2. Incontro con un amico

Baley stava perdendo la sua lotta. Da sola la ragione non bastava.

Baley continuava a ripetersi: gli uomini passano tutta la vita negli spazi aperti. Gli spaziali lo fanno ora. Sulla Terra i nostri antenati lo facevano nel passato. Non c'è nessun vero pericolo nell'assenza di muri. È solo la mia mente che mi dice diversamente, e si sbaglia.

Ma tutto questo non serviva. Dentro di lui, qualcosa al di là della ragione chiedeva piangendo dei muri e ne aveva abbastanza dello spazio.

Mentre il tempo passava, penso che non ce l'avrebbe fatta. Alla fine si sarebbe rannicchiato tremante e impaurito. Lo spaziale mandato a prenderlo (con filtri nelle narici per tenere lontani i germi e mani guantate per evitare il contatto) onestamente non avrebbe potuto fare a meno di disprezzarlo. Lo spaziale avrebbe provato soltanto disgusto.

Baley teneva duro, tetro.

Quando la nave si fermò e la bardatura per la decelerazione si disinnestò automaticamente, mentre il sistema idraulico si ritirava nel muro, Baley rimase seduto al suo posto. Era terrorizzato e deciso a non farlo vedere.

Guardò altrove al primo quieto suono della porta che si apriva. Con la coda dell'occhio percepì un'alta figura dai capelli color bronzo che entrava: uno spaziale, uno di quegli orgogliosi discendenti della Terra che avevano ripudiato la loro eredità.

Lo spaziale parlò. «Collega Elijah!»

Con un sobbalzo Baley girò la testa verso chi aveva parlato.

Spalancò gli occhi e si alzò quasi senza volerlo.

Lo fissò in faccia; fissava le larghe guance, gli zigomi sporgenti, l'assoluta calma delle linee del volto, la simmetria del corpo e soprattutto il levigato sguardo di quei calmi occhi azzurri.

«D… Daneel.»

«Mi fa piacere che tu ti ricordi di me, collega Elijah» disse lo spaziale.

«Ricordarmi di te!» Il sollievo inondava Baley. Quell'essere era un pezzo di Terra, un amico, un conforto, un salvatore. Aveva il desiderio quasi insopportabile di correre ad abbracciare lo spaziale, di scuoterlo selvaggiamente, di dargli pacche sulla schiena, di ridere e fare tutte quelle stupide cose che fanno gli amici dopo una separazione.

Ma non lo fece. Non poteva. Poteva solo fare un passo avanti, stendere la mano e dire: «Non è facile dimenticarti, Daneel».

«Mi fa piacere» disse Daneel, annuendo gravemente. «Come ben sai, è per me completamente impossibile dimenticarti, finché sono in servizio. È un bene, vederti ancora.»

Daneel prese la mano di Baley la strinse con calma freddezza, le dita che si chiudevano in una presa piacevole e non dolorosa, per poi rilasciarla.

Baley sperava onestamente che gli occhi inscrutabili della creatura non potessero entrare nella sua mente e vedere quel selvaggio momento appena passato, e non del tutto cessato, in cui lui si era interamente concentrato in un sentimento di intensa amicizia che era quasi amore.

Dopo tutto uno non poteva amare un amico come Daneel Olivaw, che non era affatto un uomo, ma solo un robot.


Il robot che somigliava tanto a un uomo disse: «Ho chiesto che un veicolo da trasporto condotto da un robot fosse collegato alla nave con un tubo ad aria…».

Baley fremette. «Un tubo ad aria?»

«Sì. È una tecnica comune, usata di frequente nello spazio, per trasferire personale e materiale da un'astronave all'altra senza la necessità di particolari equipaggiamenti contro il vuoto. Si direbbe che tu non sia pratico di questa tecnica.»

«No,» rispose Baley «ma ho afferrato l'idea.»

«Naturalmente è piuttosto complicato collegare in questo modo una nave spaziale con un veicolo a terra, ma ho richiesto che venisse fatto lo stesso. Per fortuna la missione in cui tu e io siamo impegnati è di priorità assoluta. Le difficoltà sono state smussate subito.»

