CAPITOLO 2 UNA MUSICA D’UCCELLINI SOPRAVVISSUTI

… Poiché, come quest’oceano spaventoso circonda la terra verdeggiante, cosi nell’anima dell’uomo c’è una Tahiti insulare, piena di pace e di gioia, ma cinta dà tutti gli orrori della vita semiconosciuta.

Herman Melville, MOBY DICK.


— Il mio nome è Demetrios.

«Mio padre e mia madre morirono a qualche ora l’uno dall’altra, in coma, dopo poche ore di crampi parossistici e di febbre alta… non so come si chiamasse quella malattia. Come accadeva sempre, stranamente, con le brevi epidemie, io non ne fui colpito, sebbene la morte dominasse intorno a me e non rimanesse quasi nessuno per cercare di seppellire i cadaveri. Forse io e pochi altri avemmo una forma lieve della stessa infezione, qualunque cosa fosse. Ma sono solo ipotesi, perché la scienza, così come la conoscevano gli uomini, non esisteva più. La civiltà finì con un sussulto per le strade e il silenzio.

«Hesterville era una cittadina di circa tremila abitanti. Qualche settimana dopo la Guerra dei Venti Minuti, non credo che fossimo rimasti più di cinquecento. Riuscite a immaginare le case vuote e il fetore della morte? Un luglio caldissimo e afoso; la terra esalava vapori verso il sole, tra brevi intervalli di piogge insopportabili… quelle piogge!… ma era pioggia calda, e non serviva ad attenuare la putredine che non riusciva a lavare. Era pioggia triste, pesante, senza vento. Il cielo sanguinava acqua, come la vittima di un sacrificio.

«Una persona rimasta sola, come me, poteva sopravvivere solo come un animale furtivo. Il cibo era dove lo trovavi, ogni ombra era una minaccia, e tutti erano estranei. La nostra casa, dove giacevano morti i miei genitori, fu saccheggiata da una mezza dozzina di teppisti che passarono sui resti della nostra cittadina come un uragano salito dalla pianura. Io mi salvai nascondendomi. Più tardi vidi due di loro abbattuti da qualcuno che sparava da una finestra con un fucile a ripetizione, e che si era assunto la parte di difensore della legge, penso, poiché non ne esistevano altri. E quei due si contorsero un po’ sotto la pioggia.

«Hesterville… oh, credo che adesso sia finita sott’acqua. Qualche volta ci ritorno in sogno: un luogo pieno d’ossa sbiancate. Una volta, in quel modo, l’ho trovata piena di alghe ondeggianti sopra a una statua bianca che stava, benigna ma taciturna, sul fondo verde… Sembrava mia madre, e l’avrei abbracciata, se l’acqua non mi avesse tenuto lontano come vetro impenetrabile.

«Il giorno successivo, dopo essere sfuggito ai saccheggiatori, mi avviai per la strada che portava lontano da Hesterville, senza mèta e affamato. Il governo, lo sapevo, non esisteva più. A tredici anni, si sanno quasi tutte le cose importanti… il resto è commenti e dettagli. Come posso spiegarmi? Io e voi, tutti noi, care anime, siamo abituati ad una specie di governo, qui a Nuber, magari anche troppo. Qui c’è maggiore continuità che in altri posti, dopo la Guerra dei Venti Minuti e gli altri disastri. La gente conserva un governo, in una forma o nell’altra, perché deve essere così. La vera anarchia è intollerabile; i lupi, i cervi selvatici, non vivono nell’anarchia, seguono leggi rigorose, alcune addirittura autoimposte, e di solito chi infrange la legge perisce. Ebbene, quarantasette anni or sono, a Hesterville e in un milione d’altri posti, per un po’ di tempo il governo fu un meccanismo completamente fracassato, finito. Io fuggii in un mondo quasi silenzioso, ma sapevo che, dovunque avessi incontrato occhi umani, dietro di essi poteva ribollire l’inferno.

