12. Viene mancato un bersaglio

Rideva.

La risata cresceva e si nutriva di se stessa finché la donna si trovò ad annaspare per respirare, con la faccia paffuta che era diventata paonazza. Si appoggiò a un muro cercando di respirare.

«No, non venga… vicino» implorò. «Sto bene.»

Baley disse grave: «È tanto divertente questa possibilità?».

Lei cercò di rispondergli e si rimise a ridere. Poi, con un sospiro, disse: «Ah, ma lei è proprio un terrestre! Come avrei mai potuto essere stata io?».

«Lo conosceva bene» ribatté Baley. «Conosceva le sue abitudini. Potrebbe averlo premeditato.»

«E lei pensa che l'avrei visto? Che gli sarei andata abbastanza vicino per sbattergli qualcosa in testa? Ma proprio non sa nulla, Baley.»

Baley si sentiva arrossire. «Perché non avrebbe potuto avvicinarlo, signora? Lei ha fatto pratica di… ehm… mescolanza.»

«Con i bambini.»

«Una cosa tira l'altra. Mi sembra capace di sopportare la mia presenza.»

«A sei o sette metri di distanza» precisò lei con disprezzo.

«Ho appena visitato uno che ha quasi avuto un collasso perché ha dovuto sopportare per un po' la mia presenza.»

Klorissa si fece seria. «Una differenza di grado.»

«Tenderei a dire che una differenza di grado è tutto quello che serve. L'abitudine a vedere bambini rendeva possibile il sopportare la presenza di Delmarre abbastanza a lungo.»

«Vorrei farle notare, mister Baley,» disse Klorissa che aveva del tutto smesso di apparire divertita «che non importa un fico per quanto tempo potessi sopportare eccetera. Il pedante era il dottor Delmarre. Era quasi come Leebig. Quasi. Anche se avessi resistito nel vederlo, non avrebbe resistito lui nel vedere me. L'unica che avesse il permesso di presentarsi a tiro di vista era la signora Delmarre.»

«Chi è questo Leebig che ha nominato?»

Klorissa scrollò le spalle. «Uno di quei tipi di scienziato pazzo, se capisce quello che voglio dire. Ha lavorato con il capo sui robot.»

Baley lo archiviò mentalmente, per poi tornare all'argomento principale. «Si potrebbe anche dire che lei un movente ce l'aveva.»

«Quale movente?»

«La sua morte la metteva alla direzione di questo istituto, dandole una posizione.»

«E questo lo chiama un movente? Cieli azzurri, e chi la vuole questa posizione? Chi potrebbe volerla su tutta Solaria? Questo semmai era un movente per tenerlo in vita. Era un movente per fluttuare sopra di lui e proteggerlo in continuazione. Deve fare meglio di così, terrestre.»

Incerto Baley si grattò il collo con un dito. Trovava giusto quello che lei aveva detto.

«Ha notato il mio anello, mister Baley?» riprese Klorissa.

Per un istante sembrò che stesse per tirarsi giù il guanto destro, ma si trattenne.

«L'ho notato.»

«Immagino che non sappia il suo significato.»

«No.» (Non avrebbe mai finito con le prove d'ignoranza, pensò amaramente.)

«Non la secca una piccola lezione, allora?»

«Se mi aiuterà a capire qualcosa di questo dannato mondo,» esplose Baley «ben venga.»

«Cieli azzurri!» Klorissa sorrise. «Immagino che sembriamo a lei come la Terra sembra a noi. Figurarsi. Dico, qui c'è una camera vuota. Entriamo e sediamoci… No, non è grande abbastanza. Guardi che cosa facciamo: lei vada a sedersi dentro e io starò in piedi qua fuori.»

Si allontanò per il corridoio, dandogli spazio per entrare nella stanza, per poi tornare e prendere posizione contro il muro opposto, in un punto dove potesse vederlo.