«Anche tu sei stato assegnato al caso di omicidio?»

«Non ne eri ancora stato informato? Mi dispiace di non avertelo detto subito.» Naturalmente non c'era nessun segno di rincrescimento sul perfetto volto del robot. «È stato il dottor Han Fastolfe, che hai incontrato sulla Terra durante il nostro precedente lavoro di squadra e che spero tu ricordi, a suggerire te come un investigatore adatto per questo caso. E ha messo come condizione che fossi assegnato a lavorare con te ancora una volta.»

Baley riuscì a sorridere. Il dottor Fastolfe era originario di Aurora e Aurora era il più forte dei Mondi Esterni. Sembrava che il consiglio di un aurorano avesse il suo peso.

«Squadra che vince non si cambia, eh?» disse Baley. (L'euforia iniziale per l'apparizione di Daneel stava svanendo e gli stava ritornando quel peso nel petto.)

«Non so quale preciso pensiero avesse in mente, collega Elijah. Dalla natura dei suoi ordini tenderei a pensare che fosse interessato ad assegnare a lavorare con te uno che avesse esperienza del tuo mondo e che conoscesse le tue conseguenti stranezze.»

«Stranezze!» Baley fremette e si sentì offeso. Non era un termine che gli piacesse in rapporto a se stesso.

«È per questo che ho potuto far portare il tubo ad aria, per esempio. Sono ben consapevole della tua avversione per gli spazi aperti come risultato della tua educazione nelle Città della Terra.»

Forse era l'effetto di essere stato definito “strano”, la sensazione di dover controbattere, pena la perdita di prestigio con una macchina, che spinse Baley a cambiare bruscamente argomento. Forse era solo che l'addestramento di tutta una vita gli impediva di lasciar perdere una contraddizione logica.

«A bordo di questa nave» disse «c'era un robot al mio servizio; un robot» (qui s'insinuò per conto suo un tocco di malizia) «che sembrava un robot. Lo conosci?»

«Gli ho parlato prima di salire a bordo.»

«Qual è la sua designazione? Come faccio a entrare in contatto con lui?»

«È RX-2475. A Solaria per i robot si usano solo numeri di serie.» I calmi occhi di Daneel esaminavano il pannello di controllo vicino alla porta. «Questo comando lo farà venire.»

Baley guardò anch'egli il pannello di controllo e, poiché il comando che Daneel indicava era siglato RX, la sua identificazione non era affatto misteriosa.

Baley vi premette il dito e in meno di un minuto il robot, quello che sembrava un robot, entrò.

Baley disse: «Tu sei RX-2475».

«Sì, signore.»

«Prima mi hai detto che sarebbe venuto qualcuno a scortarmi fuori dalla nave. Volevi dire lui?» Baley indicò Daneel.

Gli occhi dei due robot s'incontrarono. «Le sue carte lo identificano» disse RX-2475 «come colui che doveva incontrarla.»

«Oltre che sui suoi documenti, ti è stato detto nulla in anticipo su di lui? Ti è stato descritto?»

«No, signore. Comunque mi è stato dato il suo nome.»

«Chi ti ha dato l'informazione?»

«Il capitano della nave, signore.»

«È un solariano?»

«Sì, signore.»

Baley si leccò le labbra. La domanda successiva sarebbe stata decisiva.

«Quale ti hanno detto che sarebbe stato» chiese «il nome di colui che aspettavi?»

«Daneel Olivaw, signore» rispose RX-2475.

«Bravo ragazzo! Puoi andare, ora»

Ci fu un inchino robotico e un rapido dietro-front. RX-2475 se ne andò.

Baley si girò verso il suo partner e disse pensieroso: «Non mi dici la verità, Daneel».

«In che modo, collega Elijah?» chiese Daneel.