«Percorsi alcune miglia prima di imbattermi in una macchina posta di traverso in mezzo alla strada… parlo di un veicolo a motore del Tempo Antico, un’automobile. Nel 1993 le auto non erano più tanto numerose: il loro grande periodo era stato prima della mia nascita. Lo spreco sfrenato della benzina, durato settant’anni, finì col divenire un piccolo rivoletto negli anni Settanta; si stavano sviluppando metodi alternativi, e con l’andar del tempo qualcosa ne sarebbe venuto fuori; ma già la partenza era andata male, in parte perché le compagnie petrolifere e le fabbriche automobilistiche avevano impedito per troppo tempo ogni tentativo di ricerca razionale, in parte a causa di un declino generale dell’energia… voglio dire l’energia umana. Quella che noi chiamavamo civiltà ci aveva logorati… Bene, in quell’automobile bloccata c’era un uomo ben vestito, piegato sul volante, privo di vita e sul sedile posteriore c’era un bambino piccolo, morto. La malattia doveva aver colpito l’uomo mentre guidava… non c’erano segni di violenza. Forse aveva sperato che muoversi gli avrebbe fatto bene gli americani credevano che l’attività, anche se priva di scopo e sbagliata, fosse in se stessa un bene. I cadaveri non erano contratti dalle convulsioni. Era stato così anche per i miei genitori, durante il coma; credo che quei due fossero morti dello stesso male. Una volta erano stati di carne senziente; erano giunti a una certa posizione nel tempo e nello spazio, e lì avevano cessato di esistere, sereni in viso. Io presi un po’ del cibo che trovai in macchina. Ricordo una musica di uccellini sopravvissuti.»

— Siano benedetti! — disse la donna alla finestra.

— Sì, nel 1993 le forme di vita non umane si stavano riprendendo, qua e là, dalle devastazioni causate dall’industria. Non c’era una musica mattutina come quella che godiamo adesso: però cantavano. In questi quarantasette anni, Madam, credo che qualche specie si sia estinta a causa di veleni, ma altre sono sopravvissute e si sono moltiplicale. Nella nostra vanità, immaginiamo ancora che cantino per noi. Spero che siano stati pettirossi.

«Quel giorno, più tardi, sentii squillare un campanello, dietro di me, mentre la pioggia per un po’ si attenuava, e arrivarono un ragazzo e una ragazza in bicicletta. Avevano i visi freschi e buoni, e dopo una prima occhiata non ebbero paura di me. La ragazza disse: “Siamo amici, uomo… non spaventarti.” Erano amici, e tali rimasero. Lei era Laura Wilmot, il ragazzo George Wilmot, suo cugino. Facevano da avanguardia a un gruppo di sette persone guidate da un solido vecchio, Judd Wilmot, zio di Laura e padre di George; e appena seppero che ero solo, senza farmi altre domande, mi dissero che ero uno di loro.

«La loro bontà mi fece crollare. “Oh, sì, piangi, sfogati,” disse Laura, e aprì il suo impermeabile e il mio per abbracciarmi. “Come ti chiami?” “Adam,” dissi io. “Bene, caro Padre Adamo,” disse Laura, per farmi ridere; e George, che non parlava mai molto, borbottava per farmi coraggio. Ero un ragazzino di tredici anni, e cominciavo appena a crescere. George aveva diciannove anni, mi pare, era grande e grosso e mite.

«Judd Wilmot, direi, era un comandante nato. Anch’egli era buono, a modo suo, e aveva spirito organizzativo, capacità di guidare e di dare ordini. Fanatico: quando si metteva in testa un’ idea era impossibile levargliela. Una di queste idee era la convinzione, nata chissà come, che le cose dovessero andare meglio all’est, ed egli intendeva dimostrarlo, a costo di trascinarci tutti fino all’Atlantico e di buttarci dentro. Sapeva essere severo, come deve esserlo un comandante, ed era privo del senso dell’umorismo, oppure glielo avevano fatto perdere gli orrori di quel tempo. Non mi risulta che fosse mai meschino, o stupido o ingiusto.