Baley si sedette, con a frenarlo solo un leggerissimo attacco di cavalleria. Pensò rivoltandosi: perché no? Che stia in piedi la spaziale.

Klorissa incrociò sul petto le braccia muscolose e incominciò: «La chiave della nostra società è l'analisi dei geni. Non li analizziamo direttamente, è naturale. Comunque ogni gene governa un enzima, e gli enzimi possiamo analizzarli. Se si conoscono gli enzimi, si conosce la chimica del corpo. Se si conosce la chimica del corpo, si conosce l'essere umano. Le è chiaro tutto questo?».

«La teoria la conosco» disse Baley. «Non so come venga applicata.»

«Questo lo si fa qui. Vengono presi campioni del sangue, quando l'infante si trova nell'ultima posizione fetale. Questo ci dà una prima rozza approssimazione. In teoria a questo punto si dovrebbero poter cogliere tutte le eventuali mutazioni e giudicare se si possa rischiare una nascita. In pratica non ne sappiamo abbastanza da poter eliminare ogni possibilità di errore. Un giorno, forse. Comunque continuiamo a far test dopo la nascita: biopsie e fluidi corporei. In ogni caso, molto prima dell'età adulta, sappiamo esattamente di che cosa son fatti i nostri ragazzi e le nostre ragazze.»

(Zucchero e spezie… Una frase assurda balzò alla mente di Baley.)

«Portiamo anelli codificati per indicare la nostra costituzione genetica» continuò Klorissa. «È un vecchio uso, un residuo primitivo dei giorni in cui i solariani non erano stati ripuliti eugenicamente. Oggi siamo tutti sani.»

«Ma lei porta ancora il suo» osservò Baley. «Perché?»

«Perché sono eccezionale» disse senza imbarazzo e senza arrossire la donna, con genuino orgoglio. «Il dottor Delmarre ha passato molto tempo in cerca di un assistente. Aveva bisogno di qualcuno di eccezionale. Cervello, ingegnosità, industriosità, stabilità. Soprattutto stabilità. Qualcuno che potesse imparare a convivere con i bambini senza andare a pezzi.»

«Lui non ci riusciva, no? Questo non era una prova di instabilità?»

«In un certo senso sì,» concesse lei «ma almeno nella maggior parte delle circostanze era un'instabilità desiderabile. Lei si lava le mani, no?»

Lo sguardo di Baley cadde sulle sue mani. Erano pulite come dovevano essere. «Sì» disse.

«Va bene. Immagino che sia una prova di instabilità avere tanta repulsione per le mani sporche da essere incapace, in caso di emergenza, di pulire a mano un meccanismo unto d'olio. Eppure nell'ordinario corso della vita la repulsione ci mantiene puliti, il che è bene.»

«Vedo. Prosegua.»

«Non c'è molto altro da dire. La mia salute genica è la terza tra le più alte registrate su Solaria, così porto il mio anello. È un record che mi piace portarmi dietro.»

«Mi congratulo con lei.»

«Non occorre che sogghigni. Non sarà qualcosa che ho fatto io, sarà solo la cieca permutazione tra geni parentali, ma comunque è sempre qualcosa di cui essere orgogliosi. E nessuno mi crederebbe capace di un atto così seriamente psicotico come l'omicidio. Non con il mio patrimonio genetico. Così non perda tempo a farmi accuse.»

Baley scrollò le spalle e non disse nulla. Sembrava che la donna confondesse il patrimonio genetico con le prove e presumibilmente il resto di Solaria avrebbe fatto lo stesso.

«Non vuole vedere i ragazzi, ora?» disse Klorissa.

«Sì, grazie.»


Sembrava che i corridoi continuassero per sempre. Ovviamente il palazzo era gigantesco. Non enorme come i banchi di appartamenti nelle Città della Terra, naturalmente, ma per essere un solo edificio aggrappato alla superficie del pianeta, doveva essere una struttura simile a una montagna.

C'erano centinaia di lettini pieni di bambini che strillavano o dormivano o si nutrivano. C'erano sale giochi per quelli che cominciavano ad andare a quattro zampe.