«Mentre prima ti parlavo, mi è venuto in mente uno strano particolare. RX-2475, quando mi ha comunicato che avrei avuto una scorta, ha detto che sarebbe venuto un uomo. Lo ricordo molto bene.»

Daneel ascoltava tranquillo senza dire nulla.

Baley proseguì. «Pensavo che il robot poteva essersi sbagliato. Ho pensato anche che forse mi era stato davvero assegnato un uomo e che in seguito questi fosse stato rimpiazzato da te, senza che RX-2475 fosse stato informato del cambiamento. Ma mi hai sentito mentre controllavo la cosa. Gli sono stati descritti i tuoi documenti e gli è stato dato il tuo nome. Ma non gli è stato dato completamente, non è vero, Daneel?»

«In effetti non gli è stato dato il mio nome per intero» convenne Daneel.

«Il tuo nome non è Daneel Olivaw, ma R. Daneel Olivaw, no? O, per intero, robot Daneel Olivaw.»

«Del tutto esatto, collega Elijah.»

«Dal che ne consegue che RX-2475 non è mai stato informato che sei un robot. Gli è stato permesso di pensare che tu fossi un uomo. Una simile mascherata è possibile, con il tuo aspetto umano.»

«Non posso contraddire il tuo ragionamento.»

«Allora procediamo.» Baley sentiva nascere una specie di selvaggia delizia. Era sulle tracce di qualcosa. Forse non era un granché, ma era il tipo di traccia che poteva funzionare. Proseguì. «Ora perché qualcuno potrebbe voler ingannare un miserabile robot? A lui non importa che tu sia uomo o robot. Lui esegue gli ordini in ogni caso. Allora una ragionevole conclusione è che neanche il capitano solariano che ha informato il robot, e nemmeno le autorità solariane che hanno informato il capitano sapevano che tu sei un robot. Come ho detto, questa è una ragionevole conclusione, ma forse non è l'unica. È vero?»

«Credo che lo sia.»

«Va bene, allora. Intuizione azzeccata. Ora perché? Raccomandandoti come mio partner, il dottor Han Fastolfe lascia intendere ai solariani che tu sei umano. Non è pericoloso? Se lo scoprono, i solariani potrebbero arrabbiarsi. Perché è stato fatto?»

Il robot umanoide rispose: «A me è stato spiegato in questo modo, collega Elijah: una tua associazione con un umano dei Mondi Esterni potrebbe far salire il tuo ceto sociale agli occhi dei solariani, come una tua associazione con un robot potrebbe abbassarlo. Visto che ero familiare ai tuoi metodi e che potevo facilmente lavorare con te, è stato considerato ragionevole lasciare che i solariani mi accettassero come uomo senza veramente ingannarli con una dichiarazione in questo senso».

Baley non ci credeva. Sembrava il tipo di attenta considerazione per i sentimenti di un terrestre che non avrebbe fatto naturalmente uno spaziale, nemmeno uno illuminato come Fastolfe.

Considerò un'alternativa e disse: «I solariani sono ben conosciuti presso i Mondi Esterni per la riproduzione di robot?».

«Sono felice» disse Daneel «che tu sia stato ragguagliato sull'economia interna di Solaria.»

«Nemmeno una parola» precisò Baley. «So solo come si scrive Solaria, e lì finisce la mia conoscenza.»

«Allora non vedo, collega Elijah, che cosa ti abbia spinto a fare questa domanda, comunque è molto pertinente. Hai colpito il segno. Il mio magazzino memoria include il fatto che di cinquanta Mondi Esterni Solaria è di gran lunga il più conosciuto per la varietà e l'eccellenza di modelli di robot che mette in vendita. Esporta modelli specializzati in tutti gli altri Mondi Esterni.»

Baley annui, pieno di torva soddisfazione. Naturalmente Daneel non poteva seguire un intuitivo balzo mentale che usasse come trampolino la debolezza umana. E Baley non provava l'impulso di spiegare il suo ragionamento: se saltava fuori che Solaria era un mondo esperto in robotica, il dottor Han Fastolfe e i suoi soci potevano semplicemente avere motivazioni personali e molto umane per fare una dimostrazione con il loro robot da primo premio. E allora questo non aveva nulla a che fare con la sicurezza o i sentimenti di un terrestre.

