanti una barriera senza avvertirlo. Ancora una volta gli era stata celata un'informazione vitale. Ancora una volta lui non aveva fatto le domande giuste.
Nessuno aveva pensato di dirgli che l'assistente di Rikaine Delmarre era una donna.
Aveva i capelli un po' più scuri del solito color bronzo degli spaziali, e ne aveva una grande quantità, in quel momento piuttosto in disordine. Il suo volto era ovale, il naso un po' bulboso, il mento largo. Si stava lentamente grattando il fianco poco sopra la vita e Baley sperò che il lenzuolo sarebbe rimasto al suo posto. Si ricordò il libero atteggiamento di Gladia su quello che era permesso quando si visionava.
Baley provava un divertimento sardonico per la sua delusione. In un modo o nell'altro i terrestri davano per scontato che tutte le donne spaziali fossero belle, e certo Gladia aveva rafforzato in lui questa convinzione. Però quest'altra era comune anche secondo il metro terrestre.
Quindi sorprese Baley, che trovò attraente la sua voce di contralto, quando disse: «Senta, lo sa che ore sono?».
«Lo so,» disse Baley «ma, visto che sto per venire a vederla, mi è sembrato corretto avvisarla.»
«Vedermi? Cieli azzurri…» Spalancò gli occhi e appoggiò una mano sul mento. (Su un dito aveva un anello, il primo esempio di ornamento personale che Baley vedeva su Solaria.) «Aspetti, lei non è il mio nuovo assistente, vero?»
«No. Nulla del genere. Sono qui per investigare sulla morte di Rikaine Delmarre.»
«Ah si? Be', investighi, allora.»
«Come si chiama?»
«Klorissa Cantoro.»
«E da quanto lavorava per il dottor Delmarre?»
«Da tre anni.»
«Suppongo che abbia rilevato lei il posto di lavoro.» (Baley si sentiva a disagio con quella definizione generica, ma non sapeva proprio come definire, il posto in cui lavorasse un ingegnere fetale.)
«Vuol dire se sono alla fattoria?» disse con tono scontento Klorissa. «Certo che ci sono. Non l'ho più lasciata da quando il vecchio se n'è andato e non ho intenzione di lasciarla finché non mi viene assegnato un assistente. A proposito, non potrebbe sistemarla lei la cosa?»
«Mi dispiace, signora. Qui non ho nessuna influenza su nessuno.»
«Be', io ci ho provato.»
Klorissa tirò via il lenzuolo e uscì dal letto, senza'ombra di consapevolezza di quel che faceva. Portava un pigiama a un pezzo e la mano le corse allo zip, proprio dove finiva il collo.
Baley si affrettò a dire: «Solo un momento. Se lei accetta di vedermi, questo pone fine al colloquio, per ora, e lei potrà vestirsi in privato».
«In privato?» Sporse il labbro inferiore e fissò Baley con curiosità. «Lei è un pedante, vero? Come il capo.»
«Allora, vuole vedermi? Mi piacerebbe dare un'occhiata alla fattoria.»
«Non afferro questa faccenda del vedersi, ma se vuole visionare la fattoria le farò da cicerone. Se mi lascia modo di lavarmi, di badare ad alcune cose e di svegliarmi un po', sarà un piacere rompere la routine.»
«Io non voglio visionare niente. Voglio vedere.»
La donna piegò il capo da un lato e il suo sguardo perspicace aveva un'ombra di curiosità professionale. «Lei è un pervertito o qualcosa del genere? Quando è stata l'ultima volta che si è sottoposto a un'analisi genetica?»
«Giosafatte» borbottò Baley. «Senta, sono Elijah Baley. Vengo dalla Terra.»
«Dalla Terra?» gridò lei con veemenza. «Cieli azzurri! E che diavolo ci fa qui? O questo è uno scherzo particolarmente complicato?»
«Non scherzo affatto. Sono stato chiamato per investigare sulla morte di Delmarre. Sono un agente in borghese. Un detective.»
«Ah, lei intende quel tipo di investigazione. Ma credevo che tutti sapessero che è stata sua moglie.»
«No, signora, a questo proposito ho qualche domanda in mente. Le chiedo il permesso di vedere la fattoria e lei. Come terrestre, capisce, non sono abituato a visionare. Mi fa sentire a disagio. Ho il permesso del capo della Sicurezza di vedere la gente che mi potrebbe aiutare. Le mostrerò il documento, se lo desidera.»
«Vediamolo.»
Baley tenne il rotolo fermo davanti ai suoi occhi sgranati.
Lei scosse il capo. «Vedere! È sporco. D'altra parte, cieli azzurri, che cosa c'è di più sporco di un lavoro sporco? Senta, però non mi venga vicino. Mi starà un bel po' distante. Possiamo gridare o mandarci messaggi con un robot, se dobbiamo. Capito?»
«Capito.»