«Neanche a questa età sono tanto male,» disse con astio Klorissa «anche se tengono occupato un enorme numero di robot. Finché non arrivano a camminare ci vuole praticamente un robot per bambino.»

«E questo perché?»

«Se non ricevono attenzione individuale, si ammalano.»

Baley annuì. «Sì, immagino che non si possa passare sopra alla necessità di affetto.»

Klorissa fremette. «I bambini richiedono attenzione» disse brusca.

«Sono un po' sorpreso che dei robot riescano a soddisfare la necessità di affetto.»

Lei roteò verso Baley, con la distanza tra loro che non era sufficiente a nascondere la sua contrarietà. «Ora senta, Baley, se cerca di scioccarmi usando termini spiacevoli, non ce la farà. Cieli azzurri, non sia infantile.»

«Scioccarla?»

«Anch'io posso usare quella parola. Affetto! Se vuole c'è anche una parola di cinque lettere. So dire anche quella. Amore! Amore! Ora, anche se non rientra nelle sue abitudini, si comporti bene.»

Baley non s'ingolfò in una discussione sull'oscenità. «Allora,» disse «i robot possono dare l'attenzione necessaria?»

«Ovviamente, se no questa fattoria non sarebbe il successo che è. Giocano con il bambino. Si sdraiano vicino a lui e lo coccolano. Al bambino non importa nulla che si tratti di un robot. Ma poi le cose diventano più difficili tra i tre e i dieci.»

«Oh?»

«Durante questo periodo i bambini insistono nel giocare gli uni con gli altri. Del tutto indiscriminatamente.»

«E li lasciate fare.»

«Dobbiamo, ma non dimentichiamo mai l'obbligo che abbiamo di insegnar loro i requisiti dell'età adulta. Ciascuno ha una camera separata che può essere chiusa. Fin dall'inizio devono dormire soli. Su questo siamo irremovibili. E poi hanno tutti i giorni un periodo di isolamento che cresce con gli anni. Quando un bambino ha raggiunto i dieci anni, è in grado di limitarsi alla visione per una settimana di fila. Naturalmente le visioni sono organizzate con complessità. Possono visionare all'esterno, in movimento e per tutto il giorno.»

«Sono sorpreso» commentò Baley «che riusciate a neutralizzare un istinto tanto profondo. Che lo neutralizziate lo vedo. Eppure mi meraviglia.»

«Quale istinto?» domando Klorissa con impeto.

«L'istinto gregario. C'è: l'ha detto lei che i bambini insistono per giocare insieme.»

Klorissa scrollò le spalle. «Quello lo chiama istinto? E poi, anche se lo fosse? Cieli azzurri, un bambino ha la paura istintiva di cadere, ma gli adulti possono essere addestrati a lavorare in posti elevati, anche dove c'è il continuo pericolo di cadere. Non ha mai visto esibizioni ginnastiche sulla fune? Ci sono mondi in cui la gente vive in palazzi altissimi. E poi i bambini hanno anche la paura istintiva dei rumori forti, ma lei ne ha paura?»

«Non senza ragione.»

«Sarei pronta a scommettere che la gente della Terra non è capace di dormire, quando c'è veramente il silenzio. Cieli azzurri, non c'è istinto che non si possa arrendere a una buona e persistente educazione. Certo non negli esseri umani, i cui istinti sono comunque deboli. Infatti, se la portate a fondo, ad ogni generazione l'educazione diventa più facile. Questione di evoluzione.»

«E questo come mai?»

«Non capisce? Ogni individuo durante il suo sviluppo ripete la sua storia evolutiva. Quei feti, che ha visto, per un certo tempo hanno coda e branchie. Non possono saltare questi stadi. E nello stesso modo i più giovani devono passare per lo stadio sociale-animalesco. Ma come un feto può oltrepassare in un mese uno stadio che l'evoluzione ci ha messo cento milioni d'anni a esaurire, così i nostri bambini possono uscire in fretta dallo stadio sociale-animalesco. Il dottor Delmarre era dell'opinione che, col passare delle generazioni, ne sarebbero usciti sempre più in fretta.»