Avrebbero rivendicato la loro superiorità lasciando che gli esperti solariani si ingannassero accettando un robot di manifattura aurorana come un collega umano.

Baley si sentiva molto meglio. Strano che tutti i pensieri, tutte le forze intellettuali che era in grado di radunare non ce l'avessero fatta a sollevarlo dal panico; mentre una lustrata alla sua vanagloria aveva funzionato al volo.

Aver individuato della vanagloria anche negli spaziali lo aiutava.

Pensò: Giosafatte, siamo tutti umani: anche gli spaziali.

Quasi con impertinenza disse ad alta voce: «Per quanto tempo dobbiamo aspettare ancora quel veicolo? Sono pronto».


Il tubo ad aria dava segno di non essere stato adattato bene al nuovo uso. Uomini e umanoidi uscivano dall'astronave eretti, spostandosi lungo la trama flessibile che sotto il loro peso si piegava e oscillava. (Nello spazio, pensò confusamente Baley, chi doveva trasferirsi da nave a nave in caduta libera poteva scorrere per il tubo teso in tutta la sua lunghezza.)

All'altra estremità il tubo si restringeva bruscamente, con la trama che sembrava costretta da una mano gigantesca. Con la torcia in mano Daneel scese carponi, e così fece Baley. Fecero anche gli ultimi metri in quel modo, entrando infine in quello che era ovviamente il pianale di un veicolo.

Daneel chiuse la portiera attraverso cui erano entrati, facendola scorrere con cura. Ci fu un forte rumore ticchettante, che poteva anche essere quello del distacco del tubo ad aria.

Baley si guardò curioso in giro. Nel veicolo non c'era nulla di eccessivamente esotico. C'erano due sedili, uno dietro l'altro, ciascuno dei quali avrebbe potuto contenere tre persone. All'estremità dei sedili c'erano delle portiere. Le sezioni lisce che avrebbero dovuto essere finestrini erano nere e opache, come risultato, senza dubbio, di un'adatta polarizzazione. Di questo Baley era stato informato.

L'interno dell'auto era rischiarato da due zone circolari d'illuminazione gialla nel soffitto e, per farla breve, l'unica cosa che Baley trovava strana era il trasmettitore su un divisorio immediatamente di fronte al sedile come, naturalmente, il fatto che non vi fossero comandi in vista.

«Immagino che l'autista sia dall'altra parte di questo divisorio» disse Baley.

«Esattamente così, collega Elijah» confermò Daneel. «E possiamo dare ordini in questo modo.» Si chinò in avanti ad azionare un interruttore che fece accendere una luce rossa lampeggiante. «Puoi incominciare, ora» aggiunse quietamente. «Siamo pronti.»

Ci fu un ronzio in sordina che svanì quasi immediatamente, una pressione molto leggera e temporanea contro lo schienale del sedile, e poi più nulla.

«Ci stiamo muovendo?» chiese Baley sorpreso.

«Sì» confermò Daneel. «L'auto non si muove su ruote, ma slitta su un campo di forze diamagnetico. Tranne le accelerazioni e le decelerazioni, non sentirai nulla.»

«E per le curve?»

«L'auto s'inclina automaticamente per compensare. E il suo assetto orizzontale viene mantenuto anche in salita e in discesa.»

«I comandi devono essere complessi» commentò Baley asciutto.

«Completamente automatici. L'autista è un robot.»

«Umm.» Baley aveva saputo tutto quello che voleva sul veicolo. Aggiunse: «Quanto ci metteremo?».

«Circa un'ora. Un viaggio aereo sarebbe stato molto più veloce, ma mi preoccupavo di tenerti rinchiuso e su Solaria gli aerei non sono in grado di assicurare una chiusura completa come il veicolo su cui stiamo viaggiando.»