Aprì il pigiama proprio mentre il contatto se ne andava e l'ultima parola che Baley riuscì a udire fu un «Terrestre!» borbottato.
«Così è abbastanza vicino» esclamò Klorissa.
Baley, che era a sette o otto metri dalla donna, disse a sua volta: «Va bene questa distanza, però vorrei entrare dentro alla svelta».
Questa volta non era stato tanto male. Aveva fatto poco caso al volo in aereo, ma era inutile strafare. Continuava ad allargarsi il colletto per poter respirare più liberamente.
«Che c'è che non va?» chiese bruscamente Klorissa. «Mi sembra malconcio.»
«Non sono abituato all'esterno.»
«È vero! Terrestre! Dovete stare dentro i pollai, o qualcosa del genere. Cieli azzurri!» Passò la lingua sulle labbra, come se assaggiasse qualcosa di poco appetitoso. «Be', allora entriamo, allora, ma prima aspetti che mi tolga di mezzo. Va bene. Entri.»
Aveva i capelli composti in due trecce che le giravano intorno al capo con uno schema complicato. Baley si chiese quanto tempo ci voleva per sistemare una simile acconciatura, per poi ricordarsi che con ogni probabilità il lavoro l'avevano fatto le dita instancabili di un robot.
I capelli mettevano in risalto il suo volto ovale e gli davano una specie di simmetria che lo rendeva piacevole, se non carino. Sul volto non portava trucco né, in quanto a questo, i suoi abiti servivano ad altro che a coprirla funzionalmente. Erano di uno spento blu scuro, tranne i guanti, lunghi fino al gomito, di un clamoroso lilla. Si sarebbe detto che questi ultimi non facessero parte del suo modo ordinario di vestire. Baley notò il rigonfiamento di un dito, che denunciava la presenza dell'anello sotto il guanto.
Si fermarono ai lati opposti di una sala, uno di fronte all'altro.
«Non le piace questo,» disse Baley «non è vero, signora?»
Klorissa scrollò le spalle. «E perché dovrebbe piacermi? Non sono un animale. Però posso sopportarlo. Si diventa duri, quando, si ha a che fare con… con…» fece una pausa, poi alzò il mento come se si fosse decisa a dire quello che doveva dire senza eufemismi, «con bambini.» Pronunciò la parola con attenta precisione.
«Si direbbe che non le piaccia il suo lavoro.»
«È un lavoro importante. Dev'essere fatto. Comunque non mi piace.»
«E a Rikaine Delmarre piaceva?»
«Immagino di no, ma non lo faceva mai intendere. Era un buon solariano.»
«Ed era pedante.»
Klorissa sembrò sorpresa.
«L'ha detto lei» disse Baley. «Quando prima ci visionavamo e io ho detto che avrebbe potuto rivestirsi in privato, lei ha detto che ero pedante come il capo.»
«Ah. Be', certo che era pedante. Anche visionando non si prendeva mai libertà. Sempre educato.»
«E questo era insolito?»
«Non dovrebbe esserlo. In teoria chiunque dovrebbe essere corretto, ma nessuno lo è mai. Non quando si visiona. Non è implicata nessuna presenza personale, così perché prendersi tanta pena? Sa una cosa? Io non mi prendevo mai pena quando visionavo, tranne che con il capo. Con lui bisognava essere formali.»
«Ammirava il dottor Delmarre?»
«Era un buon solariano.»
«Ha chiamato fattoria questo posto e ha menzionato bambini. Allevate i bambini, qui?»
«Da quando hanno un mese. Tutti i feti di Solaria vengono qui.»
«Feti?»
«Sì.» Rabbrividì. «Li prendiamo un mese dopo il concepimento. La imbarazza questo?»
«No» si limitò a dire Baley. «Mi fa vedere in giro?»
«Certo, però mantenga la distanza.»
Il lungo volto di Baley sembrava di pietra, tanto era arcigno, mentre guardava dall'alto per tutta la lunghezza della sala. Tra il locale e loro c'era una vetrata. Dall'altra parte, ne era sicuro, c'era una temperatura perfettamente controllata, un'umidità perfettamente controllata, un'asepsi perfettamente controllata. Quei serbatoi in fila gli uni dietro gli altri contenevano ciascuno una piccola creatura che fluttuava in un liquido acquoso di precisa composizione, infuso di una miscela nutriente di proporzioni ideali. Ne conseguivano vita e crescita.
Piccole cose, alcune più piccole del suo pugno, si arrotolavano su se stesse, con crani sporgenti e microscopiche labbra che germogliavano e code in via di sparizione.
Dalla sua posizione a molti metri di distanza, Klorissa disse: «Le piace, agente?».
«Quanti ne avete?»
«Fino a questa mattina, centocinquantadue. Ne riceviamo da quindici a venti al mese e ne dichiariamo indipendenti altrettanti.»
«Questa è l'unica istituzione del genere sul pianeta?»