«Ed è così?»

«Stimava che in tremila anni, al presente ritmo di progresso, avremo bambini che accetteranno immediatamente la visione. Il capo aveva anche altri progetti. Era interessato a migliorare i robot al punto di renderli capaci di mantenere la disciplina tra i bambini senza per questo diventare mentalmente instabili. Perché no? Disciplina oggi per una miglior vita domani è un'autentica espressione della Prima Legge, se solo i robot fossero in grado di capirlo.»

«E questo tipo di robot non è stato ancora prodotto?»

Klorissa scosse il capo. «Temo di no. Il dottor Delmarre e Leebig lavoravano intensamente su modelli sperimentali.»

«Il dottor Delmarre non aveva mandato dei modelli alla sua tenuta? Era un robotista abbastanza buono da condurre dei test per conto suo?»

«Oh, sì. Faceva dei test sui robot molto spesso.»

«Sa che quando è stato ucciso c'era un robot con lui?»

«Me l'hanno detto.»

«Sa che tipo di modello fosse?»

«Dovrebbe chiedere a Leebig. Come le ho detto, è il robotista che lavorava col dottor Delmarre.»

«Lei ne sa niente?»

«Niente di niente.»

«Se le viene in mente qualcosa, me lo faccia sapere.»

«Certo. E non credo che nuovi modelli di robot esaurissero gli interessi del dottor Delmarre. Era solito dire che verrà il tempo in cui delle uova non fertilizzate saranno immagazzinate in banche alla temperatura dell'aria liquida per essere poi usate per la fecondazione artificiale. In questo modo i principi eugenici potrebbero essere veramente applicati e potremmo sbarazzarci delle ultime vestigia di ogni necessità di vederci. Non sono sicura che avrei potuto seguirlo tanto lontano, ma era un uomo di cultura avanzata: un buonissimo solariano.»

Si affrettò ad aggiungere: «Vuole venire fuori? I gruppi tra i cinque e gli otto sono incoraggiati a giocare all'esterno, e così potrebbe vederli in azione».

«Tenterò» disse Baley con cautela. «Potrei dover rientrare a breve scadenza.»

«Ah, sì, dimenticavo. Forse preferirebbe non andar fuori affatto?»

«No.» Baley si costrinse a sorridere. «Sto cercando di abituarmi all'esterno.»

Ciò che era pesante da sopportare era il vento. Rendeva difficile la respirazione. Non che fosse freddo, in senso fisico immediato, ma la sua sensazione, la sensazione degli abiti che gli si agitavano sul corpo, davano a Baley una specie di brivido.

Quando cercava di parlare gli battevano i denti e doveva forzare le parole a uscire di bocca. Gli facevano male gli occhi a guardare tanto lontano verso un orizzonte così pieno di un nebuloso verde e azzurro che provava un limitato sollievo fissando il sentiero immediatamente davanti ai suoi piedi. Soprattutto evitava di alzare gli occhi a quel vuoto azzurro, vuoto, cioè, se si eccettuavano i bianchi cumuli di nuvole sparse qua e là e il fulgore del sole nudo.

Eppure riusciva a combattere l'impulso di scappare, di tornare al chiuso.

Seguendo Klorissa ai soliti dieci passi di distanza, oltrepassò un albero e allungò una mano per toccarlo. Al tatto era duro e rugoso. Sopra di lui si muovevano le fronde fruscianti, ma non alzò gli occhi a guardarle. Un albero vivo!

«Come si sente?» gridò Klorissa.

«Bene.»

«Da qui può vedere un gruppo di ragazzi» continuò lei. «Sono occupati in qualche gioco. I robot organizzano i giochi e stanno attenti che i piccoli animali non si facciano saltar fuori gli occhi a calci l'un l'altro. Con la presenza personale questo si può fare, lo sa.»