«C’era la moglie di Judd, Miranda, tenera e discreta, e il cupo fratello minore di Judd, Howard, che era il padre di Laura; poi una vedova che si chiamava Andromache Makarios e che era stata vicina dei Wilmot nella loro città, nel Kansas, e il figlio diciottenne di Andromache, Demetrios.

«Dopo pochi mesi, tra l’altro, le biciclette diventarono inservibili quanto le automobili. Le gomme e gli ingranaggi… non c’erano i ricambi. L’ultima goccia d’olio lubrificante… non ce n’era più. Ecco come si fermava un mondo, tra una quantità di avarie minuscole dopo quelle colossali, che ci lasciavano più impotenti della gente dei tempi antichi che non aveva mai sognato l’età industriale.

«Andromache era sola e appassionata, forse lo era sempre stata. Suo marito, uno dei pochi che ancora cercavano di vivere coltivando la terra anziché sfruttando le miniere esauste nel tentativo di guadagnare dollari, era morto il giorno della Guerra dei Venti Minuti… di un attacco di cuore. Come tutti quelli che erano sopravvissuti al disastro, me compreso, ella era ancora sotto shock. Ricordo che più di una volta restava indietro, e quando ci fermavamo ad aspettarla la vedevamo immobile, con la faccia alzata sotto la pioggia; e Judd, o Demetrios, tornavano indietro per scuoterla da quella specie di trance. Ella non aveva ceduto, e non avrebbe ceduto fino a quando si fosse potuta aggrappare a Demetrios; e Demetrios, a diciotto anni, lo capiva. Quando diventammo amici mi disse che era stato sul punto di andarsene da casa, perché sognava di rompere quelle catene di pizzo, come diceva lui: la fuga necessaria di un figlio. Suo padre era stato in grado di prendersi cura di Andromache, che era un po’ matta, e avrebbe voluto che lui se ne andasse, per il suo bene; ma adesso quell’uomo comprensivo era morto, ed era morto anche il mondo.

«Come posso darvi un’immagine di quel Demetrios che era mio amico, che allora mi sembrava meravigliosamente vecchio, e che adesso mi sembrerebbe un bambino? Judd e Howard osservavano spesso che ci somigliavamo moltissimo, come se fossimo fratelli, sebbene Laura dicesse che lei quella somiglianza non la vedeva. Eravamo tutti e due bruni, con il naso diritto e il labbro inferiore pieno; forse la nostra somiglianza finiva lì. Quando ricordo la sua faccia non vedo un’immagine di me stesso, ma un’altra persona che amavo come un essere molto diverso.

«Andromache e io, fin dal primo incontro, eravamo molto a disagio, sempre, uno nei confronti dell’altra. Quel che provava lei, non l’ho mai saputo; quello che sentivo io era una tensione che mi sembrava ostilità, ma che poteva essere qualcosa di diverso. Lei era bruna e minuta e doveva essere vicina alla quarantina, sebbene fosse snella come una ragazzina, e mi sembrasse poco più vecchia del meraviglioso Demetrios.

«Penso che Judd Wilmot non si accorgesse del complesso di sentimenti, non tutti giovanili, che turbinavano fra noi. Eravamo tutti presi dalle sue fantasie sugli stati orientali… quel caro uomo era nato nel Vermont, sebbene avesse solo cinque anni quando la sua famiglia si era trasferita all’ovest… perché non avevamo idee in contrario più forti delle sue e perché non avevamo una volontà come la sua. Per amore e per rispetto verso di lui, in sua presenza ci comportavamo bene. Era all’antica, puritano, quasi un sopravvissuto del diciannovesimo secolo del Tempo Antico, o piuttosto di quello che io immaginavo fosse il diciannovesimo secolo.