Baley si sentiva seccato per la “preoccupazione” dell'altro. Si sentiva come un bambino affidato alla bambinaia. Abbastanza stranamente si sentiva quasi seccato per il modo di parlare di Daneel. Gli sembrava che una struttura linguistica tanto poco necessariamente formale avrebbe tradito la natura robotica di quell'essere.

Per qualche istante Baley fissò con curiosità R. Daneel Olivaw. Il robot guardava fisso davanti a sé, immobile e inconsapevole dell'esame dell'altro.

La trama della pelle di Daneel era perfetta, i capelli e i peli del corpo splendidamente fabbricati e intricatamente inseriti al loro posto. I movimenti dei muscoli sotto la pelle erano molto naturali. Nessun disturbo, per quanto potesse sembrare stravagante, era stato risparmiato. Eppure Baley sapeva, per esperienza personale, che il petto poteva aprirsi lungo invisibili giunture in caso di riparazioni da farsi. Sapeva che sotto quella pelle realistica c'erano metallo e silicone. Sapeva che nella cavità del cranio si annidava un cervello positronico, tecnologicamente più evoluto, ma soltanto positronico. Sapeva che i “pensieri” di Daneel erano solo effimere correnti positroniche che correvano lungo i circuiti rigidamente progettati e preordinati dal fabbricante.

Ma dov'erano i segni che l'avrebbero rivelato all'occhio esperto di chi non sapeva già tutto? La mancanza di naturalezza nell'insignificante modo di parlare di Daneel? La seriosa gravità che risiedeva sempre in lui? La perfetta perfezione della sua umanità?

Ma stava sciupando tempo. «Proseguiamo, Daneel» riprese. «Immagino che prima di venir qui ti abbiano messo al corrente sulle caratteristiche di Solaria…»

«Sì, collega Elijah.»

«Bene. È molto più di quello che hanno fatto con me. Quant'è grande il pianeta?»

«Il suo diametro è 15.000 chilometri. È il più esterno di tre pianeti, e l'unico abitato. Nel clima e nell'atmosfera ricorda la Terra; la sua percentuale di terreno fertile è più alta, il suo contenuto di minerali utili e utilizzabili più basso, ma naturalmente è meno sfruttato. È un mondo autosufficiente e, con l'aiuto dell'esportazione dei suoi robot, può mantenere un alto tenore di vita per i suoi abitanti.»

«Quant'è la popolazione?»

«Ventimila abitanti, collega Elijah.»

Baley lo accettò per un momento, poi disse timidamente: «Volevi dire venti milioni, vero?». L'esigua sua conoscenza dei Mondi Esterni era sufficiente a fargli sapere che, anche se sottopopolate secondo gli standard della Terra, le popolazioni si calcolavano almeno in milioni.

«Ventimila abitanti, collega Elijah» ripeté il robot.

«Intendi dire che il pianeta è stato appena colonizzato?»

«Niente affatto. È indipendente da più di due secoli, e prima di allora era stato colonizzato da un secolo. La popolazione è sempre stata deliberatamente mantenuta al livello di ventimila abitanti, il che è considerato un optimum dagli stessi solariani.»

«Quanta parte del pianeta occupano?»

«Tutte le zone fertili.»

«Il che vuol dire, in chilometri quadrati?»

«Settantasette milioni di chilometri quadrati, comprendendo le zone marginali.»

«Per ventimila abitanti?»

«Ci sono anche duecento milioni di robot positronici che lavorano, collega Elijah.»

«Giosafatte! Cioè… Cioè diecimila robot per ogni essere umano.»

«È la proporzione più alta dei Mondi Esterni, collega Elijah. La successiva, su Aurora, è solo di cinquanta a uno.»

«E che cosa se ne fanno di tanti robot? È perché vogliono tanto cibo?»

«Il cibo è una necessità relativamente minore. Le miniere sono più importanti, e la produzione di energia più importante di tutte.»