Baley alzò lentamente gli occhi, facendo scorrere lo sguardo lungo il sentiero di cemento fino all'erba, e poi giù per la scarpata, sempre più lontano (molto cautamente), pronto a girarsi di scatto se si fosse spaventato… Provando con gli occhi…

C'erano piccole figure di bambini e bambine che correvano pazzamente in giro, incuranti di essere sulla buccia esterna di un mondo con sopra di loro niente altro che aria e spazio. Lo scintillìo di qualche robot si muoveva agilmente qua e là tra di loro. Il chiasso dei bambini era qualcosa di incoerentemente gracidante nell'aria.

«Amano tutto ciò» disse Klorissa. «Spingersi e tirarsi e bisticciare e cadere e rialzarsi e comunque toccarsi. Cieli azzurri! Come fanno i bambini a riuscire a crescere?»

«Che cosa fanno quei bambini più grandi?» chiese Baley. Indicò un gruppo di ragazzi isolati che stavano da una parte.

«Visionano. Non sono in stato di presenza personale. Visionando possono camminare insieme, parlare insieme, correre insieme, giocare insieme. Tutto tranne il contatto fisico.»

«Dove vanno i bambini, quando lasciano questo posto?»

«Alle loro tenute. In media il numero delle morti è pari al numero dei rilasciati.»

«Alle tenute dei loro genitori?»

«Cieli azzurri, no! Sarebbe una sorprendente coincidenza, non le pare?, che un genitore morisse proprio durante l'età del rilascio di suo figlio. No, i bambini prendono le tenute diventate vacanti. Comunque non saprei se qualcuno di loro sarebbe particolarmente felice a vivere in una casa che una volta era appartenuta ai suoi genitori, naturalmente supponendo che sapessero chi sono i loro genitori.»

«Non lo sanno?»

Lei alzò le sopracciglia. «E perché dovrebbero?»

«I genitori non vengono a visitare i figli, qui?»

«Che razza di mente ha, lei! Perché dovrebbero desiderarlo?»

«Non le dispiace» chiese Baley «se chiarisco una cosa per mia conoscenza? È maleducazione chiedere a una persona se ha bambini?»

«E una domanda intima, non le sembra?»

«In un certo senso.»

«Io sono indurita. I bambini sono il mio lavoro. L'altra gente non lo è.»

«Lei ha bambini?»

Il pomo d'Adamo di Klorissa le fece in gola un leggero ma chiaramente percettibile movimento mentre inghiottiva. «Me lo merito, immagino. E lei si merita una risposta. No, non ne ho.»

«È sposata?»

«Sì, e ho una mia tenuta, e sarei là, se non fosse per questa emergenza. Non sono sicura di poter controllare tutti i robot, se non sono qui di persona.»

Si girò con aria infelice, per poi fare un segno. «Ora uno è caduto, e naturalmente sta piangendo.»

Un robot correva verso di lui, divorando lo spazio a grandi passi.

«Sarà raccolto,» commentò Klorissa «abbracciato e, se ci fosse un danno effettivo, mi chiamerebbero. Spero di non doverlo fare» aggiunse nervosamente.

Baley inspirò profondamente. Notò, a una ventina di metri sulla sua sinistra, tre alberi che formavano un piccolo triangolo. Camminò in quella direzione, l'erba morbida e repellente sotto i piedi, disgustosa nella sua sofficità (come camminare su carne in putrefazione, e al pensiero quasi vomitò).

Infine vi fu in mezzo con la schiena contro un tronco. Era quasi come essere circondato da muri imperfetti. Il sole era solo un'ondeggiante serie di barbagli attraverso le fronde, così frammentato da perdere quasi tutto l'orrore.

Klorissa lo guardava dal sentiero, poi lentamente dimezzò la distanza.

«Le dispiace se resto un po' qui?» chiese Baley.