«Demetrios, prima del disastro, aveva avuto intenzione di diventare regista cinematografico: uno che preparava e dirigeva la creazione di quelle immagini in movimento… ne avrete sentito parlare, e non perderò tempo a spiegare come funzionava la fotografia, anche se una volta lo capivo. Era, quello, uno degli svaghi principali della gente del ventesimo secolo. Nella mia infanzia, il cinema aveva creato la possibilità di una grande forma d’arte, l’unica generata dall’era industriale, anzi l’unica innovazione artistica dopo la nascita della pittura a olio alla fine del Medioevo, e la creazione dei sistemi dell’armonia e del contrappunto, più o meno nella stessa epoca. Demetrios aveva capito quelle possibilità. Era giovane, era cresciuto in una fattoria del Kansas (ma suo padre era un uomo colto), e aveva visto i film quasi esclusivamente alla tivù. Ma intuiva l’immenso campo d’arte drammatica che doveva esistere dietro la povertà di ciò che vedeva in quel corrotto tubo catodico, e aveva deciso di entrare in quel mondo di creazione e di riversarvi nuove meraviglie. Sarebbe stato capace di farlo, credo.

«Quando lo conobbi e ne feci il mio eroe, egli non accettava per definitivo lo sfacelo della nostra società. Era razionale in tutto il resto, ma si aggrappava alla convinzione piuttosto irrazionale che, quando la nostra gente avesse restaurato la struttura della società, il complesso della produzione meccanica che sosteneva la realizzazione dei film si sarebbe riattivato naturalmente. Dimenticava, ed io non ero più saggio di lui, che il cinema era l’unica grande arte che, per esistere, dipendeva dalla tecnologia sofisticata della civiltà industriale. Può esserci della grande musica senza i pianoforti e senza complicati strumenti a fiato. Date a un pittore o a uno scultore il materiale di base, anche se rozzo, e le arti figurative possono vivere. Ma l’arte di Demetrios era stata falciata alla radice. Sebbene egli ne capisse l’aspetto creativo, conosceva pochissimo quello tecnico… non lo aveva ancora preso in esame, mi diceva; poiché ne sapevo meno di lui, lo prendevo in parola e non facevo domande. Adesso capisco che probabilmente egli sapeva la verità e che la sua era una cecità voluta.

«Poiché veneravo ogni sua parola, ero felice di buttarmi… beh, noi le chiamavamo prove, e spesso avevamo la collaborazione un po’ riluttante di George e di Laura. Qualche volta vi partecipava anche Andromache, quando Demetrios la supplicava, ma inevitabilmente dava l’impressione di farlo solo per compiacere il figlio, e lasciava trasparire un mesto divertimento. Come molte madri amava il figlio, ma aveva per lui poco o punto rispetto.

«Demetrios ci dirigeva, sul suo Shakespeare in volume unico, il solo libro che avessimo con noi in quel viaggio. Gridava con noi per la nostra interpretazione di quello che noi capivamo appena, e insisteva energicamente sulla realtà dell’illusione drammatica. Per lui (e per me) Macbeth, Lear, Rosalinda, Falstaff, tutti erano reali quanto Judd o George o Laura o me stesso; anzi ancora di più, perché erano immortali. Ancora oggi mi piace pensare, care anime, che le perplessità di Amleto verranno ancora discusse molto tempo dopo che io sarò morto.

«E così, come una compagnia di commedianti senza pubblico, noi avanzammo a tentoni dal Missouri alla Pennsylvania (impiegammo due mesi, fino a settembre inoltrato, ma è vero che non avevamo motivo di affrettarci) prima che accadesse una cosa che fece scoppiare la bolla del sogno di Demetrios. Forse un po’ dell’intensità ch’egli metteva in quelle prove era adatta a una prima fase della gioventù: le persone serie, come Howard Wilmot, dicevano che avrebbe dovuto crescere prima. Ma se anche sembrava una fantasia infantile, era attuata con la passione prodiga di un adolescente che sotto molti aspetti era un uomo, e un artista dal più profondo del cuore.

«In un certo senso io davo la colpa a Howard Wilmot, eppure secondo il suo punto di vista era animato da buone intenzioni. Judd, anche se credo che lui non l’avrebbe mai fatto, personalmente, non fece nulla per impedirlo: stette in disparte e lasciò che succedesse, senza capire se non quando era troppo tardi.