Baley pensava a tutti quei robot, e quasi gli venivano le vertigini. Duecento milioni di robot! Tanti in mezzo a così pochi umani. I robot dovevano essere sparpagliati su tutto il paesaggio. Un osservatore esterno avrebbe potuto pensare che Solaria era un mondo di robot, senza notare il sottile lievito umano.

Sentiva la necessità di vedere. Ricordava la conversazione con Minnim e le predizioni dei sociologi sul pericolo per la Terra. Sembrava lontanissima e un po' irreale, ma se la ricordava. Da quando aveva lasciato la Terra, i rischi e le difficoltà personali avevano offuscato il ricordo della voce di Minnim, con le sue fredde e precise dichiarazioni, ma non l'aveva mai cancellato del tutto.

Baley aveva vissuto troppo tempo facendo il suo dovere per permettere che anche l'opprimente fatto dello spazio aperto potesse fermare la sua linea di condotta. I dati ricavati dalle parole di uno spaziale, o da quelle di un robot degli spaziali, in quanto a questo, erano i tipi di cose che i sociologi della Terra potevano già procurarsi. Ciò che serviva era l'osservazione diretta, ed era lavoro suo, per quanto spiacevole, eseguirla.

Esaminò il soffitto del veicolo. «Questo aggeggio è decappottabile, Daneel?»

«Chiedo scusa, collega Elijah, ma non capisco che cosa vuoi dire.»

«Si può tirare giù il tetto della macchina? Si può aprire per vedere… Per vedere il cielo?» (Per l'abitudine aveva quasi detto “la Cupola”.)

«Sì che si può…»

«E allora fallo, Daneel. Mi piacerebbe dare un'occhiata.»

Il robot rispose con gravità: «Mi spiace, ma non posso permetterlo».

Baley rimase attonito. «Senti, R. Daneel» riprese, accentuando la R. «Riformuliamolo. Ti ordino di abbassare il tetto.»

La creatura era un robot, che assomigliasse all'uomo o meno. Doveva eseguire gli ordini.

Ma Daneel non si mosse. «Devo spiegare» disse «che la mia prima preoccupazione è risparmiarti qualunque danno. Sulla base dei miei ordini come della mia esperienza personale mi è chiaro che se ti trovassi in grandi spazi vuoti ne riceveresti danno. Per cui non posso permettere che tu ti esponga a questo.»

Baley poteva sentire la faccia che gli si scuriva per l'afflusso di sangue e nello stesso tempo capiva l'assoluta inutilità dell'ira. La creatura era un robot, e Baley conosceva bene la Prima Legge della robotica.

Diceva: Un robot non può recar danno a un essere umano, o permettere che, per il suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.

Chiunque avesse un cervello positronico, e cioè qualunque robot in qualunque parte della galassia, doveva inchinarsi a quella considerazione primaria. Naturalmente un robot doveva eseguire gli ordini, tranne che per un'unica importantissima restrizione. L'esecuzione degli ordini era soltanto la Seconda Legge della robotica.

Diceva: Un robot deve ubbidire agli ordini degli esseri umani, tranne quando tali ordini sono in conflitto con la Prima Legge.

Baley si costrinse a parlare con tono tranquillo e ragionevole. «Credo di poter resistere per un breve tempo, Daneel.»

«Non è questa la mia sensazione, collega Elijah.»

«Lascia che sia io a giudicare.»

«Se questo è un ordine, collega Elijah, non posso eseguirlo.»

Baley si lasciò andare contro lo schienale morbidamente imbottito. Il robot, naturalmente, era fuori portata di qualunque azione di forza. La forza di Daneel, se pienamente esercitata, sarebbe stata centinaia di volte maggiore di quella della carne e del sangue. Sarebbe stato perfettamente capace di immobilizzare Baley senza nemmeno fargli male.

Baley era armato. Avrebbe potuto puntare un fulminatore contro Daneel, ma a parte forse una momentanea sensazione di padronanza, l'azione si sarebbe risolta in una frustrazione anche maggiore. Contro un robot una minaccia di distruzione era inutile. L'autopreservazione riguardava soltanto la Terza Legge.