«Prosegua» disse Klorissa.

«Una volta che i giovani sono usciti di qui, come fanno a corteggiarsi?»

«Corteggiarsi?»

«Conoscersi l'un l'altro» chiarì Baley, chiedendosi vagamente come si potesse esprimere l'idea con sicurezza, «in modo da potersi sposare.»

«Non è un problema loro» rispose Klorissa. «Vengono accoppiati in base all'analisi dei geni, di solito quando sono molto giovani. È un modo ragionevole, no?»

«E loro sono d'accordo?»

«Di sposarsi? Mai! È un processo molto traumatico. Fin dall'inizio devono abituarsi l'uno all'altra e il vedersi un po' tutti i giorni, una volta passata la nausea iniziale, fa miracoli.»

«E se a loro il partner non piace?»

«Cosa? Se l'analisi dei geni indica compatibilità, che differenza fa se…»

«Capisco» si affrettò a dire Baley. Pensava alla Terra e sospirò.

«C'è qualcosa d'altro che vorrebbe sapere?» chiese Klorissa.

Baley si chiese se fosse profittevole prolungare la visita. Non gli sarebbe dispiaciuto farla finita con Klorissa e l'ingegneria fetale, in modo di passare alla mossa successiva.

Aprì la bocca per esprimersi in questo senso, quando Klorissa si mise a chiamare qualcosa lontano. «Ragazzo! Tu, laggiù! Che cosa fai?» Poi, girandosi sulla spalla: «Terrestre! Baley! Attento! Attento!».

Baley quasi non la capì. Reagì al tono d'urgenza della sua voce. Lo sforzo nervoso che teneva tese le sue emozioni si allargò di scatto per fiammeggiare nel panico. Tutto il terrore dell'aria aperta e della cupola senza fine del cielo gli irruppe addosso.

Baley parlò inarticolatamente. Udì la sua bocca emettere suoni senza significato e si sentì cadere sulle ginocchia e lentamente rotolare di fianco come se osservasse l'azione da lontano.

Ancora da lontano udì il ronzio sospirante che fendeva l'aria sopra di lui e terminava con un suono secco.

Baley chiuse gli occhi e le sue dita afferrarono una piccola radice affiorante, con le unghie affondate nello sporco.


Riaprì gli occhi (doveva essere stato solo qualche momento dopo). Klorissa stava rimproverando bruscamente un ragazzo che rimaneva a distanza. Un robot stava silenzioso vicino a Klorissa. Baley ebbe solo il tempo di notare che il giovane aveva in mano un oggetto teso con una corda prima che gli occhi gli deviassero altrove.

Respirando pesantemente Baley lottò per alzarsi in piedi. Fissava l'asticella di metallo lucido infissa nel tronco contro cui era stato appoggiato. La tirò e venne fuori con facilità. Non era penetrata profondamente. Guardò la punta senza toccarla. Era smussata, ma sarebbe stata sufficiente a lacerargli la pelle, se non si fosse lasciato cadere.

Gli ci vollero due tentativi, prima di riuscire a muovere le gambe. Fece un passo verso Klorissa e chiamò. «Tu. Ragazzo.»

Klorissa si voltò, con la faccia rossa. «È stato un incidente» disse. «Si è fatto male?»

«No! E questa cos'è?»

«È una freccia. È stata lanciata da un arco, che fa fare il lavoro a una corda tesa.»

«Così» gridò impudentemente il ragazzo, e tirò un'altra freccia in aria per poi scoppiare a ridere. Aveva i capelli chiari e il corpo flessuoso.

«Sarai punito» disse Klorissa. «E ora vattene!»

«Aspetta, aspetta» gridò Baley. Si sfregava un ginocchio, spellato da un sasso nella caduta. «Ho qualche domanda da farti. Come ti chiami?»

«Bik» disse il ragazzo con noncuranza.

«L'hai tirata a me la freccia, Bik?»

«Esatto.»