«Eravamo in una cittadina nei pressi di Harrisburg, completamente abbandonata, dove un dolce, insistente vento di sudovest spingeva la pioggia lungo la desolazione della sua Main Street, come uno sciame di spettri d’argento. La cittadina era tutta nostra, potevamo farne ciò che volevamo; quel settembre era ancora possibile trovare scatolame nei negozi d’alimentari o nelle case abbandonate, magari in compagnia dei morti che si decomponevano. Ma in quella cittadina che si trovava in una valle e che, ne ricordo ancora il nome, si chiamava Aberedo, era stato lasciato tutto in ordine. Forse i sopravvissuti alle epidemie e alla guerra l’avevano abbandonata per paura dell’inondazione, perché un fiume l’attraversava, e rugghiava alto fino agli argini, e avevano deciso di lasciare in bell’ordine il loro pezzetto di mondo. Come avevamo fatto in molte altre città, per ripararci dalla pioggia ci rifugiammo in un edificio pubblico. Era un cinema, e fu Howard a proporlo.

«Già una volta ne avevamo usato uno, molto tempo prima, quando Demetrios e io l’avevamo esplorato da cima a fondo e ci eravamo serviti del palcoscenico per una prova dell’Otello; ma questa volta Howard si incaricò di fare da guida a Demetrios. Ci condusse nella cabina di proiezione, e venne anche Andromache, e Howard ci spiegò tutto con la saggezza pedante di un meccanico d’auto. “Questa qui è una bobina, Demmy,” disse. “Questo qui è un proiettore… guarda che roba, ha più pezzi di un’automobile.” Howard era stufo delle prove; gli davano fastidio; erano una perdita di tempo (anche se non so cosa sperasse di fare del tempo risparmiato) e penso che secondo lui il linguaggio di Shakespeare non fosse sempre corretto. “Questa cassetta qui che contiene la lampada del proiettore, vedi, è di un metallo speciale, per resistere al calore. Mi hanno detto che il calore di queste lampade sia una precauzione, e che erano molto speciali, non credo che sia rimasto qualcuno capace di fabbricarle, anche se avesse i mezzi. Vedi, non è mica come l’orticoltura, voglio dire, un uomo può prendere un pezzo di terra e coltivarci gli ortaggi, ma vedi, con questo cinema non ci si può ricavare da vivere.” Egli cercava di essere buono, o era convinto di esserlo a dire così, e io non avevo il coraggio di dirgli di smetterla. “Vedi, Demmy, prendi per esempio quella pizza di pellicola, sai di cosa è fatto quel film? Plastica. Sai di cos’è fatta la plastica? È un prodotto del petrolio. Tutte le plastiche sono prodotti del petrolio,” disse Howard, che aveva letto un articolo sull’argomento. “La verità è, Demmy, che il cinema è finito. Naturalmente, finché ti accontenti di giocarci…”

«“Bene,” disse docile il mio amico, “smetterò di giocare.” E scese giù in sala, camminando in modo naturale, e con lui c’ero solo io e io sentivo la sua sofferenza al punto che parlare mi era impossibile. Poi corse alla porta, uscì nella pioggia correva, e io lo inseguivo, ma non riuscii a raggiungerlo, non riuscii a farlo fermare neanche urlando. Arrivò al ponte sopra la corrente fangosa del fiume, scavalcò il parapetto e sparì. Non sapeva nuotare. Io invece sì, mi sfilai le scarpe e mi tuffai dietro di lui… era un’impresa disperata, naturalmente, la corrente lo aveva trascinato via, e sotto. Certo, anch’io dovevo avere voglia di morire, altrimenti non sarei stato così pazzo da tentare una cosa simile, ma poi credo che la parte naturale, animale, di me non volesse morire. Ricordo che mi afferrai a qualcosa, credo un’asse di legno, e non so come arrivai a riva circa mezzo chilometro più a valle, e lì George e Judd mi trovarono. Non ero svenuto, solo esausto. Capii tutto quando Andromache mi corse incontro per abbracciarmi e mi baciò e gridò: “Oh, Demetrios… Dio sia ringraziato, Demetrios! Allora il povero Adam è morto? Demetrios, mi dispiace tanto! Lo so che gli volevi bene, Demetrios, lo so.”