Diceva: Un robot ha il dovere di proteggere la sua esistenza, a patto che tale difesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Se l'alternativa fosse stata l'infrazione della Prima Legge, Daneel non ci avrebbe pensato due volte a farsi distruggere. E Baley non voleva distruggere Daneel. Assolutamente no.

Eppure voleva ad ogni costo guardare fuori dalla macchina. Per lui stava diventando un'ossessione. Non poteva permettere che quel rapporto di tipo bambinaia si rafforzasse.

Per un istante pensò di puntarsi il fulminatore alla tempia. Tira giù il tetto o mi ucciderò. Opponi un'applicazione più forte e più immediata della Prima Legge a un'altra.

Baley sapeva di non poterlo fare. Troppo poco dignitoso. Il quadro evocato dal suo pensiero lo disgustava.

Disse stancamente: «Vuoi chiedere all'autista quanti chilometri mancano alla nostra destinazione?».

«Certo, collega Elijah.»

Daneel si piegò in avanti ad azionare l'interruttore. Ma, prima che potesse parlare, anche Baley si era piegato in avanti gridando: «Autista! Abbassa il tetto della macchina!».

E fu la mano umana a muoversi rapidamente a richiudere l'interruttore. Ed era la mano umana a tenerlo poi fermamente chiuso.

Ansando un poco, Baley fissava Daneel.

Per un secondo Daneel rimase immobile, come se i suoi circuiti positronici fossero momentaneamente instabili per lo sforzo di adattarsi alla nuova situazione. Ma questo passò rapidamente, dopodiché fu la mano del robot a cominciare a muoversi.

Questo Baley l'aveva previsto. Daneel avrebbe rimosso la mano umana dall'interruttore (gentilmente, senza danneggiarla), riattivato la trasmittente e dato un contrordine.

«Non potrai togliermi la mano senza farmi male» disse Baley. «Ti avverto. Probabilmente dovrai rompermi le dita.»

Non era vero, Baley lo sapeva. Ma l'azione di Daneel si fermò. Danno contro danno. Il cervello positronico doveva soppesare le possibilità e tradurle in potenziali opposti. Voleva dire un altro po' di esitazione.

«È troppo tardi» disse Baley.

Aveva vinto la gara. Il tetto stava scivolando all'indietro e l'aspra luce bianca del sole di Solaria si riversava nella macchina, ora aperta.

Per il terrore Baley voleva chiudere gli occhi, ma combatté la sensazione. Si trovava in un'immersione di azzurro e di verde, in quantità incredibili. Sentiva l'indisciplinato flusso d'aria contro la faccia, ma non riusciva a cogliere i particolari di nulla. Qualcosa gli passò vicino in un lampo. Avrebbe potuto essere un animale, o un robot, o qualcosa di inanimato, preso nel vortice d'aria. Non sapeva. L'auto l'aveva sorpassato fin troppo rapidamente.

Azzurro, verde, aria, rumore, moto… E soprattutto, sopraffacendo ogni altra cosa, furiosa, spaventosa, senza pietà, c'era la bianca luce che scendeva da una palla nel cielo.

Per un fuggevole e staccato momento Baley piegò il capo all'indietro a fissare direttamente il sole di Solaria. Lo fissava senza la protezione del vetro diffusorio nei solarium del piano superiore nelle Città. Fissava il sole nudo.

Nello stesso istante sentì le mani di Daneel che gli stringevano le spalle come una morsa. In quell'istante irreale e roteante la mente gli si affollò di pensieri. Doveva vedere! Doveva vedere tutto quello che poteva. E Daneel doveva essere lì con lui per impedirgli di vedere.

Ma certo un robot non avrebbe mai osato far violenza a un uomo. Quel pensiero era dominante. Daneel non avrebbe potuto impedirgli nulla con la forza, eppure Baley sentiva che le mani del robot lo tiravano giù.

Baley alzò le braccia a contrastare quelle mani senza carne e perse ogni sensazione.

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