«Ti rendi conto che avresti potuto colpirmi, se non mi avessero avvisato in tempo di abbassarmi?»

Bik scrollò le spalle. «Ho tirato per colpire.»

Klorìssa si affrettò a parlare. «Lasci che le spieghi. Il tiro con l'arco è uno sport incoraggiato. È competitivo senza richiedere contatti. Facciamo delle gare tra i ragazzi usando la sola visione. Ora temo che qualche ragazzo tiri contro i robot. Lo diverte e ai robot non fa male. Io sono l'unico adulto della tenuta, e quando il ragazzo l'ha vista deve aver pensato che lei fosse un robot.»

Baley ascoltava. La mente gli si stava schiarendo e la naturale aria cocciuta del suo volto s'intensificò. «Bik,» disse «pensavi che io fossi un robot?»

«No» disse il ragazzo. «Tu sei un terrestre.»

«Va bene. Va', ora.»

Bik si girò e si allontanò fischiettando. Baley si rivolse al robot. «Tu! Come ha fatto il ragazzo a sapere che ero un terrestre? Oppure non eri con lui quando ha tirato?»

«Ero con lui, padrone. Gliel'ho detto io che lei era terrestre.»

«Gli hai detto che cos'era un terrestre?»

«Sì, padrone.»

«E che cos'è un terrestre?»

«Un tipo umano inferiore a cui non dovrebbe essere permesso di mettere piede su Solaria, perché porta malattie, padrone.»

«E chi ti ha detto questo, ragazzo?»

Il robot rimase in silenzio.

Baley insistette. «Non sai chi te l'ha detto?»

«No, padrone. È nel mio magazzino memorie.»

«Così hai detto al ragazzo che io ero un essere inferiore che spargeva malattie, e lui mi ha tirato immediatamente. Perché non l'hai fermato?»

«Avrei voluto, padrone. Non avrei permesso che un umano patisse danno, nemmeno un terrestre, ma lui si è mosso troppo rapidamente e io non sono stato abbastanza veloce.»

«Forse hai pensato che io ero solo un terrestre, non completamente umano, e hai esitato un poco.»

«No, padrone.»

Lo disse con quieta calma, ma le labbra di Baley ebbero un guizzo tetro. Il robot poteva negare tutto in buona fede, ma Baley sentiva che era proprio quello il fattore implicito.

«Che cosa facevi con il ragazzo?» chiese.

«Gli stavo portando le frecce, padrone.»

«Posso vederle?»

Alzò la mano. Il robot si avvicinò a consegnargliene una decina. Baley mise ai suoi piedi la freccia originale, quella che aveva colpito l'albero, e si mise a guardare le altre una per una. Le restituì e riprese la freccia originale.

«Perché hai dato questa particolare freccia al ragazzo?»

«Per nessun motivo, padrone. Qualche istante prima aveva chiesto una freccia, e quella è stata la prima che le mie dita hanno raggiunto. Lui era in cerca di un bersaglio, poi ha notato lei e ha chiesto che razza di essere umano fosse. Ho spiegato che…»

«Lo so che cos'hai spiegato. Questa freccia che gli hai passato è l'unica con le piume grigie. Le altre le hanno nere.»

Il robot si limitò a fissarlo.

«L'hai guidato tu qui il ragazzo?»

«Camminavamo a casaccio, padrone.»

Il terrestre guardava attraverso il varco tra i due alberi per il quale era passata la freccia diretta al suo bersaglio. Disse: «Per caso, non è che questo Bik sia il migliore arciere che avete qui?».

Il robot piegò la testa. «È il migliore, padrone.»

Klorissa era a bocca aperta. «Come ha fatto a indovinarlo?»

«È logico» disse Baley asciutto. «Ora la prego di osservare questa freccia e le altre. La freccia con le piume grigie è l'unica che sembra unta in punta. Signora, dicendole che mi ha salvato la vita, rischio il melodramma, ma questa freccia è avvelenata.»

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