«Esatto. È sufficiente a mantenere la popolazione stabile, considerando una spettanza di vita di trecento anni e una popolazione di ventimila. Questo edificio è completamente nuovo. Il dottor Delmarre ne aveva supervisionato la costruzione e aveva apportato molti cambiamenti nelle nostre procedure. Il nostro tasso di mortalità perinatale è ora praticamente zero.»
Dei robot camminavano intorno ai serbatoi. Ad ognuno si fermavano a controllare instancabilmente e meticolosamente, guardando il piccolo embrione all'interno.
«Chi opera la madre?» chiese Baley. «Voglio dire, per prelevare le piccole cose.»
«Dottori» rispose Klorissa.
«Il dottor Delmarre?»
«Naturalmente no. Dottori in medicina. Non avrà mica pensato che il dottor Delmarre si abbassasse a… Be', non importa.»
«Perché non si possono usare i robot?»
«Robot in chirurgia? La Prima Legge lo rende molto difficile, agente. Un robot potrebbe operare un'appendicectomia e salvare una vita umana, se sapesse come, ma dubito che poi potrebbe essere più usato senza riparazioni sostanziali. Per un cervello positronico tagliare della carne umana sarebbe un'esperienza traumatica. I dottori umani possono allenarsi a indurirsi. Anche alla richiesta di presenza personale.»
«Noto che però i robot badano ai feti» osservò Baley. «Lei e il dottor Delmarre non interferivate mai?»
«Qualche volta dovevamo, quando le cose non andavano per il loro verso. Per esempio quando un feto aveva difficoltà di sviluppo. Non si può chiedere ai robot di giudicare con accuratezza una situazione in cui è implicata una vita umana.»
Baley annuì. «Troppo rischio di un giudizio sbagliato e di una vita persa, suppongo.»
«Niente affatto. Troppo rischio di sopravvalutare una vita e di salvarla, sbagliando.» Sembrava che la donna si fosse irrigidita. «Come ingegneri fetali, Baley, badiamo che nascano bambini in piena salute: solo quelli in piena salute. Anche la migliore analisi genetica dei genitori non può garantire che tutte le permutazioni e le combinazioni dei geni saranno favorevoli, per non parlare della possibilità di mutazioni. È quella la nostra preoccupazione principale, la mutazione inattesa. Di queste abbiamo una proporzione di meno di una per mille, ma ciò significa che in media abbiamo il guaio ogni decade.»
Si mosse lungo la veranda e Baley la seguì.
«Le mostrerò i nidi dei bambini» annunciò «e i dormitori dei giovani. Sono un problema molto maggiore dei feti. Con loro possiamo fare solo un limitato affidamento sul lavoro dei robot.»
«E questo perché?»
«Lo saprebbe se solo avesse mai cercato di insegnare a un robot l'importanza della disciplina. A questo la Prima Legge li rende quasi refrattari. E non pensi che i bambini non lo imparino non appena cominciano a parlare. Ne ho visto uno di tre anni che teneva immobilizzati una decina di robot continuando a gridare: “Mi farai male, sto male, sto male”. Ci vuole un robot estremamente sofisticato per essere in grado di capire quando un bambino mente deliberatamente.»
«Il dottor Delmarre sapeva controllare i bambini?»
«Di solito.»
«E come faceva? Andava tra loro e cercava di fargli entrare un po' di sale in zucca?»
«Il dottor Delmarre? Toccarli? Cieli azzurri! Certo che no! Ma sapeva parlare loro. E sapeva dare particolari ordini a un robot. L'ho visto visionare un bambino per quindici minuti, mantenendo un robot in posizione di sculacciamento per tutto questo tempo, facendolo sculacciare… sculacciare… sculacciare. Un po' di questa cura e il bambino non avrebbe più corso il rischio di cercare d'imbrogliare il capo. E il capo era abbastanza abile, tanto che dopo al robot non necessitava che una riparazione di routine.»
«E lei? Lei va mai in mezzo ai bambini?»
«Temo di doverlo fare ogni tanto. Io non sono come il capo. Forse un giorno riuscirò a padroneggiare bene la faccenda a distanza, ma ora come ora, se provassi, rovinerei i robot. C'è un'arte nel controllare veramente bene i robot, lo sa. Però, quando ci penso… Andare in mezzo ai bambini. Piccole bestie!»
Alzò improvvisamente gli occhi a guardarlo. «Immagino che non le importi di vederli.»
«Non mi disturberebbe.»
Lei scrollò le spalle e lo fissò divertita. «Terrestre!» Riprese a camminare. «Comunque, a che serve tutto questo? Deve concludere che Gladia Delmarre è l'assassina. Deve.»
«Non ne sono del tutto sicuro.»
«Com'è possibile che non ne sia sicuro? Chi altri può essere stato?»
«Ci sono delle possibilità, signora.»
«Chi, per esempio?»
«Be', per esempio, lei!»
E la reazione di Klorissa sorprese Baley completamente.