«Mi pare che Judd Wilmot dicesse: “Andromache, Dio non s’imbroglia.” Ma quella fu la sola volta che la rimproverò, perché si accorse che noi tutti non avevamo detto niente, e del resto non credo che lei l’avesse sentito.

«Lei non rinunciò mai a quell’illusione, e fin dal principio noi c’eravamo abituati a cercare di semplificare sempre le cose per Andromache. Per me era una specie di pazzia, se volete, prendere il nome di qualcuno che mi era stato tanto caro, e in un certo senso diventare lui, ma… ci si abitua anche alla pazzia. Non sembrava portare via niente a quell’antica parte della mia vita che era Hesterville; imma§inavo addirittura che mia madre approvasse quello che facevo. Continuammo il viaggio, arrivammo qui a Nuber dove si cominciava a ristabilire un po’ d’ordine, e per un po’ restammo insieme, sei mesi, mi pare che fosse, prima che morisse Andromache. Poi Judd decise di portare gli altri nel Vermont… a lui Nuber non era mai piaciuta, diceva che era senza dio… ma io decisi di restare qui e da allora ci sono sempre rimasto, raccontandovi di tanto in tanto le mie storie, e guadagnandomi da vivere come rispettabile portinaio.

«Andromache aveva un’altra debolezza di mente… ne aveva più di una, ma vi parlerò di questa perché mi sembra che c’entri con la storia. Non aveva mai letto libri: per lei bastava la tivù. Ma certe leggende dei libri erano arrivate fino a lei, e avevano destato la sua bizzarra capacità di credere. Dopo che io ero diventato Demetrios, o che Demetrios era diventato me… non so come dovrei dire, esattamente… Andromache parlava spesso di Tom Sawyer, come se fosse qualcuno che aveva conosciuto bene; ma nella sua mente il personaggio di Mark Twain si era allontanato molto dall’originale, e aveva assunto le qualità di Lancillotto, e del Demetrios che era morto e di Gesù. Qui a Nuber se ne stava seduta per ore a fantasticare; non parlava a voce alta con Tom Sawyer, ma la sua espressione cambiava in mille modi, come se conversasse anche se non a voce. E spesso spariva, andava a vagabondare nei dintorni, ma non le capitava mai niente, e tornava sempre… e noi cominciammo a non preoccuparcene più. Cominciò a raccogliere le erbe, e tornava con ceste di questo e di quello, di solito dentedileone o piantaggine o altre cose innocue e buone da mangiare, ma un giorno portò alcuni funghi a forma d’ombrello, di un bianco puro. “Buon Dio!” fece la moglie di Judd, Miranda, “sono velenosi. Non dovresti toccarli, Andy, santo cielo!” “Oh!” disse Andromache. “Sono cattivi? Allora buttali via,” aggiunse, e ridacchiò. “Se sono cattivi non possiamo servirli quando viene Tom Sawyer domani; mi pare che abbia detto domani.” E due giorni dopo mi stava parlando in quel suo solito modo cauto, senza guardarmi bene in faccia ma chiamandomi continuamente Demetrios, quando cominciò a stare malissimo. Quando aveva parlato con Miranda, doveva avere già mangiato qualcuno dei funghi velenosi… crudi, immagino, nei campi.

«Non pensai mai di ridiventare Adam Freeman. Laura, esitando, mi chiamò Adam, un giorno dopo la morte di Andromache; io scossi il capo. Era un’anima dolce, Laura, e spesso avrei voluto che fossimo più vicini, ma quel mondo per due, che si erano fatti lei e George, era all’antica, e non poteva esserci posto per un terzo. Io sono Demetrios, sì, e sicuramente, per il portinaio d’una Casa del Sesso, Demetrios è un nome migliore di Adam.»

Dentro di sé, Demetrios si augurò che gli ascoltatori se ne andassero. Non era stata una delle storie cui erano abituati… o cui era abituato anche lui, in quanto a quello. Gli pareva di saper raccontare meglio i sogni della verità, qualunque cosa fosse la verità. Gliel’aveva strappata la forza del ricordo, senza l’intervento conscio della sua arte. Sentì la brezza afosa, e la propria stanchezza.

— Signore?

— Sì, Garth?

— Volevo sapere se ci racconti altro.

— No, nient’altro. Questa notte ho sognato che stavo viaggiando verso l’ovest, su una ferrovia, dietro una locomotiva a vapore dal fumaiolo panciuto, una cosa che non ho mai visto neanch’io, se non nelle illustrazioni. C’era una lunga fila di vagoni, trainati su binari paralleli d’acciaio. Potrebbe esserci qualche avanzo arrugginito di binari, qua e là nei boschi… no, non ho più niente da raccontare.

— Mia zia ha la vista… sai? E sa anche leggere, Demetrios. Ha un libro dei sogni, e dice che lì dentro spiega cosa vogliono dire tutte queste cose. Posso chiederle di vedere cosa significa il tuo sogno.

— Potrebbe dire che debbo fare un viaggio all’ovest.

— Una volta mia zia mi ha detto che sul libro è spiegato come sì possono fare sogni che si realizzano: bisogna mettere sotto il cuscino del rosmarino e, beh, delle altre cose. Voglio dire, io ho fatto così, e poi ho fatto davvero uno di quei sogni, sai, ed era proprio magnifico.

— Dicono che adesso non c’è altro che desolazione, — disse il giovane con il canelupo, — a ovest, da Penn fino a un oceano… può essere quello che chiamavano Pacifico, signore?

— Può essere, — disse Demetrios. — Ma poiché l’Hudson si è alzato tanto da diventare un mare interno, il Mississippi deve aver fatto lo stesso, quindi è probabile che sia quello, l’oceano che intendono. Un aumento straordinario del livello delle acque, vedi, in così poco tempo, solo mezzo secolo. “Al porto di Nuber mi hanno detto che il livello si mantiene costante ormai da cinque anni. Un mare interno dovrebbe avere sommerso Hesterville. Era una zona quasi completamente piatta. Forse potrebbe esserci qualche isoletta.

Dietro di lui qualcuno disse: — Hai la licenza per raccontare storie?

Il ragazzo con il canelupo si alzò, mormorando di star buono alla sua bestia possente. Garth stava scrutando il nuovo arrivato, con le mani ferme sulla testa del cavallo, l’innocenza chiusa improvvisamente dentro gli occhi azzurri che sembravano più vecchi, pericolosi. Demetrios girò la testa, senza fretta. Il poliziotto era arrivato senza far rumore con i mocassini; era un tipo onesto e solido che Demetrios conosceva. Aveva l’uniforme blu scuro, perizoma e camicia con il cerchio d’oro ricamato, e lo sfollagente alla cintura. — Adesso ci vuole anche la licenza, Joe?

— Se lo fai per la strada, sì. Diventa una riunione.

— Joe, io racconto storie agli angoli delle strade da almeno quindici anni, lo sai bene. Qualche volta ti sei fermato ad ascoltarmi anche tu. — L’imbarazzo di Joe era un velo sottile di ghiaccio su uno stagno, alle prime gelate. — Mi ci guadagno da vivere, Joe, a parte il mio lavoro di portinaio.

— Non è da molto che ci vuole la licenza, signore. Non ti arresto… non vogliamo noie. Solo devi procurarti la licenza prima di farlo ancora. Vai a informartene in Comune.

— E quanto costa?

Joe si schiarì la gola e distolse lo sguardo. — Chiedilo a quelli del Comune, non è competenza mia. Avanti, circolare, gente. Niente sovversioni. Non vogliamo folla su Harrow Street.

— Joe Park, — disse la donna alla finestra, — sei un figlio di puttana.

— Circolare, gente. Disperdersi. Non vogliamo noie.

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